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La Corazzata Tod


GM Andrea

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Titolo: La Corazzata Tod

Autore: Dino BUZZATI

Casa editrice: Mondadori

Reperibilità: facile

 

La brevità della scheda bibliografica trova ragione nel fatto che La Corazzata Tod non è un libro, ma un racconto breve. Fa parte della raccolta Sessanta racconti (Oscar Mondadori), un'antologia curata dallo stesso Buzzati e di facilissima reperibilità.

 

Poco più di venti pagine, ma come spesso accade in Buzzati il racconto ha una sua autonoma dignità.

 

Lo scrittore bellunese utilizza in quest'opera la conoscenza dell'ambiente militare navale acquisita quale corrispondente di guerra dagli incrociatori (per il che si veda la recensione a Il Buttafuoco).

 

Vi si ritrovano molti dei temi caratteristici di Buzzati: la metafisica, l'attrazione per il mondo militare e di pari passo la constatazione dell'inutilità delle guerre.

 

La trama è accattivante. Nella Germania sconfitta del '46 un capitano di corvetta, già addetto al reparto personale del Ministero, indaga per scoprire cosa fosse la "Eventualità 9000", nome in codice di un progetto per il quale migliaia di marinai, sottufficiali e ufficiali durante la guerra cambiarono destinazione senza che se ne avesse più notizia.

Alla fine scoprirà che, nel segreto più assoluto, il Reich aveva costruito una corazzata di dimensioni incredibili, lunga 300 metri, dotata di armi spaventose mai viste prima: la Konig Friedrich II. Nel giugno '45 il suo comandante decise di salpare per l'Atlantico e divenire così l'ultimo lembo non sconfitto di Germania.

Dopo mesi di inutile vagabondaggio per mare e di mimetizzazioni, l'equipaggio - che pure era stato lasciato libero di rimanere a terra - ormai ha il morale a terra e inizia a chiamare la propria nave Corazzata Tod (Morte).

Morto il Comandante, il Com.te in 2^ stabilisce che la nave lascerà l'insenatura della Patagonia in cui è rintanata per affrontare degnamente e finalmente il nemico. I pochi che decidono di lasciare la corazzata assistono dalla loro motobarca alla battaglia finale. Che non è contro gli americani o gli inglesi, ma contro enormi, neri vascelli, giunti dalle profondità del mare, o - più in senso buzzatiano - direttamente dall'Inferno. L'esito è scontato, ma la corazzata venderà cara la pelle.

 

Detta così pare niente. Ma provate a leggere Buzzati, se ancora non l'avete fatto. E mi direte.

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Detta così pare niente. Ma provate a leggere Buzzati, se ancora non l'avete fatto. E mi direte.

 

Oltre al mio eponimo/nckname, anche Buzzati, che ha accompagnato tante noiosissime estati in campagna, credo sia stato determinante per avvicinarmi al fascino della lettura. L'avevo anche proposto come tesina all'esame di maturità (ma poi mi hanno cambiato materia, all'epoca si faceva, m hanno rifilato Latino - e così più più o meno sapete la mia "classe")

Assolutamente consigliabile e raccomandabile

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malaparte said:
Oltre al mio eponimo/nckname, anche Buzzati, che ha accompagnato tante noiosissime estati in campagna, credo sia stato determinante per avvicinarmi al fascino della lettura. L'avevo anche proposto come tesina all'esame di maturità (ma poi mi hanno cambiato materia, all'epoca si faceva, m hanno rifilato Latino - e così più più o meno sapete la mia "classe")

Assolutamente consigliabile e raccomandabile

 

Io invece portai (fuori concorso :s03:) La pelle, del tuo immenso eponimo.

Potei blaterare a ruota libera, visto che l'annoiata commissaria di italiano dimostrava palesemente di ignorare opera e autore. D'altra parte si sa come son fatte le antologie scolastiche da qualche decennio in qua; paginate su oscuri e/o sopravvalutati romanzieri, criptici almeno quanto dimenticabili, e poco o nulla su veri scrittori.

Del nostro Curzio o di Guareschi (il più letto autore italiano al mondo), di solito zero. E per campanilismo ci butto pure Piovene e Parise, via.

Al loro posto invece...vabbè, in Italia è proibito parlare male di P****e, C*****o, M*****a etc. etc. etc. Sicché mi astengo.

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  • 1 year later...

LA CORAZZATA TOD

 

Hugo Regulus, già capitano di corvetta tedesco nell'ultima

guerra, pubblicherà nel mese prossimo un libro straordinario

(Das Ende des Schlachtschiffes Konig Friedrich II,

Gotta Verlag, Amburgo). I pochi che hanno letto il manoscritto,

da principio sono rimasti forse un po' perplessi,

tanto i fatti riferiti confinano col regno dell'inverosimile

se non addirittura della pura pazzia. Senonché, procedendo,

si deve riconoscere che la documentazione dell'autore

appare indiscutibilmente seria e persuasiva. Tra

l'altro è impressionante la fotografia - l'unica a dir la verità

ma tale da non poter essere facile frutto di mistificazione

- dell'inaudito mostro, creato si direbbe in un delirio

di grandezza, dannato dalla fatalità dell'avvilimento di

un inglorioso e imbelle esilio, finalmente tratto quando

tutto sembrava già dissolversi in degradazione obbrobriosa - alla

magnificenza tragica di un destino tanto più eroico

ed ambizioso perché nessuno al mondo ne avrebbe dovuto

mai sapere nulla.

 

Se è vero quanto narra il Regulus, questa è la rivelazione

del segreto più stupefacente e tenebroso dell'ultimo conflitto.

Stupefacente per la vicenda in se stessa, che a prima

vista ha dell'incredibile e si distacca stranamente da qualsiasi

altro episodio della guerra. Stupefacente forse ancor

più per la congiura del silenzio con cui migliaia e migliaia

di uomini hanno protetto e proteggono tuttora il segreto;

quasi che l'esserne a parte, con la coscienza che nessun altro

sa, dia loro una gioia senza prezzo. E sulla necessità, o convenienza,

di tacere, sono stati e sono d'accordo uomini ricchi

e poveri, potenti e umili, colti e ignoranti, alti ufficiali

e oscuri manovali di cantiere, tutti fedeli al patto anche

quando la catastrofe li ebbe sciolti da ogni vincolo di disciplina

militare. Costoro - dichiara il Regulus, e qui per

la verità sorge qualche dubbio - continueranno a tacere

anche domani, dopo che il libro sarà stato pubblicato: e

se qualcuno li identificherà, negheranno; e se qualcuno li

interrogherà, diranno di non sapere niente. Tutti, meno uno.

Tre parti ha il libro. Nella prima il Regulus narra in prima

persona come venne a sapere la misteriosa storia. è una

specie di meticoloso memoriale che descrive le varie fasi della

inchiesta: i primi vaghi sospetti germogliati per cui egli

riuscì a collegare vari indizi che apparivano lontanissimi tra

loro; le ricerche lungamente infruttuose fino a che il caso

lo condusse sul luogo stesso dove la vicenda ebbe la sua

origine e dove sconvolte tracce di macerie parlavano ancora

di insensati sogni; le testimonianze, se si possono chiamare

tali le induzioni tratte da frasi udite nelle nere taverne dei

porti quando la notte e la stanchezza smorzano la ostinazione

dell'uomo; e poi l'incontro col superstite che nel vaneggiamento

dell'agonia parla e parla, buttando fuori il terribile

segreto, finalmente!

 

La seconda parte consiste nel resoconto, purtroppo molto

lacunoso, di ciò che avvenne a bordo della nave dal giorno

che salpò per la sua prima missione fino al mattino della

tragedia sui confini estremi dell'oceano.

