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Decima!


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beh basta dirlo :s03: :s03: :s03:

però ti assumi te la responsabilità se monopolizzo il forum con la decima :s03: :s03: :s03: :s03: :s03: :s03: :s03:

sappilo però così mi rendi felice come un bambino

 

San-Bartolomeo---SSB.jpg

 

SSB

 

S.S.B.---Disegno.jpg

 

MTM.jpg

 

 

Abbreviato familiarmente in “emme” nell’ambiente dei Mezzi d’Assalto, divenne alla fine del 1941 , il tipo di barchino esplosivo “standard” della “ Xa Mas” e fu anche quello di cui venne costruito il maggior numero di esemplari.

Le dimensioni principali dell’M.T.M. (Dis. C.A.B.I. A. 383 dell’1.7.1941, serie IV-VII) erano le seguenti:

Lunghezza fuori tutto

(salvagente “baffo” della “palmola” compresi) mt. 6,110

Larghezza dello scafo…………………………… mt. 5,385

Larghezza massima

(con “scontri” della “palmola” estesi)… mt. 1,665

Altezza di costruzione……………………… mt. 1,040

Peso totale

(a pieno carico)…………………………...…… kg. 1.200

 

 

Scafo:

in legno, con carena a spigolo senza scalini, rinforzato da due chiglie paramezzale in noce, su cui erano fissate le ordinate e suddiviso longitudinalmente in quattro comparti.

Apparato motore:

era costituito da motore a scoppio Alfa Romeo tipo “6c./2500” da 90 HP, dotato di invertitore di marcia e in grado di imprimere al mezzo una velocità massima continuativa di 31 nodi, con una autonomia corrispondente di circa 3 ore.

 

Motore-Alfa-Romeo-6c-2500.jpg

 

Carica esplosiva:

la carica, circa 300-350 kg. di Tritolital (derivazione potenziata del Tritolo), contenuta in un cortuccere cilindrico (diametro 50x100 cm.) in lamiera metallica del peso di 20-30 kg. Spoletta a variazione di profondità, congegno tarato a 8-12 metri per i bersagli fermi e 3-4 per quelli in movimento.

 

Progetto-MTM.jpg

 

sma-cabi-cattaneo.jpg

 

MOTOSCAFO TURISMO SILURANTE MODIFICATO ALLARGATO

Sigla M.T.S.M.A.

 

All’inizio del 1943, sulla base delle esperienze belliche acquisite con l’impiego degli “M.T.S.M.” 1° e 2° serie e dei risultati delle prove delle prime unità della 3° serie, venne prospettata l’opportunità di apportare al progetto di base del mezzo alcune modifiche tendenti soprattutto a migliorarne ulteriormente le qualità nautiche.

Ne derivò un nuovo tipo di motoscafo, di dimensioni leggermente aumentate ( la lettera finale “A” della sigla sta a significare allargato).

 

Caratteristiche tecniche:

Lunghezza fuori tutto da mt. 8,3 ad mt. 8,77;

Larghezza da mt.2,2 ad mt. 2,32;

Dislocamento a pieno carico t. 3,760.

 

 

Motore :

Pressoché invariato, l’autonomia passava da 200 a 250 miglia per effetto della maggior dotazione di benzina, da circa 190 litri a quasi 500.

Armamento:

Un siluro, bombe di profondità e fumogeni.

 

 

 

 

 

MOTOSCAFO SILURANTE TIPO X° (Decimo)

Motoscafo sperimentale.

 

Si trattava di un mezzo di ragguardevoli dimensioni rispetto a quelle dei motoscafi siluranti sino ad allora costruiti. Probabilmente era nelle intenzioni del progettista la realizzazione di una imbarcazione offensiva dotata di migliori qualità nautiche e di un più potente armamento silurante.

Caratteristiche tecniche:

Larghezza fuori tutto - mt. 15,400

Larghezza - mt. 4,300

Dislocamento previsto - kg. 13.000

Armamento:

4 siluri

Motore:

due motori “Fiat A.30” per complessivi 900 HP, velocità prevista circa 40-41 nodi, con un’autonomia corrispondente nell’ordine delle 320 miglia.

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gotrek..fammi sapere se il documento che ti ho spedito ieri sera ti è arrivato.......

 

...ecco 3 siti fatti bene con argomento decima

 

sito Decima

associazione decima

sito decima

 

ecco un sito toccante contenente la storia di due ragazzi di seregno appartenenti alla decima "btg. Lupo" indi reparto terrestre...

fratelli rossi

 

 

Quà sotto ti posto un'articolo a un'autrice

INCONTRO CON L’AUTORE

 

Intervista con la dott.ssa Sole DE FELICE

 

A cura di Francesca LAZZERI

 

 

 

 

 

Continua, instancabile, l’attività culturale svolta dal circolo An “La Torre” di Valcanneto. Venerdì 22 giugno è stato presentato “La Decima Flottiglia Mas e la Venezia Giulia 1943-45” di Sole De Felice, edizioni Settimo Sigillo. L’incontro, introdotto dall’editore Enzo Cipriano, ha visto la partecipazione di un pubblico attento e ben preparato e soprattutto consapevole dell’importanza del revisionismo storico. Di qui la nascita di un vero e proprio dibattito con contributi personali, già nell’introduzione, cui è seguito l’intervento dell’autrice che in maniera semplice e spontanea ha raccontato il contenuto del suo libro, frutto di un riadattamento della sua tesi di laurea in Scienze Politiche, indirizzo storico - politico, conseguita nel 1998/99 con il massimo dei voti presso l’Università “La Sapienza” di Roma.

 

Per il contenuto del libro vi rimandiamo al risvolto di copertina che ci da il senso dell’opera: “Junio Valerio Borghese fu uno dei pochi ufficiali delle nostre forze armate ad affrontare il dramma dell’8 settembre senza calpestare patriottismo ed etica militare. L’armistizio significò infatti non solo la sconfitta militare ma qualcosa di molto grave e profondo, vale a dire una vera e propria “morte della patria” di ciò ancora oggi sentiamo gli effetti. Dopo questa data gli uomini della Xa Mas, sotto la guida del Comandante Borghese, seppero riorganizzarsi facendo una nuova Decima Mas, nata sul prestigio della vecchia, oltre che una forza militare una forza morale. I numerosi volontari tentarono di restituire all’Italia l’onore perduto cercando innanzitutto di difendere l’intangibilità del territorio nazionale. Di qui l’impegno degli uomini della Decima Mas per la difesa dei confini orientali, e il loro sacrificio nel dare prova armata dell’esistente sovranità italiana in Istria, Fiume e Dalmazia. A quasi sessant’anni di distanza, e grazie anche a nuove fonti archivistiche, dopo numerose mistificazioni dei fatti e persecuzioni anche giudiziarie, è giunto il momento di analizzare con onestà storica quelle tragiche vicende.”

 

E veniamo all’autrice: Sole De Felice è stata allieva del Professor Renzo De Felice – del quale non sono parente… ci dice dopo un breve scambio di battute – e proprio su indicazione dello scomparso Professore ha svolto la tesi di laurea.

 

Sole come è nata l’idea di questa tesi e quanto è stato importante l’aver frequentato i corsi di storia contemporanea del Professor De Felice, il padre del revisionismo storico del Fascismo?

 

 

 

La storia della Decima Mas e dei suoi leggendari mezzi d’assalto mi ha sempre affascinato sin da quando ero piccola anche per una certa tradizione familiare molto legata alla Marina Militare. Le lezioni del prof. De Felice ed il ruolo fondamentale che secondo lui l’8 settembre ha avuto nella formazione della nostra Repubblica mi hanno spinto a studiare l’impatto di quel drammatico armistizio su uomini, come quelli della Decima, fortemente coinvolti e motivati. Questo anche per comprendere le motivazioni morali e psicologiche di chi allora compì una determinata scelta. Molti di loro infatti, e primo fra tutti il comandante Borghese, aderirono alla R.S.I. pagandone fino in fondo tutte le conseguenze.

 

 

 

E’ stato difficoltoso consultare i documenti ufficiali? Quanto tempo hai impiegato?

 

 

 

Uno degli insegnamenti del prof. De Felice è stato proprio quello di basarsi, per le proprie ricerche, sui documenti. Io ho consultato per quasi due anni quelli dell’Archivio Centrale dello Stato e quelli dell’Ufficio Storico della Marina Militare. Ciò comporta sicuramente un lavoro più lungo e faticoso ma sicuramente molto più esaltante e utile per la ricerca storica che non quello di una pura e semplice consultazione di libri altrui.

 

 

 

Tu sei autrice di diversi articoli sulla Decima Mas: qualche tuo familiare ne ha fatto parte?

 

 

 

Non ho avuto nessun familiare nella Decima ma mio padre è stato molto amico di Borghese ai tempi della nascita dell’ MSI. Dai suoi racconti è nata in me una grande ammirazione per questo personaggio ulteriormente suffragata dalla lettura della sua bellissima autobiografia. A mio parere è stato un autentico soldato che ha sempre seguito una condotta etica e militare inattaccabile e onorevole.

 

 

 

Alla fine del tuo libro ci sono allegate delle interviste da te realizzate a tre protagonisti della nostra storia: Sergio Nesi, che nel 1943 rivestiva il grado di Tenente di Vascello in Servizio Permanente Effettivo; Mario Bordogna, allora istruttore paracadutista alla scuola di Tarquinia, e Mario Sannucci, ufficiale di complemento. Come hai vissuto l’incontro con questi Uomini e soprattutto come mai ha scelto proprio loro?

 

 

 

Ho pensato che i racconti di chi allora visse quel cruciale periodo della storia del nostro paese avessero un valore storico ed umano unico. Mi sono messa così in contatto con delle persone straordinarie, che mi hanno fornito nuovi elementi ma che soprattutto mi hanno fatto conoscere le sensazioni e i sentimenti che allora li mossero. Bordogna, Sannucci e Nesi hanno continuato a battersi per la Decima anche dopo la fine della guerra, affinché venga riconosciuto il suo valore.

 

 

 

Nel corso della presentazione è emerso che il tuo libro, frutto del riadattamento della tua tesi di laurea, rappresenta una novità anche per il fatto che tu essendo nata nel 1971 non hai partecipato a quegli eventi. Il tuo quindi non è un lavoro autobiografico, bensì il frutto di una ricerca oggettiva. Hai mai pensato al fatto che altri studenti universitari potrebbero partire dal tuo lavoro per impostare la loro tesi?

 

 

 

È quello che spero. Ad esempio il mio fidanzato, Alberto Sciarra, che si è laureato anche lui con De Felice con una tesi sugli esuli istriani e le loro associazioni, di prossima pubblicazione sempre per la casa editrice Settimo Sigillo, mi ha messo tra le sue fonti!!!

 

 

 

Grazie per la disponibilità e buon lavoro!

 

Quì un'articolo che parla della decisione di Borghese riguardante l'8 settembre

 

La scelta dell'Onore

 

 

All'8 settembre, al comunicato di Badoglio, piansi. Piansi e non ha mai più pianto. E adesso, oggi, domani potranno esserci i comunisti potranno mandarmi in Siberia, potranno fucilare la metà degli italiani, non piangerò più. Perché quello che c'era da soffrire per ciò che l'Italia avrebbe vissuto come suo avvenire, io l'ho sofferto allora. Quel giorno io ho visto il dramma che cominciava per questa nostra disgraziata nazione che non aveva più amici, non aveva più alleati, non aveva più l'onore ed era additata al disprezzo di tutto il mondo per essere incapace di battersi anche nella situazione avversa.

Così, l'esperienza per me più interessante ed importante dal punto di vista politico, formativo e dell'esistenza è stata quella successiva all'8 settembre.

Prima era piuttosto semplice. Si trattava di compiere il proprio dovere senza scelte personali. Non c'erano problemi. L'8 settembre ci ha messo di fronte a molti dilemmi, a esami di coscienza, alle responsabilità da prendersi verso noi stessi, verso le istituzioni alle quali appartenevamo, per me la Marina, e verso gli uomini che da noi dipendevano. Quindi, da quel momento, hanno cominciato a pesare fattori di ordine spirituale e politico.

Tutto il periodo della RSI è stato particolarissimo anche per il tipo di umanità che è affluita sotto le armi in quella fase. I volontari si spogliavano di ogni interesse terreno ed erano animati esclusivamente dall'impegno di conseguire un risultato puramente spirituale. Essi volevano mettere in luce lo spirito di combattività dell'italiano che non si rassegnava ad un armistizio giudicato obbrobrioso, ma intendeva far vedere di saper morire combattendo contro il nemico.

Naturalmente, tra i volontari c'erano tutte le sfumature politiche. C'era il fascista fanatico, che pensava che fosse suo dovere ritrovarsi dalla parte di Mussolini. E c'era il giovane politicamente freddo, che però pensava di dover continuare a combattere accanto a degli alleati da un giorno all'altro traditi. Anch'io in quei giorni del settembre 1943, fui chiamato ad una scelta.

E decisi la mia scelta. No, non me ne sono mai pentito. Anzi, quella scelta segna nella mia vita il punto culminante, del quale vado più fiero. E nel momento della scelta, ho deciso di giocare la partita più difficile, la più dura, la più ingrata. La partita che non mi avrebbe aperto nessuna strada ai valori materiali, terreni, ma mi avrebbe dato un carattere di spiritualità e di pulizia morale al quale nessuna altra strada avrebbe potuto darmi.

In ogni guerra, la questione di fondo non è tanto di vincere o di perdere; ma di come si vince, di come si perde, di come si vive, di come si muore.

Una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà. La resa e il tradimento bollano per secoli un popolo davanti al mondo.

 

Junio Valerio Borghese

 

Tratto da:

INTERARMA RSI: Il testimone, pubblicazione omaggio non in commercio, Sacrario della Piccola Caprera, 29/30 Aprile 1995

 

 

...a domani con nuovi aggiornamenti....per Gotrek e a chi interessa

:s11:

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i reparti terrestri della decima

 

I reparti terrestri

 

 

Nell'inverno 1943 - 44 nacque una formazione identificata prima come "gruppo battaglioni" e successivamente quale "reggimento", sempre denominata "San Marco", e basata su tre battaglioni:

 

- il Nuotatori Paracadutisti, o abbreviato NP;

- il Maestrale (poi ridenominato Barbarigo), di Fanteria di Marina;

- il Lupo, di Fanteria di Marina.

 

Nella primavera del 1944, la positiva prova fornita dal Barbarigo sul fronte di Nettuno e l'afflusso costante di volontari permettevano di costituire una divisione fanteria di marina, così organizzata:

 

Comando divisionale

- battaglione genio divisionale Freccia

- battaglione complementi Castagnacci

 

1° reggimento Fanteria di Marina.

- battaglione Barbarigo

- battaglione NP

- battaglione Lupo

 

2° reggimento Fanteria di Marina.

- battaglione Valanga

- battaglione Fulmine

- battaglione Sagittario

 

3° reggimento artiglieria

- gruppo artiglieria da montagna San Giorgio

- gruppo artiglieria campale Colleoni

- gruppo artiglieria campale Da Giussano.

 

 

I reparti vennero trasferiti in Piemonte per il necessario addestramento, anche a motivo dello sbarco alleato nella Francia Meridionale, che minacciava direttamente l’Italia. Qui furono coinvolti nel meccanismo tragico della guerra civile, nella stagione di sangue che sconvolse l’Italia.

 

Quando si delineò più forte la minaccia dell’Esercito Popolare di Liberazione Iugoslavo contro i territori orientali italiani, la divisione fu trasferita nel Veneto orientale. Da qui, dopo alcune operazioni di controguerriglia, nel dicembre del 1944 quasi tutti i suoi battaglioni si trasferirono a Gorizia, ove fra il dicembre 1944 ed il febbraio 1945 sostennero sanguinosi scontri con il IX Korpus iugoslavo. Nello stesso periodo il solo battaglione Lupo ed il gruppo artiglieria Colleoni raggiungevano il fronte sud, combattendo contro truppe canadesi prima ed inglesi poi.

 

La divisione modificò anche la propria organizzazione, suddividendosi in due gruppi di combattimento:

 

Comando Divisione

battaglione complementi Castagnacci

 

1° gruppo di combattimento

- battaglione Barbarigo

- battaglione NP

- battaglione Lupo

- gruppo artiglieria campale Colleoni

- aliquota battaglione genio Freccia

 

2° gruppo di combattimento

- battaglione Valanga

- battaglione Fulmine

- battaglione Sagittario

- gruppo artiglieria da montagna San Giorgio

- gruppo artiglieria campale Da Giussano

- aliquota battaglione genio Freccia.

 

 

Nel marzo 1944 anche i battaglioni Barbarigo ed NP mossero per il fronte del Senio e del Santerno. Quando, ai primi giorni d’aprile del 1945, si scatenò la grande offensiva finale anglo americana, i reparti della Decima combatterono in retroguardia, ritirandosi ordinatamente verso il Veneto per riunirsi al resto della Divisione e, nelle intenzioni, rischierarsi al confine orientale. Ma a Padova la colonna fu circondata da unità corazzate alleate, e vi si arrese, ricevendo l’onore delle armi.

 

Altri battaglioni autonomi furono costituiti per compiti particolari:

 

battaglione Pegaso a protezione della sede del Ministero della Marina, a Montecchio Maggiore (VI)

battaglione Risoluti: difesa costiera in Liguria

battaglione Scirè, a protezione della Scuola Mezzi d'Assalto di Sesto Calende

battaglione Serenissima, per la difesa del porto e delle installazioni di Venezia

battaglione Vega, per missioni speciali nell'Italia sotto il controllo alleato.

gruppo contraereo Q

distaccamento "Umberto Cumero", Torino

distaccamento Milano

distaccamento "Bogoni", in provincia di Treviso

A tutela dei confini orientali, la Decima diede vita a tutta una ulteriore serie di presidi e reparti:

 

- battaglione San Giusto, Trieste

- compagnia D'Annunzio, Fiume

- compagnia Sauro, Pola

- Compagnia Adriatica, Cherso

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I reparti navali

 

 

 

 

Questi ebbero il duplice scopo di continuare le ostilità a fianco dell'alleato tedesco, ma anche e soprattutto di salvare e perfezionare il patrimonio di tecnica e di esperienza sui materiali, le tattiche e la preparazione alle operazioni d’assalto acquisito dalla Decima nella Regia Marina. L'Italia rimase per tutto il conflitto all'avanguardia mondiale nelle operazioni subacquee, e ne sia prova che cessate le ostilità inglesi e statunitensi vennero ad imparare dai loro avversari.

 

I reparti navali erano:

- squadriglia MAS "Castagnacci", operante in vari porti tirrenici

- scuola mezzi d'assalto di superficie "Salvatore Todaro", con sede a Sesto Calende

- gruppo operativo S.S.B. (Siluri San Bartolomeo, la variante evoluta dei Siluri a Lenta Corsa cui ancor oggi s’ispirano i mezzi similari), a La Spezia

- Gruppo GAMMA (nuotatori d'assalto) "Licio Visintini", a Valdagno

- Squadriglia Sommergibili CA, La Spezia

- Squadriglia Sommergibili CB e CM "Longobardo", Pola

- Squadriglia sommergibili in allestimento, la Spezia

- Base Est di Brioni

- Scuola Sommozzatori, prima a Portofino poi a Portorose.

- Gruppo "Ardimento", con funzioni di scuola di base per le specialità, al Lido di Camaiore presso Lucca.

 

I reparti navali operarono nel mare di Anzio, nel Tirreno ed in Adriatico, sia in missioni speciali che in agguati contro le forze navali, cogliendo pur con gli scarsi natanti a disposizione numerosi successi, e potendo contare alla fine del conflitto su quattro affondamenti confermati e due ufficialmente privi di riscontro.

 

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Reparti temporanei e speciali

 

 

 

 

Con l'evolversi della situazione militare, venivano create basi "ad hoc" per favorire sia le operazioni a ridosso del fronte, che quelle oltre le linee. Ricordiamo la Base Ovest e la Base X, destinate ad operare nel Tirreno settentrionale e nelle acque prospicienti la testa di ponte di Anzio e Nettuno.

 

La Decima disponeva di un proprio servizio d'informazioni e per informazioni speciali, di cui sino ad ora poco è trapelato. Esso si serviva di proprie strutture logistiche in cooperazione coi reparti navali e terrestri.

 

Con addestramento e modalità simili a quelle dei commandos o dell’SBS britannici operavano il "Gruppo Ceccacci", gli uomini del battaglione Nuotatori Paracadutisti e successivamente del battaglione Vega.

 

Il servizio ausiliario femminile

Fu costituito a Roma il 1° marzo 1944; le sue volontarie, pure non avendo mansioni di combattimento, ma svolgendo lavori burocratici, logistici o sanitari, vissero appieno le vicende dei reparti cui erano assegnate. Numerose tra loro, benché avessero prestato servizio disarmate, furono uccise o sottoposte a violenze quando la guerra finì.

 

Per loro furono tenuti tre corsi di preparazione a Grandola, Col di Luna e Sant'Elena.

 

Strutture logistiche ed unità esterne

 

La Decima istituì una propria capillare struttura amministrativa a supporto dei reparti operativi. Per disporre dei fondi sufficienti af armare, attrezzare e nutrire i suoi combattenti, la Decima non esitò a ricorrere a metodi disinvolti, come il contrabbando con la Svizzera od il commercio.

 

Si crearono comandi tappa in tutte le principali città della RSI, affiancati da numerosi centri di rifornimento e logistici. Venne persino creato un efficiente servizio di posta interna che collegò quotidianamente l'intera Italia settentrionale.

 

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Il perché

 

 

 

Un ufficiale della Decima, morto a seguito delle ferite riportate in combattimento, così motivò la sua scelta:

"Lo Stato, quando c’è, faccia quello che deve e può; ma, per i singoli, onore è sottrarre la propria condotta alla gravitazione dei fatti. Come la fede religiosa, è una realtà solo per chi lo sente: noi lo sentiamo e ad esso abbiamo consacrato la nostra vita. Il nostro sacrificio è necessario per riscattare colpe che furono commesse. Così vuole la Storia, e la parola redenzione non ha altro significato".

 

 

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I volontari cantavano un inno, che era il loro manifesto. Lo aveva composto la moglie del comandante Borghese, donna Daria Olsoufieff, su una vecchia aria marziale:

 

Quando pareva vinta Roma antica

Sorse l’invitta Decima Legione

Vinse sul campo il barbaro nemico

Roma riebbe pace con onore.

Quando all’obbrobrio l’otto di settembre

Abbandonò la Patria il traditore

Sorse dal mar la Decima Flottiglia

Che prese l’armi al grido PER L’ONORE!

Decima Flottiglia nostra, che beffasti l’Inghilterra

Vittoriosa ad Alessandria, Malta, Suda e Gibilterra,

Vittoriosa già sul mare, ora pure sulla terra

VINCERAI!

Navi d’Italia che ci foste tolte

Non in battaglia ma col tradimento

Nostri fratelli prigionieri o morti

Noi vi facciamo questo giuramento

Noi vi giuriamo che ritorneremo

Là dove Iddio volle il Tricolore

Noi vi giuriamo che combatteremo

Fin quando avremo pace con ONORE!

