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EmaZ

Guardiamarina
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Tutti i contenuti di EmaZ

  1. EmaZ

    Ri Ciao A Tutti

    Grazie dell'accoglienza !!!
  2. Beh dopo un peregrinare tra traslochi e cambio di pc ieri sera salta fuori da uno scatolone un libricino con le vecchie pass...e rieccomi sono tornato, come al solito leggerò molto e posterò pochissimo ma almeno ora potrò tornare a farlo da utente Ciaoooa tutti e ben trovati
  3. No è una foto che ho fatto dal molo di Monterosso al Mare in provincia di La Spezia..precisamente il monte si chiama punta Mesco.
  4. EmaZ

    Decima!

    Volentierissima...no so quando ma di sicuro il fischio lo te lo farò
  5. EmaZ

    Decima!

    Girovagando per internet ho trovato questa pagina sulla decima link decima E di rimando anche la pagina sul com.sub.in. link com.sub.in Spero vi possano interessare (p.s. un consiglio ... apriteli con explorer perchè su modzilla non mi si caricavan le pagine...può esser anche un problema del mio pc) (ho appena comprato il libro "Junio Valerio Borghese e la X°Flottiglia Mas appena lo finisco posto una mia recensione sul libro e qualche foto)
  6. Torno attivo nel sito dopo varie peripezie con il pc (sperando fare cosa gradita) portando questo link motti motti 2 Un ciao a tutti e a presto EmaZ
  7. EmaZ

    Decima!

    :s03: :s04: io ho il crest con il teschio diritto. (ovvero ti guarda negli occhi).....è un regalo e ci sono affezzionato.......
  8. EmaZ

    Decima!

    Mi scuso con tutti voi per la disattenzione .... ma alcuni articoli non ricordavo propio dove li avessi presi, dove ho potuto ho messo la provenienza. Con Fulmine ho chiarito tramite Mp.... per le richieste il link del sito gestito da fulmine è gia presente in uno dei primissimi post nella discussione "Decima" domani posterò altre notizie sulla decima cercando di stare più attento la prossima volta :s11: posterò i riferimenti adeguati.
  9. EmaZ

    Decima!

    Grazie troppo buoni.... ....a breve con altre notizie e foto sulla decima.... saluti a tutti EmaZ
  10. EmaZ

    Decima!

    Capire il passato per costruire il futuro di Vettor Maria Corsetti «Quanto ai fatti veri e propri svoltisi durante la guerra, ritenni di doverli narrare non secondo le informazioni del primo venuto né secondo il mio arbitrio, ma in base alle più precise ricerche possibili su ogni particolare, sia per ciò di cui ero stato testimone diretto, sia per quanto mi venisse riferito dagli altri. Faticose ricerche; perché i testimoni dei singoli fatti riferivano su cose identiche in maniera diversa, ognuno secondo le sue particolari simpatie e la sua memoria. E forse la mia storia, rimasta spoglia dell’elemento fantastico, accarezzeràmeno l’orecchio, ma basteràche la giudichino utile quanti vorranno sapere ciò che del passato è certo, e acquistare ancora preveggenza per il futuro» (Tucidide, La guerra del Peloponneso, I, 22). Il classicismo è d’obbligo, in quanto la citazione spiega meglio di altre lo spirito che anima L’Orizzonte e cosa si propone questa nuova iniziativa editoriale. Non una pubblicazione di stampo reducistico o l’ennesimo tentativo di lettura a senso unico - del resto, al di làdella testimonianza diretta la ricerca storica compete agli storici di professione, che devono analizzare i fatti del passato in piena libertàdi giudizio, lontani da chiusure e condizionamenti politici - né un recupero fuori tempo massimo di ideologie legate al secolo appena trascorso, bensì un serio momento di dibattito, volto principalmente a fare chiarezza e rendere giustizia a quegli uomini in uniforme che vissero una delle fasi più drammatiche dell’Italia post-unitaria: l’armistizio dell’8 settembre 1943 e il biennio di guerra civile. Questo nella convinzione che solo comprendendo pienamente quei fatti e spezzando la logica - prevalentemente marxista e radical-azionista - di una loro interpretazione canonica ci potremo lasciare alle spalle molte divisioni che da oltre cinquant’anni caratterizzano la vita del nostro Paese. Contrariamente a quanti «si immersero nelle acque di quella piscina miracolosa dentro cui si tuffano i lebbrosi per uscirne purificati», a pagare il conto della storia furono soprattutto quei volontari della RSI che si presero carico di colpe e responsabilitànazionali, ritenendo loro dovere combattere una guerra perduta in nome dell’onore. Molti scelsero la X Flottiglia MAS, non solo per il richiamo ideale costituito dai suoi gloriosi fatti d’arme, ma per i valori e per lo stile di vita che questa rappresentava. Altri italiani, che si trovavano al Sud, scelsero i ranghi del Regio Esercito, ma vennero presto e scientemente dimenticati perché non collocabili - come i partigiani trucidati a Porzus - nello scenario politically correct (per la cultura dominante) e sostanzialmente falso della «Repubblica nata dalla Resistenza». Questo giornale nacque a pochi mesi dalla conclusione del conflitto per volontàdella X Flottiglia MAS, con il proposito di gettare un ponte verso il dopoguerra e favorire la riconciliazione nazionale. Si volevano così evitare, o almeno contenere, gli effetti nefasti dell’armistizio di Cassibile, che - come ha ricordato un autorevole studioso - aveva segnato per molti «la morte della Patria». Rivede la luce oggi, in un contesto storico completamente diverso ma con la stessa volontàdi costruire il futuro e di portare un contributo dialettico anche ai più scottanti e attuali temi nazionali, nel rispetto del motto che apriva L’Orizzonte del 12 febbraio 1945: «Solo la libertàdelle nazioni può garantire quella dei cittadini».
  11. EmaZ

    Decima!

