Dopo il saluto di rito a chi, anche dopo quaranta e più anni e molti centimetri di giro vita in più, resta di grado superiore, lo Scuderi – preso da estatica possessione – mi fornisce su precario quadratino di carta le indicazione per arrivare a “Storia di una vespaâ€. Tace del “di mare†ma mi assicura che non ritratta di “storie di piluâ€.
Nessuna altra indicazione fornisce e così, non appena rientrato in studio, arrivo in quello che mi sembra certamente un posto di “fuori di testaâ€.
Mi incuriosisce il titolo completo. Inizio la lettura e, rigo dopo rigo, mi trovo a combattere con un fiume di emozioni e ricordi che mi sommerge. Mi toglie il respiro come una di quelle onde che riuscivano a mandarti sotto.
Ad una ad una tornano le immagini di quel racconto che non mi aveva certo visto protagonista ma testimone. Ricordi ed immagini che, semplicemente, non sapevo di ricordare.
Fino a qualche sera fa avevo raccontato ad un gruppo di amici, forse per l’ennesima volta, di come aveva preso l’ernia del disco su una barca di un gruppo di pazzi che si facevano le vele con le lenzuola rubate al corredo delle sorelle. La boa che dovevo afferrare al volo come mi era stato ordinato, la botta sulla schiena e poi nulla di quel periodo. Non tanto per l’evento clinico, ma per vantarmi di essere stato sul beccaccino che armarono in seguito.
Improvvisamente, invece, viene fuori tutto. Cosa strana, anche il viso della cugina che realizzò le vele.
Facevo l’istituto tecnico ma frequentavo quel gruppo di liceali di due-tre anni più grandi di me. Mi accettavano alla pari ed a me piaceva seguire i loro discorsi ed i loro progetti che, non raramente, sfioravano la completa idiozia. Ma ci credevano profondamente e ti coinvolgevano
Quello della lancia, invece, si concretizzo ed iniziò un periodo di spasmodica discussione. Scartata l’ipotesi di poter partecipare all’acquisto per carenza cronica di finanze, seguivo i dibattiti che si protraevano per ore anche sul corretto senso da seguire nell’applicare lo stucco.
Non mi era consentito fare tardi la sera come loro, i grandi. Non partecipai ai lavori e quindi non mi fu consentito partecipare al varo, ma l’immagine del futuro cannoniere che roteando il polso con l’indice ben teso, simulava il movimento dell’asse dell’elica e sosteneva la sua tesi sulla possibilità di farcela senza troppe staffe, mi è tornata nitida così come una muta richiesta di sostegno ad una tesi che – da tecnico – dovevo per forza condividere.
Il boma, poi, mi sembrava assolutamente ridicolo. Un naso finto su una bella faccia, ma mi guardai bene dal dirlo. Oggi con gli occhi della loro immensa passione, sembra bellissimo.
Alla fine toccò anche a me l’uscita con la lancia. Stavano sornioni, i due comandati.
Capii che toccava a me dare il primo colpo di pedale. Il cenno di intesa che si scambiarono mi fece capire che il malleolo sbucciato era il prezzo della iniziazione ma mi valse la nomina a “mozzo†in prova a qualcosa del genere..
Ricordo che il mare – forse incazzato per la presenza di un sacrilego motore – non concesse molto tempo per l’uscita e fortunatamente rientrammo quasi subito: il rumore era assordante e rischiavi di diventare sordo.
Poi, non so con quale barca, con una cima in mano ti ordinano di fare qualcosa nel gergo marinaresco che non puoi rivelare di non aver capito. Il rischio ci essere buttato in acqua non era nulla rispetto agli sfottò che ti avrebbero perseguitato per mesi interi.
Ed all’improvviso sei fregato. La stoffa del fiocco che segue quella cima non è più roba morta, inanimata. Ti parla. A secondo della tensione che riesci a dare si gonfia senza sfrangiarsi e quel senso di calma si trasmette all’intera barca e ti entra dentro.
Filava, quel pezzo di legno, in un contrasto di silenzio e assordante rumore che non puoi più dimenticare o, meglio, che ti rimane dentro nascosto fino a che leggi una storia te lo riporta a galla.
Feci l’intervento e mi fu proibito di salire su qualunque tipo di barca. Non potei seguire le successive imprese.
Ognuno dei comandati dovette fare la sua scelta, chi in banca, chi sul carro M 47, chi – dopo qualche anno – “emigrò†a Roma.
Si allentano i contatti. Il romano non lo vedo dal 1999, in occasione di un mio passaggio a Roma dove abbiamo regolarmente litigato per pagare il conto di una pizza.
Questo, però, ti manca. Alla fine sono assolutamente d’accordo sul fatto che non bisogna avere rimpianti del passato e sono stato sempre contrario alle cene degli â€ex†alle quali mi rifiuto di partecipare.
Ma incontrarsi, magari in una sera di tarda primavera, non per rinvangare il passato ma per fare il punto della situazione. Per stabilire cosa fare a partire da domani e perché no, vedere se ci sono sogni da poter realizzare.
E’ sempre tempo si sogni.