Decima Flottiglia nostra, che beffasti l’Inghilterra

Vittoriosa ad Alessandria, Malta, Algeri e Gibilterra,

Vittoriosa già sul mare, ora pure sulla terra

VINCERAI!

 

La "Xª Legione" citata nella prima strofa fù il corpo scelto dell'imperatore romano Giulio Cesare, famoso per la sua fedeltà al comandante ed a Roma, sceso in campo nella guerra civile per affrontare Pompeo fino a sconfiggerlo dopo aver attraversato il Rubicone.

Risulta naturale il paragone con la Decima Flottiglia M.A.S., rimasta fedele all' alleanza dell'asse anche dopo l'armistizio dell' 8 settembre 1943.

 

La Spezia, 14-9-1943

1) La Xª Flottiglia M.A.S. è un'unità complessa appartenente alla marina militare italiana, con completa autonomia nel campo logistico, "organico", della giustizia e disciplinare, amministrativo;

2) E' alleata delle Forze Armate germaniche con parità di diritti e doveri;

3) Batte bandiera da guerra italiana;

4) E' riconosciuto a chi ne fà parte il diritto all'uso di ogni arma;

5) E' autorizzata a ricuperare e armare, con bandiera ed equipaggi italiani, le unità italiane trovantisi nei porti italiani; il loro impiego operativo dipende dal comando della Marina germanica;

6) Il Comandante Borghese ne è il capo riconosciuto, con i diritti e i doveri inerenti a tale incarico.

Berninghaus

Capitano di Vascello J.V. Borghese

Comandante

E' da notare l'ampia fiducia tedesca che traspare dal trattato nei confronti della Decima, specie in un momento come quello in oggetto nel quale le FF.AA. italiane venivano viste dall' ex-alleato come un vero e proprio nemico.

Tale fiducia derivava dal rispetto per la Decima creatosi negli anni precedenti sulla base delle operazioni svolte e sull'affidabilità ed abilità del comandante Borghese.

 

I DIO - PATRIA - FAMIGLIA siano i principi della tua esistenza.

II Se dai la tua parola, sia essa come Vangelo. Non accettare compromessi e non sarai compromesso.

III Difendi la Patria contro qualsiasi invasore. I suoi confini sono intangibili e per essi lotta fino all 'estremo sacrificio.

IV In pace o in guerra sii leale, onesto e laborioso per sentirti fiero di essere italiano.

V Rispetta te stesso - Rispetta gli altri - Sarai rispettato.

VI Non mancare di parola e non tradire. Non assalire alle spalle: morte e nemico si guardano in faccia.

VII La disciplina ti sia di guida: saper ubbidire e' saper comandare.

VIII La tua parola vola, il tuo esempio trascina.

IX il tuo pensiero, la tua azione, la tua volontà siano coerenti alla difesa della dignità e dell 'onore della Patria.

X L 'appartenenza alla DECIMA sia con fierezza il tuo orgoglio.

 

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La disciplina ti sia di guida: saper ubbidire e' saper comandare.

 

Appenderò questo dietro la mia scrivania... Credo sia d'obbligo ricordarlo anche ai capi :s02:

 

Comunque sia questo decalogo è davvero da tenere in considerazione per la vita di tutti i giorni.

 

Grazie Emaz per il grandissimo lavoro che hai fatto, complimenti!

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Il perchè dello "scudetto"

 

[...]

Un riflesso di tale carica spirituale può essere anche identificato nello "scudetto" metallico che venne adotatto nelle uniformi, cucito sulla manica sinistra della giacca: la "X" della "Decima" su campo azzurro, sormontata da un teschio con una rosa rossa in bocca. Tale "scudetto" nacque, come del resto la canzone della "decima", in un piccolo alberghetto presso Lerici, dove alloggiava Borghese con la famiglia, unitamente ad altri ufficiali.

L'idea dello "scudetto" con il teschio e la rosa rossa venne ricordando il Com.te Todaro, Medaglia d'Oro, una delle figure leggendarie della "Decima" ante 8 settembr. Todaro, come Teseo Tesei, un'altro dei nostri eroi, aveva lasciato negli uomini della "decima" una traccia profonda e indelebile.

Todaro era il mistico di un determinato tipo di vita, che cercava + che la vittoria la bella morte."Non importa", diceva, "affondare la nave nemica.Una nave viene ricostruita.Quello che importa è dimostrare al nemico che vi sono degli italiani capaci di morire gettandosi con un carico esplosivo contro le fiancate del naviglio avversario".

Fra l'altro, prima di cadere, aveva parlato del suo desiderio di coniare un distintivo dove apparisse l'emblema di una rosa rossa in bocca a un teschio: "Perchè per noi", ci aveva detto, "la morte in combattimento è una cosa bella, profumata".

"Nel suo ricordo disegnammo così lo scudetto"- disse poi Borghese - E mai, forse, un distintivo fu "capito" e portato con tanta pasione. Perchè sintetizzò veramente lo spirito

rivoluzionario, beffardo, coraggioso, leale, che animò in terra e sul mare, gli uomini della " Decima" Repubblicana.

 

Tratto dal libro di Sergio Nesi "Decima Flottiglia nostra" pag 97

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Ora riporto un elaborato sulla decima che ho fatto tempo fa andando a spulciare in giro per internet...

E' lungo, ci sono cose già postate...però secondo me è di grosso aiuto per inquadrare bene la decima nel suo contesto e ad avere così una visione generale

(Goterk...è lo stesso che ti ho inviato per mail)

 

 

Decima Flottiglia MAS, Vittoriosa già sul mare, ora pure sulla terra per l'Onore d'Italia

Alzi la mano chi non ricorda quando l'insegnate di storia, decide per l'interrogazione a sorpresa, e guardandovi quasi beffardo chiede: "Raccontami di D'Annunzio, e della Beffa di Buccari!"

Eh si, ci siamo passati tutti, o quasi. Pochi però ricordano che i piccoli natanti utilizzati in quella particolare azione erano dei MAS, motoscafi armati di due siluri e modificati in modo da superare silenziosamente le difese dei porti austroungarici. Qui tracceremo la storia di uomini e donne che ripresero, per mare e per terra, lo spirito di quegli incursori notturni: ed allora facciamo un pò di storia, partendo dal principio.

Nell'occasione di eventi bellici l'uomo ha sognato di realizzare dei mezzi piccoli ed economici, ma armati ed operanti in modo tale da affondare grandi navi senza la necessità del confronto diretto fra le flotte. Il sogno si realizza all'inizio del XX secolo, con i sommergibili. Allo scoppio della prima guerra mondiale, per combattere questi incursori un cantiere navale veneziano, lo SVAN, fornisce alla Regia Marina il primo MAS (Motobarca Armata Svan)( D'Annunzio interpreterà la sigla con il motto "Memento Audere Semper" ) Che cos'era il MAS ?: un motoscafo armato di cannone da 57mm, 3 mitragliatori e bombe antisommergibile destinato a scorrazzare sui mari in velocità ed agilità, abbastanza piccolo da non costituire bersaglio facile da colpire ma sufficientemente armato per provocare seri danni ai suoi avversari subacquei. Venne così costituita, in seno alla Regia Marina, la prima squadriglia MAS ove la sigla però si muta Motoscafo Anti Sommergibile; un ruolo tipicamente difensivo per un mezzo economico nella costruzione e nell'impiego. Il C.V. Costanza Ciano intuisce ben diverse possibilità per queste veloci imbarcazioni, e riesce ad armarle con due siluri. Che abbia visto giusto lo si vedrà nel giugno 1918, quando Luigi Rizzo, con un solo lancio, affonda al largo di Premuda la corazzata Szent Istvan. Ma Ciano, e l'ammiraglio Paolo Thaon di Revel, sviluppano ulteriormente la loro idea.

I MAS subiscono ulteriori adattamenti che li rendono idonei a forzare i porti avversari. Ossia, navigando lentamente ed in modo silenzioso, si infilano dentro le basi navali avversarie senza farsi scorgere, superando le ostruzioni e riuscendo a non attrarre l'attenzione dei posti di guardia. È nato un nuovo modo di guerreggiare per mare, quello degli assaltatori. I buoni risultati conseguiti nel 1916 fanno in modo che l'anno successivo si studino mezzi non più adattati, come erano i MAS, ma appositi: i primi mezzi d'assalto. All'arsenale di Venezia si provano imbarcazioni a remi e scafi elettrici, dotati di cingoli per superare le ostruzioni. C'è anche un medico militare, il dottor Raffele Paolucci, che si allena a nuotare in acque fredde per lunghe distanze e trainandosi dietro un galleggiante. Nei suoi piani, questo rimorchio simula una carica esplosiva da applicare alla carena della nave avversaria. A Venezia compie i suoi esperimenti anche il Cap. G.N. Raffaele Rossetti; con un operaio militare, di nome Sanna, ha pensato ad un siluro navigante a pelo d'acqua, giudato da un operatore, con a prua delle cariche esplosive da attaccare, grazie ad un magnete, sulle lamiere della nave nemica. Infine il Ten. G.N. Belloni prende in esame, per la prima volta, le operazioni subacquee, pensando a degli incursori trasportati da un sottomarino entro il porto nemico, e che vi fuoriescano sott'acqua per attaccare i possibili bersagli. Nella Grande Guerra solo alcuni di questi mezzi sono provati, con alterno successo. Il miglior risultato lo consegue la "Mignatta", il siluro a lenta corsa inventato da Rossetti. Egli stesso, con Raffaele Paolucci, la notte del 1° novembre 1918 forza il porto di Pola, e riesce ad attaccare una testata esplosiva sotto la corazzata Viribus Unitis. Quindi i due, stremati e scoperti, sono catturati e trasferiti a bordo della stessa unità avversaria. Poco dopo l'ordigno esplode, e la nave affonda. Ma non basta; la mignatta, senza più controllo, prosegue il suo moto sino ad arrestarsi sotto il piroscafo Wien, esplodendo e colando a picco pure questo involontario bersaglio. Il dopoguerra fa dimenticare i mezzi e le tecniche nuove per quasi quindici anni. Nel 1935, per la probabilità di un conflitto con la Gran Bretagna, riprendono gli studi e le proposte. Due ufficiali di Marina, Teseo Tesei ed Elios Toschi, partono dalla mignatta per realizzare un mini sommergibile, con equipaggio di due uomini e propulsione elettrica, armato con una testata esplosiva amovibile, da appendere alle alette antirollio dell'unità scelta come bersaglio. Il nuovo mezzo viene chiamato, per motivi di riservatezza, siluro a lenta corsa. Le sue scarse doti di manovrabilità gli guadagnano il nome con cui è più famoso: Maiale. Lo stesso anno la neonata 1ª Flottiglia MAS è incaricata di organizzare i Mezzi d'Assalto della Regia Marina. Nel 1936 l'Amm. Aimone di Savoia-Aosta inventa gli MTM (Motoscafi da Turismo Modificati), dei barchini veloci con la prua imbottita da 300Kg di esplosivo. Il pilota si lancia ad una velocità di 30 nodi verso il bersaglio, eiettandosi poco prima della collisione assieme ad un galleggiante. Lo scafo, al contatto con la fiancata, è tagliato in due da piccole cariche esplosive. Ad otto metri di profondità detona quella principale. La famiglia dei Mezzi d'Assalto si arricchisce così di un terzo componente oltre ai MAS ed agli SLC.

Poco dopo, iniziano a Livorno, sotto la guida dell'ingegner Belloni, le esperienze dei Guastatori Subacquei, i Gamma, che marciando sul fondo marino debbono trasportare un ordigno sin sotto le navi avversarie. Con lo scoppio del 2° conflitto mondiale i Mezzi d'Assalto iniziano la loro carriera operativa, in particolare dei Maiali, trasportati presso gli obiettivi da sommergibili come lo Scirè, comandato da un "certo" T.V. Junio Valerio Borghese, che diverrà successivamente il Comandante della Xª MAS. Nell'estate del 1940 una spedizione nel porto di Suda (Creta) porta 6 MTM ad affondare l'incrociatore pesante inglese York e a danneggiare la petroliera Pericles. [continua.....]

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Sorte diversa ottiene l'operazione "B.G.3" su Gibilterra il 15 maggio 1941. Qui la missione è più volte tentata con esito negativo, per una serie di inconvenienti e di contrordini.

Nel marzo del 1941 La 1ª Flottiglia MAS diviene la Xª Flottiglia MAS, un'organizzazione segreta destinata a sperimentare ed usare le nuove armi d'assalto, con Borghese al comando dei mezzi subacquei. Il nome è scelto nel ricordo della Decima Legione, prediletta dall'imperatore Giulio Cesare. Nel luglio del 1941 arriva il disastro con l'operazione "Malta2", progettata in grande stile con l'impiego di MAS, MTM e SLC, per l'attacco al porto della Valletta.

 

Gli inglesi infatti, oltre che avere installato uno dei primi prototipi di radar nella base, sono in grado di decifrare i messaggi in codice della marina tedesca grazie alla cattura, avvenuta qualche mese prima, di un sommergibile germanico nel cui interno era custodita la macchina decodificatrice "Enigma". Quel sommergibile era stato considerato, dallo stato maggiore tedesco, affondato senza possibilità di recupero, e solo negli anni 70 venne rivelata la verità. Il suo immediato ricupero da parte degli alleati permise loro di primeggiare sui mari per gran parte del conflitto. L'attacco a Malta prende il via il 25 luglio 1941 e trova l'avversario in allarme; il fuoco sui mezzi italiani lascia sul mare 15 morti, 18 prigionieri ed affonda 2 MAS, 2 SLC e 8 MTM. Dopo questa esperienza negativa avviene una riorganizzazione della Decima, dalla quale nasce, per l'intuizione del Com. Eugenio Wolk, una nuova specialità : i "nuotatori d'assalto" o uomini "Gamma", subacquei sprezzanti del pericolo che a nuoto si incaricano di collocare esplosivo sotto le chiglie delle navi nemiche.

Di lì a poco una nuova missione giunge al successo, è la "B.G.4": obiettivo Gibilterra, data il 20 settembre 1941. Gli SLC affondano 2 navi cisterna (la "Fiona Shell" e la "Denbydale") e la motonave "Durban", ed è di nuovo vittoria. Il culmine della gloria viene raggiunto il 18 dicembre 1941 nel porto di Alessandria; l'impiego degli SLC porta al serio danneggiamento della petroliera "Sagona" e di due importanti corazzate, la "Valiant" e la "Queen Elizabeth". I danni impediranno alle navi di rivedere il mare prima della fine del conflitto. Lo stesso Churchill affermerà : "L' Inghilterra ha perso, con la perdita delle navi affondate, la supremazia della flotta in Mediterraneo; prepariamoci a subirne le conseguenze". In tutto il 1942 si susseguono diverse missioni con ottimi risultati, molte con il coinvolgimento degli uomini "Gamma". Il 1° maggio 1943 Junio Valerio Borghese assume il comando dell'intera Xª Flottiglia MAS. Poi arriva il tragico 8 settembre 1943. Se l'armistizio porta le forze armate terrestri ed aeree italiane allo sbando più totale, per la Marina la cosa è diversa. Le navi da battaglia, gli incrociatori, il grosso della flotta è ancora in piena efficienza. E queste navi si consegnano senza combattere ad un avversario divenuto improvvisamente amico. È una resa senza condizioni, mascherata col nome di armistizio. Una bella figura di marinaio, il comandante Carlo Fecia di Cossato, si ucciderà per questo, lasciando in una lettera alla madre, testimonianza di sentimenti condivisi da moltissimi altri marinai. I tedeschi intanto calano dal nord, catturano e disarmano intere divisioni rimaste senza ordini, occupano di fatto l'Italia. Nelle basi della Decima tutto rimane normale. Il comandante Borghese apprende casualmente dell'armistizio. Dopo aver cercato invano ordini, ed aver superato una gravissima crisi morale, decide che continuerà a combattere a fianco dell'alleato tedesco, e con i colori italiani. Quando la Kriegsmarine lo contatta, egli offre la propria alleanza alle sue condizioni e la ottiene con un trattato, siglato il 14 settembre, che permette alla Decima di continuare a combattere al fianco della Germania battendo bandiera italiana, con le proprie uniformi, con propria disciplina ed una relativa, ma ampia, autonomia. Questo ancora prima che si potesse pensare alla nascita della Repubblica Sociale Italiana. Borghese in quei primi giorni non pensa ad altro che a ricostruire il piccolo reparto d'assalto capace, con pochi mezzi, di colpire duro. Accade però qualcosa che lo costringe a rivedere i suoi piani. A La Spezia affluiscono sempre più numerosi volontari per arruolarsi. La fama della formazione, il suo desiderio di combattere per l'onore d'Italia, senza marchi e neppure sponsor politici, fanno in modo che in poco tempo tutte le scuole per le varie specialità navali siano di nuovo attive. Intanto arriva anche buona parte del battaglione Nuotatori Paracadutisti: è una forza d'elité della Marina, madre degli attuali incursori ed allora paragonabile forse solo all' SBS britannico. La Decima diventa anche una forza terrestre. I volontari giungono a ritmo serrato, e alla fine dell'ottobre 1943 nasce un primo battaglione di fanteria di marina, il Maestrale. Un mese dopo viene formato il secondo, il Lupo.

Questo successo e l'autonomia di Borghese (conviene sottolinearlo, la formazione da lui comandata è ufficialmente alleata della Kriegsmarine, quasi fosse una nazione sovrana), proprio mentre la RSI cerca di racimolare uomini per le sue Forze Armate, portano ad una serie di scontri e tentativi di inglobamento. Gli uomini della Decima si sentono dei rivoluzionari, e vi si oppongono sfiorando il colpo di stato. Lo stesso Borghese è arrestato a Brescia, nel febbraio del 1944; ma dopo pochi giorni è rilasciato, e la sua Decima può cominciare la seconda fase di espansione. Ma perchè la Decima è rivoluzionaria? Gli uomini che vi sono accorsi si danno delle regole semplici. Sono lì per l'onore, e coscienti per la gran parte di combattere una guerra persa. Ma vogliono perderla bene, e rinunciando a molti orpelli propri della tradizione militare. Una sola divisa per ogni occasione, ed uguale per tutti, come uguale per tutti è il cibo. Promozioni, solo per merito di guerra. Disciplina autoimposta ma semplice: chi diserta, ruba, saccheggia o commette violenza è passato per le armi. In quei primi mesi l'atmosfera nei battaglioni e nei reparti ricorda molto quella dei soviet, o dei kibbutz. Ed intanto, continuano a giungere giovani da tutta Italia. Nel febbraio 1944 gli alleati sbarcano ad Anzio; la Decima ha il battesimo del fuoco per mare e per terra. Fiumicino ospita una base "segreta", peraltro nota all'avversario perché segnalata da un bandierone enorme, da cui ogni notte i piccoli MTM e SMA (dei motoscafi siluranti con un equipaggio di due persone) partono per gli agguati alla flotta nemica. Molti di questi gusci di noce sono distrutti dal fuoco dell'avversario, qualcuno colpisce. La sproporzione di forze è grossa, ma lo spirito delle azioni è legato ad una frase pronunciata dal comandante Salvatore Todaro: "L'importante non è affondare una nave che il nemico può ricostruire. L'importante è dimostrare al mondo che ci sono degli italiani disposti a rischiare la vita, e se necessario a perderla, per schiantarsi con l'esplosivo contro la nave nemica. Perché per noi la morte in battaglia è una cosa bella, profumata". Questa frase ispira anche lo stemma della formazione: uno scudetto portato con orgoglio al braccio, dove un teschio sorridente tiene tra i denti una rosa. Intanto a marzo il battaglione Maestrale, ribattezzato Barbarigo, entra in linea a Nettuno. Milleduecento ragazzi, poche armi, e tanto coraggio. Lo dicono i loro avversari, gli incursori della First Special Service Force, il miglior reparto speciale alleato della seconda guerra mondiale. Il Barbarigo a Nettuno tra morti, feriti e dispersi subisce circa il 50% di perdite. Nasce un nuovo tipo di eroismo per la Decima, passata in pochissimi giorni da piccolo gruppo scelto di assaltatori (circa 3-400 persone) ad un completo e sfaccettato apparato militare di oltre 18.000 persone. Ma perché così tanti giovani si presentano per l'arruolamento volontario? Come mai questo non succede e non succederà né per l'esercito della R.S.I. né per il ricostituendo Regio Esercito al Sud?

Guardiamo più in dettaglio a quelli che sono gli scopi della Decima Flottiglia M.A.S. dopo l'8 settembre. Borghese ha scelto di rimanere in armi non tanto per favorire l'alleato tedesco, ma per difendere l'Onore d'Italia di fronte al tradimento perpetrato dal Re Vittorio Emanuele III e dal suo stato maggiore nei confronti degli accordi presi. Così scriverà lo stesso Borghese ripensando alla sua scelta : "In ogni guerra, la questione di fondo non è tanto di vincere o di perdere, di vivere o di morire; ma di come si vince, di come si perde, di come si vive, di come si muore. Una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà. La resa ed il tradimento bollano per secoli un popolo davanti al mondo."

Sono finiti i tempi del "vincere e vinceremo", questo lo sanno tutti, ma i volontari vedono nella Decima il mezzo per riscattare il proprio paese dalla vergogna, andando al fronte a combattere contro quelli che per 3 anni sono stati i nemici, e lo devono rimanere, pur nella consapevolezza che la vittoria è oramai un lontano miraggio.

Lo stesso Eisenhower darà ragione a questi uomini scrivendo dopo la fine del conflitto : "La resa dell'Italia fu uno sporco affare. Tutte le nazioni elencano nella loro storia guerre vinte e guerre perse, ma l'Italia è la sola ad aver perduto questa guerra con disonore, salvato solo in parte dal sacrificio dei combattenti della R.S.I.."

Un'altra peculiarità della Decima Flottiglia M.A.S. è l'apoliticità. L'iscrizione a qualsiasi partito è vietata per i marò, dato che si combatte per il proprio paese e non per un leader politico, un'ideologia od un partito. Borghese manderà nelle Brigate Nere un veterano di Nettuno, Rinaldo Dal Fabbro, solo perché si fregia del distintivo di squadrista. E Dal Fabbro capirà, ed andrà a morire al fronte col battaglione d'assalto Forlì. In questo reparto si uniscono volontari appartenenti alle fedi politiche più disparate, compresi quelli nati in famiglie di storico orientamento socialista. Un' esempio per tutti: la terza compagnia "Volontari di Francia" aggregata al Battaglione Fulmine. La formano figli di emigrati, rientrati in patria per difendere l'onore del paese dei propri padri. Ed in molti casi erano dei fuoriusciti politici, ribelli al regime fascista. Nell'autunno del 1944 tocca al Btg. Lupo essere schierato sul fronte del Senio; e i suoi marinai lo giudicano un premio. Poi lo raggiungono gli NP e il Barbarigo. Il Lupo starà in linea per lunghi mesi, contrastando al meglio delle sue possibilità la pressione del nemico e non dimenticandosi mai i principi alla base della Decima. Cosa vogliamo dire con questo ? Ecco un esempio : un giorno, al di là delle trincee sul fiume, un gruppetto di reclute inglesi inesperte passeggia allo scoperto, senza rendersi conto del pericolo, e qualche decina di metri più in là stanno gli uomini della Decima in armi. Un marò, imbracciato il suo M.A.B., spara un raffica in aria: i malcapitati, spaventati, riguadagnano posizioni sicure. Perchè ? Ha sbagliato mira? Come ha potuto non centrare un bersaglio così semplice? Così ha risposto quel marò ad un suo compagno "sarebbe stato facile colpirli, ma ho pensato che anche loro avevano una madre che li aspettava". Con questo non si vuole dire che la Decima praticava la non violenza, ma dimostrare che la forza contro avversari leali era usata solo quando strettamente necessario; colpire quei giovani che non stavano partecipando al fuoco sarebbe stato contrario al codice d'Onore di quel marò e di molti altri come lui.

