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La travagliata nascita dell'Arsenale di Taranto


Rostro

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In un precedente post http://www.betasom.it/forum/index.php?/topic/48207-il-vinzaglio-nella-cruna-dellago/ avevo raccontato le fasi salienti della nascita dell’Arsenale Militare Marittimo di Taranto. Avevo però lasciato in sospeso il racconto delle vicende e dei retroscena politici dai quali era maturata la sua nascita travagliata.

Riprendo qui il discorso cercando di riassumere in modo esauriente quella lunga gestazione durata più di vent’anni.

Di Taranto come sede di una base navale e di un Arsenale dipartimentale si cominciò a parlare nel 1861 grazie ad una breve ma incisiva pubblicazione dell’allora deputato tarantino Cataldo Nitti: “Il porto di Taranto nelle future condizioni dell’Italia “.

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Cataldo Nitti

 

In essa veniva sottolineata l’eccellente posizione geografica di Taranto, proprio al centro del Mediterraneo, dove lo scenario geopolitico che si andava delineando imponeva all’Italia di disporre di una forte stazione navale nel sud della penisola per assumere il controllo di ogni movimento su quei mari. Le argomentazioni del Nitti trovarono ampia risonanza non solo negli ambienti dei notabili tarantini ma anche a Napoli dove furono riprese con molto interesse dal quotidiano l’Indipendente fondato da Alessandro Dumas dopo l’entrata di Garibaldi nella città partenopea. Uscirono in proposito articoli entusiastici sull’avvenire militare e commerciale di Taranto che riflettevano, all’indomani dell’unità d’Italia, un ambiente ancora tutto permeato di amor patrio in cui le considerazioni erano basate sul sentimento di grandezza nazionale piuttosto che sugli interessi di campanile. Una situazione destinata a mutare in fretta.

L’importanza della questione non sfuggì alla Commissione permanente per la difesa dello Stato, istituita nel 1862, che nella seduta del 4 aprile di quello stesso anno affermò in una sua relazione che la baia di Taranto, per caratteristiche fisiche e geografiche, era destinata ad avere una grande importanza come piazza marittima militare e come cantiere di costruzioni navali. Ciò spinse il Governo nel 1863 ad inviare a Taranto in missione esplorativa il Capitano del genio militare Giuseppe Bifezzi con l’incarico di redigere uno studio particolareggiato della città e dei litorali di mar Grande e di mar Piccolo. Bifezzi rappresentava in quel momento la persona più competente alla quale il Governo potesse affidarsi. Esperto cartografo del Regio Officio topografico di Napoli, Bifezzi era stato autore, durante il periodo borbonico, di un pregevole “Atlante corografico, statistico, storico, ed idrografico del regno delle Due Sicilie, diviso ne'dominii al di quà ed al di là del Faro”. Conosceva già molto bene, quindi, le caratteristiche del litorale tarantino e dei suoi due mari. Si trattava ora di riprenderle ed aggiornarle per capire se fosse possibile l’insediamento di una base navale e di un arsenale.

Alla venuta del Bifezzi seguì l’opuscolo “I veri destini di Taranto nell’interesse d’Italia” del medico tarantino Giovanni Battista Savino che aggiunse nuovi incitamenti sull’opportunità di un grande Arsenale marittimo a Taranto. 

Mentre Bifezzi era impegnato a Taranto, alla Camera qualcosa cominciava a muoversi. Nella seduta del 17 dicembre 1863, durante la discussione sul bilancio per la Marina, il deputato Nino Bixio prese la parola e con toni molto decisi criticò tutto quello che secondo lui non andava, a cominciare dalla darsena di Genova da spostare al più presto e dai lavori per l’Arsenale di La Spezia che languivano per colpa dei troppi cavilli burocratici. Bixio, poi, prosegue parlando di Napoli e della necessità che la Marina abbandoni assolutamente non solo la darsena della città partenopea ma anche il cantiere di Castellammare. Si tratta, afferma, di impianti che per la loro dislocazione sono troppo esposti ad eventuali attacchi da parte di malintenzionati e perciò vanno spostati in località più sicure. Dove se non a Taranto? “Voi avete oggi la possibilità di andare a Taranto, postochè la natura vi ha dato una posizione insenata, il cui fondo è già tanto distante dai promontori estremi da potervi mettere i vostri depositi, i vostri bacini al sicuro. Se non potete far questo subito, ebbene andate almeno a Siracusa, ad Augusta, a Portoferraio, a Santo Stefano ed Orbetello che sarà tosto o tardi il vostro porto di Roma. Ma non rimanete così; scegliete un punto anche provvisorio, esposti quali siete ad una flotta nemica la quale può ad un dato punto venire a bruciare i vostri depositi, i vostri bacini. Preoccupatevi di questo, l’Italia vi darà i mezzi, ma per carità andate in qualche luogo sicuro, e fatelo in tempo.” L’intervento di Bixio raccoglie l’approvazione dell’Ammiraglio Napoleone Scrugli che afferma: “Dico che Taranto è il solo luogo”. Bixio conclude il suo intervento sottolineando che a Napoli fu lo stesso generale La Marmora a riferirgli “di non aver mai sentito un marino inglese che non fosse sorpreso di vedere che il nostro magnifico porto di Taranto fosse lasciato in dimenticanza, mentre il nostro materiale di mare fosse abbandonato al caso”.