Nella terza parte, che ha carattere di appendice, il Regulus

risponde a quelli che prevede possano essere i dubbi,

le obiezioni, le critiche del pubblico. Cercando soprattutto

di spiegare come un fatto di tali proporzioni, che coinvolse

le sorti di migliaia, sia potuto rimanere chiuso per tanto

tempo sotto una cappa di silenzio. Citando nei minuti particolari,

con una insistenza fin sospetta, i "documenti". E

per ultimo tentando di interpretare l'estremo atto del dramma

che, nonostante ogni suo sforzo, resta sospeso in una

aura sovrumana e chiede a noi un vero atto di fede. Ma,

sebbene si stenti a credere, un'avventura tanto disperata poteva

forse avere una conclusione meno assurda? Che meraviglia

se, affascinate da così pura follia, le potenze delle tenebre,

di cui talora si udì narrare nei passati tempi, sono

uscite dagli abissi australi per rispondere alla sfida degnamente?

Hugo Regulus, figlio di un armatore di Lubecca, aveva

35 anni allo scoppio della guerra. Ufficiale di marina, aveva

lasciato il servizio nel 1936, col grado di capitano di corvetta,

per ragioni di salute e per poter aiutare il padre, ormai

vecchio, nell'azienda. Richiamato all'inizio delle ostilità,

avrebbe potuto essere esonerato date le sue condizioni fisiche.

Per patriottismo volle invece prendere servizio e fu assegnato

al Ministero della Marina da guerra, reparto "Personale",

dove rimase fino in ultimo.

 

Non ebbe mai compiti difficili o di responsabilità. Sovrintendeva

allo schedario dei sottufficiali e ne seguiva le

promozioni, i trasferimenti, le licenze, le mancanze disciplinari

e così via. Indirettamente egli aveva così sempre sotto

gli occhi un quadro completo ed aggiornato rispecchiante

le vicende della Kriegsmarine.

Ebbene - è lui che lo racconta a partire dall'estate 1942

cominciarono ad arrivare nel suo ufficio degli ordini di trasferimento

di nuovo genere. Vi si indicavano il luogo o

l'unità di provenienza ma per destinazione si dava una formula

segreta: "Eventualità 9000 - Missione speciale - Presentarsi

all'Ufficio operativo 27".

 

Ordini di questo tipo, con la sigla "missione speciale",

arrivavano di quando in quando e sarebbe stato indiscreto,

oltre che sospetto, se gli addetti al reparto "Personale" avessero

indagato cercando di sapere di quale impresa si trattasse.

Ma fino allora capitavano di raro, a gruppetti di sette

otto al massimo. Ed era facile supporre ciò che il segreto

nascondesse: o incarichi riservati per conto del Servizio

informazioni e controspionaggio, o missioni in territorio

nemico, o crociere di sommergibili specialmente delicate per cui

si riteneva necessario aggiungere una supplementare garanzia

di segretezza a quelle usate come regola per tutte le

operazioni belliche.

 

Questa volta però i destinati alla "missione speciale" non

erano sette o otto e neppure una decina. Nel giro di poche

settimane i soli sottufficiali trasferiti alla ignota sede assommavano

già a quasi 200. Il ritmo di questi strani trasferimenti

poi rallentò, prolungandosi tuttavia per mesi e mesi.

Coi colleghi, il Regulus ne parlava poche volte. Talora

ebbe la impressione che qualcuno, nel suo stesso ufficio, ne

sapesse più di lui; ma che preferisse evitare l'argomento.

Quasi fosse uno di quei segreti che è una fortuna non conoscere;

perché la paura di lasciarsi sfuggire una parola, di

commettere una indiscrezione sia pur minima diventa, per

gli iniziati, un incubo, tanto grave è la posta in gioco. E

allora uno evita perfino gli amici e non si rilascia mai e,

se vive in famiglia, si sveglia di soprassalto in piena notte

col terrore di aver parlato in sonno e che la moglie abbia sentito.

Divenne, l'"Eventualità 9000", come una porta misteriosa

che inghiottiva a centinaia gli uomini; e di là c'era il buio

pesto. Una base per nuove armi segrete? Un corso di addestramento

in vista di qualche progetto temerario? Un corpo di

spedizione per sbarcare in Inghilterra? Finché, nel

febbraio 1943, l'enigmatica chiamata portò via anche il capo

di prima Willy Untermeyer, ch'era il braccio destro di Regulus.

Questo Untermeyer era uomo zelantissimo e devoto ma

tutt'altro che tempra di guerriero. La sua paura, non del

tutto dissimulata, era di dover lasciare il Ministero, dove

lavorava da sei anni, per fare il suo turno di imbarco. La

stessa sua bravura, la simpatia dei superiori lo avevano finora

risparmiato. Ma ecco le sue speranze disilluse e nella forma

più temibile. A quelli del reparto "Personale", che ignoravano

ciò che c'era sotto, l'"Eventualità 9000" era infatti

sinonimo di massimo pericolo, di separazione dal consorzio

umano, di partenza senza prospettive di ritorno.

Di solito taciturno e timido, capo Untermeyer, alla vigilia

del commiato, non riusciva a dominarsi e interrogava ansiosamente

i superiori chiedendo una sia pur vaga spiegazione.

Ma da ogni parte trovava un muro impenetrabile.

Il capitano di corvetta Regulus lo vide partire con dolore.

E l'enigma dell'"Eventualità 9000", fino allora a lui

estraneo, entrò, per dire così, nella sua vita. La curiosità,

il desiderio di sapere ciò che sapere non si deve, questo sentimento

così poco militare, divenne un quotidiano assillo.

 

E bastava che un piantone gli consegnasse una busta indirizzata

a lui con l'annotazione "riservata" - ciò avveniva

parecchie volte al giorno perché gli venisse il batticuore:

l'"Eventualità 9000" non poteva forse aver bisogno anche di lui?

Ma la chiamata per il capitano di corvetta Regulus non

arrivò, e i mesi passarono, e decine e decine di altri sottufficiali

partirono per la destinazione sconosciuta e per quanto

stesse sempre con le orecchie tese e gli occhi aperti, egli non

riuscì a raccogliere il più piccolo indizio, né una parola, né

un'allusione, né un gesto, né una occhiata, nulla che si potesse

in qualche modo riferire al preoccupante enigma. E

vennero i bombardamenti, il suo ufficio si trasferì alla periferia

di Berlino in sede protetta, poi ci fu la fine della guerra

e Regulus riuscì, anche per le sue condizioni di salute, a

evitare internamento e prigionia. Ma neppure allora, sfaldatasi

ormai l'impalcatura militare e divenuti di dominio

pubblico i segreti più gelosi, poté sapere qualche cosa

dell'"Eventualità 9000". Eppure centinaia di sottufficiali, probabilmente

migliaia di marinai, vi erano rimasti coinvolti.

Dove erano dunque finiti? Quale che fosse il retroscena del

segreto, molti di loro dovevano essere tornati. Come mai

nessuno parlava? E perché capo Untermeyer che dal giorno

della partenza gli aveva mandato ogni mese, regolarmente,

una cartollna in franchigia coi saluti (ma né il testo né il

timbro rivelavano la reale provenienza) perché capo Untermeyer

non si faceva vivo?

 

Nacque così nell'ex-capitano di corvetta Regulus la determinazione

di risolvere il mistero. Nella conoscenza dei

fatti bellici, il segreto militare o l'invalicabile barriera del

fronte avevano per anni determinato delle vaste lacune che

però adesso le rivelazioni dei protagonisti, da entrambe le

parti, andavano via via colmando. Le intimità più recondite

dei governi e degli alti comandi venivano giornalmente messe

in piazza, quasi con una smania invereconda. Così il panorama

del conflitto si completava a poco a poco degli episodi

rimasti fino allora sconosciuti. Vita del Fuhrer, armi segrete,

congiure di generali, sondaggi per armistizi separati,

eccetera, tutto veniva a galla. Tutto, tranne l'"Eventualità

9000". Questo l'unico vuoto che continuasse a rimanere tale,

e non era un vuoto trascurabile se vi era sparita tanta gente.

Nel gigantesco gioco d'incastri che ricostruiva la storia di

quegli anni mancava ancora un pezzo e per riempire il

buco non c'era che quella formula convenzionale e senza

senso; dietro la quale non si scorgeva niente, neppure l'ombra

confusa di un fantasma.