Non solo questi reparti partecipano alla guerra contro gli alleati anglo americani, è tutto il resto della divisione Decima ad essere schierato a fine '44 sul fronte orientale, per arginare la spinta sempre più insistente delle truppe titine del IX Corpus, e tentare di proteggere la popolazione italiana, spesso trattata barbaramente da queste ultime.

In questo settore la Decima affronta un problema sentito da più parti, comprese alcune formazioni partigiane ed il governo del sud. Per salvaguardare queste terre ed i suoi abitanti, si arriva anche a progetti combinati fra le due Italie, del nord e del sud, come il famoso "Piano De Courten", che prevede una collaborazione nord-sud attraverso l'intermediazione della Decima, e dovrebbe portare allo sbarco di truppe regie nel triestino per rinforzare la difesa della zona. Od ancora alla trattativa con la brigata partigiana "Osoppo", per la nascita di di un reparto misto Decima-Osovani da impiegare attivamente a difesa della frontiera e dei territori orientali. Delle due iniziative purtroppo nessuna si concretizza. Ma la notizia delle trattative basta a scatenare la strage di Porzus, in cui è decimato lo stato maggiore della Brigata Osoppo. ( tra gli uccisi figura anche il fratello di Pier Paolo Pasolini).

Del ciclo operativo nel goriziano restano i sacrifici del Battaglione Fulmine a Tarnova della Selva, ove per tre giorni resiste, arroccato nel paesino, all'attacco del IX Corpus con una proporzione 200 uomini contro oltre mille appoggiati dall'artiglieria; del Battaglione Sagittario accerchiato a Casali Nemci, e liberato dagli NP che caricano allo squillo di una tromba; del Barbarigo che a Chiapovano resiste e ripiega incolume all'assalto di forze almeno doppie delle sue. Di questi e di altri eroi, degli altri battaglioni e dei reparti naviganti che portarono a termine con successo molte azioni contro la flotta alleata nel Tirreno, oggi nessuno parla più. Perché la Decima era formata da rastrellatori, almeno ufficialmente. Già, perché si deve ora aprire un capitolo importante nella storia della Decima Flottiglia M.A.S. : la sua partecipazione alla guerra civile. Una cosa pensiamo sia stata chiarita finora, la Decima non è una forza politicizzata e non viene creata né per fornire manovala0nza ai tedeschi, né per ridare vita ad un governo fascista. Semmai, opera dove possibile, di concerto con la Regia Marina del sud, ed invitiamo a leggere gli ampi resoconti dei colloqui ed incontri segreti avuti, nelle opere del comandante Sergio Nesi e del guardiamarina Bertucci [continua...]

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I suoi fini strategici sono la difesa dei territori orientali, delle grandi strutture industriali e dei porti italiani. Obiettivi, vale la pena ripeterlo, stabiliti assieme ad agenti venuti dal sud; perseguibili, ed in parte raggiunti, proprio grazie all'autonomia ed all'efficienza della Decima. La Decima vuole combattere al fronte per l'Onore d'Italia, ma purtroppo si ritrova coinvolta, suo malgrado, nella guerra civile. Espressamente create per contrastare il movimento partigiano sono altre forze militari o paramilitari, come la Guardia Nazionale Repubblicana, le Brigate Nere, il CARS, il COGU. La Decima Flottiglia M.A.S nel vortice della guerra fratricida tra compatrioti ci si ritrova involontariamente. Ma vuole la Decima combattere contro i partigiani ? Sino all'estate del 1944 decisamente no, e successivamente solo per quanto è necessario a garantire la sua sicurezza, e con molte eccezioni, come è per le citate trattative con l'Osoppo, avvenute fra il settembre ed il dicembre del 1944. Quando la Decima è costretta a prendere l'iniziativa di operazioni antiguerriglia, il Comandante Borghese permette, a chi non è d'accordo, di chiedere il congedo, con regolare saldo della retribuzione. In pochi se ne vanno, e molti restano nella convinzione che non avrebbero comunque operato inutili rastrellamenti e rappresaglie; sbagliando solo in parte. In qualunque località la Decima si rechi, il primo tentativo è sempre quello di contattare i vertici partigiani locali per stabilire un reciproco patto di non belligeranza; "la Decima è qui perché sta attendendo di andare al fronte, quindi se voi non sparate a noi, noi non vi spareremo", questo è il senso degli accordi proposti, e raggiunti con successo in molte zone. E c'è chi si scandalizza nel vedere partigiani e marinai discutere pranzando in una trattoria: succede in Val d'Aosta, nell'estate del '44. Oppure nel sentire che un disertore, colpevole di furto, è stato condannato e giustiziato da una formazione mista di marinai e partigiani; questo capita in Piemonte, nel settembre del 1944. Questa è la norma, con le sue eccezioni. La guerra civile non conosce pietà. Devono però essere ricordati tutti i morti, come gli undici uccisi ad Ozegna, dove il C.C. Bardelli, comandante della Divisone Decima, mentre tenta di raggiungere un'accordo con i partigiani locali, è ucciso senza pietà assieme a parte della sua ridotta scorta. O la cinquantina di NP massacrati a Valdobbiadene nel maggio 1945, dopo essersi arresi a formazioni partigiane. Od ancora i marò del distaccamento di Torino, ammazzati a Sommariva Perno.

Qui ci ferma la pietà, per gli uni e gli altri. Ricordiamo le parole di John Donne: "Nessun uomo è un'isola, chiusa in se stessa, ogni uomo è parte del continente, una parte del tutto. Se una zolla è strappata dal mare, l'Europa è più piccola, così come il promontorio, la casa del tuo amico, la tua stessa casa: la morte d'ogni uomo mi diminuisce, perché io sono parte dell'umanità, e quindi non chiedere mai per chi suona la campana; essa suona per te. ".

La Decima non è stata una forza atta alla crudele repressione quotidiana, senza rispettare anziani, donne e bambini, come si è scritto dalla fine della guerra ad oggi. Molti sono i marò uccisi dopo la fine della guerra, quando deposte le armi su formale promessa partigiana di aver salva la vita, vengono seviziati e trucidati e le loro salme fatte sparire, dopo aver resa impossibile la loro identificazione. Il codice internazionale di guerra considera delitti tali esecuzioni. Ma gli autori vengono esaltati come eroi della resistenza. Il Comandante Borghese, a Milano nel momento cruciale della fine della guerra, esce in divisa per le strade della città. Non fugge, e viene processato. Passa in prigione alcuni mesi prima del processo che gli viene fatto. Viene degradato per aver collaborato con i tedeschi, ma nessuna altra colpa gli viene attribuita. E' costretto ad andarsene quando la giustizia "ingiustizia" vuole imprigionarlo per un supposto e ipotetico "golpe". Muore in esilio.

La Decima è stata in realtà una formazione costituitasi sulle fondamenta eroiche di un gruppo di arditi assaltatori, con l'intenzione di combattere per i proprio paese e la salvaguardia del suo prestigio.

Purtroppo la storia la scrivono i vincitori, ma questo non può impedire che dopo ben 55 anni, piano piano, la verità ed il rispetto per questi Italiani che scelgono di perdere una guerra per espiare una vergogna non loro, ritorni alla luce del giorno.

Leggendo gli scritti di questo sito, o semplicemente entrandovi, non poche persone ci hanno subito accusato di fare "negazionismo", "revisionismo" o addirittura "apologia"; in realtà non è così. In queste pagine si parla della storia della Decima Flottiglia M.A.S. così com'è veramente stata, forse è per questo che a molti la cosa non può piacere. Analizziamo queste definizioni dall'ultima : "apologia". Non ci pare proprio di inneggiare a passati regimi o lanciare appelli alla ricostituzione di formazioni politiche di altri tempi, anche perché la Decima, lo ribadiamo, era una formazione completamente apartitica.

Perché combatteva la Decima dopo l'8 settembre? Per salvare l'Onore d'Italia, compromesso da un cambio di barricata repentino e tanto azzardato da lasciare uomini, mezzi e territorio in balia degli eventi, con le conseguenze che poi, inevitabilmente si sono verificate. Così migliaia di giovani sono accorsi, non tanto per combattere contro altri italiani, anzi quella era considerata una cosa da evitare in tutti i modi, anche se poi è successo, ma vedremo il perché ed il percome. "Negazionismo" e "revisionismo", nei pochi libri di testo ove viene menzionata la Decima lo è a sproposito, con facili ed inopportuni aggettivi quali "famigerata" e similari, quasi si volesse definire come "male" tutto ciò che ha fatto parte della R.S.I. e come "bene" chi combatteva sull'opposto fronte. Ma è vero tutto questo? Ci stiamo arrampicando sui vetri per negare l'evidenza della storia scritta da alcuni storici con la S maiuscola o forse la verità è stata, in questi decenni, deformata a favore di alcuni?

Riprendiamo con il nostro stile, facciamo storia.

Scrive Mario Bordogna, nel libro "Junio Valerio Borghese e la Decima Flottiglia M.A.S.": "Alla stazione ferroviaria di Valmozzola, piccolo centro della provincia di Parma, il 12 marzo 1944 un gruppo di partigiani fermava un treno in transito facendo scendere tutti coloro che indossavano una divisa militare. Tra questi, due ufficiali del Lupo (il battaglione della Decima che si era costituito il 10 gennaio al comando del capitano di corvetta De Martino). I due ufficiali, Parlotti e Pieropan, erano in breve licenza. Messi al muro con altri otto militari (tra cui due carabinieri) furono uccisi a colpi di mitra. La loro colpa? Indossavano l'uniforme dell'Esercito italiano della R.S.I.." Commenta il Comandante Borghese nel dopoguerra: "L'epilogo di questo tragico episodio costituì uno dei capi d'imputazione al processo intentato contro di me dopo la fine del conflitto. Il colonnello Luigi Carallo, comandante del reggimento del quale facevano parte i due guardiamarina uccisi, dopo l'eccidio ebbe pronta reazione : ricercò i responsabili e li catturò. Su otto, sette, rei confessi, il 17 marzo furono passati per le armi. Che cosa si può dire a un comandante di reparto che viene a conoscenza del fatto che alcuni suoi uomini sono stati massacrati, non durante il combattimento ma in una vile imboscata? Si era in guerra e Carallo seguì le spietate leggi di guerra."

Letto così tutto acquista una sua logica seppur nella crudeltà delle logiche di un conflitto, che portano alla morte di 17 uomini in totale. Ma non sempre, anzi praticamente mai, gli episodi vengono circostanziati in questo modo, anzi, sembra quasi che un misterioso "vuoto temporale" cancelli alcune parti e quindi venga ad essere esaltato il solo epilogo. Cosa pensereste se leggeste solamente : "Il colonnello Carallo, a seguito di un rastrellamento, ordinò la fucilazione di sette partigiani"? Eppure è questa la sostanza dell'accusa fatta a Borghese durante il processo, sarà lui a dover riportare alla luce il perché di quelle esecuzioni. Ma facciamo un passo indietro, la Decima non vuol combattere contro altri italiani, i giovani volontari necessitano di un serio addestramento prima di recarsi al fronte, quindi vengono trasferiti in Piemonte, in Valle d'Aosta ed in Toscana con questa finalità.

La prima preoccupazione di Borghese è di evitare scontri con connazionali, per questo prende i provvedimenti che cita nell'udienza dell'8 novembre 1948 del processo che lo vede imputato: "Detti al colonnello Carallo precise istruzioni:

1°: evitare ad ogni costo ogni contrasto;

2°: ignorare i problemi di politica locale;

3°: dedicare ogni energia all'addestramento del personale per renderlo idoneo a raggiungere il fronte;

4°: far conoscere tali direttive in tutto il territorio. Vennero affissi in tutte le località manifesti che recavano le seguenti parole : "Non preoccupatevi se sono arrivati in questa zona reparti forti di 10.000 uomini. Lasciateci stare e non vi toccheremo perché il nostro compito non è di combattere contro di voi ma di addestrarci alla guerra contro gli anglo-americani".

Nessuno della Decima, quindi, molestò i partigiani né i partigiani molestarono noi. Questa specie di accordo si poté mantenere fino a quando altri dolorosi episodi non vennero a turbare l'armonia delle cose." Aggiungiamo che i vennero anche organizzati dei voli per il lancio di volantini su diverse zone. Insomma, la Decima rinnova il suo rifiuto alla guerra civile e fa tutto il possibile per restarne fuori, tanto da arrivare ad essere accusata di "sabotaggio della guerra" da parte della Platzkommandantur di Aosta, alla quale Borghese aveva risposto : ".....(la Decima n.d.r.) operazioni antipartigiane non ne faceva perché la truppa era dislocata nella zona non con funzioni di polizia ma in addestramento per il fronte...". A "turbare l'armonia delle cose" arrivò il tragico 8 luglio 1944, quando ad Ozegna cadde in un vile attentato il comandante del Btg. Barbarigo Bardelli.

Come questo avvenne è degno di nota, anche perché potrebbe sembrare strano ad un "neofita" che coloro i quali gli sono sempre stati dipinti come dei "santi" possano realmente compiere determinati atti. Bardelli era alla ricerca di un uomo della Decima fuggito con la cassa del battaglione, ritrovatosi a contatto con dei partigiani tentò di avviare un pacifico dialogo, come era riuscito già più volte alla Decima, per chiarire il motivo della sua presenza in quel luogo. Erano pochi i marò che lo accompagnavano, e Bardelli decise addirittura di far loro deporre le armi in segno di non belligeranza, la risposta dei partigiani in quel momento fu il fuoco. La salma del comandante fu ritrovata in seguito in uno stato penoso, con i denti d'oro strappati e cosparsa di letame, a dimostrazione inequivocabile dei metodi di alcuni partigiani. Troverete i dettagli di quest'episodio nelle pagine sul battaglione Barbarigo (La Struttura - Fanteria di Marina - Btg. Barbarigo), ma in questa sede è bene precisare alcune cose:

1) Il capo partigiano artefice dell'episodio era un tal "Piero Piero";

2) Cosa fece immediatamente la Decima dopo la sparatoria ? Per questo ci aiuta una diretta testimonianza di Borghese : "Il colonnello Carallo, nella sua azione per rintracciare il Piero, risalendo le vallate del Canavese, si era scontrato con altre formazioni partigiane che ovviamente opponevano resistenza. Per evitare che la nostra azione si allargasse, in occasione di un'ispezione che feci nella zona, pensai di riunire i vari capi partigiani e spiegare loro le nostre motivazioni. E così avvenne. A Locana, presso il comando di Carallo, ci furono due incontri. Le riunioni erano molto serene. Seduti intorno a un tavolo, presiedevo ed offrivo il caffè. Espressi i motivi per i quali stavamo ricercando il Piero e trovai i capi partigiani, tutti, del nostro avviso, e cioè che egli dovesse essere considerato e trattato come un malfattore e non come un soldato. Questo potrebbe sembrare inverosimile, Borghese che in un comando della Decima dialoga prendendo un caffè con dei capi partigiani, ma la vera storia è questa. Quello che spesso non mancò da ambo le parti fu il rispetto e la volontà di trovare accordi.

Piero Piero però non si riuscì a rintracciare, ed altri attentati colpirono gli uomini della Decima dopo quello di Ozegna, una bomba in un tram a La Spezia, l'agguato di Valmozzola del quale abbiamo già parlato ed altri piccoli episodi. Più che mai la Decima si vide costretta a prendere una decisione : mantenere la scelta di non combattere contro altri italiani, subendo passivamente assalti e soprusi da chiunque, o difendersi rendendo sicure le zone ove la Decima si trovava?

Scrive Borghese : "L'8 agosto 1944 convocai a Ivrea gli ufficiali di tutti i battaglioni. Fu una grossa assemblea. E agli ufficiali, oltre 300, tenni un breve discorso. Dissi che la situazione ci obbligava a difenderci contro gli attacchi dei partigiani; non potevamo garantire la sicurezza delle nostre caserme sorvegliandone solo le mura. Dovevamo essere certi che per dieci chilometri attorno non vi fosse il nemico. Ma per avere questa certezza dovevamo controllare la zona circostante. Dissi infine che se qualche ufficiale non riteneva di poter partecipare a queste azioni di difesa era libero di tornare a casa. Su trecento ufficiali presenti solo quindici mi chiesero di essere congedati. [continua...]

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Tra di loro alcuni erano i migliori, ma li lasciai ugualmente liberi. L'essere stati costretti alla guerra civile ci addolora oggi, come ci dispiacque e ci addolorò allora, ma chi combatteva contro l'Italia e contro l'Europa era nostro nemico."

Ecco il momento, ed il perché, dell'entrata della Decima nella guerra civile. Sempre in quest'occasione verranno distribuite agli ufficiali delle "cartoline voto" ove dare il proprio parere rispetto alla questione posta da Borghese, quelle stesse cartoline che qualcuno utilizza come prova che la Decima si gettò in questa brutale mischia fin dal principio......... un altro esempio dei "buchi neri" che costellano la storiografia ufficiale.

Da agosto 1944 in poi non cessarono gli attentati alla Decima (scrive Borghese : "Non passava giorno che non ci pervenisse notizia di qualche caduto, e non passava giorno che la Decima non fosse calunniosamente accusata di fatti nefandi."), ma non si fermò neppure la volontà di raggiungere accordi per evitare inutili spargimenti di sangue. Scrive Borghese sempre a questo proposito : "Sempre più convinto che la situazione richiedesse una più stretta collaborazione tra tutti, che la guerra civile non facesse altro che il gioco degli occupanti, anglo-americani o tedeschi che fossero, mi adoperai, ogni volta che se ne presentò l'occasione, per raggiungere una possibile intesa con gli uomini che combattevano dall'altra parte della barricata. Quando mi furono richiesti, non rifiutai mai incontri con i capi partigiani. Ricevetti i capi delle bande con le quali erano in corso scontri in Piemonte per raggiungere un reciproco e possibilmente incruento "modus vivendi". Compilai un manifesto che feci affiggere in tutti i paesi, i borghi, i villaggi della valle di Locana, Lanzo e Costa, in cui assicuravo che ogni partigiano che avesse deposto le armi non sarebbe stato né giustiziato né fatto prigioniero né inviato in Germania, ma sarebbe potuto tornare a casa, oppure, su sua richiesta, essere arruolato nei battaglioni volontari di lavoratori del genio militare italiano. Questo bando venne immediatamente ritirato dalle autorità governative e mi procurò serie noie con Mussolini che citò il fatto nel corso d'una riunione del consiglio dei ministri come prova del mio "eccessivo spirito di iniziativa ed autonomia"."

Questo l'animo di Borghese e dei suoi uomini, i risultati? Ne parla sempre lo stesso comandante : "Nell'alto comasco avevamo trovato un'amichevole via d'intesa con la banda del capitano Ricci sui seguenti punti:

1° Rispetto e non attacco reciproco;

2° La banda avrebbe mantenuto l'ordine pubblico nella zona evitando fatti di sangue, furti e saccheggi da parte di chiunque;

3° La Decima avrebbe fornito in cambio viveri e medicinali.

Ma raramente questi accordi avevano lunga durata e totale effettuazione sia per la carente autorità dei capi sia per la scarsa disciplina dei gregari. Ad esempio, il capitano Ricci, vero e leale combattente, fu passato per le armi da un'altra banda, pochi giorni dopo aver stipulato gli accordi con la Decima." Quindi gli accordi si portano a termine, ma spesso altri, non approvandoli, pensano a porvi fine con metodi discutibili come nel caso sopra citato e come per il più tristemente famoso eccidio di Porzùs, del quale parleremo nell'approfondimento sulla Venezia Giulia.

Merita un piccolo approfondimento la vicenda di Ferruccio Nazionale, impiccato con al collo un cartello recante la scritta "Aveva tentato con le armi di colpire la Decima". Quest'immagine, molto cara a chi vuole gettar fango sulla formazione di Borghese, risente di uno dei soliti "buchi neri" : perché Nazionale fu impiccato? Forse non lo leggerete mai, ma quest'uomo aveva tentato di uccidere un cappellano della Decima, durante la celebrazione della S. Messa, con una bomba a mano........ cosa aggiungere su un così vile tentativo? Solo la pietà per una persona che da allora non è più tra noi.

 

Altra cosa che non leggerete mai è la reazione di Borghese a quest'episodio : "Non un partigiano doveva essere passato per le armi senza regolare condanna da parte di appositi tribunali : i colpevoli, dopo la cattura, dovevano essere consegnati alle normali autorità di PS per il regolare prosieguo delle pratiche giudiziarie. Mai, e in nessun caso, il comando della Decima ha ordinato che i reparti si facessero giustizia da sé, anche se talvolta questo era difficile da ottenersi per le scellerate azioni con cui i reparti stessi venivano provati animandone gli uomini di sdegno e facendo loro mordere il freno.". Vi invitiamo, dopo questa lettura, a rivedere i vostri libri di storia, o altre fonti quali il sito dell'A.N.P.I. (che trovate nella nostra pagina dei Controlinks in "Il Sito"), e verificare quali siano le circostanze riportate e come esse siano documentate. Certamente non vogliamo ribaltare l'equazione in vigore a tutt'oggi, tanto da portare il "male" a diventare bene e viceversa, né far passare la Decima come un gruppo di "boy-scouts", qualche testa calda vi era anche agli ordini di Borghese, primo fra tutti il Ten Bertozzi sul quale però le testimonianze "interne" sono pochissime e quindi non siamo in grado di affrontare un corretto confronto sul suo operato, ma da qui a generalizzare ci vuol ben altro.

A questo proposito nemmeno la resistenza italiana, che tanto rivendica un ruolo primario nella guerra di "liberazione" così come il massimo candore delle sue vesti, può dichiarasi estranea ad atti più che discutibili. Per quello che riguarda la Decima il bilancio è notevole, riporta Borghese : "Oltre 500 furono gli uomini della Decima caduti sotto il piombo partigiano", ma non è tutto qui. Ricordate la foto di Ferruccio Nazionale poco sopra? E' un'immagine che per ogni storico che si rispetti grida allo scandalo, peccato però che del marò nella seguente fotografia, al quale sono state amputate le gambe prima dell'impiccagione, nessuno parli.

Che un cartello valga più di un'amputazione così grave? Purtroppo non è stato l'unico a subire sevizie prima della morte, anzi forse è stato uno dei più fortunati.