 

LA COMMISSIONE VALFRE’

La Commissione permanente per la difesa dello Stato dà seguito all’interessamento già mostrato per Taranto nel 1862 e sul finire del 1864 nomina una sottocommissione speciale composta da Ufficiali del Genio, di Artiglieria e della Marina presieduta dal Tenente Generale dell’esercito Leopoldo Valfrè di Bonzo. Come aveva segnalato Bixio la sottocommissione procede ad esaminare i porti dell’Italia meridionale tra i quali dovrà individuare quello più adatto per ospitare l’arsenale del 2° Dipartimento, e arriva a Taranto ai primi del 1865.

L’esame dei luoghi è minuzioso e si avvale dello studio preliminare del capitano Bifezzi.

Va sottolineato che in quegli anni le condizioni della Marina non erano delle migliori. Come abbiamo visto molti erano i problemi strutturali e logistici che destavano le preoccupazioni e le proteste di alcuni parlamentari. Così che anche in occasione della discussione per l’approvazione del bilancio della Marina avvenuta nel giugno 1864 venne in particolare rimarcata dal deputato Ricci la totale mancanza di bacini di carenaggio. Si trattava di un grosso problema in quanto non permetteva di fornire adeguata assistenza tecnica alle corazzate negli stabilimenti esistenti in Italia perché il governo li aveva lasciati languire privi di forniture.

Gli studi che si stavano intraprendendo erano la conseguenza di questa non rosea situazione.

Ne era ben consapevole il deputato tarantino Cataldo Nitti che, prima che la Commissione deliberasse, decise di spingere ulteriormente a favore della scelta di Taranto con un nuovo scritto dal titolo “Considerazioni economiche e politiche per le quali l’Italia deve accrescere le sue forze marittime onde meglio giovarsi della sua posizione nel Mediterraneo e massime nel porto di Taranto”.

La relazione Valfrè, nella quale fu espressa la scelta a favore di Taranto, venne approvata dal Consiglio Superiore per la difesa dello Stato. Toccava a quel punto al ministro della Marina Diego Angioletti individuare la persona giusta a cui affidare l’incarico di redigere un progetto dettagliato degli impianti da realizzare. Domenico Chiodo, l’ingegnere militare più quotato del tempo, era già impegnato a La Spezia dove problemi burocratici stavano ritardando l’andamento dei lavori di quell’arsenale. A ciò si aggiungeva una fastidiosa malattia che in quel periodo affliggeva il generale. La scelta ricadde, pertanto, sul Capitano di Fregata Simone Pacoret di Saint Bon che si era fatto una solida esperienza di stabilimenti militari anche all’estero.

Il Saint Bon scese a Taranto e, con l’aiuto del maggiore del genio Cesare Guarasci, dopo aver studiato nei particolari ogni dettaglio, elaborò il c.d. “progetto di ubicazione”, imponente e dai criteri rivoluzionari. Prevedeva ben sette bacini di carenaggio e sette scali di costruzione, oltre ad officine e magazzini per tutti i servizi navali. La caratteristica innovativa consisteva nell’aver previsto molti spazi liberi tra le varie officine, vie larghe, dritte ed alberate, una rete ferroviaria completa, gru e piani elevatori per i servizi in banchina ed un acquedotto indipendente da quello della città (la struttura, ormai abbandonata, è tuttora visibile lungo la strada che da Taranto conduce al paese di san Giorgio Ionico).

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Ma non è finita. Erano previsti due caserme per la Marina ed una per la fanteria di marina, da far sorgere davanti all’Arsenale, un ospedale di marina nel giardino dell’ex convento di sant’Antonio mentre l’Ammiragliato avrebbe trovato posto in quello che oggi è il Palazzo degli Uffici. Il preventivo di spesa per il complesso delle grandiose opere previste dal Saint Bon raggiungeva la cifra, allora enorme, di circa sessantacinque milioni!