 

Certo, tale lacuna era nota a pochi; solo a coloro che,

come il Regulus, ne avevano avuto sentore per motivi di

servizio. Il mondo esterno non ne sapeva nulla. Anche inglesi,

americani e russi pareva che non fossero al corrente.

Perfino i pochi colleghi che il Regulus aveva occasione di

incontrare sembrava se ne fossero dimenticati: " L'Eventualità 9000? "

rispondevano. " Ah sì, adesso mi ricordo... Una

missione speciale vero?... Mah, chissà cos'era... Non ne ho

mai saputo niente ". E avevano l'aria di essere sinceri.

Ma il Regulus non disarmò (così almeno egli racconta).

Passando il tempo anzi l'"Eventualità 9000" diventò per lui

una specie di mania. Sebbene la sua famiglia fosse stata impoverita

dalla guerra, egli non si trovò mai in ristrettezze

avendo trovato un posto decoroso in una impresa commerciale

di Lubecca. Né il suo lavoro era assillante. Cosicché

alle indagini poté dedicare un certo tempo.

Cominciò, nel novembre 1945 a cercare la famiglia dell'Untermeyer

di cui aveva conservato l'indirizzo. Andò apposta a Kiel.

Trovò il pradre e la moglie del sottufficiale che

dopo l'aprile 1945 non aveva più dato notizie. No, non

l'avevano mai saputo la sua reale destinazione. No, dopo la

sua partenza per la "missione sreciale" non era mai tornato

a casa in licenza. No, non avevano la più lontana idea della

sua sorte. Però speravano di rivederlo comparire da un momento

all'altro. No, non avevano neppure mai udito notizie

o ipotesi o dicerie circa l'"Eventualità 9000". Fu un sopraluogo

completamente negativo.

 

Hugo Regulus confessa che a questo punto si sentì alquanto

scoraggiato. Non già veniva meno in lui la corvinzione

che sotto ci dovesse essere un mistero - e un mistero

di carattere mostruoso ma dubitava di venirne mai a capo.

Mancava anche il più sottile appiglio a cui afferrarsi;

era impossibile formulare anche una semplice ipotesi; dovunque

si volgesse, annaspava nel vuoto inutilmente.

Stava domandandosi se non fosse quasi meglio rinunciare

quando fece la sua prima "scoperta". In realtà era soltanto

la interpretazione molto fantastica di una notizia comparsa

nel dicembre 1945 sugli Stars and Stripes, il giornaletto

pubblicato dai Comandi di occupazione americani. Ma fu un barlume.

La notizia era la seguente:

"L'equipaggio di un piccolo piroscafo da carico argentino,

il Maria Dolores III, giunto a Bahia Blanca proveniente dalle

isole Malvine, raccontava di aver avvistato un serpente

di mare 'grande come una collina'. Lo avevano incontrato

poco prima del tramonto. Il gigante flottava immobile, controluce,

apparentemente addormentato. Concordi, i marinai

del mercantile lo descrivevano munito di 'almeno tre o quattro

teste e di numerosi tentacoli, o antenne, simili a quelle

degli insetti ma di lunghezza spaventevole che si protendevano

verso il cielo ruotando lentamente come se cercassero

qualcosa'. L'apparizione fu così paurosa che il Maria Dolores III

accostò subito in fuori, allontanandosi a tutta forza.

Poco dopo le tenebre della notte avvolsero il mostro ormai

lontano sull'orizzonte e sempre immobile."

 

Poi ci fu, pochi giorni dopo, un'altra notizia interessante.

Il pilota di un aereo proveniente dal Sud Africa e diretto

a Buenos Aires riferiva di avere visto in pieno oceano - e

ne dava la posizione esatta - una isoletta vulcanica di recente

formazione. Al passaggio dell'apparecchio l'eruzione

era ancora in pieno sviluppo. Infatti il nuovo scoglio era

semicoperto da una coltre di vapori innalzatisi per alcune

centinaia di metri. E in quel tratto di mare, che si sapesse,

non erano mai esistite isole.

 

Fu per Regulus la luce. La cosa apparsa al Maria Dolores III -

egli pensò - poteva essere tutto tranne che un serpente di mare,

simili mostri non essendo mai esistiti. Non solo: per una

specie di chiaroveggenza, mise in rapporto le due notizie

diversissime e si chiese: non potrebbero essere due

interpretazioni, entrambe assurde, del medesimo fenomeno?

Perché escludere che sia il serpente di mare e sia

l'isola vulcanica fossero un bastimento gigantesco?

Era ben poco, nulla si può dire. Gratuite fantasticherie

su due notizie forse nate da allucinazioni, ingrandite dai

corrispondenti dei giornali e poteva anche darsi inventate

di sana pianta.

 

Eppure il Regulus non riusciva a staccarsi da quella idea

esageratamente romanzesca: che insomma l'"Eventualità 9000"

fosse una nave da guerra di proporzioni eccezionali,

progettata in segreto, costruita in un cantiere segreto, di

nascosto varata, armata e messa a punto affinché all'improvviso

comparisse sul mare a sterminare con pochi colpi le flotte

dei nemici. E forse quelle antenne avvistate dai marinai

della Maria Dolores III erano dei cannoni di statura mai

vista, ciascuno grande come la ciminiera delle Lederer Stahlwerke

che sorgono alla periferia di Lubecca. Ma potevano

essere anche armi nuove e tremende, questo anzi avrebbe

spiegato meglio tutta quella segretezza, da cui si dipartivano

proiettili o raggi di sterminio, così come è nei sogni dei

giovanissimi cadetti, quando si addormentano alla sera nel

freddo e duro lettino dopo una pesante giornata di studio

e di esercizi.

 

Solo che la nave invincibile non aveva fatto in tempo - tale

la supposizione del Regulus - e quando si era trovata

pronta alla battaglia, proprio allora su tutti i fronti della

terra e del mare si era cessato di combattere, per la prostrazione,

la rovina, la totale sconfitta dell'amata grande Germania.

Ciononostante era salpata per la sua prima missione, aveva

raggiunto inosservata l'oceano Atlantico approfittando di

quei giorni di eccitamento, confusione, frenesia mondiale

perché la guerra era finita e non si doveva più morire.

Perciò la nave - fantasticava il Regulus - era andata

vagando nelle acque più solitarie come quelle per esempio a

levante dell'Argentina. Ma a quale scopo? Con quali speranze?

E vivendo di che cosa? Con che nafta accendendo

le sue caldaie vaste come le antiche cattedrali gotiche?

Cosicché a questo punto l'ex-capitano di corvetta Regulus era

ripreso dai dubbi e si metteva perfino a ridere della propria follia.

Ma quella specie di demone non si era arreso dentro di

lui e lo spinse anzi a girare per le città dove erano esistiti

i più grandi cantieri della Kriegsmarine, oppure nelle località

della costa poco conosciute dove la flotta del Reich

aveva disposto le sue basi minori.

 

Vestito male, con un berretto da macchinista, passava le

sere nelle bettole più malfamate dei porti, ivi bevendo, fumando,

chiacchierando, chiedendo le informazioni più sciocche

come per esempio su dove trovare fresche ragazze a

buon mercato, eppure ogni tanto faceva quasi casualmente

anche domande d'altro genere come potrebbe fare un uomo

già avanti con l'età che si trovi fortuitamente in un'osteria

di basso rango in una città non sua dopo aver bevuto birra

in modo da fluttuare a mezz'aria, con le parole che corrono

fuori della bocca di loro spontanea volontà.

Parlava della leggendaria nave - non aveva trovato

denominazione più adatta - come se quello fosse un dato di

dominio pubblico che non ci fosse nessun pericolo a toccare.

Intorno a lui erano operai, scaricatori, marinai, bottegai,

bagasce che dovevano sapere vita, miracoli e morte del loro

porto. Mai però che uno mostrasse di capire l'allusione. Mai

che uno denotasse per lo meno riluttanza o fastidio, o che

invitasse, dichiaratamente o no, il signor Regulus a smettere

un interrogatorio così inopportuno.