    Il baluardo di Tarnova di Marino Perissinotto Alla fine del 1944 il comando tedesco, privato della sua forza mobile costituita dalla divisione scuola da montagna e, nel contempo, preoccupato dal rafforzarsi della presenza jugoslava sopra Gorizia, grazie all’afflusso del IX Corpus della divisione partigiana italiana Garibaldi Natisone, intraprese un’azione offensiva, l’Adler Aktion, allo scopo di accerchiare ed eliminare le unitàslave degli altopiani della Bainsizza e di Tarnova. Oltre a truppe germaniche e ai reparti slavi filo-tedeschi, un ruolo di primo piano venne assegnato ai battaglioni italiani di fanteria di marina della X Flottiglia Mas Sagittario, Barbarigo, Lupo e Fulmine, appoggiati dai gruppi d’artiglieria San Giorgio e Alberto da Giussano e da aliquote dei battaglioni Nuotatori Paracadutisti, guastatori Valanga e genio Freccia. L’Adler Aktion ottenne un risultato solo parziale, e forse quello cui realmente miravano i suoi ideatori era volto più a colpire la X Flottiglia MAS che non gli jugoslavi. Quale seconda fase operativa, nel gennaio 1945, venne intrapresa dalle forze dell’Asse la creazione di presidi dentro il “santuario”. Uno di questi, il più interno e isolato, fu Tarnova, affidato ai marò della X MAS. Il paese era stato raggiunto e presidiato dal San Giorgio e dal Sagittario durante l’Adler Aktion, il 21 dicembre 1944. A gennaio la prima compagnia del Valanga sostituì il Sagittario e una batteria di obici da 75/13 del San Giorgio, per un totale di circa duecento uomini. Il 9 gennaio li sostituì il battaglione Fulmine (*). Nel frattempo il IX Corpus, responsabile di quel settore per l’Esercito popolare di liberazione jugoslavo, aveva deciso d’intraprendere un’operazione destinata ad annientare il presidio, circondandolo e assalendolo dopo avere sbarrato con sue unitàogni via d’accesso per possibili rinforzi. La diciannovesima brigata slovena di liberazione nazionale Srechko Kosovel, incaricata di attaccare Tarnova, fu per questo rinforzata da una compagnia d’assalto e da armi d’accompagnamento (quattro cannoni, due fucili anticarro, due mortai pesanti e tre lanciamine). Nel paese i marò avevano allestito, compatibilmente con le risorse disponibili e il clima assai rigido, delle opere difensive, costituite da dodici caposaldi, qualche barriera di filo spinato e mine antiuomo. La Kosovel, nel tardo pomeriggio del 18 gennaio, con una temperatura inferiore ai -10 gradi, lasciò le sue basi e a notte fonda giunse nei pressi di Tarnova. Alle 5.50 le sue armi aprirono il fuoco sulle postazioni italiane, mentre i suoi elementi di punta muovevano in avanti. La reazione dei marò, pronta e decisa, fermò il primo assalto. Le forze partigiane si lanciarono in un secondo attacco, che non ebbe miglior sorte del primo; anzi, il Fulmine riprese possesso di qualche posizione temporaneamente abbandonata. Alle 7.00, quando la prima luce consentì di regolare il tiro con precisione, i cannoni slavi aggiunsero i loro proiettili a quelli delle armi leggere. L’accresciuta potenza di fuoco permise agli assalitori di portarsi nuovamente in avanti, conseguendo i primi successi ed espugnando un bunker sul lato nord, quindi altri due. Gli italiani si ritirarono nelle case vicine, da dove continuarono il combattimento bloccando gli attaccanti. In questa fase dello scontro, la seconda compagnia subì la perdita di due ufficiali: alle 7.00 era stato ferito mortalmente il comandante guardiamarina Giovagnorio e, poco più tardi, cadde il guiardiamarina Arrigo Giombini. Alle 11.30, il nucleo di operatori radio del battaglione Freccia, distaccato presso il Fulmine, riuscì a mettersi in contatto con il comando di divisione a Gorizia e a informarlo della situazione, chiedendo soccorsi, mentre dalle postazioni partigiane continuava il tiro delle armi individuali, dei lanciarazzi e dei cannoni. Nel pomeriggio, anche il bunker n. 5 fu smantellato ed espugnato. Verso le 15.00, da parte italiana, si riscontrò un calo d’intensitànel fuoco nemico. I due cannoni automatici calibro 20 e uno dei pezzi da 47 jugoslavi s’erano guastati irreparabilmente, l’altro aveva ancora pochi colpi a disposizione. Con l’oscuritàcalò una fitta nebbia, poi iniziò a nevicare. Le forze partigiane sospesero gli attacchi, pur continuando l’accerchiamento dell’abitato, le azioni di disturbo e la sorveglianza d’ogni movimento degli assediati. Il Fulmine, nel primo giorno di battaglia, aveva avuto dodici morti (due ufficiali e dieci fra sottufficiali e marò) e venticinque feriti (due ufficiali e ventitré fra graduati e marò). La prima parte della notte trascorse fra un continuo lancio di razzi e segnali luminosi da parte slava. Nonostante queste misure di sicurezza, più tardi gli italiani contrattaccarono e respinsero dal bordo orientale del perimetro le punte avanzate degli assedianti, riprendendo possesso dei bunker 6 e 7. L’improvvisa azione del Fulmine scatenò alle 4.30 un contrattacco del primo battaglione Kosovel. Dopo due ore, alle 6.30 del 20 gennaio, il bunker n. 6 cadde nuovamente in mani partigiane e venne distrutto. Poco dopo, anche la postazione n. 7 venne smantellata e gli slavi riuscirono a impossessarsi anche delle case vicine. La breccia nelle linee esterne determinò l’inizio della crisi per gli italiani; più tardi, anche i bunker 3 e 4 furono presi dagli attaccanti. La loro perdita costrinse i marò ad arretrare la linea difensiva settentrionale sino all’abitato. Da parte slava si giudicò prossimo il tracollo dei difensori e si decise di compiere lo sforzo finale. Il terzo battaglione, di riserva nel bosco a nord-ovest di Tarnova, ricevette l’ordine di avanzare, ma la sua azione fu fermata dal tiro dei difensori. Giunse così il pomeriggio del 20 gennaio. Il comando partigiano prese la decisione d’investire massicciamente tutto il perimetro facendo intervenire anche il secondo battaglione, che al crepuscolo riuscì a catturare la postazione n. 11, arrestandosi per il fuoco rabbioso dei Volontari di Francia proveniente dalle case a sud dell’abitato. Calata la sera, il primo battaglione andò in supporto al secondo e attaccò a est, sul fianco sinistro, il settore della terza compagnia. Riuscì a conquistare i bunker 8 e 9, i cui difensori si rinserrarono nell’osteria del paese. Il comandante Bini, a questo punto, si trovò costretto a una decisione. Il mancato arrivo dei rinforzi, l’esaurirsi delle munizioni, il progressivo avanzare degli slavi, la disgregazione delle linee difensive e, infine, l’autorizzazione a ritirarsi, preventivamente trasmessa dal comando di divisione, lo convinsero a ordinare l’abbandono del paese per salvare i superstiti del battaglione. La manovra comportava un prezzo assai alto: l’abbandono dei feriti gravi. Quanti erano ancora incolumi e i feriti in grado di camminare, lasciando le loro postazioni, si sarebbero concentrati presso il comando di battaglione e la colonna, così formata, avrebbe cercato di rompere l’assedio, dirigendosi verso Gorizia. Alle ore 20.00 cominciò a venire diramato l’ordine di rendere inutilizzabili le armi pesanti e di concentrarsi entro le 24.00 al comando di battaglione. Alcune postazioni ricevettero la disposizione solo attorno alle 23.30. Ad altre non pervenne. Il combattimento si concentrò nella parte meridionale dell’abitato, dove resistevano due bunker e alcune case. Gli italiani, asserragliati nelle abitazioni, esaurite le munizioni e le bombe a mano, usavano dell’esplosivo per improvvisare ordigni con cui contenere la pressione nemica. Di quando in quando il fuoco cessava e arrivavano degli inviti alla resa. Il secondo battaglione jugoslavo espugnò il bunker n. 12 e, verso mezzanotte, cadde l’ultima postazione protetta, la n. 10. Resistevano quattro caposaldi: uno era il comando di battaglione, dov’era concentrato il grosso dei superstiti. Alle 2.30 del 21 gennaio la colonna del Fulmine mosse verso ovest. Per aprirsi la strada verso sud-ovest i marò dovettero annientare a colpi di bombe a mano (sei Balilla italiane legate attorno a una M24 tedesca) uno dei bunker in cui s’erano insediati dei partigiani con una mitragliatrice Mg 42. Il compito venne assolto dagli uomini della terza compagnia. Un gruppo in ritirata, al comando del tenente di corvetta Stefano Balassa, venne individuato e posto sotto tiro. Costretti a ripiegare, i marò si asserragliarono in una casa. Vicini a loro, chiusi in un’altra abitazione, alcuni superstiti agli ordini del guardiamarina Minervini, giàcircondati e isolati quando era stato impartito l’ordine di ripiegamento, resistevano a oltranza. I reparti partigiani si resero conto di essere padroni di quanto rimaneva di Tarnova. Posti dei reparti attorno agli ultimi nuclei di italiani, gli uomini della Kossovel cominciarono il saccheggio. Entrati nell’infermeria, presero ad ammazzare i feriti; solo qualcuno si salvò, perché riuscì a nascondersi o venne creduto morto. Gli slavi uccisero anche alcuni abitanti del paese e incendiarono delle case. Fra gli italiani, al precipitare degli eventi, non erano mancati i casi di suicidio per evitare di cadere vivi in mani nemiche: fu il caso del guardiamarina Roberto Valbusa della terza compagnia. Il mattino successivo, la colonna del Fulmine in ritirata prese contatto con reparti tedeschi e, poco dopo, un autocarro del comando di divisione li raccolse e li riportò a Gorizia. Quasi contemporaneamente, una colonna germanica proveniente da Sanbasso raggiunse Tarnova, provocando il ripiegamento delle forze slave. I capisaldi dei guardiamarina Minervini e Balassa avevano combattuto tutta la notte senza arrendersi e stavano ancora resistendo. La battaglia di Tarnova finì così. Il Fulmine ebbe ottantasei morti e cinquantasei feriti, la Kosovel dichiarò trentatré morti e settantuno feriti. A solo commento, riportiamo le parole dello storico partigiano Stanko Petelin: “Si è in genere dell’opinione che gli italiani come soldati fossero meno validi dei tedeschi. In questo caso ciò non corrisponde al vero. In quei due giorni di combattimento i fascisti italiani a Trnovo (Tarnova della Selva) mostrarono una forte tenacia”. (*) Il battaglione Fulmine si articolava su: - compagnia comando; - prima compagnia, su tre plotoni fucilieri; oltre alle armi individuali erano in dotazione fucili mitragliatori Breda 30, quattro mitragliatrici Breda 37 e quattro mortai Brixia da 45 mm.; - seconda compagnia, su tre plotoni; oltre alle armi individuali erano in dotazione due fucili mitragliatori Breda 30, mitragliatrici Breda 37, due fucili anticarro Solothurn da 20 mm., quattro mortai Brixia da 45 mm. e tre mortai Cemsa da 81 mm.; - terza compagnia Volontari di Francia, formata da volontari figli di italiani emigrati oltralpe; fucili mitragliatori Breda 30, mitragliatrici Breda 37 e mortai Brixia da 45 mm. Comandante ad interim era il tenente di vascello Eleo Bini, essendo il comandante effettivo Giuseppe Orrù ricoverato in ospedale per ferite riportate in combattimento. L’etàdei volontari era mediamente inferiore ai vent’anni, ma non mancavano dei veterani. L’armamento individuale era composto principalmente da mitra Beretta Mab 38, da fucili 91 e da pistole Beretta mod. 34. Non tutte le armi d’accompagnamento in dotazione al battaglione vennero portate a Tarnova, dove la forza delle compagnie era la seguente: - prima compagnia: settantuno uomini; - seconda compagnia: sessantuno uomini; - terza compagnia: ottantadue uomini. In totale, duecentoquattordici uomini.
  12. EmaZ

    Decima!

  13. EmaZ

    Decima!

    Gorizia non dimentica di Luigi Coana Una delle soddisfazioni più grandi che mi ha offerto l’impegno amministrativo nell’ambito di un’ormai trentennale militanza politica, prima dai banchi del Consiglio comunale, oggi in qualitàdi assessore del Comune di Gorizia, è stata quella di potere ricevere con tutti gli onori in Municipio i reduci della X Flottiglia MAS e del battaglione bersaglieri Benito Mussolini. In più occasioni, qualche volta con il sindaco Valenti, altre volte con il vicesindaco Noselli, sempre con la gioia di rendere omaggio, a nome della città, ai combattenti dell’onore, a quanti si sacrificarono in queste terre tormentate del confine orientale, per difendere a spada tratta l’italianitàdi Gorizia contro l’avanzata delle orde titine. Ricorreva quest’anno, a gennaio, il cinquantaseiesimo anniversario della battaglia di Tarnova e la vasta partecipazione di popolo ai vari momenti celebrativi è valsa a testimoniare che quei valori nazionali e patriottici, quegli ideali e quella fede che portarono tanti giovani di allora a combattere e a immolarsi per l’Italia, non sono morti, ma sopravvivono come monito ed esempio per le nuove generazioni. E anche la politica, che troppo spesso rischia di affogare nel grigiore del tecnicismo amministrativo, se non addirittura nel carrierismo o nell’interesse egoistico di parte, può trarre linfa vitale da queste celebrazioni e diventare propositiva nella sua trasmissione di valori. Ecco allora che, in questo spirito, corroborata dall’amore per gli ideali più sacri, anche la politica può avere un’anima capace di innalzarla dalla china del materialismo, per la costruzione di una societàmigliore e più giusta.
  14. EmaZ

    Decima!

