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EmaZ

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  1. EmaZ

    Ri Ciao A Tutti

    Grazie dell'accoglienza !!!
  2. Beh dopo un peregrinare tra traslochi e cambio di pc ieri sera salta fuori da uno scatolone un libricino con le vecchie pass...e rieccomi sono tornato, come al solito leggerò molto e posterò pochissimo ma almeno ora potrò tornare a farlo da utente Ciaoooa tutti e ben trovati
  3. No è una foto che ho fatto dal molo di Monterosso al Mare in provincia di La Spezia..precisamente il monte si chiama punta Mesco.
  4. EmaZ

    Decima!

    Volentierissima...no so quando ma di sicuro il fischio lo te lo farò
  5. EmaZ

    Decima!

    Girovagando per internet ho trovato questa pagina sulla decima link decima E di rimando anche la pagina sul com.sub.in. link com.sub.in Spero vi possano interessare (p.s. un consiglio ... apriteli con explorer perchè su modzilla non mi si caricavan le pagine...può esser anche un problema del mio pc) (ho appena comprato il libro "Junio Valerio Borghese e la X°Flottiglia Mas appena lo finisco posto una mia recensione sul libro e qualche foto)
  6. Torno attivo nel sito dopo varie peripezie con il pc (sperando fare cosa gradita) portando questo link motti motti 2 Un ciao a tutti e a presto EmaZ
  7. EmaZ

    Decima!

    :s03: :s04: io ho il crest con il teschio diritto. (ovvero ti guarda negli occhi).....è un regalo e ci sono affezzionato.......
  8. EmaZ

    Decima!

    Mi scuso con tutti voi per la disattenzione .... ma alcuni articoli non ricordavo propio dove li avessi presi, dove ho potuto ho messo la provenienza. Con Fulmine ho chiarito tramite Mp.... per le richieste il link del sito gestito da fulmine è gia presente in uno dei primissimi post nella discussione "Decima" domani posterò altre notizie sulla decima cercando di stare più attento la prossima volta :s11: posterò i riferimenti adeguati.
  9. EmaZ

    Decima!

    Grazie troppo buoni.... ....a breve con altre notizie e foto sulla decima.... saluti a tutti EmaZ
  10. EmaZ

    Decima!

    Capire il passato per costruire il futuro di Vettor Maria Corsetti «Quanto ai fatti veri e propri svoltisi durante la guerra, ritenni di doverli narrare non secondo le informazioni del primo venuto né secondo il mio arbitrio, ma in base alle più precise ricerche possibili su ogni particolare, sia per ciò di cui ero stato testimone diretto, sia per quanto mi venisse riferito dagli altri. Faticose ricerche; perché i testimoni dei singoli fatti riferivano su cose identiche in maniera diversa, ognuno secondo le sue particolari simpatie e la sua memoria. E forse la mia storia, rimasta spoglia dell’elemento fantastico, accarezzeràmeno l’orecchio, ma basteràche la giudichino utile quanti vorranno sapere ciò che del passato è certo, e acquistare ancora preveggenza per il futuro» (Tucidide, La guerra del Peloponneso, I, 22). Il classicismo è d’obbligo, in quanto la citazione spiega meglio di altre lo spirito che anima L’Orizzonte e cosa si propone questa nuova iniziativa editoriale. Non una pubblicazione di stampo reducistico o l’ennesimo tentativo di lettura a senso unico - del resto, al di làdella testimonianza diretta la ricerca storica compete agli storici di professione, che devono analizzare i fatti del passato in piena libertàdi giudizio, lontani da chiusure e condizionamenti politici - né un recupero fuori tempo massimo di ideologie legate al secolo appena trascorso, bensì un serio momento di dibattito, volto principalmente a fare chiarezza e rendere giustizia a quegli uomini in uniforme che vissero una delle fasi più drammatiche dell’Italia post-unitaria: l’armistizio dell’8 settembre 1943 e il biennio di guerra civile. Questo nella convinzione che solo comprendendo pienamente quei fatti e spezzando la logica - prevalentemente marxista e radical-azionista - di una loro interpretazione canonica ci potremo lasciare alle spalle molte divisioni che da oltre cinquant’anni caratterizzano la vita del nostro Paese. Contrariamente a quanti «si immersero nelle acque di quella piscina miracolosa dentro cui si tuffano i lebbrosi per uscirne purificati», a pagare il conto della storia furono soprattutto quei volontari della RSI che si presero carico di colpe e responsabilitànazionali, ritenendo loro dovere combattere una guerra perduta in nome dell’onore. Molti scelsero la X Flottiglia MAS, non solo per il richiamo ideale costituito dai suoi gloriosi fatti d’arme, ma per i valori e per lo stile di vita che questa rappresentava. Altri italiani, che si trovavano al Sud, scelsero i ranghi del Regio Esercito, ma vennero presto e scientemente dimenticati perché non collocabili - come i partigiani trucidati a Porzus - nello scenario politically correct (per la cultura dominante) e sostanzialmente falso della «Repubblica nata dalla Resistenza». Questo giornale nacque a pochi mesi dalla conclusione del conflitto per volontàdella X Flottiglia MAS, con il proposito di gettare un ponte verso il dopoguerra e favorire la riconciliazione nazionale. Si volevano così evitare, o almeno contenere, gli effetti nefasti dell’armistizio di Cassibile, che - come ha ricordato un autorevole studioso - aveva segnato per molti «la morte della Patria». Rivede la luce oggi, in un contesto storico completamente diverso ma con la stessa volontàdi costruire il futuro e di portare un contributo dialettico anche ai più scottanti e attuali temi nazionali, nel rispetto del motto che apriva L’Orizzonte del 12 febbraio 1945: «Solo la libertàdelle nazioni può garantire quella dei cittadini».
  11. EmaZ