Quando le intenzioni del Governo di dotarsi di uno stabilimento militare marittimo anche nel sud della neonata nazione sembravano avviate a diventare operative, cominciarono i problemi.

Taranto, futura protagonista di quel supporto tecnico e logistico alla Regia Marina che Cavour aveva ipotizzato prima della sua prematura scomparsa, dovette attendere altri 16 anni. Quello che di lì a poco stava per accadere avrebbe scombinato tutti i propositi di una rapida realizzazione del progetto.

LA PRIMA BATTUTA DI ARRESTO

Il c.d. “Progetto di ubicazione” elaborato dal Saint Bon subì la prima battuta di arresto nel 1866 quando l’Italia decise di intervenire nel conflitto tra Austria e Prussia allo scopo di ricavarne vantaggi territoriali soprattutto sul confine nord orientale della penisola.

Quella guerra si rivelò invece un disastro sia politico che militare. La Marina lo ricorda dolorosamente con una sola parola: “Lissa”, una battaglia navale dal valore tattico e strategico praticamente nullo che invece di fornire la tanto richiesta vittoria clamorosa, ebbe il risultato di incidere in modo negativo, profondo e duraturo sul morale della nazione e della Marina in particolare.

Durissimo fu, inoltre, il colpo che subirono le già deficitarie finanze dello Stato con la conseguenza di interrompere e ritardare progetti ed opere di apparente prossima realizzazione. 

Si imponeva infatti un deciso riassestamento delle finanze del Regno con consistenti economie di spesa di fronte alle enormi esigenze di uno Stato unitario di recente istituzione. Erano necessarie strade, ferrovie, scuole, ospedali, edifici e tanto altro ancora, per non parlare dell’ancora aperta questione romana che calamitava l’attenzione di tutto il Parlamento. Le già notevoli spese per il costruendo Arsenale di La Spezia suggerivano inoltre una particolare cautela amministrativa nei bilanci della Marina. La conseguenza di questa situazione poco incoraggiante fu che le progettate opere militari di Taranto vennero messe in naftalina in attesa di tempi migliori.

Tuttavia, il Consiglio Superiore di Marina agli inizi del 1867 cominciò ad esaminare il progetto dell’Arsenale di Taranto. Ma un particolare era alla base di tutte le difficoltà ed i disagi: di quali somme si sarebbe potuto disporre? Su questo punto non vi fu mai la chiarezza necessaria tanto che il Consiglio Superiore di Marina ritenne opportuno, in una deliberazione adottata proprio l’ultimo giorno di quel 1867, di esprimere la necessità di studiare con attenzione la collocazione e la disposizione di stabilimenti ed edifici così da avere la possibilità in futuro di ampliarli all’occorrenza e convertire la stazione navale di Taranto in arsenale di primo ordine. Vale a dire: si cominci intanto a costruire qualcosa ma con la prospettiva di poter disporre in futuro dello spazio e delle opportunità per aggiungere altro.

In parlamento si riprese a parlare di Arsenali durante la discussione dell’8 febbraio sul Bilancio della Marina per il 1868. Il deputato Eduardo D’Amico (si tratta del comandante D’Amico che era stato Capo di Stato Maggiore dell’ammiraglio Persano a Lissa) parlando dei fondi necessari per ultimare l’Arsenale della Spezia e per proseguire i lavori nell’arsenale di Venezia considerò necessario stanziare dei fondi anche per un nuovo arsenale a Taranto. Il ministro della Marina Augusto Riboty nella sua risposta annunciò di aver ordinato che si facessero studi per l’arsenale di Taranto e dichiarò: “spero di poter presentare uno schema di legge per la costruzione di questo importantissimo stabilimento marittimo, il quale, senza dubbio, riuscirà il più bello, il più sicuro e il meglio difeso di quanti ne abbiamo in Italia”.

 

IL DEPUTATO GIUSEPPE PISANELLI

In questo contesto entra in scena il deputato di Taranto Giuseppe Pisanelli. Insieme al già citato Cataldo Nitti rappresenta una delle figure di maggior rilievo in questa storia, tale da poter essere considerato il politico chiave per le future sorti di Taranto e del suo Arsenale.