    Uno del Barbarigo di Gastone Manzoni Allievo nocchiero In tempo di guerra si facevano due corsi allievi nocchieri all’anno; ciascun corso prevedeva sei mesi a terra e sei a bordo. Io partecipai a quello svoltosi fra il 1942 e il 1943 a La Spezia. Si trattava di un corso supplementare, che in circostanze normali si sarebbe tenuto a Pola. Mentre per i miei compagni, alla fine del primo semestre, iniziò il periodo d’imbarco, io fui trattenuto quale istruttore. Ero molto bravo nel far marciare gli allievi persino in fila per dodici, avendo avuto precedenti quale primo cadetto degli avanguardisti marinari della Gioventù italiana del Littorio. L’otto settembre 1943 ero capocorso. Alla notizia dell’armistizio tutti, me compreso, scappammo dalla scuola. Mi fermai a La Spezia, ospite di una famiglia. Dopo qualche tempo seppi della X Flottiglia Mas e mi presentai a Muggiano verso il 15 settembre. In quel momento c’erano solamente gli ufficiali della vecchia Decima e credo di poter essere annoverato fra i primi cinquanta o sessanta volontari. Con la Decima Mancava tutto. Fui invitato a ripresentarmi e preso ufficialmente in forza il 23 ottobre 1943; quella, infatti, è la data di arruolamento che risulta dal mio tesserino. Ricordo quel giorno poiché fummo trasferiti da Muggiano a San Bartolomeo. Quindi fui mandato in licenza il 17 o il 18 dicembre, dopo aver partecipato alla ricerca di bettoline dell’ex Regia Marina nelle varie rade e insenature del golfo di La Spezia, allo scopo di recuperare il materiale che si trovava a bordo. Il mio treno giunse a Padova subito dopo la prima incursione aerea sulla città. Rimasti ad aspettare per un’ora e mezza nei vagoni fuori della stazione, vi entrammo giusto in tempo per essere bombardati. Dopo aver aiutato i miei a sfollare, rientrai a La Spezia. Il problema delle divise continuò per altre due o tre settimane. Poi ricevemmo i capi dell’uniforme, ma non il cappotto. Di quei primi giorni ricordo un episodio. Mentre i Nuotatori Paracadutisti montavano la guardia, un sottufficiale tedesco entrò senza salutare la nostra bandiera. Fu subito preso e buttato in mare. I marò iniziarono a sfotterlo e ogni volta che tentava di risalire, coi piedi gli spingevano la testa sott’acqua. Dapprima avevo chiesto di entrare nei reparti navali, ma non c’erano più posti disponibili. Allora feci domanda per i Nuotatori Paracadutisti e fui accettato, ma quando seppi che bisognava seguire un corso a Jesolo, avendone giàabbastanza di scuole e lezioni, preferii passare al Maestrale. Come me fecero molti altri. Qui fui assegnato in un primo tempo alla seconda o alla terza compagnia. Però, mancando un sottocapo alla quarta, vi fui trasferito mio malgrado. La ribellione dei marò Pochi giorni prima di andare in licenza fui testimone della vicenda Bedeschi e Tortora, i due ufficiali incaricati di assumere il comando della X Flottiglia Mas. Un’imposizione sgradita a tutti. Era domenica, ricordo la messa al campo alla presenza degli Np, del Maestrale e di parte del Lupo. C’era aria di sollevazione, anche perché l’assenza di Borghese non contribuiva a chiarire le cose. Penso sia stato un “complotto” di Bardelli, Buttazzoni, Lenzi e qualche altro. Durante la funzione religiosa, l’ufficiale di giornata si avvicinò al nuovo comandante e gli sussurrò alcune parole all’orecchio; più tardi seppi che si trattava di una chiamata telefonica. Da quello che mi dissero, come arrivò in ufficio, si trovò un mitra puntato alla schiena. Fu arrestato, e stessa sorte subì il comandante in seconda. I due furono consegnati alla Guardia nazionale repubblicana come “spie del nemico”. Accortosi della beffa e dopo le proteste degli interessati, Renato Ricci cercò Borghese e lo invitò a spiegarsi con Mussolini. Non so se il colloquio avvenne o meno, so solo che Borghese fu arrestato e chiuso in carcere a Brescia. La notizia si sparse rapidamente. I marò chiedevano a gran voce di entrare in azione e tra gli ufficiali qualcuno propose esplicitamente di marciare su Salò per liberare il comandante. Eravamo tutti pronti quando il comandante Grossi, precipitatosi a San Bartolomeo, promise la liberazione di Borghese, impegno mantenuto il giorno successivo. Poi fu un via vai di alti ufficiali della Marina e della Gnr. Si aprì un’inchiesta, con la consegna dei nostri ufficiali e minacce di processo e decimazione. Tutto finì in una bolla di sapone, ma sapemmo che il Maestrale sarebbe stato “punito” con l’invio al fronte, cosa che ci fece molto piacere, perché non volevamo altro. Non so per quale ragione, non furono presi provvedimenti per i Nuotatori Paracadutisti. Il giuramento e il primo impiego Dopo qualche giorno fu consegnata al battaglione la bandiera di combattimento. Da quel che ricordo il giuramento avvenne l’undici gennaio. In tale occasione il Maestrale sfilò fra due ali di gente silenziosa e incredula di vedere ancora soldati italiani; penso sia stata la prima cerimonia pubblica della Decima. Portavamo ancora le stellette e marciammo per tre. Nel corso della manifestazione la banda della Marina, in uniforme nera, suonò per tutto il tempo solamente Le palle di Noè. Questa musica fu suonata anche in occasione della visita a San Bartolomeo del maresciallo Rodolfo Graziani; stavolta però la banda era vestita come noi in grigioverde. Accadde a metàmese, e non eravamo tutti in divisa. Mi ricordo anche di un pattugliamento a Sarzana, dove avevano stati informati della presenza di armi in una casa. Le trovammo, ma di persone neanche l’ombra. Penso che nell’azione siano state impegnate due compagnie. Durante il ritorno uno dei nostri mise un piede in fallo e cadde in una specie di burrone. Riusciti a raggiungerlo dopo qualche ora, non potemmo far altro che constatarne il decesso. Fu vegliato in una piccola casetta vicino alla sala mensa. La quarta compagnia non andò a Cuneo ma rimase a La Spezia per continuare l’addestramento. I Mab li avevamo giàda ottobre. Oltre ai mitra potevamo contare su pugnali di varia foggia e pistole di vario tipo. Io stesso portavo una vecchia pistola d’ordinanza dei Carabinieri infilata nel cinturone e dopo l’otto febbraio 1944 - data del secondo bombardamento di Padova - giunsi a casa così armato. Non era regolare, ma nel tratto La Spezia-Padova c’era stato un attentato, con l’uccisione di diversi marò che furono poi ritrovati nudi nella scarpata. Ci fu consigliato di prendere la linea Genova-Milano-Venezia, più lunga ma maggiormente sicura. Al mio ritorno in caserma appresi che il battaglione non si chiamava più Maestrale ma Barbarigo. L’invio al fronte Il 18 o il 19 febbraio ci fu una sfilata per salutare la nostra partenza. Il giorno 20 ebbi l’incarico di fermarmi a San Bartolomeo con un ufficiale per raccogliere quanti rientravano da permessi o licenze, non essendo stato comunicato ad alcuno l’invio in zona operazioni. Il nostro viaggio per Roma fu fatto in pullman, sul tragitto La Spezia, Viareggio, Orvieto, Roma. Andò a buon fine, anche se molto periglioso. Non mancò un attentato; una mina fu gettata sul tram che collegava La Spezia a San Bartolomeo. Morirono una donna e una bambina, e numerosi marò rimasero feriti. Durante il trasferimento incontrai un mio commilitone della Gil, Sergio Ginnasi, proveniente da Jesolo e in forza al battaglione Lupo. Lui mi chiese ripetutamente di venire al fronte con noi; lo persuasi che, se gli fosse capitato qualcosa, avrei dovuto cambiare cittàper il rancore della madre, che giàmi attribuiva la responsabilitàdi averlo fatto arruolare. Partimmo e non lo rividi più: morì il 4 dicembre 1944, sul Po, in un incidente forse causato dai partigiani. Arrivato a Roma feci in tempo a partecipare a una scaramuccia con la Pai, che si risolse con il dono di un pugnale di foggia africana in segno di pacificazione. Alcuni nostri commilitoni in libera uscita, forse per un ritardo sul coprifuoco, erano stati malmenati da una loro pattuglia. Per ritorsione, un paio di compagnie di marò entrarono nella caserma della Pai e gettarono un po’ di cose per aria. Solo l’opera di pacificazione dei nostri ufficiali fece sì che l’incidente non degenerasse in qualcosa di più grave. Finalmente la partenza per il fronte, dopo una serie di cerimonie e riviste alle quali non partecipai, perché alle parate preferivo i musei e i monumenti della capitale. Fummo divisi in scaglioni, a bordo di camionette tedesche. Credo di essermi mosso la mattina. Un mitragliamento aereo ci costrinse a un tuffo in un fossato e per la prima volta sporcai la mia sino ad allora linda e unica divisa. Appena fuori Roma fummo investiti da una pioggia violenta. In primalinea A Sermoneta trovammo alloggio in una chiesa abbandonata e poi in una scuola. Il 3 marzo raggiungemmo a piedi il lago di Fogliano, dove la quarta compagnia si allineò fra il