    Decima!

    Il baluardo di Tarnova di Marino Perissinotto Alla fine del 1944 il comando tedesco, privato della sua forza mobile costituita dalla divisione scuola da montagna e, nel contempo, preoccupato dal rafforzarsi della presenza jugoslava sopra Gorizia, grazie all’afflusso del IX Corpus della divisione partigiana italiana Garibaldi Natisone, intraprese un’azione offensiva, l’Adler Aktion, allo scopo di accerchiare ed eliminare le unitàslave degli altopiani della Bainsizza e di Tarnova. Oltre a truppe germaniche e ai reparti slavi filo-tedeschi, un ruolo di primo piano venne assegnato ai battaglioni italiani di fanteria di marina della X Flottiglia Mas Sagittario, Barbarigo, Lupo e Fulmine, appoggiati dai gruppi d’artiglieria San Giorgio e Alberto da Giussano e da aliquote dei battaglioni Nuotatori Paracadutisti, guastatori Valanga e genio Freccia. L’Adler Aktion ottenne un risultato solo parziale, e forse quello cui realmente miravano i suoi ideatori era volto più a colpire la X Flottiglia MAS che non gli jugoslavi. Quale seconda fase operativa, nel gennaio 1945, venne intrapresa dalle forze dell’Asse la creazione di presidi dentro il “santuario”. Uno di questi, il più interno e isolato, fu Tarnova, affidato ai marò della X MAS. Il paese era stato raggiunto e presidiato dal San Giorgio e dal Sagittario durante l’Adler Aktion, il 21 dicembre 1944. A gennaio la prima compagnia del Valanga sostituì il Sagittario e una batteria di obici da 75/13 del San Giorgio, per un totale di circa duecento uomini. Il 9 gennaio li sostituì il battaglione Fulmine (*). Nel frattempo il IX Corpus, responsabile di quel settore per l’Esercito popolare di liberazione jugoslavo, aveva deciso d’intraprendere un’operazione destinata ad annientare il presidio, circondandolo e assalendolo dopo avere sbarrato con sue unitàogni via d’accesso per possibili rinforzi. La diciannovesima brigata slovena di liberazione nazionale Srechko Kosovel, incaricata di attaccare Tarnova, fu per questo rinforzata da una compagnia d’assalto e da armi d’accompagnamento (quattro cannoni, due fucili anticarro, due mortai pesanti e tre lanciamine). Nel paese i marò avevano allestito, compatibilmente con le risorse disponibili e il clima assai rigido, delle opere difensive, costituite da dodici caposaldi, qualche barriera di filo spinato e mine antiuomo. La Kosovel, nel tardo pomeriggio del 18 gennaio, con una temperatura inferiore ai -10 gradi, lasciò le sue basi e a notte fonda giunse nei pressi di Tarnova. Alle 5.50 le sue armi aprirono il fuoco sulle postazioni italiane, mentre i suoi elementi di punta muovevano in avanti. La reazione dei marò, pronta e decisa, fermò il primo assalto. Le forze partigiane si lanciarono in un secondo attacco, che non ebbe miglior sorte del primo; anzi, il Fulmine riprese possesso di qualche posizione temporaneamente abbandonata. Alle 7.00, quando la prima luce consentì di regolare il tiro con precisione, i cannoni slavi aggiunsero i loro proiettili a quelli delle armi leggere. L’accresciuta potenza di fuoco permise agli assalitori di portarsi nuovamente in avanti, conseguendo i primi successi ed espugnando un bunker sul lato nord, quindi altri due. Gli italiani si ritirarono nelle case vicine, da dove continuarono il combattimento bloccando gli attaccanti. In questa fase dello scontro, la seconda compagnia subì la perdita di due ufficiali: alle 7.00 era stato ferito mortalmente il comandante guardiamarina Giovagnorio e, poco più tardi, cadde il guiardiamarina Arrigo Giombini. Alle 11.30, il nucleo di operatori radio del battaglione Freccia, distaccato presso il Fulmine, riuscì a mettersi in contatto con il comando di divisione a Gorizia e a informarlo della situazione, chiedendo soccorsi, mentre dalle postazioni partigiane continuava il tiro delle armi individuali, dei lanciarazzi e dei cannoni. Nel pomeriggio, anche il bunker n. 5 fu smantellato ed espugnato. Verso le 15.00, da parte italiana, si riscontrò un calo d’intensitànel fuoco nemico. I due cannoni automatici calibro 20 e uno dei pezzi da 47 jugoslavi s’erano guastati irreparabilmente, l’altro aveva ancora pochi colpi a disposizione. Con l’oscuritàcalò una fitta nebbia, poi iniziò a nevicare. Le forze partigiane sospesero gli attacchi, pur continuando l’accerchiamento dell’abitato, le azioni di disturbo e la sorveglianza d’ogni movimento degli assediati. Il Fulmine, nel primo giorno di battaglia, aveva avuto dodici morti (due ufficiali e dieci fra sottufficiali e marò) e venticinque feriti (due ufficiali e ventitré fra graduati e marò). La prima parte della notte trascorse fra un continuo lancio di razzi e segnali luminosi da parte slava. Nonostante queste misure di sicurezza, più tardi gli italiani contrattaccarono e respinsero dal bordo orientale del perimetro le punte avanzate degli assedianti, riprendendo possesso dei bunker 6 e 7. L’improvvisa azione del Fulmine scatenò alle 4.30 un contrattacco del primo battaglione Kosovel. Dopo due ore, alle 6.30 del 20 gennaio, il bunker n. 6 cadde nuovamente in mani partigiane e venne distrutto. Poco dopo, anche la postazione n. 7 venne smantellata e gli slavi riuscirono a impossessarsi anche delle case vicine. La breccia nelle linee esterne determinò l’inizio della crisi per gli italiani; più tardi, anche i bunker 3 e 4 furono presi dagli attaccanti. La loro perdita costrinse i marò ad arretrare la linea difensiva settentrionale sino all’abitato. Da parte slava si giudicò prossimo il tracollo dei difensori e si decise di compiere lo sforzo finale. Il terzo battaglione, di riserva nel bosco a nord-ovest di Tarnova, ricevette l’ordine di avanzare, ma la sua azione fu fermata dal tiro dei difensori. Giunse così il pomeriggio del 20 gennaio. Il comando