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Giuseppe Pisanelli

 

Nativo di Tricase, in provincia di Lecce, giurista insigne, avvocato e politico per passione, il 3 dicembre del 1868, mentre in Parlamento si discuteva un progetto di ampliamento dell’arsenale di Venezia, il cui relatore era l’onorevole Nino Bixio, Pisanelli rispolvera la questione dell’Arsenale di Taranto presentando un ordine del giorno, appoggiato calorosamente dallo stesso Bixio, con il quale veniva chiesto al Ministro della Marina Riboty di assegnare i fondi necessari per iniziare i lavori del nuovo stabilimento nella città bimare: “La Camera – diceva l’ordine del giorno – visto il bisogno di un arsenale militare e marittimo sulle coste meridionali dello Stato e la necessità di coordinare fra loro i diversi stabilimenti marittimi, invita il Ministero a presentare, all’aprirsi della prossima Sessione legislativa, un progetto di legge per la sistemazione definitiva degli arsenali marittimi dello Stato, e che assegni i fondi necessari a dare principio al nuovo arsenale di Taranto nei limiti che risulteranno necessari”. La necessità di coordinare i vari stabilimenti rappresentava, come affermava il deputato Eduardo D’Amico, un elemento basilare che avrebbe consentito di stanziare i fondi in base alle effettive esigenze, evitando opere colossali come l’arsenale di La Spezia che all’Erario era già costato 50 milioni e non era ancora terminato.

L’iniziativa del Pisanelli innesca un vivace scontro parlamentare che vede tra i protagonisti più accesi i deputati napoletani preoccupati per il possibile abbandono degli stabilimenti partenopei e quelli di Siracusa interessati a far cadere la scelta della sede sulla propria città.    

Ciò nonostante, il 4 dicembre la Camera approva l’ordine del giorno di Pisanelli. Si tratta di una circostanza molto importante perché rappresenta il primo voto del Parlamento a favore dell’Arsenale di Taranto. Poco male se, come visto, viene dato di straforo nell’ambito di una diversa discussione, e non per iniziativa del Governo. Fu in occasione della discussione che condusse a quel voto che Bixio, fautore della necessità di sloggiare l’arsenale da Napoli e di trasferire il cantiere di Castellammare per inadeguatezza del sito ove sorgeva, pronunciò la famosa frase “Voi potete dire cento volte di non fare l’arsenale a Taranto, la natura vi risponderà sempre di sì”.

Una frase ad effetto, pronunciata con evidente teatralità, che probabilmente contribuì a dare la spinta definitiva alla Camera che a grande maggioranza il 16 dicembre 1868 deliberò che “il Ministro della Marina è autorizzato a presentare una legge relativa alla costruzione di un arsenale nel mare di Taranto…”

Il ministro della Marina Riboty, prima di presentare la legge, aveva inviato a Taranto il maggiore del genio Cesare Prato ordinandogli nuovi studi per l’Arsenale con la raccomandazione di ridurre sostanziosamente il megaprogetto del Saint Bon. Prato si mette al lavoro e il 26 marzo 1869 presenta un progetto per 25.500.000 di lire. Si tratta del c.d. “progetto definitivo che, approvato dal Consiglio di Marina con alcune modifiche il 10 maggio 1869, venne alla fine considerato come il piano regolatore dell’Arsenale di Taranto. In esso viene messa a frutto l’esperienza del recente conflitto che evidenziava alcune inadeguatezze dell’originario progetto di Saint Bon e la necessità di una rielaborazione anche alla luce dei progressi industriali e cantieristici che ormai influivano sulle costruzioni navali. Nel rispetto delle indicazioni di Riboty il maggiore Prato operò anche un sostanzioso ridimensionamento del progetto di Saint Bon. Niente più opere di fortificazione della rada; bacini di carenaggio e scali di costruzione ridotti entrambi a due; magazzini ed officine su un’area di 50.000 mq; una sola caserma per gli equipaggi e la fanteria di Marina per 1500 uomini; un ospedale da 400 posti letto ed una polveriera per 600.000 kg di esplosivo.

 

SECONDA BATTUTA DI ARRESTO

Ma essere giunti ad un “progetto definitivo” non basta. Nelle discussioni sul bilancio della Marina che seguirono alla Camera nel 1869 e nel 1870 venne sollevata la questione dell’inopportunità di sparpagliare i fondi disponibili tra più opere e della necessità di attendere il completamento dei lavori negli arsenali di Venezia e di La Spezia, concentrando in particolare su quest’ultimo i mezzi finanziari prima di intraprendere le opere di Taranto.