Sembrava proprio che nessuno sapesse niente di niente,

mai sentito parlare di un grandissimo bastimento costruito

in segreto, varato di nascosto e così via per la salvezza della

patria agonizzante.

 

Era sul punto di rinunciare alle ricerche quando la fortuna

andò appositamente ad aspettarlo, in una birreria di

infimo ordine a Wilhelmhaven.

Essa aveva assunto la forma corporea di un facchino o

tipo del genere, grigio di capelli, tarchiato, stanco, che si

era addormentato in un angolo, dinanzi al suo boccale vuoto.

Hugo Regulus come sempre fece varie conversazioni coi

presenti e arrivò con molta astuzia all'argomento che gli si

era incastrato nell'animo. Domandò a questo domandò a

quello, non capivano neppure a che cosa lui alludesse, mai

avevano sentito parlare di una storia siffatta.

Cosicché la sera passò inutilmente e a un certo punto il

Regulus si trovò solo nel locale e il proprietario aveva tutte

le intenzioni di chiudere, e di fuori, nella notte di minuto

in minuto più silenziosa, si udiva un ritmico doloroso cigolio

come quello dei velieri alla banchina quando l'onda li

fa dondolare.

 

Allora il facchino grigio di capelli si alzò per uscire ma

quando fu sulla soglia si voltò con un curioso sogghigno

e disse: " Quella storia, signore, che lei poco fa raccontava,

l'ho sentita raccontare anche da un altro. Era uno dell'isola

di Rugen ". E scomparve.

Il Regulus gli corse dietro. Ma fuori non c'era anima viva.

Guardò a destra guardò a sinistra, niente alla luce dell'unico

lampione acceso, come se la terra lo avesse inghiottito.

Ebbene, eccolo nell'isola di Rugen che gira con un cavalletto

e una cassettina fingendo di essere un pittore. Mentre

dipinge - da ragazzo si divertiva a fare degli acquarelli,

dopo tutto può anche recitare la parte - gli piace, si direbbe,

scambiare due parole con i paesani, vecchi per lo più,

bambini e qualche donna che gli stanno alle spalle per vedere

come fa. " A proposito, a proposito " dice " ho sentito

dire tempo fa che qui all'isola di Rugen durante la guerra

avevano messo su un grande cantiere. " "è vero è vero "

dice uno " facevano tutto di nascosto, come se tutti noi non

si sapesse! "

 

Per l'emozione all'ex-capitano di corvetta viene meno il

fiato. " E che cosa costruivano? Una corazzata, vero? Era

una grande nave da guerra?" L'uomo ride, ridono anche

gli altri. " Corazzata? Altro che corazzata. Era lo stadio,

lo stadio per 500.000 spettatori, per le grandi olimpiadi del

1948 che dovevano essere la festa dell'umanità, dopo la vittoria

di Hitler sul mondo! "

Questa è una amara delusione per chi ha cercato e si è

affaticato tanto. " E perché allora costruirlo in segreto? "

" Chi lo sa. Forse perché doveva essere una meravigliosa

sorpresa, da rivelare improvvisamente al popolo stanco dopo

la vittoria. " " E anche voi ci lavoravate? " " Oh, nessuno

di noi, qui, di Rugen. Soltanto gente venuta da fuori,

migliaia e migliaia, tutti giovani. E noi si diceva: perché

mai mandano qui a lavorare allo stadio tutti questi giovanotti

che dovrebbero invece essere sul fronte? "

" E a vedere il cantiere vi lasciavano andare? " " Intorno

al cantiere filo spinato con corrente ad alta tensione. E sentinelle

armate. Poi un bello spazio deserto. Poi ancora un

grande muro e altro filo spinato, sul muro le sentinelle che

avevano l'ordine di sparare. "

" E dopo, che cosa ne hanno fatto? " domanda l'ex-capitano

di corvetta. " Dopo è stato distrutto tutto quanto. Per

la rabbia, probabilmente. Ordine di far saltare gli impianti.

Per quattro giorni continue esplosioni, si vedevano le vampe

di qua, l'isola tremava. " " E adesso? " " Adesso non c'è

più niente, solo qualche maceria. " " Ma dov'è? " Allora

gli insegnano la strada.

 

Arriva dunque l'ostinato Hugo Regulus sul posto dove

Hitler aveva ordinato di costruire il più grande stadio del

mondo per le olimpiadi dell'apoteosi tedesca; proprio nell'isola

di Rugen, che idea. Ma il Regulus se ne intende e

capisce subito che non si è mai lavorato per lo stadio, il

suo animo veramente trema di una commozione straordinaria,

alla vista di ciò che lui cerca da tanti mesi.

è una specie di avvallamento che finisce nelle acque del

mare, e ci sono erbacce, sconvolti macigni, pezzi di muratura

e cemento, ferri contorti, pareti infrante, ma soprattutto

erbacce e grami cespugli che coprono pietosamente ogni cosa.

Lui calcola la lunghezza della svasatura, circa mezzo chilometro,

calcola larghezza, profondità, tutto quanto. Vede

resti di rotaie, di gru, di pontoni, di lamiere, di travi, perfino

un bossolo di granata affondato completamente nel fango.

Inoltre avverte ancora nell'aria un odore caratteristico

a lui ben noto, profumo persistente di nave da guerra: nafta,

vernice, lamiera rovente, fiato di marinai.

Questa dunque la recondita base dell'"Eventualità 9000".

Qui è stata costruita una nave di proporzioni mai tentate,

in questo bacino è nata, di qui è scesa in mare, e adesso

non resta neppure il ricordo, perché tutto è stato fatto in

segreto e gli uomini che sanno non aprono mai bocca, deve

essere questione di un giuramento sacro che impegna l'onore

e la vlta: a meno che non siano tutti morti, migliaia

e migliaia sprofondati sotto la superficie della terra. O del mare.

Poi vede i resti del filo spinato, del lunghissimo muro di

cinta, delle officine, delle baracche, una intera città deve

essere vissuta qui per anni all'insaputa del mondo, protetta

da chissà quali mascherature, all'insaputa degli stessi pezzi

grossi della Kriegsmarine.

 

Ma adesso non c'è altro che una landa petrosa e abbandonata

dove non passa mai nessuno, con in mezzo quella

fatale concavità ormai senza senso, e sopra pochi uccelli simili

a corvi che girano e girano tendenziosamente mandando

lamentevoli strida, e sopra ancora il cielo grigio e

immobile del Baltico con quella sua luce diafana che chiama

al nord, sempre al nord, e davanti il mare che cammina

in eterno, mare duro e potente di colore griglo con lunghe

creste bianche le quali compaiono e scompaiono senza motivo

e cercandole gli sguardi vanno in là, sempre più in là,

fino al lontanissimo orizzonte, interamente disabitato.

Così il mistero dell'"Eventualità 9000", diventava ancora

più vero e inquietante, Hugo Regulus non poteva tirarsi indietro

neanche volendolo con tutte le forze, bisognava inoltrarsi

fino in fondo a costo di consumarci l'intera vita che

gli rimaneva. Era il maggio del 1946.

 

Ma subitamente l'enigma tanto difficile e oscuro si aprì

quasi da solo. Comparve su un giornale di Amburgo una

breve notiziola da Kiel che riferiva un tentato suicidio: in

un giardino pubblico era stato trovato un uomo privo di

sensi e insanguinato con una grave ferita alla testa. Stringeva

ancora una rivoltella nella destra. Era un certo Wilhelm

Untermeyer, già sottufficiale di marina, rimpatriato

recentemente dal Sud America dove era stato qualche tempo

internato. Ignote le cause del suicidio.

Era proprio il capo Willy Untermeyer che aveva lavorato

tanto tempo alle dipendenze del Regulus e che era stato

portato via dall'"Eventualità 9000". Il Regulus lo trovò

all'ospedale di Kiel con la testa tutta bendata che parlava,

ininterrottamente parlava, e invano i medici gli somministravano

dei sedativi. Ogni tanto cadeva in un sonno profondo

ma appena sveglio ricominciava a parlare, dicendo

cose apparentemente incomprensibili, e percÌò tutti erano

convinti che delirasse. La ferita - dicevano i medici - era

grave, scarse le probabilità che l'uomo sopravvivesse.