A metà 1944 vediamo prendere forma questa circolare:

"Testo della circolare 574 (da originale riprodotto a pagina 209 del libro "Per l'Onore d'Italia" di Nino Arena, edizioni CDL)

C.V.L. COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE Ia DIV. AUT. VAL CHISONE - A. SERAFINO

COMANDO

Segreto

Ogg. Disposizioni sul trattamento da usarsi contro il nemico

Al Com.te Brigata M. Albergian E.I. Al Com.te Brigata Val Dora

Ricevo e trasmetto le disposizioni avute dal C.V.L. nei riguardi del nemico. Gli appartenenti alle Brigate Nere, alla Folgore, Nembo, Xa Mas e tutte le truppe volontarie sono considerati fuori legge e condannati a morte. Uguale trattamento sia usato anche ai feriti di tali reparti trovati sul campo. Abituato a non discutere gli ordini che ricevo non tollererò nessuna infrazione al riguardo.

I Com. di Brigata diano disposizioni ai loro uff. e così via in merito. Di tale trattamento sono esclusi gli Alpini della M.R. AD ECCEZIONE DEGLI Uff. superiori e dei volontari. In caso che si debbono fare dei prigionieri per interrogatori ecc. il prigioniero non deve essere tenuto in vita oltre le tre ore.

IL C. DI DIVISIONE

Marcellin

(timbro tondo ad inchiostro con la scritta 1° DIV. ALP. AUT. VAL CHISONE C.V.L. - COMANDO)"

Ma come, si ordinava di fucilare anche i feriti in barba a tutti i trattati internazionali? Qualcuno ci ha contestato l'uso di questa circolare affermando

che era un atto pressoché dovuto dopo alcune impiccagioni di partigiani della zona. Ma quello che ci chiediamo è : se il tuo nemico si comporta incivilmente questo vale da autorizzazione a fare altrettanto? O meglio : puoi accusare, a posteriori, il tuo avversario se ti sei comportato nello stesso modo?

Queste sono le piccole-grandi verità del nostro paese sacrificate sull'altare dell'intoccabilità dei vincitori. Ma andiamo oltre. Piero Operti, partigiano del quale abbiamo già pubblicato alcuni scritti, scrive in una lettera aperta al Presidente della repubblica Einaudi:

".....dire che agli ultimi di novembre del 1943, in un incontro avvenuto nel caffè della stazione di Monchiero tra Maurizio, (Parri) capo della resistenza a fianco di Longo, e un generale dell'Esercito, allora capo delle forze clandestine armate del Piemonte per investitura del C.L.N. regionale, Maurizio, suggerendo al Generale i criteri della lotta, gli disse che bisognava "fare del rumore" e spiegò che per rumore intendeva due cose: primo, ammazzare fascisti e tedeschi isolati onde provocare ogni volta l'impiccagione di persone del luogo e quindi alimentare nelle popolazioni l'odio contro gli uni e gli altri; secondo, far saltare dei ponti senza preoccuparsi se interessassero o non le comunicazioni degli occupatori, ma allo scopo di provocare altre rappresaglie e di approfondire nel popolo il senso drammatico dell'ora vissuta anche dove non erano giunte le rovine dei bombardamenti - dire tutto questo costituisce vilipendio ?E' un minuscolo ritaglio di verità storica."

dal libro "Lettere aperte" di Piero Operti, a pag. 165 Lettera indirizzata al Presidente della Repubblica Einaudi.

Avete letto? Ora pensate, ad esempio, alle Fosse Ardeatine.............

Non vogliamo dilungarci eccessivamente su questo, chiunque lo legga può capire come realmente operavano alcune bande partigiane anche e soprattutto perché si tratta della testimonianza, o forse è meglio dire della confessione, di uno di loro. La nostra unica speranza è che fonti ufficiali, come per esempio il sito dell'A.N.P.I., facciano chiarezza su questi episodi, senza lasciarsi andare a facili accuse di vilipendio alla resistenza per non dare risposte.

Ultimo argomento da trattare : le rappresaglie. Queste vengono dipinte come uno strumento di esclusiva matrice "nazifascista", ma chi l'ha detto che solo i tedeschi o gli italiani della R.S.I. usassero questo sistema? E che fossero "illegali"?

In un pezzo pubblicato su "Il Borghese" del 21 febbraio 1988 troviamo alcune interessanti informazioni: "Ora, su questo punto delle rappresaglie in tempo di guerra è bene parlare chiaro, una volta per tutte. Il problema, del resto, fu già lungamente dibattuto al momento del processo per l'attentato di via Rasella e la conseguente strage delle Fosse Ardeatine; processo nel quale si riconobbe la legittimità della rappresaglia in tempo di guerra, tanto è vero che Kappler fu condannato non tanto per il massacro in sé, quanto per aver fucilato un numero di ostaggi superiore al rapporto di uno a dieci fissato dal Comando. Nell' "Estratto della sentenza di Norimberga" si legge : "Il Tribunale di Norimberga che giudica un gruppo di alti ufficiali dell'Esercito germanico imputati di 'crimini di guerra' ...... ha stabilito che nessun crimine può essere attribuito agli imputati per l'uccisione di membri delle forze della Resistenza. Era l'unico modo in cui un Esercito poteva difendersi............................Le leggi consentono l'uso di prendere ostaggi e ucciderli per assicurare il mantenimento dell'ordine. Non è nostro compito modificare il già esistente diritto internazionale, ma soltanto applicarlo"" ........................... "Il generale Clark, a Strasburgo, ad esempio, ordinò che per ogni soldato americano ucciso fossero fucilati cinque prigionieri, oltre a tutti i guerriglieri ed a tutti i favoreggiatori arrestati. Ad Annecy, per un solo soldato americano ucciso vennero fucilati ottanta prigionieri tedeschi. Nell'Alta Savoia, i francesi fucilarono anche loro ottanta prigionieri tedeschi, soltanto perché si disse che alcuni cosacchi inquadrati in unità germaniche a Lione avevano ucciso "qualcuno". A Soldin, i sovietici applicarono un rapporto di centoventi ostaggi uccisi per ogni russo morto. A Gorezin, gli americani arrivarono al rapporto di duecento a uno. I tedeschi, con il loro rapporto di dieci ostaggi per ogni soldato morto, furono quelli che si tennero più bassi; Montgomery, che a Bendasi applicò questo rapporto ai danni degli italiani, fu tra gli inglesi l'unico ad applicare la stessa regola dei tedeschi.

Qual'era l'obbiettivo di questo approfondimento ? Arrivare alla conclusione che in una guerra civile non ci sono santi né demoni, ognuno combatte per un'ideale e per questo può arrivare anche a degli estremi . [continua...]

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Quello che non ci trova e non ci troverà mai d'accordo è che una sola delle due parti si elegga, a conflitto terminato, a giudice....... delle sole colpe altrui, nascondendo le proprie ed imponendo una logica di parte quale unica e incontestabile verità storica per tutte le generazioni future.

Scrive ancora Operti nella stessa lettera sopra citata: "Sennonché per gli italiani amanti del vero esiste un pregiudiziale ostacolo a parlare di quel periodo, del quale la legge vieta di fare la storia, consentendo solo il panegirico o la denigrazione. Dire, ad esempio, tutta la verità sui corpi combattenti della Repubblica Sociale costituisce "apologia del fascismo", e dire tutta la verità sui partigiani - ossia fautori della parte o partito quali furono i socialcomunisti, mentre a chi intese lottare per la patria spetta il nome di patriota, e con tale scrupolo lessicale impiego i due termini - costituisce "vilipendio della Resistenza". Perciò circolano soltanto mezze verità, verità monche e ritoccate. I partigiani commisero un errore reclamando una legge che li rendesse intoccabili"

Siamo i primi a dichiarare che non tutti i partigiani fossero delinquenti ed assassini, gradiremmo però la stessa valutazione non solo per la Decima ma per tutte le forze della R.S.I..

Siete d'accordo? Speriamo di sì.

Nato nel 1906 da nobile famiglia romana, il principe Junio Valerio Borghese seguì le orme dei suoi celebri avi diventando ufficiale di carriera nella Regia Marina.

Già comandante di sommergibili all'inizio del conflitto, posizione che gli valse una medaglia d'oro al Valor Militare, divenne il 1° maggio 1943 comandante della Decima Flottiglia M.A.S.. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 prese la decisione di restare al fianco dell'alleato tedesco, così come più tardi scrisse:

"All'8 settembre, al comunicato di Badoglio, piansi. Piansi e non ho mai più pianto. E adesso, oggi, domani, potranno esserci i comunisti, potranno mandarmi in Siberia, potranno fucilare metà degli Italiani, non piangerò più.

Perché quello che c'era da soffrire per ciò che l'Italia avrebbe vissuto come suo avvenire, io l'ho sofferto allora.

Quel giorno io ho visto il dramma che cominciava per questa nostra disgraziata nazione che non aveva più amici, non aveva più alleati, non aveva più l'onore ed era additata al disprezzo di tutto il mondo per essere incapace di battersi anche nella situazione avversa."

E ancora :

" Anch'io, in quei giorni del settembre 1943, fui chiamato ad una scelta.

E decisi la mia scelta. Non me ne sono mai pentito. Anzi, quella scelta segna nella mia vita il punto culminante, del quale vado più fiero.

E nel momento della scelta, ho deciso di giocare la partita più difficile, la più dura, la più ingrata. La partita che non mi avrebbe aperto nessuna strada ai valori materiali, terreni, ma mi avrebbe dato un carattere di spiritualità e di pulizia morale al quale nessuna altra strada avrebbe potuto portarmi."

Al momento dell'armistizio Borghese stava preparando due importantissime operazioni, una delle due puntava addirittura al porto di New York, che per l'evolversi degli eventi non vennero mai realizzate. La sua abilità di comandante ed il suo indubbio carisma lo portarono ad essere il faro della Decima e dei suoi uomini, al punto tale di venire più volte in contrasto con i gerarchi della neonata R.S.I. gelosi del suo potere. Da parte sua Borghese poteva però contare sulla fiducia tedesca e sull'ammirazione e rispetto dell'ammiraglio Karl Doenitz, comandante in capo della marina del Reich.

Il 25 aprile 1945 Borghese si consegnò volontariamente al C.L.N. di Milano, ove fu tratto in salvo da un emissario americano (oramai tutti conoscono i crudi metodi utilizzati dai partigiani nei confronti degli avversari).

Nel dopoguerra, dopo essere stato degradato e imprigionato, si dedicò alla politica in seno al M.S.I. del quale divenne presidente onorario nel 1951.

Pare sia stato l'ideatore di un tentativo di colpo di stato nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970 passato alla storia come "operazione Tora Tora", quando alla guida di un gruppo di fedeli, tra i quali vi erano anche degli ex-marò della Decima mentre altri erano pronti ad intervenire successivamente, si era oramai impadronito dell'armeria del Viminale ma misteriosamente si ritirò, probabilmente per l'intervento dell'onorevole Almirante, allora segretario del M.S.I..

A seguito dell'accusa per il fallito golpe si rifugiò in Spagna dove morì, a Cadice, nel 1974.  

 

In ogni guerra, la questione di fondo non è tanto di

vincere o di perdere, di vivere o di morire; ma di

come si vince, di come si perde, di come si vive,

di come si muore. Una guerra si può perdere, ma

con dignità e lealtà. La resa ed il tradimento

bollano per secoli un popolo davanti al mondo."

J.V. Borghese

 

Comandante di Sommergibile, aveva già dimostrato in precedenti circostanze di possedere delle doti di ardimento e di slancio.

Incaricato di riportare nelle immediate vicinanze di una munitissima base navale nemica alcuni volontari, destinati a tentare il forzamento con mezzi micidiali, incontrava nel corso dei reiterati tentativi di raggiungere lo scopo prefisso, le più aspre difficoltà create dalla violenta reazione nemica e dalle condizioni del mare e delle correnti. Dopo aver superato con il più assoluto sprezzo del pericolo e con vero sangue freddo gli ostacoli posti dall'uomo e dalla natura, riusciva ad assolvere in maniera completa il compito affidatogli, emergendo a brevissima distanza dall'ingresso della base nemica ed effettuando con calma e serenità le operazioni di fuoriuscita del personale. Durante la navigazione di ritorno, sventava la rinnovata caccia del nemico e, nonostante le difficilissime condizioni di assetto in cui si era venuto a trovare il sommergibile, padroneggiava la situazione per porre in salvo l'unità e il suo equipaggio.

Mirabile esempio di cosciente coraggio, spinto agli estremi limiti di perfetto dominio di ogni avverso evento.

 

Mediterraneo Occidentale, 21 ottobre - 3 novembre 1940

(Regio Decreto, 2 gennaio 1941)

Quando pareva vinta Roma antica

sorse l'invitta Xª Legione;

vinse sul campo il barbaro nemico

Roma riebbe pace con onore.

Quando l'ignobil otto di settembre

abbandonò la Patria il traditore

sorse dal mar la Xª Flottiglia

e prese l'armi al grido "per l'onore".

 Decima Flottiglia nostra

che beffasti l'Inghilterra,

vittoriosa ad Alessandria,

Malta, Suda e Gibilterra.

Vittoriosa già sul mare

ora pure sulla terra

Vincerai!

Navi d'Italia che ci foste tolte

non in battaglia ma col tradimento

nostri fratelli prigionieri o morti

noi vi facciamo questo giuramento.

Noi vi giuriamo che ritorneremo

là dove Dio volle il tricolore;

noi vi giuriamo che combatteremo

fin quando avremo pace con onore.

 Decima Flottiglia nostra

che beffasti l'Inghilterra,

vittoriosa ad Alessandria,

Malta, Suda e Gibilterra.

Vittoriosa già sul mare

ora pure sulla terra

Vincerai!

 

La "Xª Legione" citata nella prima strofa fù il corpo scelto del dittatore romano Giulio Cesare, famoso per la sua fedeltà al comandante ed a Roma, sceso in campo nella guerra civile per affrontare Pompeo fino a sconfiggerlo dopo aver attraversato il Rubicone.

Risulta naturale il paragone con la Decima Flottiglia M.A.S., rimasta fedele all' alleanza dell'asse anche dopo l'armistizio dell' 8 settembre 1943.

 

La Spezia, 14-9-1943

1) La Xª Flottiglia M.A.S. è un'unità complessa appartenente alla marina militare italiana, con completa autonomia nel campo logistico, "organico", della giustizia e disciplinare, amministrativo;

2) E' alleata delle Forze Armate germaniche con parità di diritti e doveri;

3) Batte bandiera da guerra italiana;

4) E' riconosciuto a chi ne fà parte il diritto all'uso di ogni arma;

5) E' autorizzata a ricuperare e armare, con bandiera ed equipaggi italiani, le unità italiane trovantisi nei porti italiani; il loro impiego operativo dipende dal comando della Marina germanica;

6) Il Comandante Borghese ne è il capo riconosciuto, con i diritti e i doveri inerenti a tale incarico.

Berninghaus

Capitano di Vascello  J.V. Borghese

Comandante  

E' da notare l'ampia fiducia tedesca che traspare dal trattato nei confronti della Decima, specie in un momento come quello in oggetto nel quale le FF.AA. italiane venivano viste dall' ex-alleato come un vero e proprio nemico.

Tale fiducia derivava dal rispetto per la Decima creatosi negli anni precedenti sulla base delle operazioni svolte e sull'affidabilità ed abilità del comandante Borghese.

 

I  DIO - PATRIA - FAMIGLIA siano i principi della tua esistenza.

II  Se dai la tua parola, sia essa come Vangelo. Non accettare compromessi e non sarai compromesso.

III  Difendi la Patria contro qualsiasi invasore. I suoi confini sono intangibili e per essi lotta fino all 'estremo sacrificio.

IV  In pace o in guerra sii leale, onesto e laborioso per sentirti fiero di essere italiano.

V  Rispetta te stesso - Rispetta gli altri - Sarai rispettato.

VI  Non mancare di parola e non tradire. Non assalire alle spalle: morte e nemico si guardano in faccia.

VII  La disciplina ti sia di guida: saper ubbidire e' saper comandare.

VIII  La tua parola vola, il tuo esempio trascina.

IX  il tuo pensiero, la tua azione, la tua volontà siano coerenti alla difesa della dignità e dell 'onore della Patria.

X  L 'appartenenza alla DECIMA sia con fierezza il tuo orgoglio.

 

 

[fine del mio "elaborato"]

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IL BELLISSIMO RICONOSCIMENTO DI UN NEMICO

John R. Dawson. Del First Special Service Force

Ai Gentleman della Xa. Avevamo versato il nostro e il vostro sangue al fronte Sud. Su quei freddi pendii di fronte a Cassino i migliori e gli ultimi di noi ci avevano lasciato: i primi perché erano i più audaci, gli altri perché non avevano saputo tener duro. Quelli di noi che si trincerarono lungo il Canale Mussolini o calpestarono di notte quei bordi scivolosi per portare la guerra dalla vostra. parte, erano arrivati o erano molto vicini al massimo delle capacità di soldati, completamente addestrati, resistenti e assuefatti al pericolo, ma ancora non sufficientemente stanchi da perdere la nostra sponda.

Come Unità eravamo smembrati: in parte riuniti in battaglioni, compagnie e plotoni provvisori, ma il risonante applauso di tutta la Va Armata e la familiare guerra di manovra per la quale eravamo stati così a lungo addestrati, ci davano una sicurezza senza rivali dall'una e dall'altra parte del fronte.

Anche nella Xa c'erano Uomini che in precedenza si erano conquistati onore in guerra; che avevano guidato le loro torpedini sopra e sotto la superficie del mare, per affondare navi nei porti nemici e riscuotere la fiducia dei marinai Alleati. Ma sulla terra erano fuori dal loro elemento, naturale e preferito, e uno scarpone nel fango dà meno libertà di movimento di una pinna nell'acqua del mare.

Nel Barbarigo i veterani erano la minoranza. La maggior parte dei giovani volontari che ci fronteggiavano ad Anzio avevano lasciato da poco la vita civile, troppo giovani per essersi trovati coinvolti nelle capitolazioni in massa in Africa e in Sicilia. La loro vergogna per il comportamento di altre truppe italiane, li aveva attirati come una calamita verso gli invitti assaltatori subacquei che condividevano il loro obiettivo di cancellare l'infamia.

Tributo. Voi siete stati la risposta al sogno di chi cerca nuove reclute - giovani, coraggiosi, superbamente motivati -. Ma i veterani ebbero poco tempo, nel migliore dei casi, per equipaggiarvi e addestrarvi come avreste meritato e l'incidente del 13 Dicembre lo abbreviò ancor più; per colmo d'ironia, col vostro applauso.

Ci avete affrontati agli inizi di Marzo, armati soprattutto del coraggio dei vostri cuori.

Siete stati mandati là per punizione e noi ci impegnammo ad oltranza. La nostra migliore scommessa per tenere quel lungo fianco destro era di colpirvi così duramente ad ogni scontro, da rendervi riluttanti a riprovarci.

Eravate una minaccia che poteva renderci responsabili della perdita dell'intera testa di sbarco. Eravate il flusso continuo di traccianti che irrompevano dal buio e schioccavano attorno a noi, sopra di noi, dietro di noi, dentro di noi; eravate le salve dei proiettili di mortaio e delle granate che scovavano i nostri armieri e i gruppi d'assalto.

Foste gli uomini che incontrammo quando l'obiettivo cambiò di proprietario.

In quella prima notte non riuscimmo a distinguervi dai veterani tedeschi che vi affiancavano. Novizi coraggiosi e dotati possono affrontare una punizione come i veterani benché siano più vulnerabili al colpo di ritorno.

Col susseguirsi delle notti e dei mesi le cose non divennero mai più facili. Ci sforzammo sempre di infliggervi il colpo decisivo, senza mai arrivarci. Ogni colpo, favorevole e non, richiedeva un seguito e un nuovo approccio. Sapevamo che vi stavamo dissanguando, più di quanto non riusciste a danneggiarci. Il che era sostanziale, ma ogni colpo infertoci era una lezione appresa. Anche dopo la serie di colpi nel giorno dello sfondamento, la Xa creò forti punti di resistenza da Cisterna a Norma e alle porte di Roma.

Mentre marciavate attraverso la città il vostro aspetto dignitoso di soldati e la vostra fama duramente conquistata, vi guadagnarono il saluto del Generale Kesserling.

I nostri cammini si divisero oltre Roma e voi raggiungeste il punto epico in qualche parte della Linea Gotica, in tempo perché gli Inglesi vi accordassero l'Onore delle Armi al momento della resa. Dividemmo con voi un'esperienza che segnò gli uni e gli altri, ma l'odio ostinato non ne fece parte. Da soldati vi salutiamo.

DURI A MORIRE. Storia del Battaglione Barbarigo. (Dalla prefazione di) Marino Perissinotto. Editore Albertelli. (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)

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UN ECCEZIONALE RADUNO A LA SPEZIA DEI DUE BATTAGLIONI "LUPO" E "BARBARIGO" AL VARIGNANO

Com.te Sergio Nesi

L'incontro dei nostri due Battaglioni, “Lupo” e “Barbarigo” a La Spezia, assume una importanza del tutto particolare. E merita di essere raccontato in dettaglio. Mario Sannucci, V. Presidente dell'Associazione, il 30 di maggio 1995 aveva presentato allo Stato Maggiore della Marina la richiesta che il convegno annuale dei Battaglioni “Barbarigo” e “Lupo” a La Spezia, fosse tenuto nella caserma di “San Bartolomeo” dove i due Battaglioni furono costituiti. L'Ammiraglio di Squadra Luigi Lilio, Capo Ufficio Affari Generali dello Stato Maggiore della Marina, rispondendo alla richiesta. consentiva, invece, che la cerimonia si tenesse al COMSUBIN previi accordi con quel Comando. Da quel momento, scattava l'organizzazione a cura di Gianfelice Vagliani.

La cerimonia al Varignano è stata preceduta da una visita all'Arsenale di La Spezia, per la deposizione di una corona d'alloro al Monumento dei Sommergibilisti. Accolti dall'Ammiraglio Filippo Cusmai e dall'Ammiraglio Sergio Brandone, i reduci hanno trovato il Comandante Medaglia d'Oro Mario Arillo ad attenderli nell'area monumentale. di cui è stato ideatore ed artefice.

Mario Arillo ha pronunciato una breve allocuzione, terminata con la lettura della motivazione della Medaglia d'Oro al V.M. al Sommergibile “Scirè”. Deposta la corona al Monumento, i reduci si sono poi recati al Varignano, ricevuti dal Capo di Stato Maggiore C.V. Domenico Notarantonio. Nel Piazzale era già schierato il personale di comandata del Raggruppamento, costituito da 10 ufficiali, 18 sottufficiali e 24 fra sottocapi e comuni. L'Altare era al centro con il Cappellano don Lazzini.

I reduci della Decima si sono schierati. con i Gagliardetti dei Reparti alla destra dell'Altare al cui fianco stavano lo Stendardo del Battaglione “Barbarigo” e le insegne del “Lupo”.

Saluto alle medaglie d'oro

All'inizio della cerimonia è stato suonato l'attenti. Poi, uscendo dal Comando accompagnate dal Capo di Stato Maggiore, le tre Medaglie d'oro Mario Arillo, Emilio Bianchi e Luigi Ferraro, si sono presentate al centro del piazzale. Al termine della Messa, un Capitano di Corvetta ha invitato la Medaglia d'Oro Alessandro Tognoloni della Decima, a schierarsi a fianco delle tre Medaglie d'Oro del Varignano e del Capo di Stato Maggiore. Dopo i rituali segnali di attenti con squilli di tromba, è stata data lettura della Preghiera del marinaio, da parte di un sottufficiale degli Incursori; poi il trombettiere ha suonato le note del silenzio. Quindi, Gianfelice Vagliani ha dato lettura della motivazione della Medaglia d'Oro allo Stendardo della X Flottiglia Mas.