lago e la Strada lunga. Io fui assegnato a una buca con il marò Natola. Dalla mia postazione si vedeva il bosco sulla destra del lago, l’albergo e una casa che molti dicevano essere appartenuta a un gerarca. Dall’albergo furono prelevati dei piatti e le porte, che usammo come fondo per le buche. I bombardamenti erano costanti. In quel periodo feci tre o quattro servizi di pattuglia nella terra di nessuno. Mancava ancora l’artiglieria, che arrivò successivamente, credo alla fine del mese. Una notte di aprile, grazie ai barattoli appesi al filo spinato, sentimmo avvicinarsi un reparto nemico. Iniziammo subito a sparare e lo stesso fecero loro. Spararono anche dalle postazioni laterali. Il mattino successivo non trovammo corpi ma tracce di sangue e dell’equipaggiamento. Ogni notte qualcuno apriva il fuoco. Di norma, quando si sentiva sparare, sparavamo anche noi. Io avevo una buca a sinistra, più alta e con un nido di mitragliatrici, a portata di voce. Quella sulla destra, con tre persone, non l’ho mai vista. Ho visto pochissimo anche i miei superiori. Di giorno non potevamo uscire neanche per i bisogni corporali, perché ci davano la caccia con i mortai o ci mitragliavano. Non molto lontano dalla mia postazione, a un crocevia, c’erano dei tedeschi con un ottantotto, che spesso mi invitavano a cena. Per la scarsitàdi razioni avevamo una fame del diavolo: il nostro riso si attaccava al mestolo da quanto era colloso, procurandoci fortissimi dolori di stomaco. In un’occasione riuscimmo a catturare un puledro, la cui carne fu cotta alla brace ed equamente divisa. Non ci curammo del fumo, che in primalinea poteva causare guai seri. Il cambio non fu dato sul posto; abbandonammo le buche squadra per squadra, senza vedere i rimpiazzi. Dopo una notte di marcia, fummo alloggiati per una decina di giorni a Sezze, nella casa ferroviaria della sottostazione. Ci aspettava un addestramento massacrante con panzerfaust, Mg 42 e bombe a mano. In quel periodo subimmo un cannoneggiamento da parte di navi nemiche; le esplosioni facevano fare ai carri merci abbandonati nella sottostazione dei gran movimenti a destra e a sinistra, mentre noi trovavamo rifugio nei campi vicini. Intermezzo simpatico fu una partita di calcio fra la prima e la quarta squadra. Avemmo anche uno stato d’allarme per la caduta degli avamposti Dora, Frida ed Erma, ma tutto finì bene. Da Sezze rientrai con un nuovo compagno di buca. Si trattava di Russo Gaio, figlio del direttore dei Telefoni di Stato, di origine romana e padovano di adozione. Tornati in linea, sostituimmo la seconda compagnia. La mia nuova postazione sulla destra della Strada lunga, verso i monti e sotto il ciglio della strada, era formata da un’apertura con uno spazio di due metri per due e da una buca sotto la strada, che usavamo solo per dormire durante il giorno. Di notte andavamo trecento metri più avanti, in una postazione prossima al Gorgolicinio, che si allungava verso Terracina in un fitto boschetto. Il canale Mussolini distava tre o quattrocento metri. Una notte un aereo cadde duecento metri dietro la buca diurna. Scomparso nel terreno fangoso, emergevano solamente le pale dell’elica. Sempre nelle ore notturne subimmo un attacco ravvicinato ma privo di conseguenze: aperto il fuoco, il nemico rispose e poi rientrò nelle sue linee. Da allora sentimmo un tremendo puzzo di cadavere, ma non era consigliabile esporsi. Solo dopo un certo periodo e con grande sforzo imparai a non vomitare quanto avevo mangiato. Un giorno decisi di sgranchirmi le gambe e mi offrii per il rancio. Mentre stavo prendendo il pane, un colpo di mortaio raggiunse la casa dove era in corso la distribuzione viveri. Ci furono diversi morti e per due giorni fummo costretti a digiunare. Ogni notte il nostro lato destro era oggetto di attacchi e ci piovevano addosso i tiri di copertura americani. Avemmo poi la sfortuna di ospitare un gruppo di cannoni autotrasportati, penso tedeschi, che spararono un centinaio di colpi e se ne andarono poche ore dopo. A durare a lungo furono le conseguenze, ossia un infernale fuoco nemico. Una missione umanitaria Durante la partita di Sezze Romano il comandante Bardelli si era seduto vicino a me, chiedendo informazioni sul mio passato e sulla mia famiglia. Più tardi si sarebbe ricordato di quel colloquio, affidandomi una missione che oggi si definirebbe umanitaria. Non lontano, verso la terra di nessuno, c’era un vecchio mulino con i sacchi di grano dell’ultimo raccolto. I civili erano ridotti allo stremo, ma non si fidavano di andarli a prendere e un cittadino di Littoria - non so se funzionario comunale o concessionario automobilistico - comunicò la cosa a Bardelli, che mi incaricò del recupero. Impiegammo tutto il giorno e parte della notte a portare questi sacchi nelle linee, che poi furono divisi tra Littoria e Norma, con grandi festeggiamenti da parte della popolazione. Scortammo il carico armati di tutto punto e facendo attenzione ai “malpensanti”, in parte tedeschi. Il viaggio andò bene e non fummo molestati. 24 maggio 1944 Gia da tre o quattro giorni si sentiva un movimento di carri armati. I mitragliamenti aerei e i cannoneggiamenti erano aumentati. Un pomeriggio un sottufficiale mi comunicò l’ordine di radunare gli uomini presso la mia buca e di tenere le posizione fino a mezzanotte. Così fu, e tutti ci si chiedeva cosa fare, se minare o mettere bombe a mano con lo spago. Mi venne l'idea del cartellone: in un foglio di carta scrissi in grande le parole “Ciao nemico”. Piantai tutto su una tavola, che innalzai sulla mia buca. All’ora prevista iniziò il ripiegamento; eravamo dodici o tredici persone, alcune delle quali mi erano sconosciute. Uno di loro aveva fatto la ritirata di Russia e gli proposi di unire le forze per tenere unita la squadra, mettendoci in testa e in coda alla colonna. Marciammo tutta la notte in fianco a Littoria e per la Via Appia all’altezza della sottostazione e dell’aeroporto. Verso l’alba, in una casa colonica, vedemmo un gruppetto di marò del Barbarigo che consumavano polenta e formaggio. Ci fermammo anche noi. Dopo qualche ora di riposo ci incamminammo verso Norma, punto di ritrovo della quarta compagnia. In una chiesa distante dalla strada trenta o quaranta metri c’era un ospedale da campo, da cui vidi uscire un sottufficiale con due secchi pieni di gambe e braccia amputate. Egli ci guardò. Sostavamo poco lontano, ed io mi ero liberato di tutto il superfluo che avevo nello zaino. A un certo punto sentimmo delle cannonate e ritornammo indietro di corsa per circa un chilometro. Erano le prime luci dell’alba e la visibilitàera buona. Improvvisamente vedemmo due Sherman e molti marò caduti attorno a una casa. Eravamo a 100-150 metri dai carri e tentammo un lancio con i panzerfaust. Non so se i colpi andarono a vuoto o danneggiarono un cingolo. I carri armati girarono le torrette e cominciarono a fare fuoco su di noi. Fummo investiti da una pioggia di fuoco e io, colpito alla testa e a una mano, persi conoscenza. Non posso dire quante persone morirono e quanti furono i feriti. Privo di conoscenza, non seppi mai come ero arrivato a Norma. Perché decumano Fin qui le mie vicende a Nettuno. Ma manca ancora qualcosa: il perché. Perché dopo l’armistizio non tornai a casa o non mi rifugiai in montagna? Perché non tenni fede al giuramento fatto al re? Ero stato un membro della Gioventù italiana del Littorio, un’organizzazione che mi aveva dato grandi soddisfazioni. Ma dopo il 25 luglio la mia fede nei fascisti, se non in Mussolini, era svanita. Tutto si era sciolto come neve al sole, tutti avevano rinnegato il loro passato e il loro capo. Per questo, più tardi, non volli aderire a una delle tante formazioni armate politiche, composte perlopiù da vecchi squadristi e da giovinetti imberbi. Con l’otto settembre crollò anche la mia fede nella monarchia. Fuggirono tutti, a cominciare da generali e ammiragli, e il comportamento del sovrano invalidò il mio giuramento. Di andare in montagna, in quei giorni, non parlava nessuno; chi era scappato, cercava solo di raggiungere casa. Io avevo perso la speranza di una vita in uniforme, ma non me la sentivo di chiudere così la mia esperienza militare. Inoltre non sopportavo che fossimo considerati dei traditori; non ero un traditore e non volevo comportarmi come tale. La prima cosa che mi colpì nella X Flottiglia Mas furono le stellette al bavero degli ufficiali. Quest’unico reparto che continuava a tenere alta la bandiera italiana attirò me e un numero crescente di persone. Perché la mia Patria era tutta in quella bandiera che ancora sventolava e nella figura veramente grande del mio comandante, il principe Junio Valerio Borghese. (Testimonianza raccolta da Marino Perissinotto)
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    Decima!