partigiano prese la decisione d’investire massicciamente tutto il perimetro facendo intervenire anche il secondo battaglione, che al crepuscolo riuscì a catturare la postazione n. 11, arrestandosi per il fuoco rabbioso dei Volontari di Francia proveniente dalle case a sud dell’abitato. Calata la sera, il primo battaglione andò in supporto al secondo e attaccò a est, sul fianco sinistro, il settore della terza compagnia. Riuscì a conquistare i bunker 8 e 9, i cui difensori si rinserrarono nell’osteria del paese. Il comandante Bini, a questo punto, si trovò costretto a una decisione. Il mancato arrivo dei rinforzi, l’esaurirsi delle munizioni, il progressivo avanzare degli slavi, la disgregazione delle linee difensive e, infine, l’autorizzazione a ritirarsi, preventivamente trasmessa dal comando di divisione, lo convinsero a ordinare l’abbandono del paese per salvare i superstiti del battaglione. La manovra comportava un prezzo assai alto: l’abbandono dei feriti gravi. Quanti erano ancora incolumi e i feriti in grado di camminare, lasciando le loro postazioni, si sarebbero concentrati presso il comando di battaglione e la colonna, così formata, avrebbe cercato di rompere l’assedio, dirigendosi verso Gorizia. Alle ore 20.00 cominciò a venire diramato l’ordine di rendere inutilizzabili le armi pesanti e di concentrarsi entro le 24.00 al comando di battaglione. Alcune postazioni ricevettero la disposizione solo attorno alle 23.30. Ad altre non pervenne. Il combattimento si concentrò nella parte meridionale dell’abitato, dove resistevano due bunker e alcune case. Gli italiani, asserragliati nelle abitazioni, esaurite le munizioni e le bombe a mano, usavano dell’esplosivo per improvvisare ordigni con cui contenere la pressione nemica. Di quando in quando il fuoco cessava e arrivavano degli inviti alla resa. Il secondo battaglione jugoslavo espugnò il bunker n. 12 e, verso mezzanotte, cadde l’ultima postazione protetta, la n. 10. Resistevano quattro caposaldi: uno era il comando di battaglione, dov’era concentrato il grosso dei superstiti. Alle 2.30 del 21 gennaio la colonna del Fulmine mosse verso ovest. Per aprirsi la strada verso sud-ovest i marò dovettero annientare a colpi di bombe a mano (sei Balilla italiane legate attorno a una M24 tedesca) uno dei bunker in cui s’erano insediati dei partigiani con una mitragliatrice Mg 42. Il compito venne assolto dagli uomini della terza compagnia. Un gruppo in ritirata, al comando del tenente di corvetta Stefano Balassa, venne individuato e posto sotto tiro. Costretti a ripiegare, i marò si asserragliarono in una casa. Vicini a loro, chiusi in un’altra abitazione, alcuni superstiti agli ordini del guardiamarina Minervini, giàcircondati e isolati quando era stato impartito l’ordine di ripiegamento, resistevano a oltranza. I reparti partigiani si resero conto di essere padroni di quanto rimaneva di Tarnova. Posti dei reparti attorno agli ultimi nuclei di italiani, gli uomini della Kossovel cominciarono il saccheggio. Entrati nell’infermeria, presero ad ammazzare i feriti; solo qualcuno si salvò, perché riuscì a nascondersi o venne creduto morto. Gli slavi uccisero anche alcuni abitanti del paese e incendiarono delle case. Fra gli italiani, al precipitare degli eventi, non erano mancati i casi di suicidio per evitare di cadere vivi in mani nemiche: fu il caso del guardiamarina Roberto Valbusa della terza compagnia. Il mattino successivo, la colonna del Fulmine in ritirata prese contatto con reparti tedeschi e, poco dopo, un autocarro del comando di divisione li raccolse e li riportò a Gorizia. Quasi contemporaneamente, una colonna germanica proveniente da Sanbasso raggiunse Tarnova, provocando il ripiegamento delle forze slave. I capisaldi dei guardiamarina Minervini e Balassa avevano combattuto tutta la notte senza arrendersi e stavano ancora resistendo. La battaglia di Tarnova finì così. Il Fulmine ebbe ottantasei morti e cinquantasei feriti, la Kosovel dichiarò trentatré morti e settantuno feriti. A solo commento, riportiamo le parole dello storico partigiano Stanko Petelin: “Si è in genere dell’opinione che gli italiani come soldati fossero meno validi dei tedeschi. In questo caso ciò non corrisponde al vero. In quei due giorni di combattimento i fascisti italiani a Trnovo (Tarnova della Selva) mostrarono una forte tenacia”. (*) Il battaglione Fulmine si articolava su: - compagnia comando; - prima compagnia, su tre plotoni fucilieri; oltre alle armi individuali erano in dotazione fucili mitragliatori Breda 30, quattro mitragliatrici Breda 37 e quattro mortai Brixia da 45 mm.; - seconda compagnia, su tre plotoni; oltre alle armi individuali erano in dotazione due fucili mitragliatori Breda 30, mitragliatrici Breda 37, due fucili anticarro Solothurn da 20 mm., quattro mortai Brixia da 45 mm. e tre mortai Cemsa da 81 mm.; - terza compagnia Volontari di Francia, formata da volontari figli di italiani emigrati oltralpe; fucili mitragliatori Breda 30, mitragliatrici Breda 37 e mortai Brixia da 45 mm. Comandante ad interim era il tenente di vascello Eleo Bini, essendo il comandante effettivo Giuseppe Orrù ricoverato in ospedale per ferite riportate in combattimento. L’etàdei volontari era mediamente inferiore ai vent’anni, ma non mancavano dei veterani. L’armamento individuale era composto principalmente da mitra Beretta Mab 38, da fucili 91 e da pistole Beretta mod. 34. Non tutte le armi d’accompagnamento in dotazione al battaglione vennero portate a Tarnova, dove la forza delle compagnie era la seguente: - prima compagnia: settantuno uomini; - seconda compagnia: sessantuno uomini; - terza compagnia: ottantadue uomini. In totale, duecentoquattordici uomini.
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    Decima!