Ha quindi preso la parola il Vice Presidente vicario, Sergio Nesi, che ha cosi esordito:

“Prima di ogni altra cosa, è doveroso che, a nome di tutti i presenti rivolga un sentito ringraziamento alla Marina Militare, che ha voluto, in maniera autonoma, che l'annuale raduno dei battaglioni «Barbarigo” e “Lupo” della X Flottiglia Mas, si svolgesse in questa storica fortezza del Varignano. Un ringraziamento allo Stato Maggiore della Marina ed in particolare al Capo di Stato Maggiore dei “Raggruppamento Subacquei ed Incursori”, Capitano di Vascello Domenico Notarantonio, che ha organizzato questa manifestazione con tanta sensibilità. Desidero anche inviare il nostro saluto all'Ammiraglio Comandante, assente per una manifestazione in Sardegna. Poi mi è particolarmente caro rivolgere un affettuoso saluto alle tre medaglie d'Oro del Varignano, qui presenti, che cito in ordine alfabetico:

Mario Arillo - Lo conosciamo tutti. Al comando del sommergibile "Ambra", portò gli incursori all'attacco dei sorgitori (porti) di Alessandria d'Egitto, prima, e di Algeri poi. Affondò l'Incrociatore inglese "Bonaventure", guadagnando la Medaglia d'Argento. Comandante dei Mezzi Navali del Tirreno, dopo l'8 settembre 1943 organizzò le basi dei Mezzi d'Assalto contro la testa di ponte di Anzio e Nettuno, nonchè al Sud della Francia e gli attacchi al porto di Livorno, occupato dagli Alleati. Cooperò efficacemente, alla fine del conflitto, al salvataggio del Porto di Genova, minato dai tedeschi.

Emilio Bianchi - E' con viva emozione che ve lo presento. E' un personaggio schivo da ogni forma di protagonismo, ma è lui che, trasportato dal sommergibile “Scirè” comandato da Junio Valerio Borghese, affondò la nave da battaglia “Valiant” nel porto di Alessandria d'Egitto, cooperando con Luigi Durand De la Penne e fu lui a condividere, con De la Penne, le drammatiche vicende sulla nave da loro minata, segregato nella stiva dal Comandante Morgan che li voleva morti, se non avessero rivelato la posizione dell'esplosivo. Ha voluto essere presente, per testimoniare con voi che la X Flottiglia Mas è compatta e indivisibile.

Luigi Ferraro - Mi limito solo a citare una frase scritta tempo fa: “E' l'uomo che nella storia della marineria d'ogni tempo ha affondato da solo più naviglio nemico”. Su di lui non mi dilungo oltre.

Alessandro Tognoloni - Guardiamarina del Battaglione “Barbarigo”, impegnato sul fronte di Nettuno contro la testa di ponte anglo-americana, il 23 maggio 1944, a Cisterna, rifiutò l'ordine di ripiegare, scagliandosi contro una formazione di carri armati Sherman, armato solo di pistola e bombe a mano. Sparì nella nube di un'esplosione e fu dato per morto. Gli fu concessa la Medaglia d'Oro al valor militare “alla memoria”. Ma gli americani lo avevano raccolto agonizzante per le numerose e gravi ferite. Lo sottoposero ad una lunga serie di interventi chirurgici in Italia e negli Stati Uniti. Rimessolo in piedi, lo rinchiusero nel campo di prigionia di Hereford, nel Texas, quello riservato ai “recalcitrans”. Infatti Tognoloni era un irriducibile.

Rivolgo un saluto anche ai due Assaltatori che l'Ufficio Storico della Marina ha già collocato nel suo volume dei Mezzi d'Assalto, Sergio Denti e Sergio Perbellini

Le giovani generazioni dei subacquei e degli incursori possono ricevere anche da loro il testimone di un amor patrio senza confini.

Sergio Denti - Già decorato, giovanissimo, prima dell'8 settembre 1943 sulla torpediniera “Orsa”, fu protagonista con i Mezzi d'Assalto della Decima, a Nettuno e decorato di Medaglia di Bronzo. Alla fine, con il suo barchino esplosivo distrusse il C.T. francese “Trombe”, incrementando il tonnellaggio di naviglio nemico affondato dalla X Flottiglia Mas.

Sergio Perbellini - Benché esonerato dal servizio militare per esiti da poliomielite, è stato in assoluto il primo volontario a presentarsi alla X Flottiglia Mas: alle 6 del mattino dell'8 settembre 1943. Fu inviato dal Comandante Borghese alla Scuola dei Mezzi d'Assalto di Sesto Calende. dove ottenne il brevetto di pilota. Partecipò a varie azioni d'attacco nelle acque francesi. Assieme a Sergio Nesi, a fine aprile 1945 prese parte all'attacco del porto di Ancona, in quell'ultima azione che l'Ammiraglio inglese chiamò “la seconda beffa di Buccari”.

Proseguendo nel suo intervento, Sergio Nesi ha richiamato l'attenzione dei presenti su alcuni punti di grande importanza, per sottolineare il significato.

"Il V. Presidente dell'Associazione combattenti Decima - si era rivolto allo Stato Maggiore della Marina per chiedere che il raduno dei due Battaglioni potesse svolgersi al "San Bartolomeo", la loro culla negli anni 1943-44. Poichè quegli edifici non erano disponibili, lo Stato Maggiore, autorizzò lo svolgimento della cerimonia presso COMSUBIN. Alla Marina è parso perfettamente naturale aprire le braccia ai reduci dei battaglioni della Decima. Il perchè ve lo spiega una frase che nel 1992 l'allora Capo di Stato Maggiore, Ammiraglio di Squadra Ruggiero, pronunciò a Roma, nella sala dei ricevimenti del Ministero. Erano presenti le Medaglie d'Oro Arillo, Ferraro e Birindelli, e tutti gli Ammiragli componenti lo Stato Maggiore della Marina.

C'ero anch'io - dice Nesi - L'Ammiraglio Ruggiero fece collocare la Bandiera tra lui e me, poi fece scattare foto ufficiali dicendo: "Nella X Flottiglia Mas non ci sono soluzioni di continuità. Avete tutti combattuto per l'Italia".

A rafforzare questo concetto, l'Ufficio Storico della Marina ha ristampato il volume sui Mezzi d'Assalto, che, partendo dalla guerra 1915-18, termina con il forzamento del porto di Ancona nell'aprile del 1945.

Il Direttore dell'Ufficio Storico, Amm. Buracchia, ha confermato che entro Natale uscirà il volume sulla Fanteria di Marina. Nella lunga storia dei "fanti di mar" sono inserite la battaglia di Anzio e Nettuno del "Barbarigo"; la difesa dei confini orientali della Divisione Decima con la battaglia che ha visto il sacrificio di tanti marò sulle montagne innevate del San Michele, del Sabotino, dell'Ortigara; la battaglia finale della Selva di Tarnova, con l'eroica, disperata difesa del Btg. "Fulmine", della Compagnia Volontari di Francia, che bloccò l'offensiva del IX Corpus di Tito permettendo che sul Castello di Gorizia sventoli ancora il tricolore; la battaglia del Senio con i N.P. ed i Btg. "Lupo" e "Barbarigo", nella quale il T.V. Sannucci lasciò il suo sangue e brandelli del suo corpo. Il Varignano è la sede più prestigiosa della Marina ed è la culla della X Flottiglia MAS. Quale luogo più idoneo per questo raduno?

La terrazza che dà sul Golfo non offre soltanto uno splendido panorama; da essa all'alba del 9 settembre 1943 gli Assaltatori, che si apprestavano ad attaccare New York, videro sfilare la squadra navale dell'Ammiraglio Bergamini, diretta verso il suo destino.

Da quella terrazza si può vedere l'Albergo Shelley dove furono poste le basi per la organizzazione della Decima dopo l'8 settembre e dalle cui sale uscirono i versi della nostra struggente canzone: "Navi d'Italia che ci foste tolte... Nostri fratelli prigionieri o morti".

Qui di fianco c'è la mole della Castagna, sede dei "maiali". Di fronte, il Muggiano dove si trovava la sede del Comando. con Borghese, Arillo, Lenzi, Wolk, Ferraro, Ungarelli, Scardamaglia, Nesi ecc. e dove c'erano le rimesse per i barchini. Quel Muggiano sul cui pennone alle 10,30 del 9 settembre, Kalby, guardiamarina dei Gamma, alzò la Bandiera della riscossa, con un buco al centro, al posto dello stemma sabaudo.

Più a Nord ecco San Bartolomeo, il vostro San Bartolomeo. Qui fu la culla degli "N" di Wolk e dei "P" di Buttazzoni e Ceccacci, prima di trasferirsi a Jesolo. Insomma, qui è la storia dei Mezzi d'Assalto di ieri, ed oggi dei successori "Subacquei ed Incursori". Ed è proprio qui che vi ha invitato la Marina Italiana".

Gianfelice Vagliani ha poi portato il saluto anche delle altre tre M.O.V.M. invitate, ma impossibilitate ad intervenire, Gino Birindelli, Roberto Frassetto e Spartaco Schergatt.

Conclusa questa allocuzione, si è avuto l'intervento del V. Presidente dell'Associazione Decima, T.V. Mario Sannucci, del “Lupo”. Lo ha letto Gianfelice Vagliani.

Il messaggio di Sannucci

“Erano anni che i reduci della Decima Mas della R.S.I. manifestavano il desiderio di incontrarsi alla Caserma di S. Bartolomeo. Oggi per l'interessamento appassionato del Com. Mario Arillo e per la cortese ospitalità della Marina Italiana il desiderio si realizza qui al Comsubin e noi gliene siamo sentitamente grati.

San Bartolomeo rappresenta una tappa importante nella vita di migliaia di giovani che, ventenni. senza esperienze militari, presero la decisione più importante della loro giovinezza e, per molti, della loro vita: combattere per un dovere civico e per un ideale di patria. Esso fu la culla della loro precoce maturazione di uomini e di soldati.

Il Varignano che ci ospita è oggi un simbolo. Ci ricorda che tra le due guerre un pugno di uomini dedicò il proprio ingegno nella ricerca di nuovi mezzi per la guerra di mare che aiutassero l'Italia a colmare l'inferiorità di armamento nei confronti delle altre nazioni.

Il loro impegno di anni di fede e di sacrificio fu premiato e la Marina ebbe una nuova arma. Non un'arma di disumana distruzione che agisse dall'alto su vittime indifese o che partisse da lontano ed esplodesse premendo un bottone. Fu un'arma a misura di combattente, nella quale l'uomo era un solo corpo con l'ordigno esplosivo, lo guidava fin sotto l'obiettivo e ne determinava l'esplosione.

Era l'ultima espressione della guerra romantica, quando il soldato affrontava il nemico armato di baionetta ed erano solo il coraggio e la preparazione al sacrificio che determinavano le sorti di una battaglia. E fu qui che si formarono gli uomini che dovevano guidare quei mezzi. Essi legarono all'arma la loro determinazione di combattenti, il loro orgoglio di appartenere ad un corpo glorioso e nella loro dedizione senza limiti, quando gli assaltatori in azione su Malta trovarono chiusa la via verso l'obiettivo, in un supremo slancio di offerta ideale alla Patria decisero il sacrificio della loro vita. Parliamo di Teseo Tesei e di Alcide Pedretti.

L'8 settembre, quando le istituzioni fuggirono dalle loro responsabilità, l'esercito si dissolse nello sfacelo della sconfitta e ogni italiano dovette decidere da solo il suo comportamento, affidandosi alla propria coscienza, molti giovani si ribellarono allo spettacolo di disarmo morale degli adulti e decisero di continuare a combattere contro la forza occupante. Ritennero fosse questo il solo modo per ottenere il rispetto del nemico.

Gli italiani, preoccupati per l’andamento della guerra, avevano esultato alla notizia delle epiche imprese dei mezzi d'assalto della Marina nei porti di Alessandria, Alessandretta, Algeri, Malta, Suda, Gibilterra. La notizia che alcuni protagonisti di quelle imprese, nella caserma di San Bartolomeo di La Spezia, avevano rifiutato di ammainare la bandiera italiana e avevano respinto con la minaccia delle armi il tentativo dei tedeschi di occuparla, esercitò un richiamo irresistibile su quei giovani... Si verificò il più straordinario fenomeno di volontariato di guerra. A San Bartolomeo ne affluirono migliaia.

Dai loro comandanti ebbero il nome glorioso della Decima e la qualifica di marò; dalle navi "Barbarigo", "Lupo". "Fulmine", "Sagittario", "Colleoni" e tante altre, il nome dei Reparti. Dal nome assimilarono lo spirito di corpo e dagli esempi del recente passato il coraggio per affrontare le future battaglie.

Combatterono in uniforme

Combatterono valorosamente, ebbero apprezzamenti e decorazioni dai tedeschi e riconoscimenti dagli alleati, compresa, alla fine, la resa con l'onore delle armi per alcuni reparti.

Il generale John Vessey, diventato nel dopoguerra Presidente dei Capi di Stato Maggiore delle Forze Armate Americane, e che, allo sbarco di Anzio, fu promosso sul campo da sergente a tenente, ha detto per i combattenti della Decima: "Sapevo che per molti italiani la guerra era finita, ma avevo inteso parlare di una certa Decima Mas. Ad Anzio la ebbi di fronte: ragazzi senza fortuna ma di grande valore".

Reparti della Decima, alternati ai tedeschi a difesa del fronte del Senio, contribuirono a fermare per quattro mesi l'avanzata del più forte esercito del mondo. Altre formazioni della Decima, con l'apporto della Compagnia Volontari di Francia. respinsero. in una cruenta battaglia, con forze inferiori, l'attacco della IX Brigata jugoslava che voleva occupare Gorizia.

Il nostro Comandante Valerio Borghese difese l'autonomia e l'identità della Decima Mas della RSI. Tanto è vero che fu raggiunto dai suoi colleghi della Decima Sud per concordare un'azione comune a difesa dei confini orientali dall'occupazione slava. Per questo riteniamo con orgoglio di aver tenuto sempre alta la bandiera della Decima. Combattemmo in solitudine contro nemici esterni e interni, senza miraggi di gloria e di premi futuri, perchè lo dovevamo alla uniforme che indossavamo e che simboleggiava la Patria, e lo dovevamo anche ai nostri Comandanti che avevano portato in dono alla nostra bandiera il loro esempio e le loro medaglie.

E riteniamo di aver difeso con onore lo spirito dell'arma: lo abbiamo difeso con migliaia di morti e feriti.

Questo nostro odierno più che un incontro, è un pellegrinaggio.

Siamo qui per ricordare con affetto i compagni scomparsi a soli vent'anni, offrendo la vita per un ideale, lasciando il rimpianto di un esempio che può essere di guida a tutti i giovani di oggi

E rivolgiamo un deferente pensiero ai Caduti della Marina e di tutte le armi che con il loro sacrificio hanno dato lustro e orgoglio alla Patria”

Infine, il Capo di Stato Maggiore del “Raggruppamento”, C.V. Domenico Notarantonio ha detto:

“In questa giornata dedicata alla cerimonia commemorativa dei reduci dei battaglioni "Barbarigo" e "Lupo", a nome dell'Ammiraglio Comandante il Raggruppamento "Teseo Tesei", C.A. Filippo Pascali, porgo loro il benvenuto. ”Sono passati ormai 50 anni da quelle imprese che impressionarono il mondo e che furono imitate da alleati e nemici.

La loro messe di gloria è imponente, 31 medaglie d'ore, 104 medaglie d'argento, 32 medaglie di bronzo e 30 croci al valore militare.

Il loro ricordo non vive solo nei sacrari, musei, navi, o caserme, ma nel rispetto e nell'ammirazione che animano gli "Assaltatori viventi", quando quel passato viene da essi evocato, superando sempre un innato senso di riservatezza e modestia.

La Marina Militare non ha disperso le loro esperienze, ma ha saputo aggiornarle: il Raggruppamento subacquei ed incursori "Teseo Tesei" ha raccolto e sviluppato l'impegnativa eredità della X Flottiglia Mas. Esperienza e professionalità messe a dura prova, ma con brillanti risultati nei recenti ed attuali impieghi operativi, in Libano, in Somalia e per il blocco dell'ex Jugoslavia.

Fino a quando la fantasia umana non si sarà esaurita, fino a quando esisteranno nel nostro Paese giovani pronti a sottoporsi con entusiasmo ad un addestramento di estrema durezza, pervasi dal "coraggio dei forti e non quello dei disperati", convinti dei propri ideali di uomini liberi, ci sarà vita per il più prestigioso reparto d’élite della forza armata italiana".

A conclusione della cerimonia, il Comandante Nesi ha salutato ritualmente: “Decima, Marinai!” cui i reduci hanno risposto “Decima, Comandante”, che per la prima volta, dopo cinquant'anni, è risuonato nell'arca che fu della X Flottiglia Mas. Dopo un rinfresco offerto dal Comandante dei “Raggruppamento”, mentre la massa dei reduci rientrava a La Spezia, le Medaglie d'Oro Arillo e Tognoni, Sergio Nesi, Perbellini, Denti, Walter Jonna e due inviati del “Lupo” e dei “Barbarigo”, con le rispettive insegne si son imbarcati sul cabinato “Seneca”, per deporre una corona d'alloro a mare, fuori dalla diga, al di là dell'isola del Tino.

Sull'imbarcazione del Raggruppamento “Teseo Tesei” erano il Capitano di Fregata Camillo Raiteri ed il Cappellano dei Raggruppamento, nonché il trombettiere.

Giunti sul posto designato, il Comandante Raiteri è salito sul pulpito di poppa, ordinando il “Corona a mare”, accompagnato da tre squilli di tromba. La Corona, benedetta dal Cappellano, lanciata da Sergio Denti, recava il nastro con scritto: “Ai Marinai caduti, i Combattenti della X Flottiglia Mas della R.S.I.”.

L’ULTIMA CROCIATA N. 1. Gennaio 1996. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI)

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Questa è una lettera trovata nella sezione "posta" de "il giornale anno '98

 

DECIMA MAS IL TRIONFO DELL’IDEALISMO

Una risposta ad un lettore de Il Giornale

Cara Mariella,

sono un trentacinquenne abbastanza digiuno di cognizioni storiche recenti. Sovente mio padre rievoca un famigerato passato e tratta da esaltati e da cialtroni coloro i quali, durante il ventennio, facevano parte di certe unità militari. Lei che cosa ne pensa di quelli della Decima Mas?

Lettera firmata Palmanova (Udine)

Per quello che ho potuto sapere da fonti storicamente ineccepibili, posso affermare che i «ragazzi» di quella famosa unità erano dotati di un eroismo ingenuo, freschissimo.

Si giocavano la vita irridendone il valore in cambio dell'emozione di tener fede al loro idealismo.

Non furono molti .i. «sopravvissuti» involontari della Decima, ma sono entrati nel «campo della memoria».

Come la storia della Decima Mas è diventata una leggenda per gli italiani, ai quali forse bisogna ricordare uno dei suoi decaloghi: “Devi avere il coraggio dei forti, non quello dei disperati”. L'epoca, caro lettore, era satura di idealismo. Proprio il contrario di quello che oggi, purtroppo, accade. Peccato.

IL GIORNALE Quotidiano del 17 Gennaio 1998

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Il Giornale di Vicenza, 12 luglio 2003

 

Abbiamo raccolto i racconti di un gruppo di ex combattenti della Repubblica Sociale

DALL’ALTRO LATO DELLA STORIA

Le testimonianze degli sconfitti nella guerra ’43-’45

 

L’altro lato della storia. Quello oscuro, quello degli sconfitti. Eppure negli occhi degli ex combattenti della Repubblica sociale, riunitisi domenica 6 luglio per commemorare le vittime dell’Eccidio di Schio, brillava una luce orgogliosa. Un orgoglio rintracciabile in ogni sguardo, non cancellato dalle rughe o celato dietro i capelli bianchi, ma mostrato con fierezza nonostante i tanti lustri passati, nonostante la storia abbia emesso il suo giudizio, decretando la sconfitta del loro mondo e delle idee che difendevano.

Tanto si è scritto e detto, in questi giorni, sulla manifestazione di Schio. È rimasto in secondo piano, invece, l’aspetto storico del raduno, scevro da ogni considerazione politica. Le decine e decine di ottantenni ritrovatisi a marciare per le vie della città, infatti, hanno parlato con più facilità del loro passato nel drammatico biennio ’43-’45 che della commemorazione in sé.

Un nutrito gruppo fra i veterani convenuti apparteneva alla X Mas, la fanteria di marina del principe Junio Valerio Borghese. Il 2° Gruppo di combattimento della Divisione Decima era dislocato, nella primavera del 1945, proprio nel Vicentino (il 1° Gruppo si trovava invece sul fronte della Romagna): a Thiene stazionavano il Comando, parte del Btg. complementi Castagnacci e parte del Btg. genio collegamenti Freccia; ad Arsiero e Velo d’Astico era schierato il Btg. Sagittario, a Carré e Chiuppano il Btg. Fulmine; a Bassano del Grappa erano accasermati il Btg. Valanga e i Gruppi artiglieria San Giorgio e Da Giussano.

Per i reduci dell’unità si è trattato di un ritorno sui luoghi dove avevano combattuto 58 anni fa. Carlo Panzarasa, classe ’26, residente oggi in Svizzera, militava nella Compagnia Volontari di Francia del Btg. Fulmine: «Sono nato a Parigi, dove la mia famiglia era emigrata nel 1912. Dopo l’8 settembre raggiunsi la base atlantica Betasom di Bordeaux ed entrai nella Decima. Nelle ultime settimane del conflitto mi trovavo a Carrè, poi da Thiene il 28 aprile il generale Corrado ci lasciò liberi di agire secondo coscienza. Partimmo in borghese a gruppi di tre con l’intenzione di darsi alla macchia, di fare noi i partigiani. Ma vedere le lunghe colonne di carri Sherman americani sfilare per le vie di Vicenza ci tolse ogni velleità. Fummo anche presi prigionieri, ma poi venimmo rilasciati e riprendemmo il cammino verso casa».

Il piacentino Franco Minelli, all’epoca aspirante guardiamarina, apparteneva al Btg. Sagittario di stanza a Velo d’Astico. «Arrivammo in paese a marzo, reduci dalla battaglia di Tarnovo della Selva contro i partigiani titini. A Velo non ci scontrammo mai con i partigiani locali, anche se loro ammazzarono qualcuno dei nostri in imboscate. Il 23 aprile giunse l’ordine di riunirsi a Thiene, dove sostammo fino al 29 dopo aver fatto tappa a Piovene. Nel frattempo c’erano stati accordi con i partigiani della Brigata Mazzini, così alle tre del pomeriggio partimmo disarmati ma con un lasciapassare. A Costabissara ci arrestarono i partigiani "rossi", che ci depredarono di tutto, ma altri partigiani "giellini", comandati da un capitano medico degli alpini, dopo qualche giorno ci misero in libertà».