    Gruppo Farfante Era il gruppo che, agli ordini di uno dei guardiamarina (Barbieri?), quando arrivò l’ordine di evacuare la base e raggiungere Pola, aveva deciso di trasgredire e tentare la via del nord. Gli uomini, una quindicina, si impadronirono di una delle motobarche che facevano servizio di collegamento con Fasana. Raggiunta Portorose, si sistemarono nello stesso albergo ove avevano alloggiato per qualche tempo nel viaggio di andata. Ancor oggi non capisco perché il gruppo non abbia tentato di proseguire per Venezia. Di sicuro, tra loro, c’era il sergente allievo ufficiale Giorgio Cacciari, che volle lasciare gli altri per dirigersi a piedi verso Trieste. Il suo cadavere fu rinvenuto appena fuori Portorose, lungo la strada. Aveva con sé una valigia del parigrado Sergio Perbellini, affidatagli al momento della sua partenza senza ritorno sullo Sma K1, affinché potesse essere restituita ai genitori. È probabile che Cacciari sia stato ucciso da un partigiano isolato, poi fuggito, in quanto i documenti, il denaro e la valigia furono trovati accanto a lui. Poiché in quest’ultima c’erano anche i documenti di Perbellini, la Croce rossa italiana ritenne che quel cadavere fosse il suo e lo comunicò alla famiglia a Bologna, dandolo prudenzialmente per disperso. Un altro probabile appartenente al gruppo è il sergente allievo ufficiale pilota Amleto Binda, che nel dopoguerra fu visto in una localitàdel Varesotto. Su di lui non ci sono altri riscontri. Era a Brioni fino alla mia partenza e forse riuscì a proseguire indenne per Trieste. Poco tempo dopo, al comando del gruppo che collego al nome del sottocapo elettricista Carmelo Farfante, autore del rapporto inviatomi, si presentarono dei civili appartenenti al Comitato di liberazione nazionale. Chiesero la consegna delle armi dietro rilascio di un salvacondotto per Trieste e Venezia. Nessuno accettò. Ma a seguito di questa decisione, doveva esserne presa un’altra: che fare? Farfante non rammenta se il dibattito fu corale o ci si limitò a un ordine del comandante del reparto: tornare a Pola. L’evento riveste un carattere eccezionale, rivelatore della determinazione e della coerenza dei marò della X Flottiglia Mas anche in quei tragici momenti. Il documento riporta semplicemente: “Da Portorose trasferimento a Pola, dove ci siamo riuniti con la divisione X territoriale”. Uomini a un passo dalla salvezza, costituita dalla resa alle forze anglo-americane, decisero di tornare indietro per riunirsi ai commilitoni rimasti agli ordini del capitano di corvetta Baccarini. Risalito sulla motobarca, il gruppo raggiunse Pola. “Successivamente – scrive Farfante – succede la capitolazione tedesca e noi, sempre uniti, ci troviamo fermi nel proposito di non cedere”. In precedenza il comando tedesco aveva convocato un’adunata sulle banchine di tutti i militari presenti, sia germanici sia italiani. Il generale Bauer volle salutarli prima della resa, esortando i marinai della X Flottiglia Mas a resistere per salvare una terra “che per lui era ancora italiana”. I decumani lo giurarono, convinti che le truppe alleate potessero arrivare da un momento all’altro o che dal mare potessero sbarcare i marò del San Marco del Sud. Gli avvenimenti incalzavano. L’occupazione della cittàda parte del IX Corpus era imminente. I partigiani la circondavano, anche per il ritiro delle truppe germaniche. Il comando Decima, da Baccarini all’ultimo ufficiale, fu incalzato dal Cln affinché si arrendesse e desistesse dal proposito di resistere a oltranza, nell’illusoria speranza di trattare da pari a pari con gli slavi. Gli ufficiali radunarono tutti in assemblea per chiedere il loro parere, che fu negativo. Le truppe alleate e il San Marco non arrivarono mai. Gruppo Borghi-Renzi Il terzo gruppo lasciò Brioni per ultimo. Le vaghe notizie di accordi che si stavano tentando tra i vari comandi e il Comitato di liberazione nazionale non facevano altro che aumentare l’incertezza. Il personale della base era ridotto a circa la metà. All’arrivo in banchina del sommergibile furono distribuiti i viveri, poi si procedette all’imbarco con armi e bagagli. Il battello era stivato completamente e l’immersione resa impossibile da quanti si ammassavano in coperta. Era quasi buio quando il Cm approdò a Pola, accolto con sorpresa dal Cln locale. “Brevi convenevoli – scrive Borghi – poi cortesemente ci invitarono a seguirli. La meta, l’interno di una caserma della città. Consumammo la cena; ognuno di noi disponeva di cibo abbondante, ma fu l’ultimo ricco pasto. In seguito la fame ci perseguitò per oltre due anni”. Nella caserma avvenne il ricongiungimento con il gruppo Farfante. I due gruppi erano così riuniti. Mancavano all’appello, oltre ai quattro piloti partiti in missione di guerra verso Ancona, anche il sottocapo Guido Candiollo e il 2° capo Riccardo Pareti (inviati da Lenzi in missione a Milano), i sergenti allievi ufficiali Giorgio Cacciari e Amleto Binda, i marò Danilo Colombo e “Napoli”. Da questo momento i rapporti collimano e la narrazione diventa unitaria. Durante la notte gli uomini della Decima furono svegliati e “cortesemente” invitati a lasciare le armi e gli effetti personali. “Non preoccupatevi – dissero quegli sconosciuti in abiti borghesi – gli effetti personali tornerete poi a riprenderli”. Appresero troppo tardi che erano partigiani slavi. Dei rappresentanti del Cln, neanche l’ombra. Furono portati fuori Pola, presso una grande casa colonica. Allora capirono che si era trattato di un tranello per disarmarli ed evitare una loro reazione di fuoco. Racchiusi entro i recinti della fattoria c’erano anche soldati italiani inquadrati nelle forze armate germaniche e militari tedeschi. Scrive Borghi: “La consegna delle armi fu una grossissima ingenuitàe l’inizio della nostra odissea. Se il rompete le righe fosse stato ordinato poco prima, avrebbe permesso a tanti di portare a casa la pelle. Sono mancate da parte dei nostri responsabili decisioni rapide, tali da preservarci dalle angherie dei titini a seguito della cattura”. Il giorno successivo tutti i prigionieri vennero ammassati e divisi in gruppi a seconda dei reparti, separando gli italiani dai tedeschi. Un ufficiale jugoslavo, forse un colonnello, si pose al centro del cortile, scortato da partigiani armati. Aveva in mano alcuni fogli e cominciò a leggerli. Erano elenchi di nomi. Cominciò dalla Marina repubblicana e dalla X Flottiglia Mas. I primi nomi furono quelli di Baccarini, De Siervo e il mio, ripetuto più volte con stizza (ero giàprigioniero a Ancona). Seguirono tutti gli ufficiali e sottufficiali, piloti dei mezzi d’assalto compresi. Man mano che veniva fatto un nome, il chiamato usciva e veniva prelevato dai titini, che, con violenza e percosse, lo accompagnavano fuori dalla fattoria portandolo chissàdove, verso una morte quasi certa. “Le foibe di Pisino distavano poco”, precisa Borghi (anni dopo, il fratello del tenente di vascello De Siervo riuscì a far recuperare proprio lì i resti del congiunto e, mi pare, quelli del sottocapo Mulargia). Del personale della Decima erano rimasti i sottocapi e i comuni, che tentarono un atto di forza contro le sentinelle. Chiesero ai tedeschi di aiutarli, ma la risposta fu negativa. Nonostante il rifiuto, da parte dei marò ci furono segnali di rivolta tanto manifesti che i titini aprirono il fuoco contro di loro. La carneficina coinvolse tutti. Il sottocapo elettricista Romeo Petris fu ucciso con un calcio di fucile che gli spaccò la testa. Sorte analoga ebbe un marò alto e biondo, di cui i sopravvissuti non ricordano il nome. Capita l’inutilitàdi ulteriori sommosse, disarmati com’erano, negli scampati subentrò una profonda rassegnazione. Passarono così alcuni giorni, tra continue angherie e una brodaglia come unico vitto. Una sera, dopo la resa definitiva della Germania, i prigionieri furono imbarcati su due motozattere e trasportati verso le bocche di Cattaro, costeggiando le coste della Dalmazia, con destinazione Tivat. Durante il viaggio furono toccati i porti di Fiume, Selenico, Spalato e l’isola di Curzola, dove, ricorda Borghi, “molti vennero obbligati a sbarcare, ignari della loro tragica sorte e scomparsi per sempre. Ricordo il simpatico Bruno Fiore di Milano; ci separammo dopo un lungo abbraccio”. A Curzola, “dopo insulti e sputi”, ebbe luogo una decimazione di cui non esiste alcuna testimonianza diretta. Unico dato certo, l’imbarcazione che aveva portato a terra gli sventurati tornò vuota. Si navigava di giorno e, verso il tramonto, si entrava in uno dei porti o porgitori citati: “Soste umilianti e penose. Venivamo sottoposti a vessazioni di ogni genere, spogliati dei pochi indumenti che indossavamo; perfino le scarpe ci portarono via. Guai a sollevare le più piccole proteste! Le guardie avevano per noi un odio feroce; non indugiavano a intervenire duramente contro coloro che, in modo civile, chiedevano un po’ di rispetto. Qualcuno pagò la protesta con la vita”. I prigionieri arrivarono sfiniti a Tivat, dopo avere lasciato una parte di loro, destinati in Bosnia. Tra questi, Lino Borghi. Il campo di concentramento era situato poco fuori dell’abitato. Quasi tutti i rimasti dopo la scissione di Spalato – tra i quali il sottocapo Carmelo Farfante, il marò motorista Vittorio Vannucci, i marò Benito Renzi e Emilio Fossati – vi rimasero per circa un biennio, fino al loro rimpatrio avvenuto tra l’inverno 1946 e la primavera 1947. Altri, rimasti a Tivat per oltre un anno, lavorarono nella cosiddetta “ferrovia della giovinezza” Bricko-Banovic. Terminata la strada ferrata, il marò Borghi, che faceva parte del gruppo con le mansioni di operaio specializzato, autista, conduttore di trattori e macchine agricole, partì per Sarajevo, dove fu impiegato nei boschi della Bosnia con il trattore a lui affidato. Quegli uomini rientrarono a Ancona il 22 marzo 1947, imbarcati su una vecchia carretta, dopo essere stati forzatamente dotati di cartelli inneggianti a Tito e avere altrettanto forzatamente cantato Bandiera rossa sulle banchine di Tivat. Che io sappia, solo i marò da me citati hanno potuto fare ritorno in Italia. Di questi, tre presero subito contatto con me e mi consegnarono dei rapporti sulle loro vicende (informazioni più dettagliate sono contenute nel volume Decima Flottiglia nostra…, da me pubblicato presso l’editore Mursia). Alla fine delle sue vicende giudiziarie, il comandante Borghese, dopo aver appreso della storia della base Est direttamente da Lenzi, volle andare a Bologna per avere tutti i dettagli della missione su Ancona da parte dei quattro protagonisti. L’ufficio storico della Marina militare italiana, nel capitolo XVIII del suo quattordicesimo volume sulla Marina nell’ultimo conflitto (dedicato ai mezzi d’assalto), dopo le necessarie ricerche presso archivi stranieri, così ha scritto: “Unico forzamento di porto vero e proprio fu quello avvenuto a Ancona il 13-14 aprile 1945 ad opera di due Sma provenienti dalla base di Brioni (T.V. Nesi, Serg. Perbellini, 2° C° Mauceri, Sc. Batti). Sma Km 1 e Sma Km 2 (Operazione ‘Buccari’)”. Quindi la base Est di Brioni della X Flottiglia Mas non finì soltanto tragicamente nelle foibe e nei campi di sterminio e di lavoro forzato della Croazia e della Bosnia. Finì anche positivamente nel porto di Ancona, con i mezzi d’assalto che portarono a termine l’ultimo “forzamento di porto vero e proprio”.
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    Decima!