Poichè la legge istitutiva dell’Arsenale di Taranto non arriva, il deputato Pisanelli nel Maggio 1871 si rifà vivo presentando un’energica interrogazione parlamentare per sollecitare il nuovo ministro della Marina Guglielmo Acton. Niente da fare. Ancora silenzio. E così il 6 giugno 1871 Pisanelli torna alla carica con una nuova interrogazione con la quale, lamentandosi della mancata presentazione della legge: “ma oramai sarebbe quasi colpa l'obliare una deliberazione che è stata presa, come dissi, quasi unanimemente dai deputati”, sottolinea che: “nelle attuali congiunture più che mai il paese desidera che sia provveduto alla difesa nazionale segnatamente delle coste marittime. Si tratta di un'opera per la quale sono compiuti gli studi né da noi si richiede che in un tratto si spenda una grande somma” (per Pisanelli l’importante era cominciare, anche con un budget ridotto; il resto sarebbe venuto in seguito). Il deputato tarantino conclude il suo intervento con la speranza che “definita la questione politica col trasporto della capitale, il Ministero non incontrerà più difficoltà per corrispondere realmente e sollecitamente al desiderio della Camera che era la espressione di quello di tutto il paese.”

Il ministro Acton replica rassicurando il Pisanelli:

“Tanto i miei onorevoli predecessori, quanto io, abbiamo sempre dichiarato di riconoscere la necessità che l'Italia abbia tre dipartimenti, tre centri marittimi, qualunque fossero le economie dello Stato, uno cioè nel mare Adriatico, uno nel mar Ionio e l'altro nel Mediterraneo. L'onorevole Pisanelli conosce forse gli studi a cui il Ministero fece procedere, e quelli che furono fatti anche dal compianto generale Chiodo. Non ostante dunque le strettezze dell'erario, posso assicurarlo che la deliberazione della Camera sarà eseguita.”

Pisanelli ribatte con queste parole: “Sono soddisfatto di queste dichiarazioni, e prendo atto delle parole dell'onorevole ministro, sperando che egli vorrà adempire alla sua promessa” (Si ride). L’annotazione “si ride”, riportata nel resoconto stenografico della seduta si presta a qualche riflessione. Perché i parlamentari ridono alle parole finali di Pisanelli? Forse perché sono espresse in tono sarcastico, come a voler dire “abbiamo sentito tante rassicurazioni in questi anni, speriamo sia la volta buona” oppure Pisanelli è scettico e ritiene già vana la sua “speranza” di fronte ad una ennesima “promessa di marinaio”? Non lo sappiamo ma, visti i precedenti, appaiono ipotesi non improbabili.

Ed infatti, nonostante le rassicurazioni del ministro, si deve attendere la fine del 1871 per vedere presentato uno schema di legge per l’inizio dei lavori dell’arsenale di Taranto. Ne è promotore Augusto Riboty che a fine Agosto di quell’anno diviene nuovamente ministro della Marina. Riboty ha idee molto chiare su quali siano le necessità della Nazione in campo marittimo militare e il 20 dicembre 1871, di concerto con il ministro delle finanze Sella, presenta alla Camera un disegno di legge che assegna 6 milioni e mezzo da spendere in sei anni. Ma si procede sempre al rallentatore. Il progetto non solo è modesto ma viene portato alla pubblica discussione dopo più di un anno, nei tre giorni dal 28 al 30 aprile 1873. I pareri dei vari deputati impegnati nella discussione si scontrano  sull’opportunità di costruire un terzo arsenale, giudicato superfluo data la consistenza della flotta. Anche la scelta della rada di santa Lucia dove ubicare le strutture viene contestata mentre altri sottolineano, invece, la necessità politica, militare, marittima ed economica in base alla quale occorrerà comunque provvedere malgrado qualsiasi opposizione.

La Commissione parlamentare che esamina il progetto, relatore l’on. Eduardo D’Amico, trova insufficiente la proposta del Ministero. Viene pertanto opposto un contro progetto che eleva la spesa a 23 milioni in 10 anni tenendo conto di un ricavo di 10 milioni dalla vendita dell’Arsenale di Napoli e del Cantiere di Castellammare di Stabia. Che fa il Ministero della Marina? Considerandolo troppo oneroso respinge il contro progetto che però viene ugualmente messo ai voti con il risultato che, superate le forti resistenze del ministro delle Finanze Quintino Sella, viene approvato dalla Camera a grande maggioranza.

Dietro tale voto non è difficile scorgere strategie politiche tese a far cadere il Governo ed infatti il giorno dopo, 1° maggio, il Presidente del Consiglio dei Ministri on. Lanza annuncia di aver presentato al Re le dimissioni del suo gabinetto “perché il voto approvato per l’Arsenale di Taranto aggravava troppo le finanze dello Stato”. Il Ministero, si disse, era naufragato nel mar piccolo di Taranto.