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    Decima!

    Gorizia non dimentica di Luigi Coana Una delle soddisfazioni più grandi che mi ha offerto l’impegno amministrativo nell’ambito di un’ormai trentennale militanza politica, prima dai banchi del Consiglio comunale, oggi in qualitàdi assessore del Comune di Gorizia, è stata quella di potere ricevere con tutti gli onori in Municipio i reduci della X Flottiglia MAS e del battaglione bersaglieri Benito Mussolini. In più occasioni, qualche volta con il sindaco Valenti, altre volte con il vicesindaco Noselli, sempre con la gioia di rendere omaggio, a nome della città, ai combattenti dell’onore, a quanti si sacrificarono in queste terre tormentate del confine orientale, per difendere a spada tratta l’italianitàdi Gorizia contro l’avanzata delle orde titine. Ricorreva quest’anno, a gennaio, il cinquantaseiesimo anniversario della battaglia di Tarnova e la vasta partecipazione di popolo ai vari momenti celebrativi è valsa a testimoniare che quei valori nazionali e patriottici, quegli ideali e quella fede che portarono tanti giovani di allora a combattere e a immolarsi per l’Italia, non sono morti, ma sopravvivono come monito ed esempio per le nuove generazioni. E anche la politica, che troppo spesso rischia di affogare nel grigiore del tecnicismo amministrativo, se non addirittura nel carrierismo o nell’interesse egoistico di parte, può trarre linfa vitale da queste celebrazioni e diventare propositiva nella sua trasmissione di valori. Ecco allora che, in questo spirito, corroborata dall’amore per gli ideali più sacri, anche la politica può avere un’anima capace di innalzarla dalla china del materialismo, per la costruzione di una societàmigliore e più giusta.
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    Decima!