In quanto al padre e alla moglie del disgraziato, non sapevano

spiegarsi l'accaduto. Willy era tornato già da oltre

un mese, più taciturno e chiuso che mai. E di quanto gli

era capitato aveva detto poco o niente. Avevo detto soltanto

di essersi imbarcato su una nave, che alla fine della guerra

questa nave si era autoaffondata, che lui era stato internato

in Argentina e che qui se l'era passata discretamente, fin

quando lo avevano fatto rimpatriare. Però non aveva spiegato

che nave, né dove, né quando, né le circostanze relative.

Strano anche che dopo il rimpatrio non si fosse fatto

vivo col Regulus a cui era sempre stato affezionato. La moglie

una volta gli aveva chiesto: " Come mai non scrivi al

comandante Regulus? è venuto qui apposta a cercarti, sarà

felice di saperti tornato ". " Sì, sì, gli scriverò " aveva risposto

Willy. Ma poi non ne aveva fatto niente.

 

Capo Untermeyer riconobbe il suo ex-superiore quando

costui entrò nella stanzetta d'ospedale? Il Regulus scrive

che la cosa è incerta. Tuttavia alle sue domande il ferito rispose

quasi sempre a tono. Poche domande in verità perché

i medici avevano proibito di interrogarlo. Parlava fin troppo

lui da solo, quasi che dentro egli avesse uno spaventoso ingorgo

di cose rimaste compresse che adesso volevano sfogarsi;

quasi che il colpo della rivoltella avesse aperto un

varco e di qui traboccasse fuori ciò che in lui fermentava

con dolore da troppo lungo tempo.

Capo Untermeyer, in questi interminabili sproloqui che

terminarono soltanto un'ora prima della sua morte, non fece

mai un racconto filato. I ricordi lo assalivano dalle più svariate

parti senza ordine alcuno, per cui a un episodio ne seguiva

un altro che magari si riferiva a parecchi mesi prima.

La storia che il Regulus ne ricavò presentò perciò lacune

e sconnessioni. In compenso il Regulus crede che nulla di

quanto usciva dalle labbra di Untermeyer fosse frutto di

delirio. Per quanto frammentaria, la narrazione è in ogni

suo punto motivata e soprattutto risponde in modo esauriente

ai maggiori interrogativi che l'"Eventualità 9000" aveva

lasciato. Sia come sia, si tratta dell'unica testimonianza attendibile

e diretta su uno degli avvenimenti più meravigliosi

del nostro tempo.

 

A questo punto comincia la seconda parte del libro, la

più importante e, purtroppo, la più breve. A ragione, il Regulus

non ha voluto, per amplificarla, lavorare di fantasia

e neppure coordinare la rotta materia con legamenti e aggiunte

che la logica poteva anche autorizzare. Nel trascrivere

ciò che disse l'Untermeyer, il suo intervento si limita

a disporre i fatti secondo un'ovvia successione cronologica

e nel dare forma sintattica alle cose che dalla bocca dell'agonizzante

uscirono in frasi monche, espressioni dialettali, balbettii.

E ora non resta che ascoltare.

Nel cantiere dell'isola di Rugen - detto appunto cantiere

9000 - con una segretezza che avrebbe fatto invidia ai pallidi

burocrati degli Uffici Cifra e un impegno di mezzi che

sembrava dovesse esaurire il sangue stesso del Paese fino

all'ultima estenuata stilla, per cui tutti i presenti avevano

una specie di paura quasi che fosse una follia calamitosa;

all'ombra di una sterminata tettoia sulla quale ogni mattina

degli uomini stendevano ramaglie verdi, sterpi giallastri,

blocchi di neve, a seconda delle stagioni; in ermetica clausura

di militari e operai; protetta da un giuramento solenne

di tutti i partecipanti; fu costruita dal giugno 1942 al

gennaio 1945 la corazzata K”nig Friedriech II che doveva

essere l'arma segreta del grande Reich per sbaragliare le

flotte unite della Gran Bretagna e Stati Uniti e quante altre

vi si affiancassero, infelici loro, pace all'anima dei marinai

che vi si fossero trovati a bordo poiché non avranno neppure

il tempo di rivolgere una breve preghiera al Signore

Nostro Onnipossente.

 

Il dislocamento doveva essere di 120.000 tonnellate e tale

infatti riuscì. La velocità, 30 nodi. Duplice protezione antisiluri

della carena per cui la nave poteva incassare almeno

30 torpedini prima di vacillare. Propulsione a getto con

due eliche ausiliarie. Protezione verticale di 45 centimetri

dell'opera viva, di 35 sul ponte corazzato. Quattro torri

trinate da 203, 36 complessi da 75 antiaerei. E l'armamento

principale consisteva in dodici ordigni senza precedenti, a

gruppi di tre, che forse erano cannoni e forse no, capo Untermeyer

li denominava Vernichtungsgeschutze e diceva che

potevano annientare in pochi secondi qualsiasi unità di

superficie in un raggio di 40 chilometri. Lunghezza, circa 280

metri. Equipaggio 2100 uomini. I fumaioli erano tre.

All'ospedale, in un intermezzo di relativa calma, capo

Untermeyer si fece portare dalla moglie le sue carte chiuse

in una cartella di cuoio e ne trasse, per consegnarla al

comandante Regulus, una piccola fotografia del leviatano. Non

essendoci nella veduta alcun punto di riferimento, le dimensioni

non si possono apprezzare, inoltre si tratta di una

mediocre istantanea da inesperto dilettante. Nel complesso

la sagoma ripete la linea delle precedenti grandi unità tedesche

con la caratteristica prora falcata. Solo che mancano

le solite torri dei grossi calibri, al loro posto si vedono delle

aste o tubi metallici lunghi almeno una ventina di metri

a brandeggio ed elevazioni autonomi, che potrebbero essere

cannoni ma anche no. Manca a queste armi, almeno in

apparenza, qualsiasi corazzatura protettiva. Essi si dipartono

all'altezza della coperta, protendendosi in alto con forte

inclinazione (almeno nella fotografia). Il Regulus esclude

che si trattasse di armi atomiche, dimostra pure che non

potevano essere dei semplici lanciarazzi; e rinuncia a una

descrizione tecnica.

 

Fu varata nell'ottobre 1944, passarono parecchi mesi prima

che fosse pronta. Non si sa se eseguì in zona esercitazioni

di tiro, e anche troppe altre cose non si sanno di

quella vigilia disperata. Ma nessuno dei nemici ebbe mai

il sospetto di ciò che si stava preparando nel cantiere 9000

non ci furono quindi mai bombardamenti e i ricognitori di

passaggio tiravano via apparentemente soddisfatti.

Poi venne il febbraio, il marzo, l'aprile, la barriera difensiva

del fronte scardinata, i russi che premevano su Berlino;

ma sebbene i bollettini del Quartier Generale non

facessero più mistero della disfatta, a bordo della K”nig

Friedrich II gli uomini vivevano tranquilli. Come chi è

chiuso nella solida casa di granito mentre di fuori la bufera

mugola. Tanto pareva invincibile la nuova grande corazzata,

Supremo capolavoro della stirpe tedesca.

 

Ma perché non si accendevano i fuochi? Che si aspettava

ancora? Di veder comparire alle spalle le prime fangose

pattuglie sovietiche? Berlino stava per cadere, doveva anzi

essere già caduta, una sera il bollettino del Quartier Generale

non fu più trasmesso.

Allora gli operai e gli ingegneri sbarcarono dalla corazzata,

l'aria sopra i tre fumaioli cominciò a tremolare, segno

che le caldaie erano state accese, opposti pensieri e speranze

si combattevano negli animi, la pace sembrava terribilmente

desiderabile pur nell'obbrobrio della disfatta ma era anche

amaro abbandonare così il bastimento meraviglioso senza

aver tentato neppure di combattere.