    Gruppo Colombo I marò rimasero soli nell’albergo che Colombo chiamava “Nettuno secondo”. Avevano visto entrare nel porto il sommergibile CM1 e sparire nel suo ventre molti degli uomini della base; altri si erano ammassati in coperta stringendosi l’un l’altro per non scivolare in acqua. Loro due avevano detto al comandante che rinunciavano all’imbarco e l’ufficiale non insistette più di tanto. A buio fatto il sommergibile si allontanò verso Pola. Trascorsero la giornata successiva ai bordi del rifugio, tra una cinquantina di uomini, donne e bambini intenti a depredare quanto lasciato da italiani e tedeschi. I partigiani arrivarono a Brioni la sera dopo. Erano in due, armati di fucili, la bustina con la stella rossa calcata sul capo; uno vecchio, l’altro quasi un ragazzo. Racconta Colombo: “Gli indumenti che indossavano, laceri, spiegazzati, informi, erano ancora riconoscibili come capi disparati di uniformi prese da tutti gli eserciti. Il più anziano aveva il petto fasciato da una tunica di aviatore inglese e pantaloni di fustagno grigio ficcati in bassi stivaloni da fante tedesco. Il giovane portava una giubba da ufficiale italiano, senza bottoni, aperta su una stinta camicia a righe e aveva i piedi fasciati in bende grigioverdi, legate con spago sfilacciato”. L’incontro fu stranamente cordiale, con i partigiani che si intrattenevano di più con la popolazione che li festeggiava che con i due prigionieri; i quali, però, non erano stati classificati ancora come tali. I due slavi, infine, dissero ai marò che avrebbero dovuto seguirli e aiutarli a scaricare dei fusti di benzina sulla barca a motore con la quale erano arrivati. Come prigionieri, nessuno avrebbe fatto loro del male. Colombo e “Napoli” – così viene chiamato nel racconto, ma il nome è fasullo – aiutarono a spingere lontano dal molo la barca, appesantita da una decina di fusti. Attraversato il canale, giunsero nei pressi di Fasana. Làiniziò il loro calvario. Dormirono in una stalla e il giorno dopo furono fatti salire su un carro nel quale si trovavano altri due prigionieri, civili locali dall’aspetto di contadini. Il carro era guidato dal più anziano dei due partigiani. Dopo mezz’ora giunsero a Dignano (l’attuale Vodnjan), dove trovarono la popolazione festante tra un mare di bandiere rosse. La folla fermò il carro e fu necessario proseguire a piedi. Nella calca, i prigionieri perdettero i contatti con il loro guardiano e l’onda li spinse in piazza. Pensarono di fuggire, anche perché “Napoli” era proprio di Dignano e conosceva tutti i vicoli, ma andarono proprio a imbattersi nel “loro” partigiano, fuori dalla grazia di Dio. A pedate e a colpi nella schiena con il calcio del fucile furono condotti in una casa appena fuori dal paese, circondata da filo spinato, ove erano ammassati altri prigionieri: “Divise italiane e tedesche – rammenta Colombo – civili, uomini dai capelli bianchi e ragazzi”. Rimasero in quell’edificio diroccato e crivellato di colpi d’arma da fuoco circa una settimana. Dormivano su un pavimento di legno e mangiavano solo pane di polenta secco e ammuffito. Ogni giorno arrivavano nuovi prigionieri e ben presto arrivarono anche i pidocchi. Giunse anche un sergente – che Colombo chiama “Lenzoni”, ma anche in questo caso non so se il nome è autentico – fatto prigioniero a Pola, il quale fu in grado di raccontare su quanto era stato testimone. Poiché anche questo rappresenta un tassello di quel mosaico di tragici avvenimenti e un fatto di cui non ero a conoscenza, ritengo più corretto riprodurre integralmente quanto riferitomi da Colombo: “I partigiani, suonatore di fisarmonica in testa, avevano marciato trionfalmente davanti agli archi maestosi dell’anfiteatro romano. L’ultima resistenza era stata a Musile, il vecchio forte austro-ungarico sistemato all’imboccatura del porto e acciambellato in prossimitàdi un’altissima parete di roccia a picco sul mare. A Musile era andato a rifugiarsi un gruppo di tedeschi, decisi ad arrendersi soltanto agli anglo-americani. Data l’ottima posizione strategica del forte, dal quale con armi automatiche si poteva spazzare la zona circostante, nuda d’alberi e con scarse ondulazioni del suolo per cercare un riparo, i partigiani si erano resi conto che un attacco frontale si sarebbe risolto in una carneficina, Avevano deciso, pertanto, di usare uno stratagemma. Un avvocato del fronte di liberazione italo-slavo era stato mandato a parlamentare con il comandante tedesco. Aveva promesso onorata prigionia a lui e ai suoi uomini, qualora avessero deposto le armi, e l’aveva convinto. Senonché, non appena i tedeschi erano usciti disarmati dal fortilizio, le forze partigiane che fino a quel momento si erano tenute a rispettosa distanza si erano buttate loro addosso iniziando un vero massacro. Tedeschi erano stati sventrati a colpi di baionetta. Feriti da raffiche di mitra erano stati finiti a calci. Con le mani legate dietro la schiena col filo spinato, erano stati gettati in mare. Decine di cadaveri erano stati portati dalla marea in secco sulle spiagge. L’ordine era stato di cospargerli di benzina e di bruciarli dove si trovavano. Quanti avevano dovuto accudire alla macabra bisogna avevano parlato di cadaveri che, nelle fiamme, si erano d’improvviso mossi come se fossero persone ancora vive, agitando le braccia, alzandosi a sedere, stralunando gli occhi”. All’alba furono tutti svegliati. I due marò con altri otto prigionieri furono separati dagli altri. Una sola guardia, armata con un vecchio fucile, li fece avviare a piedi verso nord, lungo la strada che porta a Pisino (l’attuale Pazin). Niente da mangiare e da bere durante quella marcia che pareva interminabile. Verso sera giunsero nella periferia del paese, accolti da numerosi partigiani e fatti ricoverare nella palestra di una scuola. Un pugno di patate secche bollite nell’acqua costituì la colazione, il pranzo e la cena di quella prima giornata. Ancora in marcia verso Fianona (l’odierna Plomin), sul Quarnaro. Ai dieci si erano aggiunti altri prigionieri, sia militari italiani e tedeschi sia civili. Giunsero all’imbrunire sulle banchine di quel porto, scivolando sfiniti per un ripido pendio. “Fianona – racconta Colombo – a sussulti ci rigurgitò dall’alto, colata miserabile e stanca, mandandoci a rapprendere, uno sull’altro, accanto alla passerella del barcone all’ancora”. Stivati come sardine nella cala del natante, costretti dalla calca umana a rimanere in piedi nel caldo e nel fetore degli escrementi, quei disgraziati giunsero finalmente nel porto di Crikvenica, sulla costa dalmata. Sbarcati, furono introdotti nel recinto del mercato del pesce, dove a tutte le puzze giàaddosso si aggiunse quella del pesce andato a male. Per terra un tappeto di squame e teste di sgombri. Al mattino seguente, dopo un pezzo di pane di polenta, fu ordinato loro di gettare acqua sui fusti di benzina del porto, resi roventi dal sole, affinché non scoppiassero per il caldo. Per un paio di giorni furono adibiti a lavorare in un ospedale. Poi ancora in marcia verso Grobniko, dove esisteva un campo di aviazione. Giunsero verso sera e furono rinchiusi in uno degli hangar. Quella notte arrivarono altri prigionieri tedeschi, quasi tutti anziani alpenjaeger. All’alba furono divisi in due gruppi di lavoro: uno a scavare terra rossa da una vicina cava e l’altro a raccogliere ciottoli dal greto di un torrentello. I partigiani avevano avuto l’idea balzana di ripristinare la pista con quell’impasto di argilla e sassi. Il lavoro durò tre mesi, nel corso dei quali avvenne un ammorbidimento tra guardiani e prigionieri. Scrive Colombo: “Se c’era stato livore, rabbia, odio per i druzi, i nostri guardiani stolidi e brutali, sentimmo gradualmente che anch’essi speravano in una liberazione. Più sottile e urticante. Il sospetto che, mettendoli a guardia di un centinaio di prigionieri italiani e tedeschi era stato rubato loro il momento del trionfo, gli archi di alloro e le medaglie dopo le scorribande e il vivere e morire gramo sui monti. La loro razione era, dopotutto, soltanto una manciata in più di farina di patate e un trancio più pesante di un pane di polenta duro come il legno e odorante di muffa. I più giovani restavano ancora con l’indice costantemente appoggiato sul grilletto del mitra […], ma i più vecchi, quando il commissario era lontano, lasciavano che in qualche momento battessimo la fiacca. […] Ma, a parte la sindrome di complicitàche si sviluppa fra carcerato e carceriere, c’era tra noi e le guardie un altro punto di contatto: il disprezzo per i tedeschi. Li avevamo visti aitanti, pieni di boria fino agli ultimi giorni del conflitto e ora ci schifava vederli strisciare servili nel tentativo di ingraziarsi i druzi”. Dopo tre mesi di lavoro, ultimata la pista e fallito il suo collaudo (il primo aereo, nell’atterraggio, aveva fatto schizzare via l’impasto di ciottoli e argilla e aveva terminato la sua corsa fra gli alberi), arrivò l’ordine di riprendere la marcia “che da Grobniko ci spingeva ora fino a Karlovac e, per alcuni, fino a Belgrado, in quella che sarebbe stata per molti l’ultima marcia. Trenta, quaranta chilometri al giorno nello srotolarsi affannato e miserabile di centinaia di prigionieri per cui le guardie, coinvolte nella stessa fatica, non dimostravano pietà. Affrettando davanti a sé, pungolate di fucile nella schiena, ogni rallentamento e prendendo a calci chi s’acquattava per riprendere respiro o svuotarsi della diarrea. Solo la sera c’era sosta. All’aperto e, per i più fortunati, al riparo di qualche casupola o baracca sbrecciata dal tempo e dalla guerra”. Pochi giorni prima, a Grobniko, il marò Colombo aveva visto sopraggiungere, unitamente ad altre madri, anche la sua, “abiti stazzonati, capelli scarmigliati dopo un viaggio di due giorni, un po’ in treno da Trieste a Mattuglie, un po’ su carri di contadini, un po’ in corriera e un po’ a piedi”. Un druze le aveva permesso di sedersi accanto al figlio su un tronco d’albero caduto, di passargli delle caramelle di zucchero e scambiare qualche parola. Poi prese la via del ritorno e il figlio quella per Karlovac. Attraversando un borgo, due prostitute furono aggregate alla colonna di prigionieri, la testa rasata e le mani legate dietro la schiena con del filo di ferro. Dopo un breve tratto di strada i loro piedi erano giàsanguinanti per le pietre e i rovi, tanto da muovere a pietàil caposcorta, che diede loro della stoffa per fasciarseli. “La nostra tortura era raffinata. Camminare, camminare, camminare. Con lo spasimo di far avanzare un piede dopo l’altro per trovarsi poi, la sera, con crampi dolorosissimi alle gambe. Un sonno malsano, di piombo, e la maledizione di rimettersi in marcia alle luci dell’alba, a denti stretti, con l’acqua bevuta in gran fretta da un rivolo o da un secchio e la razione di farina di patate e pane di polenta sempre meno abbondante. L’adrenalina fiaccava le reni, i nervi cedevano. La marcia, nei giorni che seguirono, fu un tormento che mi attanagliò gambe e cervello. Mi ghermì, contro ogni volontà, mentre alle porte di Karlovac guadavamo un torrente. L’acqua fredda avrebbe potuto stemperare la fatica, rivitalizzare la speranza. Invece fu una morsa gelida. Il ridursi d’ogni colore alla disperazione di un tunnel d’angoscia”. Era il collasso, e Colombo non ricorda più nulla. Svenì e fu soccorso. Probabilmente, data la vicinanza con Karlovac e dato che la colonna aveva attraversato la cittàdiretta a Belgrado, fu abbandonato dai partigiani su un marciapiede e portato in un ospedale. Il marò riemerse dal suo stato confusionale: “Una voce sovrasta le altre. Un uomo, camice bianco, croce rossa sul petto, mi sta fasciando i piedi. Mi rivolge parole in una lingua che non è la mia né quella dei druzi”. Poi ripiombò nel torpore. Riprese conoscenza a bordo di un camion, da dove scorse il mare e, sulla destra le isole Brioni. Faceva parte di una colonna che, attraversata Pola, si arrestò davanti alla stazione ferroviaria. Qui il marò cercò gli amici che avevano camminato con lui sui sentieri e le strade della Jugoslavia, ma non trovò nessuno. Salì su un vagone merci assieme agli altri e si distese su uno strato di paglia. Aveva a fianco uno degli alpeniaeger di Grobniko. Era ridotto male, con un “gemito che si trasforma in respiro affannoso, in una tosse continua, in un boccheggiare rauco”. Poche ore dopo Colombo constatò il decesso dell’alpino germanico e viaggiò con quel cadavere accanto fino all’arrivo del convoglio. “Le portiere si aprono e nell’appannamento della vista che passa dalla semioscuritàalla luce del giorno, mi accorgo che i militari attorno a noi non hanno la stella rossa sulla bustina. Un nero che sa di saponetta mi aiuta a passare una sbarra di confine. Mi volto. Cartello bilingue: Trst-Trieste”. Colombo non dice quando è stato liberato. Ma dai tempi narrati, si può arguire che si tratti della fine del settembre 1945. Del suo compagno, il marò “Napoli”, non conosciamo la sorte. [continua]
  17. EmaZ