La discussione alla Camera di quel progetto rappresentò un distillato di machiavellismo politico. La deputazione napoletana, in gran parte di sinistra, apparsa favorevole alla proposta della Commissione D’Amico (anche se così facendo avrebbe compromesso gli interessi di Napoli) in realtà sperava di allontanare Pisanelli ed i suoi amici dal Ministero innescando così la crisi. (Il deputato tarantino, invece, come abbiamo visto, era favorevole anche ad uno stanziamento esiguo e non si prestò al gioco). Alle manovre della sinistra si aggiunse l’opposizione della città di Napoli che, tuttavia, si limitò ad una timida petizione con cui quel Consiglio Comunale chiedeva alla Camera: “che fosse dichiarato per legge che la soppressione dell’Arsenale marittimo di Napoli non seguisse nel fatto, se non prima fosse stato compiuto in tutte le sue parti l’Arsenale marittimo di Taranto”.

 

L’INCARICO DI FORMARE IL NUOVO GOVERNO

La situazione per Taranto ed il suo Arsenale sembra tornare in stallo ma il tenace Pisanelli rimane protagonista della scena. Le dimissioni di Lanza inducono il re a convocarlo al Quirinale per affidargli l’incarico di formare un nuovo governo. Pisanelli si trova in imbarazzo. E’ un galantuomo d’altri tempi e, pur con la comprensibile difficoltà che gli provoca esprimere un rifiuto al sovrano, risponde che in quanto deputato di Taranto e causa diretta della crisi, ritiene di non poter accettare l’incarico. Non solo, suggerisce di affidarlo nuovamente al Lanza. Il re accetta le argomentazioni del deputato tarantino ed il suo cavalleresco suggerimento. Lanza riceve nuovamente l’incarico e il 5 maggio 1873 si ripresenta alle Camere ottenendone la fiducia dopo aver dichiarato che avrebbe ritirato il progetto dell’Arsenale di Taranto che era i discussione promettendo di presentarne a breve un altro..

Il 17 maggio il ministro della marina Riboty presenta quindi il progetto di legge rivolgendosi così alla Camera: “In relazione all'impegno preso dal Governo, in unione al mio collega il ministro delle finanze, ho l'onore di presentare alla Camera il progetto di legge che autorizza il Governo a dar principio ai lavori dell'arsenale marittimo a Taranto”. Anche in questo caso il resoconto stenografico della seduta riporta “Viva ilarità a sinistra”. Questo fa pensare che molti non avessero intenzione di prendere sul serio la questione dell’Arsenale a Taranto.

Tant’è che viene nuovamente accantonata. Verrà riportata alla Camera circa un anno dopo, il 27 marzo 1874, dal nuovo ministro della Marina Simone Pacoret di Saint Bon. Essendo l’autore del primo grandioso progetto si presumeva che dovesse esserne accanito sostenitore ed invece ripresenta il precedente schema di legge presentato da Riboty il 17 maggio 1873. La chiusura della sessione, tuttavia, ne impedì la discussione. La nuova proposta aveva però una particolare caratteristica che la differenziava dall’altra: l’ubicazione del canale di comunicazione tra il mare piccolo ed il mare grande di Taranto da aprirsi sul versante di porta Lecce e non più su quello di porta Napoli. Tutto definito, quindi. Macchè. Nonostante i lavori da autorizzare corrispondessero al piano regolatore già stabilito per questo arsenale e gli uffici della Camera avessero esaminato il progetto di legge nominando i rispettivi commissari, nella Commissione sorsero diverse obbiezioni sulla proposta ministeriale, specialmente dal punto di vista della spesa. Avvicinandosi, poi, nel giugno del 1874 le ferie parlamentari, durante le quali era prevedibile lo scioglimento della Camera, l’onorevole Nicotera domandò nella seduta del 3 giugno che durante le medesime la Presidenza fosse autorizzata a ricevere la relazione sul progetto di legge per l’Arsenale di Taranto, confidando nello zelo del relatore per compiere questo lavoro. Però la relazione non fu mai presentata. Il relatore, onorevole Fano, approfittò dello scioglimento della Camera per esimersi dall’incarico ricevuto.