Il comandante dell'unità, capitano di vascello Rupert

George, fece suonare dalla tromba l'assemblea generale. Era

un uomo alto, biondo, aristocratico, dagli occhi molto chiari,

così sensibile e vergognoso dei propri sentimenti che per

salvarsi si era dovuto fare una volontà di ferro.

 

Erano le ore 3 pomeridiane del 4 giugno 1945. Come

tutto l'equipaggio fu riunito sulla coperta di poppa, il comandante

cominciò a parlare nei seguenti termini:

" Ufficiali, sottufficiali, marinai, devo dirvi poche cose, e

gravi.

" Come forse voi stessi immaginate, le forze armate tedesche

di terra, di mare e dell'aria stanno cessando di combattere.

Entro stasera forse verrà firmato un armistizio. Alle

clausole di tale armistizio tutti i militari del Reich dovranno

sottostare. "

A questo punto si fermò e con i suoi chiari occhi osservò

lungamente gli uomini che stavano dinanzi a lui.

" Ma la nostra sorte è diversa. Per un decreto del

comando supremo la corazata K”nig Friedrich II è esentata

dall'ottemperare alle clausole di qualsiasi eventuale armistizio.

Il documento è nelle mie mani da parecchi giorni e

più tardi sarà esposto affinché ciascuno di voi possa controllarlo.

" La corazzata K”nig Friedrich II quindi partirà stasera

stessa portandosi in una zona che non posso rivelarvi.

Mentre il territorio nazionale sarà interamente calpestato

dagli eserciti nemici, noi continueremo a restare libera e

indipendente Germania. Noi non attaccheremo più il nemico,

siamo però decisi a difenderci. Noi saremo l'ultimo

pezzo intatto della nostra patria.

" Ho il dovere di farvi sapere che ci aspettano giorni,

settimane, mesi, anni forse di duro sacrificio, e può darsi

che ci aspetti la morte. Ma a noi, sappiatelo, è stato affidato

l'ultimo brandello della devastata bandiera. A noi forse

toccherà l'ultimo e più grave combattimento. Il quale ci

potrà dare gloria ma non altro perché non ci saranno più

speranze.

" Nello stesso tempo ho il dovere di lasciarvi completamente

liberi. La scelta è a voi soltanto. Chi ritiene chiusa

la partita e preferisce seguire la sorte comune del nostro

popolo, è libero di sbarcare questa sera stessa esonerato

da ulteriori impegni militari. Motivi di notevoie interesse

umano e familiare possono giustificare tale scelta, e a me

non spetta il sindacarli.

" Chi invece sceglie con libera volontà di rimanere a

bordo sappia che non andrà incontro a gioie di sorta. Sarà

una missione lunghissima, della cui fine non si può prevedere

né la data, né il modo. Disagi, solitudine, separazione

assoluta dalle vostre famiglie, ignoranza del proprio destino,

sono tutto ciò che potete sperare. Vale la libertà tanto

sacrificio? A ciascuno di voi tocca decidere. Ascoltate quindi

la vostra coscienza. Io da lungo tempo ho già deciso.

" Fino a quando potremo conservare questo supremo bene?

Quale ultima mèta ci prefiggiamo? Saremo chiamati a

una battaglia decisiva? Neppure io lo so, ma anche se lo

sapessi non ve lo potrei dire.

" Perciò chi rimane a bordo, quando salperemo in direzione

dell'ignoto, dia pure uno sguardo d'addio alla terra

patria che lasciamo. Può darsi che non la rivedremo mai più. "

Tale, pressapoco, il discorso del comandante George. E

subito dopo l'assemblea fu sciolta e nessuno capiva bene

che cosa stesse succedendo, eppure le parole del comandante

erano rintronate con strana potenza negli animi cosicché

furono appena 227 gli uomini che chiesero lo sbarco.

 

La luce di quel giorno non si era ancora spenta interamente

che la corazzata Konig Friedrich II uscì di sotto la

gigantesca copertura mimetica che l'aveva per così lungo

tempo nascosta e mosse verso l'aperto mare. Immediatamente,

a terra, cominciarono a tuonare le cariche esplosive

predisposte per distruggere il bacino, il cantiere, le officine

e tutto il resto affinché di ciò che era stato fatto non rimanesse

traccia comprensibile. E per lungo tempo, da bordo,

sempre più lontane, si videro quelle vampe così significative.

Laggiù non si sarebbe mai tornati.

 

La storia a questo punto fa un grande salto e non dice

parola su come il bastimento poté uscire inosservato dal Baltico,

impunemente scavalcare la Scozia e percorrere l'oceano

Atlantico da nord a sud senza incontrare il nemico.

Ritroviamo la corazzata ferma in pieno mare a est del

Golfo di San Matteo, ormeggiata a una specie di boa che

per lei era stata sistemata, non si sa da chi né come, in corrispondenza

di un bassofondo. Ivi quasi duemila uomini

intrapresero una assurda vita, separati dal restante mondo

che ne ignorava l'esistenza. La vita a bordo proseguiva regolarmente

come in qualsiasi porto, solo che qui non esistevano

banchine e tracce visibili di terra ferma, bensì la

vacuità disperante delle onde. All'alba lavaggio, poi esercitazioni

di ogni genere, solo raramente il radar segnalava

l'avvicinarsi di una nave o di un aeroplano sconosciuti. Allora

il mostro dei mari si copriva immediatamente di una

pesante nebbia per mezzo di speciali apparecchiature e i

naviganti sempre passarono oltre senza badare troppo a

quella strana nube in mezzo all'oceano; e ugualmente fecero

gll aerei. (Circa l'avvistamento da parte del Maria Dolores III

l'Untermeyer non seppe dare spiegazioni.)

 

Di tanto in tanto una grossa motobarca veniva messa a

mare e si allontanava verso ponente. Dopo non molte ore

era di ritorno con nuove provviste di viveri. Il sistema di

rifornimento era stato infatti organizzato preventivamente

attraverso incontri in aperto oceano con navi provenienti

dall'Argentina. Navi tedesche o straniere, e come camuffate?

Di preciso non lo si è saputo. Invece della motobarca, alle

volte veniva ammainata una piccola cisterna; allora, invece

di viveri, era nafta.

Intanto le notizie della catastrofe tedesca si accavallavano

alla radio, e a bordo voci discordi e sediziose serpeggiarono,

sebbene la semplice vista del comandante George bastasse a

risvegliare, nei cuori sofferenti, un senso di venerazione e

di timore.

 

A lungo andare tuttavia neppure la disciplina formale e

l'intensa attività di ogni genere bastarono a spegnere il

fermento. Discussioni sempre più audaci si accendevano la

sera nel quadrato ufficiali e qua e là, nel chiuso dei camerini,

avvenivano quasi dei complotti.

Che cosa si stava aspettando? Che cosa si poteva sperare?

L'illusione romantica che li aveva sedotti alla partenza ormai

era perduta. La solitudine diventava un incubo. L'immobilità

esasperante. Che cosa si aspettava? Di essere avvistati

come presto o tardi era fatale, e macellati dall'aviazione

americana? Di marcire in quell'assurdo esilio?

Voci, dicerie, calunnie, sospetti, favole passavano ormai

di bocca in bocca. Qualcuno dubitava che il comandante

George fosse pazzo. Girò la voce di una violenta discussione

da lui avuta col comandante in seconda Stephan Murlutter,

un uomo solido, freddo, con la testa sulle spalle. Si diceva

che Murlutter fosse favorevole all'autoaffondamento e alla

resa. Dello stesso parere era la maggioranza.

 

C'erano però anche quelli che parteggiavano per George.

Specialmente gli ufficiali più giovani, i guardiamarina, i

sottotenenti di vascello. Era giusto - costoro sostenevano -

che una aristocrazia di pochi espiasse le infami colpe di cui

si era macchiata la Germania. Erano i puri, i mistici, gli asceti.