    Uno del Barbarigo di Gastone Manzoni Allievo nocchiero In tempo di guerra si facevano due corsi allievi nocchieri all’anno; ciascun corso prevedeva sei mesi a terra e sei a bordo. Io partecipai a quello svoltosi fra il 1942 e il 1943 a La Spezia. Si trattava di un corso supplementare, che in circostanze normali si sarebbe tenuto a Pola. Mentre per i miei compagni, alla fine del primo semestre, iniziò il periodo d’imbarco, io fui trattenuto quale istruttore. Ero molto bravo nel far marciare gli allievi persino in fila per dodici, avendo avuto precedenti quale primo cadetto degli avanguardisti marinari della Gioventù italiana del Littorio. L’otto settembre 1943 ero capocorso. Alla notizia dell’armistizio tutti, me compreso, scappammo dalla scuola. Mi fermai a La Spezia, ospite di una famiglia. Dopo qualche tempo seppi della X Flottiglia Mas e mi presentai a Muggiano verso il 15 settembre. In quel momento c’erano solamente gli ufficiali della vecchia Decima e credo di poter essere annoverato fra i primi cinquanta o sessanta volontari. Con la Decima Mancava tutto. Fui invitato a ripresentarmi e preso ufficialmente in forza il 23 ottobre 1943; quella, infatti, è la data di arruolamento che risulta dal mio tesserino. Ricordo quel giorno poiché fummo trasferiti da Muggiano a San Bartolomeo. Quindi fui mandato in licenza il 17 o il 18 dicembre, dopo aver partecipato alla ricerca di bettoline dell’ex Regia Marina nelle varie rade e insenature del golfo di La Spezia, allo scopo di recuperare il materiale che si trovava a bordo. Il mio treno giunse a Padova subito dopo la prima incursione aerea sulla città. Rimasti ad aspettare per un’ora e mezza nei vagoni fuori della stazione, vi entrammo giusto in tempo per essere bombardati. Dopo aver aiutato i miei a sfollare, rientrai a La Spezia. Il problema delle divise continuò per altre due o tre settimane. Poi ricevemmo i capi dell’uniforme, ma non il cappotto. Di quei primi giorni ricordo un episodio. Mentre i Nuotatori Paracadutisti montavano la guardia, un sottufficiale tedesco entrò senza salutare la nostra bandiera. Fu subito preso e buttato in mare. I marò iniziarono a sfotterlo e ogni volta che tentava di risalire, coi piedi gli spingevano la testa sott’acqua. Dapprima avevo chiesto di entrare nei reparti navali, ma non c’erano più posti disponibili. Allora feci domanda per i Nuotatori Paracadutisti e fui accettato, ma quando seppi che bisognava seguire un corso a Jesolo, avendone giàabbastanza di scuole e lezioni, preferii passare al Maestrale. Come me fecero molti altri. Qui fui assegnato in un primo tempo alla seconda o alla terza compagnia. Però, mancando un sottocapo alla quarta, vi fui trasferito mio malgrado. La ribellione dei marò Pochi giorni prima di andare in licenza fui testimone della vicenda Bedeschi e Tortora, i due ufficiali incaricati di assumere il comando della X Flottiglia Mas. Un’imposizione sgradita a tutti. Era domenica, ricordo la messa al campo alla presenza degli Np, del Maestrale e di parte del Lupo. C’era aria di sollevazione, anche perché l’assenza di Borghese non contribuiva a chiarire le cose. Penso sia stato un “complotto” di Bardelli, Buttazzoni, Lenzi e qualche altro. Durante la funzione religiosa, l’ufficiale di giornata si avvicinò al nuovo comandante e gli sussurrò alcune parole all’orecchio; più tardi seppi che si trattava di una chiamata telefonica. Da quello che mi dissero, come arrivò in ufficio, si trovò un mitra puntato alla schiena. Fu arrestato, e stessa sorte subì il comandante in seconda. I due furono consegnati alla Guardia nazionale repubblicana come “spie del nemico”. Accortosi della beffa e dopo le proteste degli interessati, Renato Ricci cercò Borghese e lo invitò a spiegarsi con Mussolini. Non so se il colloquio avvenne o meno, so solo che Borghese fu arrestato e chiuso in carcere a Brescia. La notizia si sparse rapidamente. I marò chiedevano a gran voce di entrare in azione e tra gli ufficiali qualcuno propose esplicitamente di marciare su Salò per liberare il comandante. Eravamo tutti pronti quando il comandante Grossi, precipitatosi a San Bartolomeo, promise la liberazione di Borghese, impegno mantenuto il giorno successivo. Poi fu un via vai di alti ufficiali della Marina e della Gnr. Si aprì un’inchiesta, con la consegna dei nostri ufficiali e minacce di processo e decimazione. Tutto finì in una bolla di