    Decima!

    La Decima a Brioni Maggiore di Sergio Nesi Dopo l’otto settembre 1943 la Germania aveva incorporato l’Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia e l’Istria in due zone. La prima comprendente il Trentino e l’Alto Adige con il gauleiter Franz Hofer, la seconda comprendente i territori del Litorale Adriatico con il gauleiter Friedrich Alois Rainer. I due erano austriaci, come austriaci erano tutti i capi delle province e i principali funzionari, che, come scrisse il comandante Borghese, “giocavano sulla carta perdente, preparando le regioni da essi dipendenti a essere incorporate nella risorgente Austria”. Rainer adottò una politica filo-slava che gli permetteva di sradicare dal territorio la presenza italiana, con atti resi noti da studi storici, pubblicazioni e testimonianze. I vertici della Rsi restarono passivi di fronte a questa situazione. Ma nel Litorale era pur rimasta una presenza italiana, costituita dai comandi militari rimasti sul posto dopo la proclamazione dell’armistizio. In particolare, a Pola, erano presenti le seguenti forze: un reparto del 2° reggimento della Milizia territoriale, con un centinaio di uomini al comando del capitano Bacchetta; il 2° battaglione genio con circa cinquecento uomini e il capitano Giovanni Covatta; il comando Marina con il capitano di corvetta Stefano Baccarini e il tenente di vascello Marchini; un gruppo di artiglieria contraerea; il personale dell’ospedale militare della Marina; il reparto dragaggio; le batterie costiere ecc. Borghese ritenne suo dovere ostacolare la politica anti-italiana, e a partire dalla primavera 1944 dispose per una lenta penetrazione di marinai della X Flottiglia Mas. Dapprima una compagnia di un centinaio di uomini fu inviata a Fiume (compagnia Gabriele d’Annunzio) al comando del tenente di vascello Vigiack, poi una seconda fu costituita a Pola (compagnia Nazario Sauro) al comando del capitano di corvetta Baccarini. A Trieste fu costituito il battaglione San Giusto, forte di circa cinquecento marinai, e a Portorose fu trasferita la scuola sommozzatori e palombari, al comando del tenente medico Moscatelli. Ma a Borghese non bastava. Riteneva necessaria la presenza dei “suoi” mezzi d’assalto in Adriatico, come lo erano in Tirreno al comando del capitano di corvetta Mario Arillo, medaglia d’oro al valor militare per le sue imprese contro Alessandria e Algeri al comando del sommergibile Ambra. Affidò l’incarico al capitano di corvetta Aldo Lenzi, altro prestigioso comandante di sommergibili in Atlantico e di mezzi d’assalto in Mar Nero e in Africa settentrionale. Lenzi istituì il proprio comando a Trieste, avendo come sottordini i sottotenenti di vascello Peliti e Ottolini. Individuò come base l’isola di Brioni Maggiore, ove erano giàpresenti i mezzi d’assalto tedeschi al comando del tenente di vascello Witt, i cui piloti erano stati tutti addestrati a Sesto Calende nella scuola della X Flottiglia Mas. Il 15 novembre 1944 Borghese mi convocò a Lonato e, dal comando dei mezzi d’assalto del Tirreno con Arillo, mi trasferì a Brioni agli ordini di Lenzi. Con una Fiat 1100 e una colonna di autocarri Lancia 3 Ro che trasportavano una cinquantina di uomini arrivai a Pola il 27 febbraio 1945, traghettai con motobarche il canale di Fasana e presi possesso del terzo piano dell’albergo fronteggiante il porticciolo. I primi due piani erano occupati da una sessantina di marinai tedeschi, con i quali familiarizzammo immediatamente. Tra Witt e me si installò uno straordinario rapporto di simpatia. I primi giorni furono occupati nella sistemazione e nello studio dei luoghi. Fu installata una stazione radio e messa in efficienza una cucina adiacente a quella dei marinai tedeschi. Lenzi tornò quasi subito a Trieste. Io, usufruendo talvolta di un Cb che il tenente di vascello Federico De Siervo, mio compagno d’accademia, mi metteva a disposizione, facevo la spola con l’Arsenale per la messa a punto di due Sma, che Witt aveva dismesso in attesa che arrivassero quelli partiti da Sesto Calende e che avevo battezzato con le sigle K1 e K2 (da Kriegsmarine). Durante una di queste visite, successe un incidente che avrebbe avuto gravi conseguenze diplomatiche. Mentre ero a Pola, sbarcò il Brioni il gauleiter Reiner unitamente al berater (prefetto) di Pola. Volle fare un giro per l’isola in carrozza. Vide un ragazzo che con un’accetta tagliava un pino. Gli balzò addosso di sorpresa, gli afferrò l’accetta e con quella cercò di colpirlo. Ma il ragazzo, sergente allievo ufficiale Mario Boreani, pilota dei mezzi d’assalto, fu più svelto, riuscendo a schivare il colpo, per poi fuggire verso l’albergo dando l’allarme che “un pazzo aveva cercato di ammazzarlo”. Il “pazzo” fu catturato unitamente all’altro, preso a calci e, dietro consiglio di Witt che non sapeva chi fosse, portato al terzo piano nella mia stanza insieme al suo accompagnatore. Quando nel pomeriggio tornai, mi spiegarono concitati i fatti avvenuti con quello sconosciuto in abiti civili. Lo trovai in maniche di camicia, con la faccia al muro, le mani alzate contro di esso e due marinai con i mitra puntati verso la sua schiena. Altri due marinai armati tenevano sottotiro il secondo. Mi raggiunse Witt, trafelato, che da Pola aveva accertato l’identitàdei prigionieri. L’incidente fu risolto con l’intervento del comandante Borghese da una parte del grande ammiraglio Doenitz dall’altra. Rainer pretendeva che la Decima lasciasse i territori da lui amministrati, ma fu deciso altrimenti: avrei dovuto lasciare Brioni solo io. Fu allora che Borghese risolse la questione, disponendo che abbandonassi la base Est. Ma non rientrando verso nord, bensì dando esecuzione al piano di missione elaborato Lenzi e De Siervo: l’attacco al porto di Ancona con i due Sma ormai pronti. Erano le ore 20.00 di venerdì 13 aprile 1945 quando il K1 e il K2 si staccarono dalla banchina di Brioni Maggiore, seguiti da due Mtm tedeschi che portavano, al posto dell’esplosivo, un fusto da 200 litri di benzina avio per il rifornimento previsto per le ore 24.00. I barchini sparirono ben presto nel buio della notte. Sulla banchina, attorniati da tutto il personale della base, il capitano di corvetta Aldo Lenzi e il suo aiutante, sottotenente di vascello Roberto Peliti, erano rimasti immobili, bloccati dall’emozione nel vedermi sparire con rotta 180°, senza possibilitàdi ritorno, unitamente al mio secondo pilota, sergente allievo ufficiale Sergio Perbellini e all’equipaggio del K2, secondo capo Flavio Mauceri e sottocapo Roberto Bratti. Sul mio Sma, sdraiato in coperta sopra il siluro e avvolto da una specie di coltre di lana stava il “puma”, il sergente della Marina appartenente ai Servizi speciali del colonnello De Sanctis (nome in codice colonnello David), che Carla Costa, la “volpe argentata” per antonomasia di quei Servizi, così cita nelle sue memorie: “Un audacissimo sottufficiale della Decima, che, sia detto per inciso, Polizia alleata prima e Polizia nostrana dopo ricercarono accanitamente per anni senza mai riuscire nel loro intento”. Avrei dovuto sbarcarlo (e lo feci) a sud di Monte Conero, nelle vicinanze di Numana, perché potesse raggiungere Bari (dove poi giunse) per non so quale attività. Quanto sto per narrare, ovviamente, non proviene da una mia esperienza diretta, ma dalle testimonianze che ho potuto raccogliere sia da Lenzi, sia dai sopravvissuti della base; i rapporti di tre di loro, consegnati in copia a Borghese al termine della sua detenzione postbellica, sono stati donati al conservatore del Museo navale di Imperia, mentre un quarto, delle sue vicende, è alla base del libro Marò: Pola (Istria) – Gruppo d’assalto “Brioni”, pubblicato dalle edizioni Del Noce di Camposampiero (Padova). Un po’ alla volta la folla si sparpagliò; i marinai tedeschi dietro Witt, quelli italiani dietro Peliti e Lenzi. L’argomento delle conversazioni e delle discussioni, oramai, riguardava solo il futuro della base. Lenzi assicurò che avrebbe inviato disposizioni una volta rientrato a Pola e conosciuto da Baccarini e De Siervo quanto fosse stato concordato con il comando germanico e il Cln di Pola, che aveva giàiniziato a prendere contatti in vista dell’imminente cessazione delle ostilità. Contattato il comandante Baccarini e preso nota delle trattative in corso, Lenzi comunicò via radio alla base Est di restare a Brioni fino a nuove disposizioni. Successivamente, con la propria auto e sempre assieme a Peliti, partì verso nord fermandosi a Portorose per organizzare con il tenente Moscatelli l’esodo da quelle localitàdella scuola sommozzatori e palombari (il trasferimento riuscì perfettamente e i mezzi navali raggiunsero Venezia). Poi proseguì per Trieste, sede del suo comando. Passò una settimana piena di incertezze e di ipotesi, rotta solo dall’apparizione nel cielo di uno Spitfire a volo radente sul campo di calcio e dal mitragliamento, effettuato la mattina del 16 aprile, da altri due cacciabombardieri inglesi. L’incursione investì il bosco e un’ala dell’albergo “Nettuno”, senza provocare perdite tra il personale italiano e tedesco, precipitatosi nel rifugio scavato nella roccia. Il comando della base Est rimase nelle mani dei guardiamarina Re, Cavallo e Barbieri. Il 22 aprile una motozattera tedesca entrò in porto a Brioni, imbarcò tutto il personale della base germanica e si allontanò verso Pola. I loro Sma e Mtm erano giàin arsenale. Il giorno successivo, via radio, il tenente di vascello Marchini del comando Marina di Pola, a nome di Baccarini (che nel frattempo aveva assunto il comando della piazza), ordinò lo sgombero di tutto il personale, con destinazione Pola. I tre guardiamarina organizzarono la partenza, ma con una variante rispetto all’ordine ricevuto. Infatti, per mezzo della motobarca che collegava Brioni con Fasana per i rifornimenti, un gruppo (forse con Barbieri) si diresse verso nord. A quella partenza non vollero partecipare due marò dei servizi di mensa: uno nato a Pola, l’altro a Napoli. Il polesano si prese la responsabilitàdi persuadere il commilitone a restare a Brioni, convinto che sarebbe stato facile raggiungere la sua casa a Dignano. Il suo nome è Danilo Colombo, classe 1924, attualmente giornalista e radiocronista di diverse testate nazionali ed estere. Da questo momento è necessario procedere per narrazioni separate. [continua]
  18. EmaZ

    Decima!