Quanti mesi passarono così? Il tempo precipitava su di

loro come succede agli ammalati per cui i giorni, uno uguale

all'altro, si confondono, e il passato perde ogni profondità.

Venne novembre, si giunse a dicembre, ecco Natale

e la invincibile fortezza nata per la distruzione e la battaglia

continuava a giacere nell'ignavia. E quella sera - laggiù

era piena estate - dalla coperta del bastimento il canto di

"Stille Nacht" si allargò patetico sull'immensità nuda dell'oceano,

senza trovare un'eco.

 

Strane leggende nacquero. Si diceva per esempio che con

le navi dei rifornimenti clandestini fosse giunta a bordo

una donna, anzi le donne erano tre e vivevano nascoste

negli alloggi dei sottufficiali. Si diceva che qualcuno, in

reparto macchina, lavorasse a sobillare i fuochisti affinché

si ammutinassero. Si diceva, anche che fosse prossimo un

combattimento. Ma contro chi? Nessuno lo sapeva.

La gente, fino allora disciplinatissima, diede frequenti segni

di nervosismo. Cominciarono, senza motivo i falsi allarmi.

Le vedette avvistavano apparecchi inesistenti o fumi

ch'erano semplici miraggi. Di punto in bianco, anche nella

piena notte, si propagava una smaniosa agitazione: i marinai

balzavano giù dalle brande, si vestivano, correvano

ai posti di combattimento. Si era sentito un "tocco" di radar,

si era acceso un bengala all'orizzonte, era passato vicino

un sommergibile; queste le voci. Poi si accertava che

non era vero niente.

 

In questa, mentre si delineava lo sfacelo, il comandante

George si ammalò. Il maggiore medico Leo Turba diagnosticò

una forma tifica. La notizia contribuì al disfattismo.

Dopo otto giorni il comandante George cominciò a delirare.

Credeva di essere nella propria casa di Brema, chiamava

la moglie, ordinava che gli sellassero il cavallo.

Al nono giorno si riebbe, ebbe un lungo colloquio col

comandante in seconda Murlutter; informato dell'eccitazione

che si manifestava a bordo, ordinò di accendere per salpare

il giorno dopo.

Ciò rianimò sulle prime l'equipaggio, ma lo scoraggiamento

si aggravò quando la nave mise la prora a sud, allontanandosi

ancora di più dalla Germania.

Finalmente però apparve terra e a questa vista poco mancò

che i marinai impazzissero di gioia.

Anche stavolta le illusioni caddero. La costa era la Terra

del Fuoco e la gigantesca nave si infilò in una insenatura

tortuosa dove gettò l'ancora. Intorno, il più inospitale e selvaggio

ambiente. Rocce scabre, ghiacciai immensi, non un

filo di verde, torme di pinguini, freddo. Ormai nessuno

chiamava più il bastimento col suo nome. Tutti dicevano:

la corazzata Tod.

 

Addì 23 gennaio 1946 morì il comandante George e per

la maggioranza fu un sollievo. Il comando infatti passava

al capitano di fregata Murlutter che si sapeva favorevole

all'autoaffondamento e alla resa.

Gli onori funebri tributati a George furono commoventi.

Quando la cassa avvolta dalla bandiera scivolò, sprofondando,

in mare, la banda attaccò l'inno nazionale. Molti, coi

nervi ormai spezzati, ruppero in singhiozzi.

Passarono altri dieci giorni nell'immobilità tetra del fiordo

patagonico. Chissà come, gli allarmi erano molto più frequenti

di quando la nave stava ormeggiata nell'aperto oceano;

per cui durante la giornata si continuava quasi sempre

a fare nebbia, e l'aria era irrespirabile.

 

Ci si aspettava che da un momento all'altro Murlutter

desse l'ordine di salpare verso il nord. E difatti diede ordine

alle trombe che suonassero per convocare l'assemblea generale.

Ma per la terza volta i marinai, che già respiravano, furono

crudelmente contristati. Quasi che con le consegne

estreme, il comandante George gli avesse trasmesso anche

la follia, Murlutter annunciò che tutti dovevano prepararsi

all'ultima e più dura prova: all'indomani, disse, si sarebbe

impegnata battaglia.

Un mormorìo minaccioso attraversò l'esasperata folla di

quegli uomini per lo più cenciosi e barbuti. Allora la voce

di Murlutter divenne una specie di tuono.

" Ripeto " disse " che domani con ogni probabilità sarà

giornata di combattimento. Ebbene, negli occhi vostri leggo

una sola domanda: contro chi? Io vi rispondo: non lo so.

Ignoro il nome del nemico. Non so che colore abbia la sua

bandiera. Ma questo, devo aggiungere, non ha la minima

importanza. Ricordatevi: molti di voi usano chiamare questa

nave col nome di Tod. La corazzata Morte! Credevate

forse di scherzare?

" Ed ora ascoltatemi con molta attenzione. Poiché tra voi

può darsi che qualcuno, o molti, non si sentano chiamati,

io a costoro dico, così come disse il comandante George

quando si lasciò l'isola di Rugen, io dico: siete liberi di

scegliere. Chi vuole sbarcare, sbarchi pure, ne faremo

senza. A loro disposizione metto le imbarcazioni necessarie,

con carburante e viveri sufficienti a raggiungere la

località abitata più vicina. Unico loro dovere, su cui io non

transigo, sarà il dovere del silenzio. Con giuramento pesantissimo

essi dovranno impegnarsì a non dire mai una parola ad anima viva,

per nessuna ragione, circa la corazzata...

circa la corazzata Tod. Io non sono certo un filosofo e non

so spiegare bene certe cose ma vorrei dire semplicemente

questo: un sacrificio non arriverà mai ai piedi di Dio Onnipotente

se non sarà stato consumato in segreto. Una vostra

parola indiscreta, e tutto sarebbe sprecato nel modo più miserabile.

La maledizione eterna dunque a chi non saprà tacere.

" Ma per coloro che restano a combattere, gloria! Gloria

a noi, alla corazzata Tod! Gloria alla sventurata patria lontana! "

Il discorso piombò come una violentissima pietra sul cuore

afflitto di quegli uomini. E il primo loro pensiero fu:

anche Murlutter è impazzito come George. Specialmente le

ultime frasi, pronunciate con un ardore cupo e doloroso,

dimostravano infatti una pericolosa esaltazione.

 

Poi il nuovo comandante in seconda Hellmuth von Wallorita

diede l'attenti e salutò Murlutter presentando l'equipaggio.

Ma nell'atto che alzava la mano alla visiera, von Wallorita

si lasciò sfuggire il monocolo dall'occhio destro. Con

uno strano tintinnìo il dischetto di vetro batté sulla lamiera

ma anziché rompersi rimbalzò rotolando verso il limite della

coperta. Nessuno osò muoversi. Nel pesante silenzio si udì

l'esile rumore. Gli occhi seguirono il percorso della lente

che accelerava via via la rotazione finché si infilò nel trincarino.

Ma invece di fermarsi, ebbe qui un ultimo sobbalzo

e piombò in mare.

 

Al cloc che fece il vetro dentro l'acqua, per le inesplicabili

risonanze delle cose, un sentimento di atroce solitudine

si impadronì degli uomini esiliati ai confini della terra,

quale non avevano provato mai. E gli sguardi, smarriti,

andarono con odio alle tetre montagne, alle rupi e ai ghiacciai

che assistevano impassibili, sprofondati nel loro sonno eterno.

Chiesero di essere sbarcati esattamente 86 uomini di cui

due ufficiali e 12 sottufficiali; tra i quali era Untermeyer.

Molti altri della corazzata sarebbero partiti volentieri per

ritornare nel consorzio umano e quindi in patria. Senonché

pensavano che quella fuga fosse inutile. All'indomani, la

demenza del comandante si sarebbe rivelata tale a lui stesso.

L'impossibilità di resistere a lungo in quel selvaggio approdo

sarebbe stata più forte di ogni follìa. E la nave si sarebbe

finalmente arresa.