sapone, ma sapemmo che il Maestrale sarebbe stato “punito” con l’invio al fronte, cosa che ci fece molto piacere, perché non volevamo altro. Non so per quale ragione, non furono presi provvedimenti per i Nuotatori Paracadutisti. Il giuramento e il primo impiego Dopo qualche giorno fu consegnata al battaglione la bandiera di combattimento. Da quel che ricordo il giuramento avvenne l’undici gennaio. In tale occasione il Maestrale sfilò fra due ali di gente silenziosa e incredula di vedere ancora soldati italiani; penso sia stata la prima cerimonia pubblica della Decima. Portavamo ancora le stellette e marciammo per tre. Nel corso della manifestazione la banda della Marina, in uniforme nera, suonò per tutto il tempo solamente Le palle di Noè. Questa musica fu suonata anche in occasione della visita a San Bartolomeo del maresciallo Rodolfo Graziani; stavolta però la banda era vestita come noi in grigioverde. Accadde a metàmese, e non eravamo tutti in divisa. Mi ricordo anche di un pattugliamento a Sarzana, dove avevano stati informati della presenza di armi in una casa. Le trovammo, ma di persone neanche l’ombra. Penso che nell’azione siano state impegnate due compagnie. Durante il ritorno uno dei nostri mise un piede in fallo e cadde in una specie di burrone. Riusciti a raggiungerlo dopo qualche ora, non potemmo far altro che constatarne il decesso. Fu vegliato in una piccola casetta vicino alla sala mensa. La quarta compagnia non andò a Cuneo ma rimase a La Spezia per continuare l’addestramento. I Mab li avevamo giàda ottobre. Oltre ai mitra potevamo contare su pugnali di varia foggia e pistole di vario tipo. Io stesso portavo una vecchia pistola d’ordinanza dei Carabinieri infilata nel cinturone e dopo l’otto febbraio 1944 - data del secondo bombardamento di Padova - giunsi a casa così armato. Non era regolare, ma nel tratto La Spezia-Padova c’era stato un attentato, con l’uccisione di diversi marò che furono poi ritrovati nudi nella scarpata. Ci fu consigliato di prendere la linea Genova-Milano-Venezia, più lunga ma maggiormente sicura. Al mio ritorno in caserma appresi che il battaglione non si chiamava più Maestrale ma Barbarigo. L’invio al fronte Il 18 o il 19 febbraio ci fu una sfilata per salutare la nostra partenza. Il giorno 20 ebbi l’incarico di fermarmi a San Bartolomeo con un ufficiale per raccogliere quanti rientravano da permessi o licenze, non essendo stato comunicato ad alcuno l’invio in zona operazioni. Il nostro viaggio per Roma fu fatto in pullman, sul tragitto La Spezia, Viareggio, Orvieto, Roma. Andò a buon fine, anche se molto periglioso. Non mancò un attentato; una mina fu gettata sul tram che collegava La Spezia a San Bartolomeo. Morirono una donna e una bambina, e numerosi marò rimasero feriti. Durante il trasferimento incontrai un mio commilitone della Gil, Sergio Ginnasi, proveniente da Jesolo e in forza al battaglione Lupo. Lui mi chiese ripetutamente di venire al fronte con noi; lo persuasi che, se gli fosse capitato qualcosa, avrei dovuto cambiare cittàper il rancore della madre, che giàmi attribuiva la responsabilitàdi averlo fatto arruolare. Partimmo e non lo rividi più: morì il 4 dicembre 1944, sul Po, in un incidente forse causato dai partigiani. Arrivato a Roma feci in tempo a partecipare a una scaramuccia con la Pai, che si risolse con il dono di un pugnale di foggia africana in segno di pacificazione. Alcuni nostri commilitoni in libera uscita, forse per un ritardo sul coprifuoco, erano stati malmenati da una loro pattuglia. Per ritorsione, un paio di compagnie di marò entrarono nella caserma della Pai e gettarono un po’ di cose per aria. Solo l’opera di pacificazione dei nostri ufficiali fece sì che l’incidente non degenerasse in qualcosa di più grave. Finalmente la partenza per il fronte, dopo una serie di cerimonie e riviste alle quali non partecipai, perché alle parate preferivo i musei e i monumenti della capitale. Fummo divisi in scaglioni, a bordo di camionette tedesche. Credo di essermi mosso la mattina. Un mitragliamento aereo ci costrinse a un tuffo in un fossato e per la prima volta sporcai la mia sino ad allora linda e unica divisa. Appena fuori Roma fummo investiti da una pioggia violenta. In primalinea A Sermoneta trovammo alloggio in una chiesa abbandonata e poi in una scuola. Il 3 marzo raggiungemmo a piedi il lago di Fogliano, dove la quarta compagnia si allineò