Ciò nonostante Saint Bon non si ferma e nel frattempo fa completare gli studi ed i progetti esecutivi del canale navigabile e del ponte girevole. Il canale navigabile in origine (1865) era stato progettato come un modesto passaggio di trenta metri di larghezza. Il Consiglio Superiore di Marina in una sua relazione del 26 febbraio 1874 aveva in seguito osservato che questo era “l’ingresso ad un porto militare” e pertanto doveva essere di dimensioni tali da permettere “il libero e pronto ingresso sotto vapore alle più grosse navi da guerra”. La sua larghezza minima venne quindi portata a sessanta metri. Ma in quegli otto anni che erano trascorsi molte cose erano cambiate nella fisionomia urbana di Taranto. Il piano regolatore nel frattempo intervenuto prevedeva l’espansione della città oltre i limiti dell’isola (l’attuale città vecchia) ed erano quindi cominciati a sorgere alcuni palazzi al di là del fosso. Nel rettificare il tracciato e nel delimitare le sponde del canale ci si accorse, pertanto, che era necessario demolire non solo l’ultima torre settentrionale del castello, quella di Sant’Angelo, ma anche tutti e tre le torri del vecchio muro civico che affacciava sul fosso stesso, quelle di mater Dei, della Monacella e del Vasto. Ma tutto si blocca un’altra volta e non certo per un improvviso ravvedimento  archeologico-culturale.

Il testo del progetto, infatti, venne ripresentato il 21 gennaio 1875 ma con un preventivo di spesa davvero modesto: 5 milioni di lire suddivisi in sette anni. Il Presidente del Consiglio Minghetti lo giustificò con la scarsa disponibilità finanziaria dovuta all’enorme esborso per l’Arsenale di La Spezia arrivato fino a quel momento a 54 milioni. A Taranto, pertanto, non si sarebbe costruito un arsenale ma solo una stazione di ricovero in caso di guerra. Le prospettive di qualche anno prima si infrangevano miseramente ancora una volta su questioni di bilancio. Comunque anche questo progetto non giunse in porto e dell’Arsenale a Taranto si smise di parlare. La sinistra, infatti, era salita al potere e con l’aumentata influenza dei deputati napoletani l’attenzione sulla base marittima nella città dei due mari scemò del tutto malgrado gli sforzi dei deputati tarantini Carbonelli e Santa Croce succeduti al Pisanelli.

 

L’ASTUZIA DI ACTON

Occorre attendere il dicembre del 1880 quando il nuovo ministro della Marina ammiraglio Ferdinando Acton presenta una legge che, fissando l’ordinamento degli Arsenali dello Stato, riporta a galla la vecchia idea di Nino Bixio di trasferire il 2° Dipartimento da Napoli a Taranto, non appena i lavori fossero giunti ad un punto tale da poterveli stabilire, destinando un milione e trecentomila lire per avviarli. E’ il fiammifero che riaccende il fermento nella città di Taranto. Ad alimentarlo è ancora Cataldo Nitti, il precursore di tutto questo travagliatissimo iter. Il 6 febbraio 1881, divenuto senatore del Regno, consapevole della necessità di creare un movimento di opinione cittadina che sollecitasse la discussione del progetto di legge presentato alla Camera, tiene un appassionato comizio in cui arringa la folla dei Tarantini intervenuti.

Ma deve trascorrere ancora più di un anno prima che il 27 maggio 1882 la legge venga discussa in Parlamento. Tempo necessario per cercare una soluzione al problema che avrebbe rappresentato un ostacolo insormontabile per la sua approvazione. L’opinione pubblica napoletana ed i suoi rappresentanti in Parlamento, visti i precedenti, mai avrebbero accettato un testo che, spostando la sede del 2° Dipartimento a Taranto, dove sarebbe sorto il nuovo arsenale, e sopprimendo i cantieri di Castellammare, avrebbe non solo azzerato l’importanza militare e strategica del capoluogo campano, offuscandone il prestigio a livello nazionale, ma avrebbe anche creato una grave crisi occupazionale in tutta l’area partenopea. D’altro canto la costruzione di un nuovo arsenale a Taranto con il passare degli anni (e ne erano trascorsi già più di venti da quando se ne era cominciato a parlare) era diventata un’esigenza primaria per il governo alla quale non si poteva più derogare. Occorreva mediare in qualche modo.