Alla presenza del comandante, gli 86 partenti prestarono

il giuramento di tacere, quindi col bagaglio personale - era

già buio presero posto nella motobarca che si diresse all'uscita

dell'insenatura e ben presto fu al largo. Solo allora

in alcuni cominciò a risvegliarsi il pentimento, rimorso anzi,

quasi che la loro fosse una vile diserzione. Rimorso che col

passar dei giorni avrebbe perseguitato l'Untermeyer sempre

di più, fino a indurlo a uccidersi.

 

Per tutta la notte, con mare calmo, la motobarca proseguì

per rotta a levante poiché occorreva portarsi parecchio in

fuori a evitare l'insidia delle scogliere e ragiungere lo

stretto di Le Maire.

L'alba venne col cielo sereno, vaga foschia all'orizzonte,

la terra quasi non si vedeva più. A poco a poco gli uomini

poterono guardarsi in faccia, riconoscersi sotto le spesse barbe.

" Attenzione, un'unità sconosciuta a poppavia! " grìdò

uno all'improvviso. Tennero il respiro. " Ma è la corazzata

Tod! Viene per la stessa nostra rotta... Sì, accosta nella nostra

direzione... No, no, si allontana... E dove demonio sta

andando?... Adesso accosta in fuori... Perdio, va a tutta forza! "

Era una scena impressionante. Lanciato alla massima andatura,

il leviatano usciva dalle brume della notte, irto delle

sue antenne misteriose, la possente prora a becco fendendo

l'acqua con due alti rigurgiti di schiuma. Rapidamente la

motobarca andò scadendo.

 

Quando la corazzata Tod fu quasi al traverso, a una distanza

di circa mezzo miglio, sembrò a quelli della motobarca

di distinguere, portato dal vento, un caratteristico segnale

di tromba. " Senti la tromba?... Sì, la sento... La sento

anch'io... Ma sono impazziti!... Suonano posto di combattimento

generale! " Poi un urlo strozzato, con dentro un

terrore senza nome: " Jesus Maria, guardate laggiù! "

Tutti gli 86 guardarono. E il sangue gli si gelò nel petto.

All'estremo orizzonte australe, confusi nella caligine dell'alba,

paurose ombre di bastimenti avanzavano in linea di fila.

Navi vere o soltanto fantomatiche parvenze?

Esse torreggiavano con inusitate forme di intenso colore

nero, e al paragone la gigantesca corazzata Tod sembrava

una navicella da bambini. Dovevano essere alte centinaia di

metri, dovevano pesare milioni di tonnellate, dovevano essere

uscite dall'inferno. Ne contarono due, tre, quattro, cinque,

sei, e altre ancora si intravvedevano attraverso la foschia,

in un corteggio senza fine. Ciascuna era di sagoma

diversa, con strane alberature, torrioni sghembi che dondolavano

nel cielo, simili a minareti. A riva, criniera funebre,

fluttuava una selva di lunghissimi stendardi. Il tutto - e

spiegarne il perché era impossibile - aveva un'aria estremamente antica.

Chi erano? Dai recessi occulti della Terra venivano gli

ammiragli dell'apocalisse con le orbite vuote e nere simili

a spelonche, per umiliare l'uomo? Angeli o demoni popolavano

quelle funebri fortezze? Forse era quello il nemico

ultimo a cui alludeva il comandante George?

Ma evidentemente la corazzata Tod precipitava a capofitto

verso la propria perdizione. La videro serrare le distanze,

accelerare la velocità, quasi temendo che l'occasione

le sfuggisse. Intanto i vascelli delle tenebre riempivano ormai

tutto l'orizzonte con le loro sinistre architetture.

Il combattimento - raccontò poi capo Untermeyer - durò

una decina di minuti. Quelli della motobarca vi assisterono,

impotenti e paralizzati dall'orrore.

 

Videro la corazzata Tod brandeggiare i dodici lunghi colli

dei Vernichtungsgeschutze all'elevazione massima, verso gli

spettrali simulacri. Poi una triplice vampa, un triplice fiotto

di fumo rossiccio che rimase indietro, sospeso sopra le onde.

Dalle canne uscirono come tre aste incandescenti che in

curvo volo salirono rapidissime ad altezza vertiginosa per

poi precipitare sul bersaglio. Sparirono, parve, nel fianco di

uno dei neri bastimenti.

 

" Colpito in pieno! " gridò uno sulla motobarca con un

assurdo ritorno di speranza. Difatti nel centro del vascello

si aprì una voragine di fuoco, immediatamente i torrioni

vacillarono, rimasero qualche istante in bilico, tutto quindi

crollò in un frenetico intrico di macerie, e sprofondò nel mare.

Ma quando la corazzata Tod diede fuori la seconda salva,

anche il nemico fece fuoco. Barbagli giallastri lampeggiarono

contemporaneamente su quattro unità dell'armata misteriosa.

Col fiato in gola, quelli della motobarca aspettarono l'arrivo

dei proiettili. Finché uno disse: " Ma non arriva niente.

Ma non sono che fantasmi! ".

 

In quel preciso istante, mentre un terrificante tuono percuoteva

gli echi dell'oceano, a proravia della corazzata Tod,

dal mare livido, si levò verticalmente una dozzina di smisurate

torri fatte di schiuma e d'acqua. Si eressero alte,

altissime, sempre più alte, sembrava che non dovessero finire

mai. Quanto alte? Seicento o settecento metri? Ciascuna

era un cataclisma. Sfogato l'impeto, ricaddero, insaccandosi,

tremenda massa in cui la corazzata Tod sparì per un paio

di minuti.

Ricomparve intatta, tutta grondante spume, subito emise

le terza e quarta salva lanciando altre sei aste incandescenti.

Tre, corte, finirono nel mare. Tre invece si infissero in

un bastimento che assomigliava a un carro funebre con sette

lunghi fumaioli. Ancora qualche secondo, ed ecco la nave

scoperchéata da una violentissima esplosione: accartocciandosi

i neri bordi, la ferita spaventosa vomitò fuori le viscere

di fuoco. Allora il mare con furiosi sibili ribollì, e si

formò un nuvolone di vapore acqueo nel quale disparvero,

in un totale rovinio, le strutture della nave scardinata.

Anche ai guerrieri dell'inferno la corazzata Tod teneva

dunque testa. Ma a che valevano i suoi magnifici colpi?

Una seconda mostruosa selva di colonne d'acqua circondò

la Tod scuotendola come fosse stata ùna barchetta. Che

proiettili erano? Di che calibro? Grossi come vagoni? Come

case? Di che sovrumane artiglierie?

Ora tutti i Vernichtungsgeschutze fecero fuoco in salva

sincrona. Dodici fusi ardenti galopparono su per i nembi

addensatisi sopra la battaglia. Fulminei ridiscesero. Un terzo

bastimento nero fu sventrato e saltò in aria con un cipresso

di fiamme e fumo che raggiunse la cupola del cielo.

Ma fu l'ultimo. A un tratto, nel preciso punto dove si

trovava la corazzata Tod proruppe un picco d'acqua verticale,

dalle pareti lisce e di dimensioni indescrivibili. Simile

a un mostro, si drizzò in aria sorpassando l'altezza delle

nubi. Qui restò immobile un secondo. Repentinamente tremò,

si sciolse in cateratta, schiantandosi sul dorso grigio delle onde.

Quindi, di colpo, il nulla. Impietriti, quelli della motobarca

non credevano quasi ai propri occhi. Di colpo dileguati

i funerei vascelli dell'abisso, cessate le colonne d'acqua,

le vampe, le detonazioni, sparita la corazzata Tod. Come

se tutto quanto era successo se lo fossero inventato

loro. Niente più c'era sulla vastità uniforme delle acque,

non un rottame, un cadavere, una macchia di nafta iridescente.

Il nudo oceano e basta (solo restavano nel cielo, a

testimoniare, brandelli di catramose nubi). E nell'orribile

silenzio, che si spalancò nei loro cuori come una immensa

e vuota tomba, l'elica della motobarca borbottava, ritmicamente borbottava.

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