fra il lago e la Strada lunga. Io fui assegnato a una buca con il marò Natola. Dalla mia postazione si vedeva il bosco sulla destra del lago, l’albergo e una casa che molti dicevano essere appartenuta a un gerarca. Dall’albergo furono prelevati dei piatti e le porte, che usammo come fondo per le buche. I bombardamenti erano costanti. In quel periodo feci tre o quattro servizi di pattuglia nella terra di nessuno. Mancava ancora l’artiglieria, che arrivò successivamente, credo alla fine del mese. Una notte di aprile, grazie ai barattoli appesi al filo spinato, sentimmo avvicinarsi un reparto nemico. Iniziammo subito a sparare e lo stesso fecero loro. Spararono anche dalle postazioni laterali. Il mattino successivo non trovammo corpi ma tracce di sangue e dell’equipaggiamento. Ogni notte qualcuno apriva il fuoco. Di norma, quando si sentiva sparare, sparavamo anche noi. Io avevo una buca a sinistra, più alta e con un nido di mitragliatrici, a portata di voce. Quella sulla destra, con tre persone, non l’ho mai vista. Ho visto pochissimo anche i miei superiori. Di giorno non potevamo uscire neanche per i bisogni corporali, perché ci davano la caccia con i mortai o ci mitragliavano. Non molto lontano dalla mia postazione, a un crocevia, c’erano dei tedeschi con un ottantotto, che spesso mi invitavano a cena. Per la scarsitàdi razioni avevamo una fame del diavolo: il nostro riso si attaccava al mestolo da quanto era colloso, procurandoci fortissimi dolori di stomaco. In un’occasione riuscimmo a catturare un puledro, la cui carne fu cotta alla brace ed equamente divisa. Non ci curammo del fumo, che in primalinea poteva causare guai seri. Il cambio non fu dato sul posto; abbandonammo le buche squadra per squadra, senza vedere i rimpiazzi. Dopo una notte di marcia, fummo alloggiati per una decina di giorni a Sezze, nella casa ferroviaria della sottostazione. Ci aspettava un addestramento massacrante con panzerfaust, Mg 42 e bombe a mano. In quel periodo subimmo un cannoneggiamento da parte di navi nemiche; le esplosioni facevano fare ai carri merci abbandonati nella sottostazione dei gran movimenti a destra e a sinistra, mentre noi trovavamo rifugio nei campi vicini. Intermezzo simpatico fu una partita di calcio fra la prima e la quarta squadra. Avemmo anche uno stato d’allarme per la caduta degli avamposti Dora, Frida ed Erma, ma tutto finì bene. Da Sezze rientrai con un nuovo compagno di buca. Si trattava di Russo Gaio, figlio del direttore dei Telefoni di Stato, di origine romana e padovano di adozione. Tornati in linea, sostituimmo la seconda compagnia. La mia nuova postazione sulla destra della Strada lunga, verso i monti e sotto il ciglio della strada, era formata da un’apertura con uno spazio di due metri per due e da una buca sotto la strada, che usavamo solo per dormire durante il giorno. Di notte andavamo trecento metri più avanti, in una postazione prossima al Gorgolicinio, che si allungava verso Terracina in un fitto boschetto. Il canale Mussolini distava tre o quattrocento metri. Una notte un aereo cadde duecento metri dietro la buca diurna. Scomparso nel terreno fangoso, emergevano solamente le pale dell’elica. Sempre nelle ore notturne subimmo un attacco ravvicinato ma privo di conseguenze: aperto il fuoco, il nemico rispose e poi rientrò nelle sue linee. Da allora sentimmo un tremendo puzzo di cadavere, ma non era consigliabile esporsi. Solo dopo un certo periodo e con grande sforzo imparai a non vomitare quanto avevo mangiato. Un giorno decisi di sgranchirmi le gambe e mi offrii per il rancio. Mentre stavo prendendo il pane, un colpo di mortaio raggiunse la casa dove era in corso la distribuzione viveri. Ci furono diversi morti e per due giorni fummo costretti a digiunare. Ogni notte il nostro lato destro era oggetto di attacchi e ci piovevano addosso i tiri di copertura americani. Avemmo poi la sfortuna di ospitare un gruppo di cannoni autotrasportati, penso tedeschi, che spararono un centinaio di colpi e se ne andarono poche ore dopo. A durare a lungo furono le conseguenze, ossia un infernale fuoco nemico. Una missione umanitaria Durante la partita di Sezze Romano il comandante Bardelli si era seduto vicino a me, chiedendo informazioni sul mio passato e sulla mia famiglia. Più tardi si sarebbe ricordato di quel colloquio, affidandomi una missione che oggi si definirebbe umanitaria. Non lontano, verso la terra di nessuno, c’era un vecchio mulino con i sacchi di grano dell’ultimo raccolto. I civili erano ridotti allo stremo, ma non si fidavano di andarli a prendere e un cittadino di Littoria - non so se funzionario comunale o concessionario automobilistico - comunicò la cosa a Bardelli, che mi incaricò del recupero. Impiegammo tutto il giorno e parte della notte a portare questi sacchi nelle linee, che poi furono divisi tra Littoria e Norma, con grandi festeggiamenti da parte della popolazione. Scortammo il carico armati di tutto punto e facendo attenzione ai “malpensanti”, in parte tedeschi. Il viaggio andò bene e non fummo molestati. 