Un altro reduce del Sagittario, il monzese Luigi Farina, si trovò coinvolto negli stessi avvenimenti. Dopo il 29 aprile, però, rimase a Thiene, e solo per un caso fortuito non fu giustiziato. «Assieme a due ufficiali avevo trovato ospitalità in una famiglia. Un giorno entrò in casa un partigiano e prese in consegna i miei due compagni. Stupidamente dissi che anch’io facevo parte della Decima, così fui messo in prigione in attesa di essere impiccato. Per caso, però, venne fuori che da studente universitario avevo alloggiato in casa del capitano Rinaldo Tironi di Bergamo, che in Russia aveva salvato la vita al partigiano che mi accompagnava, un ex sergente alpino. Quest’ultimo volle, in un certo senso, ricambiare: mi aprì la porta e mi lasciò scappare via».

Erano tante le bandiere e le insegne portate a Schio: Fiamme Bianche (gli allievi ufficiali della Guardia Nazionale Repubblicana), Arditi, Btg. Goffredo Mameli. A quest’ultima unità (dell’8° Rgt. Luciano Manara, il cui Comando aveva sede a Verona) appartenevano Mansueto Albricci e Stefano Rosti, sui cappelli dei quali spiccavano le piume dei bersaglieri: «Dopo l’Armistizio ci siamo riuniti e Bergamo coi volontari del 2° Btg. Mameli, e poi abbiamo combattuto a lungo al fronte, soprattutto in Garfagnana contro americani e brasiliani. Ci siamo ritirati il 28 aprile, quando oramai non c’era più nulla da fare».

I ricordi si affastellano: si aggiungono le testimonianze di Arturo Seidenari di Casalmaggiore, ex membro alla Brigata Nera di Cremona e rappresentante degli Arditi di Milano; di Emilio Maluta, marò del Btg. Lupo, ancora della Decima, combattente sul fiume Senio; anche di qualche ausiliaria e moglie dei reduci. Il passato di quegli uomini oramai attempati e di quelle anziane donne fa parte, nel bene e nel male, della storia del nostro Paese.

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Il Giornale di Vicenza, 9 luglio 2002

 

Affiorati i ricordi degli ex Decima Mas che furono in zona nel ’45

«HO TEMUTO DI ESSERE IMPICCATO. INVECE MI LASCIARONO ANDARE»

 

Sulle strade del Vicentino passarono anche 57 anni fa, quando la guerra era ormai agli sgoccioli, e i reparti della Decima Mas si sciolsero o furono presi prigionieri dalle truppe americane. Domenica erano in marcia per le vie di Schio, partecipanti alla manifestazione che ha riunito un buon numero di reduci di Salò. Rari i commenti sul raduno, ma nessuna remora nel rievocare, dal loro punto di vista, quei drammatici giorni.

Franco Minelli, piacentino, all’epoca aspirante guardiamarina, apparteneva al Btg. "Sagittario" di stanza a Velo d’Astico. «Vi arrivammo a marzo, reduci dalla battaglia di Tarnovo della Selva contro i partigiani titini. A Velo non ci scontrammo mai con i partigiani, anche se loro ammazzarono qualcuno dei nostri in imboscate. Il 23 aprile giunse l’ordine di riunirsi a Thiene, dove sostammo fino al 29 dopo aver fatto tappa a Piovene. Nel frattempo c’erano stati accordi con i partigiani della Brigata "Argiuna", così alle tre del pomeriggio partimmo disarmati ma con un lasciapassare».

«A Costabissara ci bloccarono i partigiani "giellini", comandati da un capitano medico degli alpini, ma dopo qualche giorno ci lasciarono liberi. I nostri nomi, però, erano stati dati ai carabinieri, che vennero a prelevarci a casa. Mi processarono, ma fui assolto». «Sui luoghi dove ero stato nel ‘45 sono tornato spesso, anche per lavoro. A Velo l’ultima volta sono stato cinque anni fa: cercavo alcune cose che avevo lasciato all’epoca, ma i carabinieri di Arsiero mi hanno detto di aver avuto ordine di bruciare tutto nel ‘63».

Un altro reduce del "Fulmine", il monzese Luigi Farina, si trovò coinvolto negli stessi avvenimenti. Dopo il 29 aprile, però, rimase a Thiene, e solo per un caso fortuito non fu giustiziato. «Assieme a due ufficiali avevo trovato ospitalità in una famiglia. Un giorno entrò in casa un partigiano e prese in consegna i due ufficiali. Stupidamente dissi che anch’io facevo parte della Decima, così fui messo in prigione e mi dissero che mi avrebbero impiccato». «Per caso venne fuori che da studente universitario, a Bergamo, avevo alloggiato in casa del capitano Rinaldo Tironi, il quale in Russia aveva salvato la vita al partigiano che mi accompagnava, un ex sergente alpino. Quest’ultimo volle in un certo senso ricambiare: mi aprì la porta e mi lasciò andare via».

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Il Giornale di Vicenza, 6 luglio 2002

 

I REDUCI DELLA DECIMA MAS A RAPPORTO DOPO 57 ANNI

Raduno voluto dagli ex combattenti della Repubblica di Salò

 

Ci saranno anche i reduci dei Battaglioni "Fulmine", "Sagittario" e "Lupo" della Decima Mas, questa mattina a Schio, stando almeno al programma del raduno voluto dagli ex combattenti della Repubblica di Salò. Se così fosse, per qualche attempato veterano si tratterebbe di un ritorno sui luoghi dove quei reparti transitarono 57 anni fa, al termine della guerra.

Nell’aprile del 1945 era dislocato nel Vicentino il 2° Gruppo di combattimento della Decima Mas, la fanteria di marina di Valerio Borghese. A Thiene stazionavano il Comando, parte del Battaglione complementi "Castagnacci" e parte del Battaglione genio collegamenti "Freccia"; ad Arsiero e Velo d’Astico era schierato il Battaglione "Sagittario", a Carré e Chiuppano il Battaglione "Fulmine"; a Bassano del Grappa erano accasermati il Battaglione "Valanga" e i Gruppi artiglieria "San Giorgio" e "Da Giussano". Il battaglione "Lupo" del 1° Gruppo, si trovava sul fronte romagnolo.

In quei giorni convulsi i reparti della Decima Mas si radunarono a Thiene, ma i comandanti si trovarono divisi sul da farsi. Una parte delle unità si disperse, un’altra cedette le armi ai partigiani, una terza -lo zoccolo duro della formazione- decise di proseguire la lotta e si mise in marcia verso il passo di Pian delle Fugazze, nella speranza di aggregarsi ai tedeschi in ritirata e formare una nuova linea di resistenza in Trentino.

Alle 18 del 29 aprile 1945 la colonna della Decima -200 militi del "Fulmine" e del "Sagittario" con 16 ausiliarie, e una decina di fascisti della Brigata nera "Capanni" di Forlì-, si presentò alla periferia di Schio. Lunghe e delicate furono le trattative tra i marò ed i partigiani, impegnati su due fronti perché contemporaneamente andava in scena in Municipio l’accordo con la colonna di paracadutisti tedeschi che avrebbe lasciato la città in serata. Al convoglio della Decima fu concesso il transito verso Torrebelvicino, sorvegliata a vista dai partigiani della Brigata "Martiri della Valleogra".

A Torrebelvicino si chiuse l’avventura dei marò: bloccati all’inagibile ponte delle Asse, furono costretti a ritornare a Schio, dove al campo sportivo della Lanerossi cedettero le armi con la promessa di essere presi in consegna dagli americani. Così fu il 1° maggio. Iniziava la prigionia.

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Il valore di una scoperta

 

di Stefano Mattiussi

 

Già alle scuole superiori il mio spirito critico manifestava una certa avversione verso la “vulgata”, ossia la storia contemporanea così come viene comunemente insegnata nei licei. Di fronte a certe esposizioni suonava il campanello d’allarme. Grazie a un professore illuminato, che ci invitava a studiare attingendo a una pluralità di fonti, iniziò la mia ricerca sul periodo 1943-45. Cominciai a leggere una gran quantità libri, e notai come la maggior parte di essi fossero lacunosi. Con questo non voglio dire che nulla in essi è veritiero; in circolazione troviamo anche testi di pregio, che possono fornire spunti interessanti per ricerche più complesse. Ma il principale difetto della storiografia “ufficiale” è di basarsi, in tutto o in parte, sulla mitologia resistenziale, ingigantita da personaggi che hanno avuto importanti ruoli politici nell’Italia del dopoguerra.

 

Libri di testo che ancora girano nelle scuole grazie a insegnanti compiacenti furono in breve tempo smentiti da letture specifiche, soprattutto di studiosi che negli anni Novanta avevano tentato con successo di ampliare le vedute proprie e altrui.

 

La prima cosa che saltava agli occhi era come la Repubblica Sociale Italiana, in uno dei momenti più drammatici per la storia del nostro Paese, fosse riuscita a mettere insieme un esercito di quasi un milione di uomini. Ebbe successo per il suo spirito volontaristico: la sola cosa che poteva offrire era l’onore del riscatto e la possibilità di non venire bollati come “traditori”. La maggior parte di quelli che risposero alla chiamata lo fecero con l’Italia nel cuore, in presenza di due eserciti d’occupazione.

 

La storiografia corrente dichiara che tutti i soldati che aderirono alla Rsi erano fascisti, tesi facilmente confutabile dalla circolare del ministero della Difesa che vietava ai membri delle forze armate repubblicane di aderire al Pfr. Unica eccezione le Brigate nere, costituite come forza paramilitare in seno al Partito come da decreto legislativo 30 giugno 1944, n. 446 (“Costituzione del corpo ausiliario delle squadre d’azione delle Camicie nere”).

 

Il caso appena citato fa parte di quell’insieme – infinito – in cui rientrano le falsificazioni della storia. Sta a ciascuno di noi combatterle e far prevalere l’obiettività. Ed è stata proprio l’obiettività, con la passione per la ricerca, a farmi conoscere l’epopea nazional-patriottica della X Flottiglia Mas.

 

Solitamente la Decima viene associata alla foto di quel combattente senza uniforme condannato a morte per la tentata uccisione di un ufficiale. L’immagine dell’impiccato in piazza a Ivrea con la dicitura “Aveva cercato con le armi di colpire la Decima” – che qualunque persona di buon senso, oggi, contestualizza storicamente – è divenuta per i vessilliferi del “politicamente corretto” un simbolo della lotta partigiana e ha contribuito ad associare il reparto a una banda impegnata solamente in rappresaglie.

 

Non fu così. La X Flottiglia Mas si fece portatrice dell’orgoglio di essere italiani. Compì azioni di guerra eccezionali e fece in modo che nel periodo 1943-45 lo strapotere dei nostri ingombranti “alleati” fosse attutito. Contribuì in modo determinante a sventare gli insidiosi piani di annessione jugoslavi e tedeschi del Friuli-Venezia Giulia. Se sono nato italiano e posso risiedere in queste terre lo devo ai marò della Decima e ai bersaglieri del Mussolini.

 

Alla faccia dei libri di testo partigiani e degli storiografi faziosi.

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La Decima a Brioni Maggiore

 

di Sergio Nesi

 

Dopo l’otto settembre 1943 la Germania aveva incorporato l’Alto Adige, il Friuli-Venezia Giulia e l’Istria in due zone. La prima comprendente il Trentino e l’Alto Adige con il gauleiter Franz Hofer, la seconda comprendente i territori del Litorale Adriatico con il gauleiter Friedrich Alois Rainer. I due erano austriaci, come austriaci erano tutti i capi delle province e i principali funzionari, che, come scrisse il comandante Borghese, “giocavano sulla carta perdente, preparando le regioni da essi dipendenti a essere incorporate nella risorgente Austria”. Rainer adottò una politica filo-slava che gli permetteva di sradicare dal territorio la presenza italiana, con atti resi noti da studi storici, pubblicazioni e testimonianze.

 

I vertici della Rsi restarono passivi di fronte a questa situazione. Ma nel Litorale era pur rimasta una presenza italiana, costituita dai comandi militari rimasti sul posto dopo la proclamazione dell’armistizio. In particolare, a Pola, erano presenti le seguenti forze: un reparto del 2° reggimento della Milizia territoriale, con un centinaio di uomini al comando del capitano Bacchetta; il 2° battaglione genio con circa cinquecento uomini e il capitano Giovanni Covatta; il comando Marina con il capitano di corvetta Stefano Baccarini e il tenente di vascello Marchini; un gruppo di artiglieria contraerea; il personale dell’ospedale militare della Marina; il reparto dragaggio; le batterie costiere ecc.

 

Borghese ritenne suo dovere ostacolare la politica anti-italiana, e a partire dalla primavera 1944 dispose per una lenta penetrazione di marinai della X Flottiglia Mas. Dapprima una compagnia di un centinaio di uomini fu inviata a Fiume (compagnia Gabriele d’Annunzio) al comando del tenente di vascello Vigiack, poi una seconda fu costituita a Pola (compagnia Nazario Sauro) al comando del capitano di corvetta Baccarini. A Trieste fu costituito il battaglione San Giusto, forte di circa cinquecento marinai, e a Portorose fu trasferita la scuola sommozzatori e palombari, al comando del tenente medico Moscatelli.

 

Ma a Borghese non bastava. Riteneva necessaria la presenza dei “suoi” mezzi d’assalto in Adriatico, come lo erano in Tirreno al comando del capitano di corvetta Mario Arillo, medaglia d’oro al valor militare per le sue imprese contro Alessandria e Algeri al comando del sommergibile Ambra. Affidò l’incarico al capitano di corvetta Aldo Lenzi, altro prestigioso comandante di sommergibili in Atlantico e di mezzi d’assalto in Mar Nero e in Africa settentrionale.

 

Lenzi istituì il proprio comando a Trieste, avendo come sottordini i sottotenenti di vascello Peliti e Ottolini. Individuò come base l’isola di Brioni Maggiore, ove erano già presenti i mezzi d’assalto tedeschi al comando del tenente di vascello Witt, i cui piloti erano stati tutti addestrati a Sesto Calende nella scuola della X Flottiglia Mas.

 

Il 15 novembre 1944 Borghese mi convocò a Lonato e, dal comando dei mezzi d’assalto del Tirreno con Arillo, mi trasferì a Brioni agli ordini di Lenzi.

 

Con una Fiat 1100 e una colonna di autocarri Lancia 3 Ro che trasportavano una cinquantina di uomini arrivai a Pola il 27 febbraio 1945, traghettai con motobarche il canale di Fasana e presi possesso del terzo piano dell’albergo fronteggiante il porticciolo. I primi due piani erano occupati da una sessantina di marinai tedeschi, con i quali familiarizzammo immediatamente. Tra Witt e me si installò uno straordinario rapporto di simpatia.

 

I primi giorni furono occupati nella sistemazione e nello studio dei luoghi. Fu installata una stazione radio e messa in efficienza una cucina adiacente a quella dei marinai tedeschi. Lenzi tornò quasi subito a Trieste.

 

Io, usufruendo talvolta di un Cb che il tenente di vascello Federico De Siervo, mio compagno d’accademia, mi metteva a disposizione, facevo la spola con l’Arsenale per la messa a punto di due Sma, che Witt aveva dismesso in attesa che arrivassero quelli partiti da Sesto Calende e che avevo battezzato con le sigle K1 e K2 (da Kriegsmarine).

 

Durante una di queste visite, successe un incidente che avrebbe avuto gravi conseguenze diplomatiche. Mentre ero a Pola, sbarcò il Brioni il gauleiter Reiner unitamente al berater (prefetto) di Pola. Volle fare un giro per l’isola in carrozza. Vide un ragazzo che con un’accetta tagliava un pino. Gli balzò addosso di sorpresa, gli afferrò l’accetta e con quella cercò di colpirlo. Ma il ragazzo, sergente allievo ufficiale Mario Boreani, pilota dei mezzi d’assalto, fu più svelto, riuscendo a schivare il colpo, per poi fuggire verso l’albergo dando l’allarme che “un pazzo aveva cercato di ammazzarlo”. Il “pazzo” fu catturato unitamente all’altro, preso a calci e, dietro consiglio di Witt che non sapeva chi fosse, portato al terzo piano nella mia stanza insieme al suo accompagnatore. Quando nel pomeriggio tornai, mi spiegarono concitati i fatti avvenuti con quello sconosciuto in abiti civili. Lo trovai in maniche di camicia, con la faccia al muro, le mani alzate contro di esso e due marinai con i mitra puntati verso la sua schiena. Altri due marinai armati tenevano sottotiro il secondo. Mi raggiunse Witt, trafelato, che da Pola aveva accertato l’identità dei prigionieri.

 

L’incidente fu risolto con l’intervento del comandante Borghese da una parte del grande ammiraglio Doenitz dall’altra. Rainer pretendeva che la Decima lasciasse i territori da lui amministrati, ma fu deciso altrimenti: avrei dovuto lasciare Brioni solo io.

 

Fu allora che Borghese risolse la questione, disponendo che abbandonassi la base Est. Ma non rientrando verso nord, bensì dando esecuzione al piano di missione elaborato Lenzi e De Siervo: l’attacco al porto di Ancona con i due Sma ormai pronti.

 

Erano le ore 20.00 di venerdì 13 aprile 1945 quando il K1 e il K2 si staccarono dalla banchina di Brioni Maggiore, seguiti da due Mtm tedeschi che portavano, al posto dell’esplosivo, un fusto da 200 litri di benzina avio per il rifornimento previsto per le ore 24.00. I barchini sparirono ben presto nel buio della notte.

 

Sulla banchina, attorniati da tutto il personale della base, il capitano di corvetta Aldo Lenzi e il suo aiutante, sottotenente di vascello Roberto Peliti, erano rimasti immobili, bloccati dall’emozione nel vedermi sparire con rotta 180°, senza possibilità di ritorno, unitamente al mio secondo pilota, sergente allievo ufficiale Sergio Perbellini e all’equipaggio del K2, secondo capo Flavio Mauceri e sottocapo Roberto Bratti. Sul mio Sma, sdraiato in coperta sopra il siluro e avvolto da una specie di coltre di lana stava il “puma”, il sergente della Marina appartenente ai Servizi speciali del colonnello De Sanctis (nome in codice colonnello David), che Carla Costa, la “volpe argentata” per antonomasia di quei Servizi, così cita nelle sue memorie: “Un audacissimo sottufficiale della Decima, che, sia detto per inciso, Polizia alleata prima e Polizia nostrana dopo ricercarono accanitamente per anni senza mai riuscire nel loro intento”. Avrei dovuto sbarcarlo (e lo feci) a sud di Monte Conero, nelle vicinanze di Numana, perché potesse raggiungere Bari (dove poi giunse) per non so quale attività.

 

Quanto sto per narrare, ovviamente, non proviene da una mia esperienza diretta, ma dalle testimonianze che ho potuto raccogliere sia da Lenzi, sia dai sopravvissuti della base; i rapporti di tre di loro, consegnati in copia a Borghese al termine della sua detenzione postbellica, sono stati donati al conservatore del Museo navale di Imperia, mentre un quarto, delle sue vicende, è alla base del libro Marò: Pola (Istria) – Gruppo d’assalto “Brioni”, pubblicato dalle edizioni Del Noce di Camposampiero (Padova).

 

Un po’ alla volta la folla si sparpagliò; i marinai tedeschi dietro Witt, quelli italiani dietro Peliti e Lenzi. L’argomento delle conversazioni e delle discussioni, oramai, riguardava solo il futuro della base. Lenzi assicurò che avrebbe inviato disposizioni una volta rientrato a Pola e conosciuto da Baccarini e De Siervo quanto fosse stato concordato con il comando germanico e il Cln di Pola, che aveva già iniziato a prendere contatti in vista dell’imminente cessazione delle ostilità.

 

Contattato il comandante Baccarini e preso nota delle trattative in corso, Lenzi comunicò via radio alla base Est di restare a Brioni fino a nuove disposizioni. Successivamente, con la propria auto e sempre assieme a Peliti, partì verso nord fermandosi a Portorose per organizzare con il tenente Moscatelli l’esodo da quelle località della scuola sommozzatori e palombari (il trasferimento riuscì perfettamente e i mezzi navali raggiunsero Venezia). Poi proseguì per Trieste, sede del suo comando.

 

Passò una settimana piena di incertezze e di ipotesi, rotta solo dall’apparizione nel cielo di uno Spitfire a volo radente sul campo di calcio e dal mitragliamento, effettuato la mattina del 16 aprile, da altri due cacciabombardieri inglesi. L’incursione investì il bosco e un’ala dell’albergo “Nettuno”, senza provocare perdite tra il personale italiano e tedesco, precipitatosi nel rifugio scavato nella roccia.

 

Il comando della base Est rimase nelle mani dei guardiamarina Re, Cavallo e Barbieri.

 

Il 22 aprile una motozattera tedesca entrò in porto a Brioni, imbarcò tutto il personale della base germanica e si allontanò verso Pola. I loro Sma e Mtm erano già in arsenale.

 

Il giorno successivo, via radio, il tenente di vascello Marchini del comando Marina di Pola, a nome di Baccarini (che nel frattempo aveva assunto il comando della piazza), ordinò lo sgombero di tutto il personale, con destinazione Pola.

 

I tre guardiamarina organizzarono la partenza, ma con una variante rispetto all’ordine ricevuto. Infatti, per mezzo della motobarca che collegava Brioni con Fasana per i rifornimenti, un gruppo (forse con Barbieri) si diresse verso nord. A quella partenza non vollero partecipare due marò dei servizi di mensa: uno nato a Pola, l’altro a Napoli. Il polesano si prese la responsabilità di persuadere il commilitone a restare a Brioni, convinto che sarebbe stato facile raggiungere la sua casa a Dignano. Il suo nome è Danilo Colombo, classe 1924, attualmente giornalista e radiocronista di diverse testate nazionali ed estere.

 

Da questo momento è necessario procedere per narrazioni separate.

 

[continua]

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Gruppo Colombo

 

I marò rimasero soli nell’albergo che Colombo chiamava “Nettuno secondo”. Avevano visto entrare nel porto il sommergibile CM1 e sparire nel suo ventre molti degli uomini della base; altri si erano ammassati in coperta stringendosi l’un l’altro per non scivolare in acqua. Loro due avevano detto al comandante che rinunciavano all’imbarco e l’ufficiale non insistette più di tanto. A buio fatto il sommergibile si allontanò verso Pola.

 

Trascorsero la giornata successiva ai bordi del rifugio, tra una cinquantina di uomini, donne e bambini intenti a depredare quanto lasciato da italiani e tedeschi. I partigiani arrivarono a Brioni la sera dopo. Erano in due, armati di fucili, la bustina con la stella rossa calcata sul capo; uno vecchio, l’altro quasi un ragazzo. Racconta Colombo: “Gli indumenti che indossavano, laceri, spiegazzati, informi, erano ancora riconoscibili come capi disparati di uniformi prese da tutti gli eserciti. Il più anziano aveva il petto fasciato da una tunica di aviatore inglese e pantaloni di fustagno grigio ficcati in bassi stivaloni da fante tedesco. Il giovane portava una giubba da ufficiale italiano, senza bottoni, aperta su una stinta camicia a righe e aveva i piedi fasciati in bende grigioverdi, legate con spago sfilacciato”.