Ecco, allora, che il testo originario presentato dal Ministro Acton ne esce completamente trasformato, per così dire edulcorato, allo scopo di prevenire la fiera opposizione dei deputati napoletani. Come detto, la legge in discussione riguarda l’ordinamento degli Arsenali. Come fare, allora, perché tra questi venga preso in considerazione anche l’arsenale di Taranto senza prevederne la formale istituzione? Con un sapiente giuoco di prestigio. Dall’originario progetto di legge vengono ritirati gli articoli 1, 6 e 7, che ne prevedevano l’istituzione formale ed il trasferimento della sede del 2° Dipartimento da Napoli a Taranto. Così facendo, però, nell’ambito di una generale previsione di stanziamenti per nuove costruzioni da eseguirsi negli arsenali di La Spezia e di Venezia, nel testo della legge compare a sorpresa l’art. 3 con la seguente previsione: “Per il primo impianto del nuovo arsenale di Taranto verranno eseguite le seguenti opere: 1. Il canale di comunicazione fra la rada ed il mar piccolo a levante della città; 2. Un bacino da raddobbo capace di ricevere le più grandi navi da guerra; 3. Uno scalo di costruzione; 4. Le officine occorrenti pel bacino e lo scalo; un magazzino pel deposito di carbone, un magazzino per i viveri e due grandi cisterne d'acqua; 5. Una gru idraulica di 160 tonnellate. Le dette opere saranno coordinate al piano generale dell'arsenale approvato dalla deliberazione 10 maggio 1869 del Consiglio superiore di Marina con intervento di membri del Comitato del Genio militare” (Si trattava del c.d. “progetto definitivo” dell’Ing. Prato).

Nel testo di legge, quindi, si parla di "opere da eseguire per il primo impianto dell’arsenale di Taranto", come se l’istituzione di quest’ultimo fosse stata già prevista.

In realtà, come abbiamo visto, gli articoli che la prevedevano erano stati cassati. Uno stratagemma che dava per esistente ciò che non avrebbe dovuto esistere. Ma, se il fine giustifica i mezzi, questo illusionismo legislativo fu un colpo di genio che sanciva qualcosa che fino ad allora non vi era stato verso di far passare in alcun modo. Finanziare le opere, descrivendole accuratamente nell’art. 3 della legge, per costruire un arsenale la cui istituzione non era stata formalmente sancita fu un classico esempio di quello straordinario equilibrismo legislativo di cui, in determinate circostanze, sono capaci i governanti più smaliziati.

Si compie in tal modo quell’opera di dissimulazione che avrebbe, da un lato, tacitato le proteste napoletane e, dall’altro, assecondato le esigenze strategiche della Nazione e le aspettative dei Tarantini. Un’impresa che suscitò l’approvazione del deputato di Lecce Gaetano Brunetti che durante il dibattito tenutosi alla Camera apprezzò con convinzione l’iniziativa del ministro Acton del quale “ammirava la prudenza ed il suo ardente desiderio di condurre in porto un disegno che subì in vent’anni tanti disinganni”. La decisione fu quindi condivisa da tutti i deputati. Anche di quelli napoletani? Si anche di loro che, avallando la “prudenza” normativa di Acton, evitarono le rimostranze del proprio elettorato di fronte ad un testo di legge che, diversamente, sarebbe stato giudicato inaccettabile.

Napoli, quindi, non solo restava sede del 2° Dipartimento ma conservava anche il proprio arsenale ed i cantieri di Castellammare (cantieri, occorre ricordarlo, nei quali furono poi varate negli anni ’30 le navi scuola Vespucci e Colombo…)

Relatore del progetto di legge fu il deputato Galeazzo Giacomo Maria Maldini che nella sua esposizione sintetizzò il percorso tortuoso e difficile del progetto, deplorando “che nel nostro paese le questioni marittime, così importanti per noi, possano essere spesso esaminate sotto un solo punto di vista, quello dell’aggravio dell’erario pubblico.” Ma non fu solo quella la causa, come abbiamo visto. Forse il deputato Maldini ritenne che sarebbe stato sconveniente far cenno ad altro…

Con la pubblicazione della legge n. 833 del 29 giugno 1882 sulla Gazzetta Ufficiale del Regno n. 160 del 10 luglio 1882 ebbe così finalmente termine la lunga gestazione politica dell’Arsenale di Taranto.

Gli studi ed i progetti susseguitisi negli anni potevano finalmente passare nel campo pratico. Si inaugurava così un nuovo periodo nella storia dello stabilimento, un’opera dal grande rilievo militare e strategico che avrebbe cambiato la fisionomia e la vita economica e sociale dell’intera città dei due mari. La contropartita, amara e duratura, fu lo sconvolgimento di una delle zone naturali più belle di Taranto, la baia di santa Lucia. Negli anni a venire, inoltre, il c.d. “muraglione” di cinta avrebbe nascosto la vista di quel tratto di costa negando ai cittadini anche un semplice e fugace sguardo.

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Il "Muraglione" di cinta dell'Arsenale di Taranto

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