    Il valore di una scoperta di Stefano Mattiussi Giàalle scuole superiori il mio spirito critico manifestava una certa avversione verso la “vulgata”, ossia la storia contemporanea così come viene comunemente insegnata nei licei. Di fronte a certe esposizioni suonava il campanello d’allarme. Grazie a un professore illuminato, che ci invitava a studiare attingendo a una pluralitàdi fonti, iniziò la mia ricerca sul periodo 1943-45. Cominciai a leggere una gran quantitàlibri, e notai come la maggior parte di essi fossero lacunosi. Con questo non voglio dire che nulla in essi è veritiero; in circolazione troviamo anche testi di pregio, che possono fornire spunti interessanti per ricerche più complesse. Ma il principale difetto della storiografia “ufficiale” è di basarsi, in tutto o in parte, sulla mitologia resistenziale, ingigantita da personaggi che hanno avuto importanti ruoli politici nell’Italia del dopoguerra. Libri di testo che ancora girano nelle scuole grazie a insegnanti compiacenti furono in breve tempo smentiti da letture specifiche, soprattutto di studiosi che negli anni Novanta avevano tentato con successo di ampliare le vedute proprie e altrui. La prima cosa che saltava agli occhi era come la Repubblica Sociale Italiana, in uno dei momenti più drammatici per la storia del nostro Paese, fosse riuscita a mettere insieme un esercito di quasi un milione di uomini. Ebbe successo per il suo spirito volontaristico: la sola cosa che poteva offrire era l’onore del riscatto e la possibilitàdi non venire bollati come “traditori”. La maggior parte di quelli che risposero alla chiamata lo fecero con l’Italia nel cuore, in presenza di due eserciti d’occupazione. La storiografia corrente dichiara che tutti i soldati che aderirono alla Rsi erano fascisti, tesi facilmente confutabile dalla circolare del ministero della Difesa che vietava ai membri delle forze armate repubblicane di aderire al Pfr. Unica eccezione le Brigate nere, costituite come forza paramilitare in seno al Partito come da decreto legislativo 30 giugno 1944, n. 446 (“Costituzione del corpo ausiliario delle squadre d’azione delle Camicie nere”). Il caso appena citato fa parte di quell’insieme – infinito – in cui rientrano le falsificazioni della storia. Sta a ciascuno di noi combatterle e far prevalere l’obiettività. Ed è stata proprio l’obiettività, con la passione per la ricerca, a farmi conoscere l’epopea nazional-patriottica della X Flottiglia Mas. Solitamente la Decima viene associata alla foto di quel combattente senza uniforme condannato a morte per la tentata uccisione di un ufficiale. L’immagine dell’impiccato in piazza a Ivrea con la dicitura “Aveva cercato con le armi di colpire la Decima” – che qualunque persona di buon senso, oggi, contestualizza storicamente – è divenuta per i vessilliferi del “politicamente corretto” un simbolo della lotta partigiana e ha contribuito ad associare il reparto a una banda impegnata solamente in rappresaglie. Non fu così. La X Flottiglia Mas si fece portatrice dell’orgoglio di essere italiani. Compì azioni di guerra eccezionali e fece in modo che nel periodo 1943-45 lo strapotere dei nostri ingombranti “alleati” fosse attutito. Contribuì in modo determinante a sventare gli insidiosi piani di annessione jugoslavi e tedeschi del Friuli-Venezia Giulia. Se sono nato italiano e posso risiedere in queste terre lo devo ai marò della Decima e ai bersaglieri del Mussolini. Alla faccia dei libri di testo partigiani e degli storiografi faziosi.
  19. EmaZ

    stanza dei ricordi del nonno

    Grazie Gladiatore...ho le lacrime agli occhi.......
  20. EmaZ

    Decima!

    ciao ....scusate questa mia lunga assenza dal sito ma l'influenza mi ha preso in pieno..... martedì/mercoledì posterò le ultime informazioni in mio possesso sulla decima Ciao a tutti
  21. a pensarci mi viene il nervoso...... senza parole....
  22. EmaZ

    Decima!

    Il Giornale di Vicenza, 6 luglio 2002 I REDUCI DELLA DECIMA MAS A RAPPORTO DOPO 57 ANNI Raduno voluto dagli ex combattenti della Repubblica di Salò Ci saranno anche i reduci dei Battaglioni "Fulmine", "Sagittario" e "Lupo" della Decima Mas, questa mattina a Schio, stando almeno al programma del raduno voluto dagli ex combattenti della Repubblica di Salò. Se così fosse, per qualche attempato veterano si tratterebbe di un ritorno sui luoghi dove quei reparti transitarono 57 anni fa, al termine della guerra. Nell’aprile del 1945 era dislocato nel Vicentino il 2° Gruppo di combattimento della Decima Mas, la fanteria di marina di Valerio Borghese. A Thiene stazionavano il Comando, parte del Battaglione complementi "Castagnacci" e parte del Battaglione genio collegamenti "Freccia"; ad Arsiero e Velo d’Astico era schierato il Battaglione "Sagittario", a Carré e Chiuppano il Battaglione "Fulmine"; a Bassano del Grappa erano accasermati il Battaglione "Valanga" e i Gruppi artiglieria "San Giorgio" e "Da Giussano". Il battaglione "Lupo" del 1° Gruppo, si trovava sul fronte romagnolo. In quei giorni convulsi i reparti della Decima Mas si radunarono a Thiene, ma i comandanti si trovarono divisi sul da farsi. Una parte delle unitàsi disperse, un’altra cedette le armi ai partigiani, una terza -lo zoccolo duro della formazione- decise di proseguire la lotta e si mise in marcia verso il passo di Pian delle Fugazze, nella speranza di aggregarsi ai tedeschi in ritirata e formare una nuova linea di resistenza in Trentino. Alle 18 del 29 aprile 1945 la colonna della Decima -200 militi del "Fulmine" e del "Sagittario" con 16 ausiliarie, e una decina di fascisti della Brigata nera "Capanni" di Forlì-, si presentò alla periferia di Schio. Lunghe e delicate furono le trattative tra i marò ed i partigiani, impegnati su due fronti perché contemporaneamente andava in scena in Municipio l’accordo con la colonna di paracadutisti tedeschi che avrebbe lasciato la cittàin serata. Al convoglio della Decima fu concesso il transito verso Torrebelvicino, sorvegliata a vista dai partigiani della Brigata "Martiri della Valleogra". A Torrebelvicino si chiuse l’avventura dei marò: bloccati all’inagibile ponte delle Asse, furono costretti a ritornare a Schio, dove al campo sportivo della Lanerossi cedettero le armi con la promessa di essere presi in consegna dagli americani. Così fu il 1° maggio. Iniziava la prigionia.
  23. EmaZ

    Decima!

    Il Giornale di Vicenza, 9 luglio 2002 Affiorati i ricordi degli ex Decima Mas che furono in zona nel ’45 «HO TEMUTO DI ESSERE IMPICCATO. INVECE MI LASCIARONO ANDARE» Sulle strade del Vicentino passarono anche 57 anni fa, quando la guerra era ormai agli sgoccioli, e i reparti della Decima Mas si sciolsero o furono presi prigionieri dalle truppe americane. Domenica erano in marcia per le vie di Schio, partecipanti alla manifestazione che ha riunito un buon numero di reduci di Salò. Rari i commenti sul raduno, ma nessuna remora nel rievocare, dal loro punto di vista, quei drammatici giorni. Franco Minelli, piacentino, all’epoca aspirante guardiamarina, apparteneva al Btg. "Sagittario" di stanza a Velo d’Astico. «Vi arrivammo a marzo, reduci dalla battaglia di Tarnovo della Selva contro i partigiani titini. A Velo non ci scontrammo mai con i partigiani, anche se loro ammazzarono qualcuno dei nostri in imboscate. Il 23 aprile giunse l’ordine di riunirsi a Thiene, dove sostammo fino al 29 dopo aver fatto tappa a Piovene. Nel frattempo c’erano stati accordi con i partigiani della Brigata "Argiuna", così alle tre del pomeriggio partimmo disarmati ma con un lasciapassare». «A Costabissara ci bloccarono i partigiani "giellini", comandati da un capitano medico degli alpini, ma dopo qualche giorno ci lasciarono liberi. I nostri nomi, però, erano stati dati ai carabinieri, che vennero a prelevarci a casa. Mi processarono, ma fui assolto». «Sui luoghi dove ero stato nel ‘45 sono tornato spesso, anche per lavoro. A Velo l’ultima volta sono stato cinque anni fa: cercavo alcune cose che avevo lasciato all’epoca, ma i carabinieri di Arsiero mi hanno detto di aver avuto ordine di bruciare tutto nel ‘63». Un altro reduce del "Fulmine", il monzese Luigi Farina, si trovò coinvolto negli stessi avvenimenti. Dopo il 29 aprile, però, rimase a Thiene, e solo per un caso fortuito non fu giustiziato. «Assieme a due ufficiali avevo trovato ospitalitàin una famiglia. Un giorno entrò in casa un partigiano e prese in consegna i due ufficiali. Stupidamente dissi che anch’io facevo parte della Decima, così fui messo in prigione e mi dissero che mi avrebbero impiccato». «Per caso venne fuori che da studente universitario, a Bergamo, avevo alloggiato in casa del capitano Rinaldo Tironi, il quale in Russia aveva salvato la vita al partigiano che mi accompagnava, un ex sergente alpino. Quest’ultimo volle in un certo senso ricambiare: mi aprì la porta e mi lasciò andare via».
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