 

L’incontro fu stranamente cordiale, con i partigiani che si intrattenevano di più con la popolazione che li festeggiava che con i due prigionieri; i quali, però, non erano stati classificati ancora come tali. I due slavi, infine, dissero ai marò che avrebbero dovuto seguirli e aiutarli a scaricare dei fusti di benzina sulla barca a motore con la quale erano arrivati. Come prigionieri, nessuno avrebbe fatto loro del male.

 

Colombo e “Napoli” – così viene chiamato nel racconto, ma il nome è fasullo – aiutarono a spingere lontano dal molo la barca, appesantita da una decina di fusti. Attraversato il canale, giunsero nei pressi di Fasana. Là iniziò il loro calvario.

 

Dormirono in una stalla e il giorno dopo furono fatti salire su un carro nel quale si trovavano altri due prigionieri, civili locali dall’aspetto di contadini. Il carro era guidato dal più anziano dei due partigiani. Dopo mezz’ora giunsero a Dignano (l’attuale Vodnjan), dove trovarono la popolazione festante tra un mare di bandiere rosse. La folla fermò il carro e fu necessario proseguire a piedi. Nella calca, i prigionieri perdettero i contatti con il loro guardiano e l’onda li spinse in piazza. Pensarono di fuggire, anche perché “Napoli” era proprio di Dignano e conosceva tutti i vicoli, ma andarono proprio a imbattersi nel “loro” partigiano, fuori dalla grazia di Dio. A pedate e a colpi nella schiena con il calcio del fucile furono condotti in una casa appena fuori dal paese, circondata da filo spinato, ove erano ammassati altri prigionieri: “Divise italiane e tedesche – rammenta Colombo – civili, uomini dai capelli bianchi e ragazzi”.

 

Rimasero in quell’edificio diroccato e crivellato di colpi d’arma da fuoco circa una settimana. Dormivano su un pavimento di legno e mangiavano solo pane di polenta secco e ammuffito. Ogni giorno arrivavano nuovi prigionieri e ben presto arrivarono anche i pidocchi. Giunse anche un sergente – che Colombo chiama “Lenzoni”, ma anche in questo caso non so se il nome è autentico – fatto prigioniero a Pola, il quale fu in grado di raccontare su quanto era stato testimone.

 

Poiché anche questo rappresenta un tassello di quel mosaico di tragici avvenimenti e un fatto di cui non ero a conoscenza, ritengo più corretto riprodurre integralmente quanto riferitomi da Colombo: “I partigiani, suonatore di fisarmonica in testa, avevano marciato trionfalmente davanti agli archi maestosi dell’anfiteatro romano. L’ultima resistenza era stata a Musile, il vecchio forte austro-ungarico sistemato all’imboccatura del porto e acciambellato in prossimità di un’altissima parete di roccia a picco sul mare. A Musile era andato a rifugiarsi un gruppo di tedeschi, decisi ad arrendersi soltanto agli anglo-americani. Data l’ottima posizione strategica del forte, dal quale con armi automatiche si poteva spazzare la zona circostante, nuda d’alberi e con scarse ondulazioni del suolo per cercare un riparo, i partigiani si erano resi conto che un attacco frontale si sarebbe risolto in una carneficina, Avevano deciso, pertanto, di usare uno stratagemma. Un avvocato del fronte di liberazione italo-slavo era stato mandato a parlamentare con il comandante tedesco. Aveva promesso onorata prigionia a lui e ai suoi uomini, qualora avessero deposto le armi, e l’aveva convinto. Senonché, non appena i tedeschi erano usciti disarmati dal fortilizio, le forze partigiane che fino a quel momento si erano tenute a rispettosa distanza si erano buttate loro addosso iniziando un vero massacro. Tedeschi erano stati sventrati a colpi di baionetta. Feriti da raffiche di mitra erano stati finiti a calci. Con le mani legate dietro la schiena col filo spinato, erano stati gettati in mare. Decine di cadaveri erano stati portati dalla marea in secco sulle spiagge. L’ordine era stato di cospargerli di benzina e di bruciarli dove si trovavano. Quanti avevano dovuto accudire alla macabra bisogna avevano parlato di cadaveri che, nelle fiamme, si erano d’improvviso mossi come se fossero persone ancora vive, agitando le braccia, alzandosi a sedere, stralunando gli occhi”.

 

All’alba furono tutti svegliati. I due marò con altri otto prigionieri furono separati dagli altri. Una sola guardia, armata con un vecchio fucile, li fece avviare a piedi verso nord, lungo la strada che porta a Pisino (l’attuale Pazin). Niente da mangiare e da bere durante quella marcia che pareva interminabile. Verso sera giunsero nella periferia del paese, accolti da numerosi partigiani e fatti ricoverare nella palestra di una scuola. Un pugno di patate secche bollite nell’acqua costituì la colazione, il pranzo e la cena di quella prima giornata.

 

Ancora in marcia verso Fianona (l’odierna Plomin), sul Quarnaro. Ai dieci si erano aggiunti altri prigionieri, sia militari italiani e tedeschi sia civili. Giunsero all’imbrunire sulle banchine di quel porto, scivolando sfiniti per un ripido pendio. “Fianona – racconta Colombo – a sussulti ci rigurgitò dall’alto, colata miserabile e stanca, mandandoci a rapprendere, uno sull’altro, accanto alla passerella del barcone all’ancora”.

 

Stivati come sardine nella cala del natante, costretti dalla calca umana a rimanere in piedi nel caldo e nel fetore degli escrementi, quei disgraziati giunsero finalmente nel porto di Crikvenica, sulla costa dalmata. Sbarcati, furono introdotti nel recinto del mercato del pesce, dove a tutte le puzze già addosso si aggiunse quella del pesce andato a male. Per terra un tappeto di squame e teste di sgombri.

 

Al mattino seguente, dopo un pezzo di pane di polenta, fu ordinato loro di gettare acqua sui fusti di benzina del porto, resi roventi dal sole, affinché non scoppiassero per il caldo. Per un paio di giorni furono adibiti a lavorare in un ospedale. Poi ancora in marcia verso Grobniko, dove esisteva un campo di aviazione. Giunsero verso sera e furono rinchiusi in uno degli hangar. Quella notte arrivarono altri prigionieri tedeschi, quasi tutti anziani alpenjaeger.

 

All’alba furono divisi in due gruppi di lavoro: uno a scavare terra rossa da una vicina cava e l’altro a raccogliere ciottoli dal greto di un torrentello. I partigiani avevano avuto l’idea balzana di ripristinare la pista con quell’impasto di argilla e sassi. Il lavoro durò tre mesi, nel corso dei quali avvenne un ammorbidimento tra guardiani e prigionieri. Scrive Colombo: “Se c’era stato livore, rabbia, odio per i druzi, i nostri guardiani stolidi e brutali, sentimmo gradualmente che anch’essi speravano in una liberazione. Più sottile e urticante. Il sospetto che, mettendoli a guardia di un centinaio di prigionieri italiani e tedeschi era stato rubato loro il momento del trionfo, gli archi di alloro e le medaglie dopo le scorribande e il vivere e morire gramo sui monti. La loro razione era, dopotutto, soltanto una manciata in più di farina di patate e un trancio più pesante di un pane di polenta duro come il legno e odorante di muffa. I più giovani restavano ancora con l’indice costantemente appoggiato sul grilletto del mitra […], ma i più vecchi, quando il commissario era lontano, lasciavano che in qualche momento battessimo la fiacca. […] Ma, a parte la sindrome di complicità che si sviluppa fra carcerato e carceriere, c’era tra noi e le guardie un altro punto di contatto: il disprezzo per i tedeschi. Li avevamo visti aitanti, pieni di boria fino agli ultimi giorni del conflitto e ora ci schifava vederli strisciare servili nel tentativo di ingraziarsi i druzi”.

 

Dopo tre mesi di lavoro, ultimata la pista e fallito il suo collaudo (il primo aereo, nell’atterraggio, aveva fatto schizzare via l’impasto di ciottoli e argilla e aveva terminato la sua corsa fra gli alberi), arrivò l’ordine di riprendere la marcia “che da Grobniko ci spingeva ora fino a Karlovac e, per alcuni, fino a Belgrado, in quella che sarebbe stata per molti l’ultima marcia. Trenta, quaranta chilometri al giorno nello srotolarsi affannato e miserabile di centinaia di prigionieri per cui le guardie, coinvolte nella stessa fatica, non dimostravano pietà. Affrettando davanti a sé, pungolate di fucile nella schiena, ogni rallentamento e prendendo a calci chi s’acquattava per riprendere respiro o svuotarsi della diarrea. Solo la sera c’era sosta. All’aperto e, per i più fortunati, al riparo di qualche casupola o baracca sbrecciata dal tempo e dalla guerra”.

 

Pochi giorni prima, a Grobniko, il marò Colombo aveva visto sopraggiungere, unitamente ad altre madri, anche la sua, “abiti stazzonati, capelli scarmigliati dopo un viaggio di due giorni, un po’ in treno da Trieste a Mattuglie, un po’ su carri di contadini, un po’ in corriera e un po’ a piedi”. Un druze le aveva permesso di sedersi accanto al figlio su un tronco d’albero caduto, di passargli delle caramelle di zucchero e scambiare qualche parola. Poi prese la via del ritorno e il figlio quella per Karlovac.

 

Attraversando un borgo, due prostitute furono aggregate alla colonna di prigionieri, la testa rasata e le mani legate dietro la schiena con del filo di ferro. Dopo un breve tratto di strada i loro piedi erano già sanguinanti per le pietre e i rovi, tanto da muovere a pietà il caposcorta, che diede loro della stoffa per fasciarseli.

 

“La nostra tortura era raffinata. Camminare, camminare, camminare. Con lo spasimo di far avanzare un piede dopo l’altro per trovarsi poi, la sera, con crampi dolorosissimi alle gambe. Un sonno malsano, di piombo, e la maledizione di rimettersi in marcia alle luci dell’alba, a denti stretti, con l’acqua bevuta in gran fretta da un rivolo o da un secchio e la razione di farina di patate e pane di polenta sempre meno abbondante. L’adrenalina fiaccava le reni, i nervi cedevano. La marcia, nei giorni che seguirono, fu un tormento che mi attanagliò gambe e cervello. Mi ghermì, contro ogni volontà, mentre alle porte di Karlovac guadavamo un torrente. L’acqua fredda avrebbe potuto stemperare la fatica, rivitalizzare la speranza. Invece fu una morsa gelida. Il ridursi d’ogni colore alla disperazione di un tunnel d’angoscia”.

 

Era il collasso, e Colombo non ricorda più nulla. Svenì e fu soccorso. Probabilmente, data la vicinanza con Karlovac e dato che la colonna aveva attraversato la città diretta a Belgrado, fu abbandonato dai partigiani su un marciapiede e portato in un ospedale. Il marò riemerse dal suo stato confusionale: “Una voce sovrasta le altre. Un uomo, camice bianco, croce rossa sul petto, mi sta fasciando i piedi. Mi rivolge parole in una lingua che non è la mia né quella dei druzi”. Poi ripiombò nel torpore.

 

Riprese conoscenza a bordo di un camion, da dove scorse il mare e, sulla destra le isole Brioni. Faceva parte di una colonna che, attraversata Pola, si arrestò davanti alla stazione ferroviaria. Qui il marò cercò gli amici che avevano camminato con lui sui sentieri e le strade della Jugoslavia, ma non trovò nessuno.

 

Salì su un vagone merci assieme agli altri e si distese su uno strato di paglia. Aveva a fianco uno degli alpeniaeger di Grobniko. Era ridotto male, con un “gemito che si trasforma in respiro affannoso, in una tosse continua, in un boccheggiare rauco”. Poche ore dopo Colombo constatò il decesso dell’alpino germanico e viaggiò con quel cadavere accanto fino all’arrivo del convoglio.

 

“Le portiere si aprono e nell’appannamento della vista che passa dalla semioscurità alla luce del giorno, mi accorgo che i militari attorno a noi non hanno la stella rossa sulla bustina. Un nero che sa di saponetta mi aiuta a passare una sbarra di confine. Mi volto. Cartello bilingue: Trst-Trieste”.

 

Colombo non dice quando è stato liberato. Ma dai tempi narrati, si può arguire che si tratti della fine del settembre 1945. Del suo compagno, il marò “Napoli”, non conosciamo la sorte.

 

[continua]

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Gruppo Farfante

 

Era il gruppo che, agli ordini di uno dei guardiamarina (Barbieri?), quando arrivò l’ordine di evacuare la base e raggiungere Pola, aveva deciso di trasgredire e tentare la via del nord. Gli uomini, una quindicina, si impadronirono di una delle motobarche che facevano servizio di collegamento con Fasana. Raggiunta Portorose, si sistemarono nello stesso albergo ove avevano alloggiato per qualche tempo nel viaggio di andata. Ancor oggi non capisco perché il gruppo non abbia tentato di proseguire per Venezia.

 

Di sicuro, tra loro, c’era il sergente allievo ufficiale Giorgio Cacciari, che volle lasciare gli altri per dirigersi a piedi verso Trieste. Il suo cadavere fu rinvenuto appena fuori Portorose, lungo la strada. Aveva con sé una valigia del parigrado Sergio Perbellini, affidatagli al momento della sua partenza senza ritorno sullo Sma K1, affinché potesse essere restituita ai genitori. È probabile che Cacciari sia stato ucciso da un partigiano isolato, poi fuggito, in quanto i documenti, il denaro e la valigia furono trovati accanto a lui. Poiché in quest’ultima c’erano anche i documenti di Perbellini, la Croce rossa italiana ritenne che quel cadavere fosse il suo e lo comunicò alla famiglia a Bologna, dandolo prudenzialmente per disperso.

 

Un altro probabile appartenente al gruppo è il sergente allievo ufficiale pilota Amleto Binda, che nel dopoguerra fu visto in una località del Varesotto. Su di lui non ci sono altri riscontri. Era a Brioni fino alla mia partenza e forse riuscì a proseguire indenne per Trieste.

 

Poco tempo dopo, al comando del gruppo che collego al nome del sottocapo elettricista Carmelo Farfante, autore del rapporto inviatomi, si presentarono dei civili appartenenti al Comitato di liberazione nazionale. Chiesero la consegna delle armi dietro rilascio di un salvacondotto per Trieste e Venezia. Nessuno accettò. Ma a seguito di questa decisione, doveva esserne presa un’altra: che fare?

 

Farfante non rammenta se il dibattito fu corale o ci si limitò a un ordine del comandante del reparto: tornare a Pola. L’evento riveste un carattere eccezionale, rivelatore della determinazione e della coerenza dei marò della X Flottiglia Mas anche in quei tragici momenti. Il documento riporta semplicemente: “Da Portorose trasferimento a Pola, dove ci siamo riuniti con la divisione X territoriale”. Uomini a un passo dalla salvezza, costituita dalla resa alle forze anglo-americane, decisero di tornare indietro per riunirsi ai commilitoni rimasti agli ordini del capitano di corvetta Baccarini.

 

Risalito sulla motobarca, il gruppo raggiunse Pola. “Successivamente – scrive Farfante – succede la capitolazione tedesca e noi, sempre uniti, ci troviamo fermi nel proposito di non cedere”.

 

In precedenza il comando tedesco aveva convocato un’adunata sulle banchine di tutti i militari presenti, sia germanici sia italiani. Il generale Bauer volle salutarli prima della resa, esortando i marinai della X Flottiglia Mas a resistere per salvare una terra “che per lui era ancora italiana”. I decumani lo giurarono, convinti che le truppe alleate potessero arrivare da un momento all’altro o che dal mare potessero sbarcare i marò del San Marco del Sud.

 

Gli avvenimenti incalzavano. L’occupazione della città da parte del IX Corpus era imminente. I partigiani la circondavano, anche per il ritiro delle truppe germaniche.

 

Il comando Decima, da Baccarini all’ultimo ufficiale, fu incalzato dal Cln affinché si arrendesse e desistesse dal proposito di resistere a oltranza, nell’illusoria speranza di trattare da pari a pari con gli slavi.

 

Gli ufficiali radunarono tutti in assemblea per chiedere il loro parere, che fu negativo. Le truppe alleate e il San Marco non arrivarono mai.

 

Gruppo Borghi-Renzi

 

Il terzo gruppo lasciò Brioni per ultimo. Le vaghe notizie di accordi che si stavano tentando tra i vari comandi e il Comitato di liberazione nazionale non facevano altro che aumentare l’incertezza.

 

Il personale della base era ridotto a circa la metà. All’arrivo in banchina del sommergibile furono distribuiti i viveri, poi si procedette all’imbarco con armi e bagagli. Il battello era stivato completamente e l’immersione resa impossibile da quanti si ammassavano in coperta. Era quasi buio quando il Cm approdò a Pola, accolto con sorpresa dal Cln locale. “Brevi convenevoli – scrive Borghi – poi cortesemente ci invitarono a seguirli. La meta, l’interno di una caserma della città. Consumammo la cena; ognuno di noi disponeva di cibo abbondante, ma fu l’ultimo ricco pasto. In seguito la fame ci perseguitò per oltre due anni”.

 

Nella caserma avvenne il ricongiungimento con il gruppo Farfante.

 

I due gruppi erano così riuniti. Mancavano all’appello, oltre ai quattro piloti partiti in missione di guerra verso Ancona, anche il sottocapo Guido Candiollo e il 2° capo Riccardo Pareti (inviati da Lenzi in missione a Milano), i sergenti allievi ufficiali Giorgio Cacciari e Amleto Binda, i marò Danilo Colombo e “Napoli”.

 

Da questo momento i rapporti collimano e la narrazione diventa unitaria.

 

Durante la notte gli uomini della Decima furono svegliati e “cortesemente” invitati a lasciare le armi e gli effetti personali. “Non preoccupatevi – dissero quegli sconosciuti in abiti borghesi – gli effetti personali tornerete poi a riprenderli”. Appresero troppo tardi che erano partigiani slavi. Dei rappresentanti del Cln, neanche l’ombra.

 

Furono portati fuori Pola, presso una grande casa colonica. Allora capirono che si era trattato di un tranello per disarmarli ed evitare una loro reazione di fuoco. Racchiusi entro i recinti della fattoria c’erano anche soldati italiani inquadrati nelle forze armate germaniche e militari tedeschi. Scrive Borghi: “La consegna delle armi fu una grossissima ingenuità e l’inizio della nostra odissea. Se il rompete le righe fosse stato ordinato poco prima, avrebbe permesso a tanti di portare a casa la pelle. Sono mancate da parte dei nostri responsabili decisioni rapide, tali da preservarci dalle angherie dei titini a seguito della cattura”.

 

Il giorno successivo tutti i prigionieri vennero ammassati e divisi in gruppi a seconda dei reparti, separando gli italiani dai tedeschi. Un ufficiale jugoslavo, forse un colonnello, si pose al centro del cortile, scortato da partigiani armati. Aveva in mano alcuni fogli e cominciò a leggerli. Erano elenchi di nomi. Cominciò dalla Marina repubblicana e dalla X Flottiglia Mas.

 

I primi nomi furono quelli di Baccarini, De Siervo e il mio, ripetuto più volte con stizza (ero già prigioniero a Ancona). Seguirono tutti gli ufficiali e sottufficiali, piloti dei mezzi d’assalto compresi. Man mano che veniva fatto un nome, il chiamato usciva e veniva prelevato dai titini, che, con violenza e percosse, lo accompagnavano fuori dalla fattoria portandolo chissà dove, verso una morte quasi certa. “Le foibe di Pisino distavano poco”, precisa Borghi (anni dopo, il fratello del tenente di vascello De Siervo riuscì a far recuperare proprio lì i resti del congiunto e, mi pare, quelli del sottocapo Mulargia).

 

Del personale della Decima erano rimasti i sottocapi e i comuni, che tentarono un atto di forza contro le sentinelle. Chiesero ai tedeschi di aiutarli, ma la risposta fu negativa. Nonostante il rifiuto, da parte dei marò ci furono segnali di rivolta tanto manifesti che i titini aprirono il fuoco contro di loro. La carneficina coinvolse tutti. Il sottocapo elettricista Romeo Petris fu ucciso con un calcio di fucile che gli spaccò la testa. Sorte analoga ebbe un marò alto e biondo, di cui i sopravvissuti non ricordano il nome.

 

Capita l’inutilità di ulteriori sommosse, disarmati com’erano, negli scampati subentrò una profonda rassegnazione.

 

Passarono così alcuni giorni, tra continue angherie e una brodaglia come unico vitto. Una sera, dopo la resa definitiva della Germania, i prigionieri furono imbarcati su due motozattere e trasportati verso le bocche di Cattaro, costeggiando le coste della Dalmazia, con destinazione Tivat. Durante il viaggio furono toccati i porti di Fiume, Selenico, Spalato e l’isola di Curzola, dove, ricorda Borghi, “molti vennero obbligati a sbarcare, ignari della loro tragica sorte e scomparsi per sempre. Ricordo il simpatico Bruno Fiore di Milano; ci separammo dopo un lungo abbraccio”. A Curzola, “dopo insulti e sputi”, ebbe luogo una decimazione di cui non esiste alcuna testimonianza diretta. Unico dato certo, l’imbarcazione che aveva portato a terra gli sventurati tornò vuota.

 

Si navigava di giorno e, verso il tramonto, si entrava in uno dei porti o porgitori citati: “Soste umilianti e penose. Venivamo sottoposti a vessazioni di ogni genere, spogliati dei pochi indumenti che indossavamo; perfino le scarpe ci portarono via. Guai a sollevare le più piccole proteste! Le guardie avevano per noi un odio feroce; non indugiavano a intervenire duramente contro coloro che, in modo civile, chiedevano un po’ di rispetto. Qualcuno pagò la protesta con la vita”.

 

I prigionieri arrivarono sfiniti a Tivat, dopo avere lasciato una parte di loro, destinati in Bosnia. Tra questi, Lino Borghi. Il campo di concentramento era situato poco fuori dell’abitato. Quasi tutti i rimasti dopo la scissione di Spalato – tra i quali il sottocapo Carmelo Farfante, il marò motorista Vittorio Vannucci, i marò Benito Renzi e Emilio Fossati – vi rimasero per circa un biennio, fino al loro rimpatrio avvenuto tra l’inverno 1946 e la primavera 1947.

 

Altri, rimasti a Tivat per oltre un anno, lavorarono nella cosiddetta “ferrovia della giovinezza” Bricko-Banovic. Terminata la strada ferrata, il marò Borghi, che faceva parte del gruppo con le mansioni di operaio specializzato, autista, conduttore di trattori e macchine agricole, partì per Sarajevo, dove fu impiegato nei boschi della Bosnia con il trattore a lui affidato.

 

Quegli uomini rientrarono a Ancona il 22 marzo 1947, imbarcati su una vecchia carretta, dopo essere stati forzatamente dotati di cartelli inneggianti a Tito e avere altrettanto forzatamente cantato Bandiera rossa sulle banchine di Tivat.

 

Che io sappia, solo i marò da me citati hanno potuto fare ritorno in Italia. Di questi, tre presero subito contatto con me e mi consegnarono dei rapporti sulle loro vicende (informazioni più dettagliate sono contenute nel volume Decima Flottiglia nostra…, da me pubblicato presso l’editore Mursia).