24 maggio 1944 Gia da tre o quattro giorni si sentiva un movimento di carri armati. I mitragliamenti aerei e i cannoneggiamenti erano aumentati. Un pomeriggio un sottufficiale mi comunicò l’ordine di radunare gli uomini presso la mia buca e di tenere le posizione fino a mezzanotte. Così fu, e tutti ci si chiedeva cosa fare, se minare o mettere bombe a mano con lo spago. Mi venne l'idea del cartellone: in un foglio di carta scrissi in grande le parole “Ciao nemico”. Piantai tutto su una tavola, che innalzai sulla mia buca. All’ora prevista iniziò il ripiegamento; eravamo dodici o tredici persone, alcune delle quali mi erano sconosciute. Uno di loro aveva fatto la ritirata di Russia e gli proposi di unire le forze per tenere unita la squadra, mettendoci in testa e in coda alla colonna. Marciammo tutta la notte in fianco a Littoria e per la Via Appia all’altezza della sottostazione e dell’aeroporto. Verso l’alba, in una casa colonica, vedemmo un gruppetto di marò del Barbarigo che consumavano polenta e formaggio. Ci fermammo anche noi. Dopo qualche ora di riposo ci incamminammo verso Norma, punto di ritrovo della quarta compagnia. In una chiesa distante dalla strada trenta o quaranta metri c’era un ospedale da campo, da cui vidi uscire un sottufficiale con due secchi pieni di gambe e braccia amputate. Egli ci guardò. Sostavamo poco lontano, ed io mi ero liberato di tutto il superfluo che avevo nello zaino. A un certo punto sentimmo delle cannonate e ritornammo indietro di corsa per circa un chilometro. Erano le prime luci dell’alba e la visibilitàera buona. Improvvisamente vedemmo due Sherman e molti marò caduti attorno a una casa. Eravamo a 100-150 metri dai carri e tentammo un lancio con i panzerfaust. Non so se i colpi andarono a vuoto o danneggiarono un cingolo. I carri armati girarono le torrette e cominciarono a fare fuoco su di noi. Fummo investiti da una pioggia di fuoco e io, colpito alla testa e a una mano, persi conoscenza. Non posso dire quante persone morirono e quanti furono i feriti. Privo di conoscenza, non seppi mai come ero arrivato a Norma. Perché decumano Fin qui le mie vicende a Nettuno. Ma manca ancora qualcosa: il perché. Perché dopo l’armistizio non tornai a casa o non mi rifugiai in montagna? Perché non tenni fede al giuramento fatto al re? Ero stato un membro della Gioventù italiana del Littorio, un’organizzazione che mi aveva dato grandi soddisfazioni. Ma dopo il 25 luglio la mia fede nei fascisti, se non in Mussolini, era svanita. Tutto si era sciolto come neve al sole, tutti avevano rinnegato il loro passato e il loro capo. Per questo, più tardi, non volli aderire a una delle tante formazioni armate politiche, composte perlopiù da vecchi squadristi e da giovinetti imberbi. Con l’otto settembre crollò anche la mia fede nella monarchia. Fuggirono tutti, a cominciare da generali e ammiragli, e il comportamento del sovrano invalidò il mio giuramento. Di andare in montagna, in quei giorni, non parlava nessuno; chi era scappato, cercava solo di raggiungere casa. Io avevo perso la speranza di una vita in uniforme, ma non me la sentivo di chiudere così la mia esperienza militare. Inoltre non sopportavo che fossimo considerati dei traditori; non ero un traditore e non volevo comportarmi come tale. La prima cosa che mi colpì nella X Flottiglia Mas furono le stellette al bavero degli ufficiali. Quest’unico reparto che continuava a tenere alta la bandiera italiana attirò me e un numero crescente di persone. Perché la mia Patria era tutta in quella bandiera che ancora sventolava e nella figura veramente grande del mio comandante, il principe Junio Valerio Borghese. (Testimonianza raccolta da Marino Perissinotto)
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