Ci eravamo lasciati, con l’impegno di raccontare l’antefatto, a Napoli, dove il Nichelio era arrivato, proveniente da Cagliari, per riparare i danni subiti in un attacco aereo. Ecco il racconto.
“La sera del 17 gennaio del ’43, alle ore 19,30, non è il tonfo di partenza dei nostri siluri a rimescolarci il sangue nelle vene, ma è l’attacco improvviso, impari e ravvicinato del nemico, che ce lo fa ghiacciare per un momento. Un apparecchio ci attese al varco. Appena emersi, ci riversò addosso un carico di bombe e ripassò ancora facendo altrettanto. Il battello, quasi fosse un essere vivente, sussultò. Caso volle che le bombe scoppiassero un po’ qua e un po’ là sull’acqua. Una, però, si conficcò nell’ intercapedine di prua. Per fortuna, il dispositivo di scoppio non aveva funzionato e fu la nostra salvezza. L’unica arma disponibile era una mitragliera binata da 13,2 ed è estremamente difficile, con mare mosso, centrare l’obiettivo. La reazione di fuoco fu comunque immediata e tanto precisa da indurre l’aereo ad allontanarsi con una scia di fumo, anche se nessuno lo vide perdere quota e precipitare in mare.
Quando caddero le prime bombe, io avevo appena messo in moto il compressore di prora per il caricamento dei gruppi d’aria. In simili circostanze, chiuse le porte stagne, tutti debbono rimanere all’erta al proprio posto, pronti ad eseguire con rapidità le manovre che si rendessero necessarie. L’equipaggio, in quegli attimi tremendi, mantenne una calma ammirevole. Portatici in immersione, cercammo di riparare le avarie prodotte dalle esplosioni. Dall’asse del verricello di prua entrava acqua in grande quantità e con una violenza incredibile. Cosa fare? Mettemmo in atto la prima ispirazione che ci venne: infilammo sotto l’incavo un manico di scopa, che forzammo con una pila di cassette e di altro materiale a portata di mano. L’acqua a poco a poco cessò di fluire, grazie alla proprietà di dilatazione del legno all’azione dell’umidità. Molte valvole a scafo ebbero bisogno del pronto e paziente lavoro dei meccanici. Però nulla si poté fare ai timoni di profondità di prora, che erano rimasti bloccati. Il danno maggiore sembrava consistere nella rottura dei cavi idrofonici. Il battello era diventato “sordo” e l’unica cosa che si potesse fare era quella di ritornare alla nostra base. Nell’effettuare le riparazioni, sentimmo su di noi, nell’intercapedine, degli schianti ed un rotolio misterioso. Lì per lì non demmo alla cosa tanta importanza, credendo che dipendesse dalla rottura di sovrastrutture e di assi della coperta. Siccome quel rotolare persisteva ad ogni sbandamento del battello, il Comandante chiese se per caso non fosse un bidone di grasso per siluri, a cui si erano spezzate le fasce di fissaggio. Al mio no, in quanto tutti i bidoni erano stati collocati sotto i paglioli prima della partenza, volle vederci chiaro ed ordinò l’emersione. A quota periscopica esplorò l’orizzonte, che risultò libero. Emersi completamente ed aperto il portello della torretta, dette un’occhiata a prora: la coperta era sfasciata in diversi punti. Scese per rendersi conto dell’accaduto: alcune parti metalliche presentavano rotture e contorcimenti; al posto del battellino giaceva un cilindro grigio, una bomba di discrete dimensioni.
Solo allora potemmo valutare appieno, con intuibile raccapriccio, il pericolo corso sia in superficie che durante l’immersione.Tutti fummo d’accordo nel riconoscere che una mano potente, come aveva fatto tante altre volte, era intervenuta per la nostra salvezza. Purtroppo i danni da noi subiti erano tali da obbligarci ad interrompere la missione: sovrastrutture divelte e contorte, diverse vie d’acqua a scafo, timoni orizzontali prodieri bloccati, idrofoni inservibili. Ma non bastava: non potevamo nemmeno navigare in immersione per tema che la bomba, rimasta inesplosa nell’intercapedine di prua, potesse scoppiare con tutte le conseguenze del caso. Cosa fare? Con gli idrofoni in tale stato e con quell’aggeggio indesiderato, mettemmo la prora verso Cagliari, navigando a tutta forza in superficie. Eravamo ancora molto lontani e non ci restava che affidarci al destino. Nelle vicinanze del porto, poi, l’esplorazione con i binocoli si fece ancora più attenta per eludere eventuali offese subacquee di un sommergibile inglese, che pare stesse operando nei pressi di detta zona.
Per fortuna, non incontrammo ostacoli di sorta e giungemmo sani e salvi in porto, dove però non ci permisero di attraccarci alla banchina. Fummo trasportati a terra con una motobarca ed uno specialista salì a bordo per togliere la spoletta a quell’ordigno, che, grazie a Dio, aveva subito un’avaria per noi davvero provvidenziale.
Disattivata e sbarcata finalmente la bomba, ci sentimmo rilassare i nervi, fino allora tesi al massimo, ed il nostro primo pensiero andò riconoscente alla Madonna della Mercede, che i cagliaritani venerano in un Santuario, sulla collina di Bonara, quale patrona dei navigatori. Rese provvisoriamente funzionanti le valvole a scafo, asportate le parti danneggiate e mobili delle sovrastrutture e riattivati alla meglio i timoni e gli idrofoni, ci rechiamo a Napoli per le necessarie riparazioni.”
Questo episodio, che venne minutamente descritto, con l’omissione doverosa di ogni elemento che valesse ad identificare il battello e le persone dei protagonisti, in una famosa corrispondenza di guerra dal giornalista e scrittore Dino Buzzati, era quasi sempre il preferito nelle occasioni in cui mio Padre rompeva l’abituale silenzio e si metteva a rievocare le vicende della guerra. In effetti lasciava tutti a bocca aperta la narrazione della bomba che, per tutta la navigazione di rientro, rotolava da un lato all’altro nell’intercapedine tra i due scafi, poco più di un metro sopra la testa di chi era in camera di lancio, con un rumore continuo e con il rischio che potesse scoppiare da un momento all’altro.
Il destino volle salvare quegli uomini ed anche quel sommergibile, che sopravvisse alla guerra per subire, poi, quella che mio Padre ha sempre ritenuto una sorte indegna.
Nelle fotografie che seguono (mi scuso per la qualità dell'immagine) si vedono il pagliolato fracassato e divelto a prora e alcuni membri dell'equipaggio in posa attorno alla mitragliera utilizzata per rispondere al fuoco. Mio Padre, nella prima fotografia, è il primo a sinistra, accucciato, in tuta bianca.
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