 

Alla fine delle sue vicende giudiziarie, il comandante Borghese, dopo aver appreso della storia della base Est direttamente da Lenzi, volle andare a Bologna per avere tutti i dettagli della missione su Ancona da parte dei quattro protagonisti.

 

L’ufficio storico della Marina militare italiana, nel capitolo XVIII del suo quattordicesimo volume sulla Marina nell’ultimo conflitto (dedicato ai mezzi d’assalto), dopo le necessarie ricerche presso archivi stranieri, così ha scritto: “Unico forzamento di porto vero e proprio fu quello avvenuto a Ancona il 13-14 aprile 1945 ad opera di due Sma provenienti dalla base di Brioni (T.V. Nesi, Serg. Perbellini, 2° C° Mauceri, Sc. Batti). Sma Km 1 e Sma Km 2 (Operazione ‘Buccari’)”.

 

Quindi la base Est di Brioni della X Flottiglia Mas non finì soltanto tragicamente nelle foibe e nei campi di sterminio e di lavoro forzato della Croazia e della Bosnia. Finì anche positivamente nel porto di Ancona, con i mezzi d’assalto che portarono a termine l’ultimo “forzamento di porto vero e proprio”.

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Uno del Barbarigo

 

di Gastone Manzoni

 

Allievo nocchiero

 

In tempo di guerra si facevano due corsi allievi nocchieri all’anno; ciascun corso prevedeva sei mesi a terra e sei a bordo. Io partecipai a quello svoltosi fra il 1942 e il 1943 a La Spezia. Si trattava di un corso supplementare, che in circostanze normali si sarebbe tenuto a Pola.

 

Mentre per i miei compagni, alla fine del primo semestre, iniziò il periodo d’imbarco, io fui trattenuto quale istruttore. Ero molto bravo nel far marciare gli allievi persino in fila per dodici, avendo avuto precedenti quale primo cadetto degli avanguardisti marinari della Gioventù italiana del Littorio.

 

L’otto settembre 1943 ero capocorso. Alla notizia dell’armistizio tutti, me compreso, scappammo dalla scuola.

 

Mi fermai a La Spezia, ospite di una famiglia.

 

Dopo qualche tempo seppi della X Flottiglia Mas e mi presentai a Muggiano verso il 15 settembre. In quel momento c’erano solamente gli ufficiali della vecchia Decima e credo di poter essere annoverato fra i primi cinquanta o sessanta volontari.

 

Con la Decima

 

Mancava tutto. Fui invitato a ripresentarmi e preso ufficialmente in forza il 23 ottobre 1943; quella, infatti, è la data di arruolamento che risulta dal mio tesserino. Ricordo quel giorno poiché fummo trasferiti da Muggiano a San Bartolomeo. Quindi fui mandato in licenza il 17 o il 18 dicembre, dopo aver partecipato alla ricerca di bettoline dell’ex Regia Marina nelle varie rade e insenature del golfo di La Spezia, allo scopo di recuperare il materiale che si trovava a bordo.

 

Il mio treno giunse a Padova subito dopo la prima incursione aerea sulla città. Rimasti ad aspettare per un’ora e mezza nei vagoni fuori della stazione, vi entrammo giusto in tempo per essere bombardati.

 

Dopo aver aiutato i miei a sfollare, rientrai a La Spezia. Il problema delle divise continuò per altre due o tre settimane. Poi ricevemmo i capi dell’uniforme, ma non il cappotto.

 

Di quei primi giorni ricordo un episodio. Mentre i Nuotatori Paracadutisti montavano la guardia, un sottufficiale tedesco entrò senza salutare la nostra bandiera. Fu subito preso e buttato in mare. I marò iniziarono a sfotterlo e ogni volta che tentava di risalire, coi piedi gli spingevano la testa sott’acqua.

 

Dapprima avevo chiesto di entrare nei reparti navali, ma non c’erano più posti disponibili. Allora feci domanda per i Nuotatori Paracadutisti e fui accettato, ma quando seppi che bisognava seguire un corso a Jesolo, avendone già abbastanza di scuole e lezioni, preferii passare al Maestrale. Come me fecero molti altri. Qui fui assegnato in un primo tempo alla seconda o alla terza compagnia. Però, mancando un sottocapo alla quarta, vi fui trasferito mio malgrado.

 

La ribellione dei marò

 

Pochi giorni prima di andare in licenza fui testimone della vicenda Bedeschi e Tortora, i due ufficiali incaricati di assumere il comando della X Flottiglia Mas. Un’imposizione sgradita a tutti.

 

Era domenica, ricordo la messa al campo alla presenza degli Np, del Maestrale e di parte del Lupo. C’era aria di sollevazione, anche perché l’assenza di Borghese non contribuiva a chiarire le cose.

 

Penso sia stato un “complotto” di Bardelli, Buttazzoni, Lenzi e qualche altro. Durante la funzione religiosa, l’ufficiale di giornata si avvicinò al nuovo comandante e gli sussurrò alcune parole all’orecchio; più tardi seppi che si trattava di una chiamata telefonica. Da quello che mi dissero, come arrivò in ufficio, si trovò un mitra puntato alla schiena. Fu arrestato, e stessa sorte subì il comandante in seconda. I due furono consegnati alla Guardia nazionale repubblicana come “spie del nemico”.

 

Accortosi della beffa e dopo le proteste degli interessati, Renato Ricci cercò Borghese e lo invitò a spiegarsi con Mussolini. Non so se il colloquio avvenne o meno, so solo che Borghese fu arrestato e chiuso in carcere a Brescia.

 

La notizia si sparse rapidamente. I marò chiedevano a gran voce di entrare in azione e tra gli ufficiali qualcuno propose esplicitamente di marciare su Salò per liberare il comandante.

 

Eravamo tutti pronti quando il comandante Grossi, precipitatosi a San Bartolomeo, promise la liberazione di Borghese, impegno mantenuto il giorno successivo.

 

Poi fu un via vai di alti ufficiali della Marina e della Gnr. Si aprì un’inchiesta, con la consegna dei nostri ufficiali e minacce di processo e decimazione. Tutto finì in una bolla di sapone, ma sapemmo che il Maestrale sarebbe stato “punito” con l’invio al fronte, cosa che ci fece molto piacere, perché non volevamo altro. Non so per quale ragione, non furono presi provvedimenti per i Nuotatori Paracadutisti.

 

Il giuramento e il primo impiego

 

Dopo qualche giorno fu consegnata al battaglione la bandiera di combattimento. Da quel che ricordo il giuramento avvenne l’undici gennaio. In tale occasione il Maestrale sfilò fra due ali di gente silenziosa e incredula di vedere ancora soldati italiani; penso sia stata la prima cerimonia pubblica della Decima. Portavamo ancora le stellette e marciammo per tre.

 

Nel corso della manifestazione la banda della Marina, in uniforme nera, suonò per tutto il tempo solamente Le palle di Noè. Questa musica fu suonata anche in occasione della visita a San Bartolomeo del maresciallo Rodolfo Graziani; stavolta però la banda era vestita come noi in grigioverde. Accadde a metà mese, e non eravamo tutti in divisa.

 

Mi ricordo anche di un pattugliamento a Sarzana, dove avevano stati informati della presenza di armi in una casa. Le trovammo, ma di persone neanche l’ombra. Penso che nell’azione siano state impegnate due compagnie. Durante il ritorno uno dei nostri mise un piede in fallo e cadde in una specie di burrone. Riusciti a raggiungerlo dopo qualche ora, non potemmo far altro che constatarne il decesso. Fu vegliato in una piccola casetta vicino alla sala mensa.

 

La quarta compagnia non andò a Cuneo ma rimase a La Spezia per continuare l’addestramento.

 

I Mab li avevamo già da ottobre. Oltre ai mitra potevamo contare su pugnali di varia foggia e pistole di vario tipo. Io stesso portavo una vecchia pistola d’ordinanza dei Carabinieri infilata nel cinturone e dopo l’otto febbraio 1944 - data del secondo bombardamento di Padova - giunsi a casa così armato. Non era regolare, ma nel tratto La Spezia-Padova c’era stato un attentato, con l’uccisione di diversi marò che furono poi ritrovati nudi nella scarpata. Ci fu consigliato di prendere la linea Genova-Milano-Venezia, più lunga ma maggiormente sicura.

 

Al mio ritorno in caserma appresi che il battaglione non si chiamava più Maestrale ma Barbarigo.

 

L’invio al fronte

 

Il 18 o il 19 febbraio ci fu una sfilata per salutare la nostra partenza.

 

Il giorno 20 ebbi l’incarico di fermarmi a San Bartolomeo con un ufficiale per raccogliere quanti rientravano da permessi o licenze, non essendo stato comunicato ad alcuno l’invio in zona operazioni.

 

Il nostro viaggio per Roma fu fatto in pullman, sul tragitto La Spezia, Viareggio, Orvieto, Roma. Andò a buon fine, anche se molto periglioso.

 

Non mancò un attentato; una mina fu gettata sul tram che collegava La Spezia a San Bartolomeo. Morirono una donna e una bambina, e numerosi marò rimasero feriti.

 

Durante il trasferimento incontrai un mio commilitone della Gil, Sergio Ginnasi, proveniente da Jesolo e in forza al battaglione Lupo. Lui mi chiese ripetutamente di venire al fronte con noi; lo persuasi che, se gli fosse capitato qualcosa, avrei dovuto cambiare città per il rancore della madre, che già mi attribuiva la responsabilità di averlo fatto arruolare. Partimmo e non lo rividi più: morì il 4 dicembre 1944, sul Po, in un incidente forse causato dai partigiani.

 

Arrivato a Roma feci in tempo a partecipare a una scaramuccia con la Pai, che si risolse con il dono di un pugnale di foggia africana in segno di pacificazione. Alcuni nostri commilitoni in libera uscita, forse per un ritardo sul coprifuoco, erano stati malmenati da una loro pattuglia. Per ritorsione, un paio di compagnie di marò entrarono nella caserma della Pai e gettarono un po’ di cose per aria. Solo l’opera di pacificazione dei nostri ufficiali fece sì che l’incidente non degenerasse in qualcosa di più grave.

 

Finalmente la partenza per il fronte, dopo una serie di cerimonie e riviste alle quali non partecipai, perché alle parate preferivo i musei e i monumenti della capitale. Fummo divisi in scaglioni, a bordo di camionette tedesche.

 

Credo di essermi mosso la mattina. Un mitragliamento aereo ci costrinse a un tuffo in un fossato e per la prima volta sporcai la mia sino ad allora linda e unica divisa. Appena fuori Roma fummo investiti da una pioggia violenta.

 

In primalinea

 

A Sermoneta trovammo alloggio in una chiesa abbandonata e poi in una scuola.

 

Il 3 marzo raggiungemmo a piedi il lago di Fogliano, dove la quarta compagnia si allineò fra il lago e la Strada lunga. Io fui assegnato a una buca con il marò Natola. Dalla mia postazione si vedeva il bosco sulla destra del lago, l’albergo e una casa che molti dicevano essere appartenuta a un gerarca. Dall’albergo furono prelevati dei piatti e le porte, che usammo come fondo per le buche.

 

I bombardamenti erano costanti. In quel periodo feci tre o quattro servizi di pattuglia nella terra di nessuno. Mancava ancora l’artiglieria, che arrivò successivamente, credo alla fine del mese.

 

Una notte di aprile, grazie ai barattoli appesi al filo spinato, sentimmo avvicinarsi un reparto nemico. Iniziammo subito a sparare e lo stesso fecero loro. Spararono anche dalle postazioni laterali. Il mattino successivo non trovammo corpi ma tracce di sangue e dell’equipaggiamento.

 

Ogni notte qualcuno apriva il fuoco. Di norma, quando si sentiva sparare, sparavamo anche noi. Io avevo una buca a sinistra, più alta e con un nido di mitragliatrici, a portata di voce. Quella sulla destra, con tre persone, non l’ho mai vista. Ho visto pochissimo anche i miei superiori.

 

Di giorno non potevamo uscire neanche per i bisogni corporali, perché ci davano la caccia con i mortai o ci mitragliavano.

 

Non molto lontano dalla mia postazione, a un crocevia, c’erano dei tedeschi con un ottantotto, che spesso mi invitavano a cena. Per la scarsità di razioni avevamo una fame del diavolo: il nostro riso si attaccava al mestolo da quanto era colloso, procurandoci fortissimi dolori di stomaco. In un’occasione riuscimmo a catturare un puledro, la cui carne fu cotta alla brace ed equamente divisa. Non ci curammo del fumo, che in primalinea poteva causare guai seri.

 

Il cambio non fu dato sul posto; abbandonammo le buche squadra per squadra, senza vedere i rimpiazzi. Dopo una notte di marcia, fummo alloggiati per una decina di giorni a Sezze, nella casa ferroviaria della sottostazione. Ci aspettava un addestramento massacrante con panzerfaust, Mg 42 e bombe a mano.

 

In quel periodo subimmo un cannoneggiamento da parte di navi nemiche; le esplosioni facevano fare ai carri merci abbandonati nella sottostazione dei gran movimenti a destra e a sinistra, mentre noi trovavamo rifugio nei campi vicini. Intermezzo simpatico fu una partita di calcio fra la prima e la quarta squadra. Avemmo anche uno stato d’allarme per la caduta degli avamposti Dora, Frida ed Erma, ma tutto finì bene.

 

Da Sezze rientrai con un nuovo compagno di buca. Si trattava di Russo Gaio, figlio del direttore dei Telefoni di Stato, di origine romana e padovano di adozione.

 

Tornati in linea, sostituimmo la seconda compagnia. La mia nuova postazione sulla destra della Strada lunga, verso i monti e sotto il ciglio della strada, era formata da un’apertura con uno spazio di due metri per due e da una buca sotto la strada, che usavamo solo per dormire durante il giorno. Di notte andavamo trecento metri più avanti, in una postazione prossima al Gorgolicinio, che si allungava verso Terracina in un fitto boschetto. Il canale Mussolini distava tre o quattrocento metri.

 

Una notte un aereo cadde duecento metri dietro la buca diurna. Scomparso nel terreno fangoso, emergevano solamente le pale dell’elica. Sempre nelle ore notturne subimmo un attacco ravvicinato ma privo di conseguenze: aperto il fuoco, il nemico rispose e poi rientrò nelle sue linee. Da allora sentimmo un tremendo puzzo di cadavere, ma non era consigliabile esporsi. Solo dopo un certo periodo e con grande sforzo imparai a non vomitare quanto avevo mangiato.

 

Un giorno decisi di sgranchirmi le gambe e mi offrii per il rancio. Mentre stavo prendendo il pane, un colpo di mortaio raggiunse la casa dove era in corso la distribuzione viveri. Ci furono diversi morti e per due giorni fummo costretti a digiunare.

 

Ogni notte il nostro lato destro era oggetto di attacchi e ci piovevano addosso i tiri di copertura americani. Avemmo poi la sfortuna di ospitare un gruppo di cannoni autotrasportati, penso tedeschi, che spararono un centinaio di colpi e se ne andarono poche ore dopo. A durare a lungo furono le conseguenze, ossia un infernale fuoco nemico.

 

Una missione umanitaria

 

Durante la partita di Sezze Romano il comandante Bardelli si era seduto vicino a me, chiedendo informazioni sul mio passato e sulla mia famiglia. Più tardi si sarebbe ricordato di quel colloquio, affidandomi una missione che oggi si definirebbe umanitaria.

 

Non lontano, verso la terra di nessuno, c’era un vecchio mulino con i sacchi di grano dell’ultimo raccolto. I civili erano ridotti allo stremo, ma non si fidavano di andarli a prendere e un cittadino di Littoria - non so se funzionario comunale o concessionario automobilistico - comunicò la cosa a Bardelli, che mi incaricò del recupero. Impiegammo tutto il giorno e parte della notte a portare questi sacchi nelle linee, che poi furono divisi tra Littoria e Norma, con grandi festeggiamenti da parte della popolazione.

 

Scortammo il carico armati di tutto punto e facendo attenzione ai “malpensanti”, in parte tedeschi. Il viaggio andò bene e non fummo molestati.

 

24 maggio 1944

 

Gia da tre o quattro giorni si sentiva un movimento di carri armati. I mitragliamenti aerei e i cannoneggiamenti erano aumentati.

 

Un pomeriggio un sottufficiale mi comunicò l’ordine di radunare gli uomini presso la mia buca e di tenere le posizione fino a mezzanotte. Così fu, e tutti ci si chiedeva cosa fare, se minare o mettere bombe a mano con lo spago. Mi venne l'idea del cartellone: in un foglio di carta scrissi in grande le parole “Ciao nemico”. Piantai tutto su una tavola, che innalzai sulla mia buca.

 

All’ora prevista iniziò il ripiegamento; eravamo dodici o tredici persone, alcune delle quali mi erano sconosciute. Uno di loro aveva fatto la ritirata di Russia e gli proposi di unire le forze per tenere unita la squadra, mettendoci in testa e in coda alla colonna.

 

Marciammo tutta la notte in fianco a Littoria e per la Via Appia all’altezza della sottostazione e dell’aeroporto. Verso l’alba, in una casa colonica, vedemmo un gruppetto di marò del Barbarigo che consumavano polenta e formaggio. Ci fermammo anche noi.

 

Dopo qualche ora di riposo ci incamminammo verso Norma, punto di ritrovo della quarta compagnia. In una chiesa distante dalla strada trenta o quaranta metri c’era un ospedale da campo, da cui vidi uscire un sottufficiale con due secchi pieni di gambe e braccia amputate. Egli ci guardò.

 

Sostavamo poco lontano, ed io mi ero liberato di tutto il superfluo che avevo nello zaino. A un certo punto sentimmo delle cannonate e ritornammo indietro di corsa per circa un chilometro. Erano le prime luci dell’alba e la visibilità era buona.

 

Improvvisamente vedemmo due Sherman e molti marò caduti attorno a una casa. Eravamo a 100-150 metri dai carri e tentammo un lancio con i panzerfaust. Non so se i colpi andarono a vuoto o danneggiarono un cingolo.

 

I carri armati girarono le torrette e cominciarono a fare fuoco su di noi. Fummo investiti da una pioggia di fuoco e io, colpito alla testa e a una mano, persi conoscenza.

 

Non posso dire quante persone morirono e quanti furono i feriti. Privo di conoscenza, non seppi mai come ero arrivato a Norma.

 

Perché decumano

 

Fin qui le mie vicende a Nettuno. Ma manca ancora qualcosa: il perché.

 

Perché dopo l’armistizio non tornai a casa o non mi rifugiai in montagna? Perché non tenni fede al giuramento fatto al re?

 

Ero stato un membro della Gioventù italiana del Littorio, un’organizzazione che mi aveva dato grandi soddisfazioni. Ma dopo il 25 luglio la mia fede nei fascisti, se non in Mussolini, era svanita. Tutto si era sciolto come neve al sole, tutti avevano rinnegato il loro passato e il loro capo. Per questo, più tardi, non volli aderire a una delle tante formazioni armate politiche, composte perlopiù da vecchi squadristi e da giovinetti imberbi.

 

Con l’otto settembre crollò anche la mia fede nella monarchia. Fuggirono tutti, a cominciare da generali e ammiragli, e il comportamento del sovrano invalidò il mio giuramento.

 

Di andare in montagna, in quei giorni, non parlava nessuno; chi era scappato, cercava solo di raggiungere casa. Io avevo perso la speranza di una vita in uniforme, ma non me la sentivo di chiudere così la mia esperienza militare. Inoltre non sopportavo che fossimo considerati dei traditori; non ero un traditore e non volevo comportarmi come tale.

 

La prima cosa che mi colpì nella X Flottiglia Mas furono le stellette al bavero degli ufficiali. Quest’unico reparto che continuava a tenere alta la bandiera italiana attirò me e un numero crescente di persone.

 

Perché la mia Patria era tutta in quella bandiera che ancora sventolava e nella figura veramente grande del mio comandante, il principe Junio Valerio Borghese.

 

(Testimonianza raccolta da Marino Perissinotto)

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Gorizia non dimentica

 

di Luigi Coana

 

Una delle soddisfazioni più grandi che mi ha offerto l’impegno amministrativo nell’ambito di un’ormai trentennale militanza politica, prima dai banchi del Consiglio comunale, oggi in qualità di assessore del Comune di Gorizia, è stata quella di potere ricevere con tutti gli onori in Municipio i reduci della X Flottiglia MAS e del battaglione bersaglieri Benito Mussolini. In più occasioni, qualche volta con il sindaco Valenti, altre volte con il vicesindaco Noselli, sempre con la gioia di rendere omaggio, a nome della città, ai combattenti dell’onore, a quanti si sacrificarono in queste terre tormentate del confine orientale, per difendere a spada tratta l’italianità di Gorizia contro l’avanzata delle orde titine.

 

Ricorreva quest’anno, a gennaio, il cinquantaseiesimo anniversario della battaglia di Tarnova e la vasta partecipazione di popolo ai vari momenti celebrativi è valsa a testimoniare che quei valori nazionali e patriottici, quegli ideali e quella fede che portarono tanti giovani di allora a combattere e a immolarsi per l’Italia, non sono morti, ma sopravvivono come monito ed esempio per le nuove generazioni.

 

E anche la politica, che troppo spesso rischia di affogare nel grigiore del tecnicismo amministrativo, se non addirittura nel carrierismo o nell’interesse egoistico di parte, può trarre linfa vitale da queste celebrazioni e diventare propositiva nella sua trasmissione di valori.

 

Ecco allora che, in questo spirito, corroborata dall’amore per gli ideali più sacri, anche la politica può avere un’anima capace di innalzarla dalla china del materialismo, per la costruzione di una società migliore e più giusta.

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Il baluardo di Tarnova

 

di Marino Perissinotto

 

Alla fine del 1944 il comando tedesco, privato della sua forza mobile costituita dalla divisione scuola da montagna e, nel contempo, preoccupato dal rafforzarsi della presenza jugoslava sopra Gorizia, grazie all’afflusso del IX Corpus della divisione partigiana italiana Garibaldi Natisone, intraprese un’azione offensiva, l’Adler Aktion, allo scopo di accerchiare ed eliminare le unità slave degli altopiani della Bainsizza e di Tarnova. Oltre a truppe germaniche e ai reparti slavi filo-tedeschi, un ruolo di primo piano venne assegnato ai battaglioni italiani di fanteria di marina della X Flottiglia Mas Sagittario, Barbarigo, Lupo e Fulmine, appoggiati dai gruppi d’artiglieria San Giorgio e Alberto da Giussano e da aliquote dei battaglioni Nuotatori Paracadutisti, guastatori Valanga e genio Freccia. L’Adler Aktion ottenne un risultato solo parziale, e forse quello cui realmente miravano i suoi ideatori era volto più a colpire la X Flottiglia MAS che non gli jugoslavi.

 

Quale seconda fase operativa, nel gennaio 1945, venne intrapresa dalle forze dell’Asse la creazione di presidi dentro il “santuario”. Uno di questi, il più interno e isolato, fu Tarnova, affidato ai marò della X MAS. Il paese era stato raggiunto e presidiato dal San Giorgio e dal Sagittario durante l’Adler Aktion, il 21 dicembre 1944. A gennaio la prima compagnia del Valanga sostituì il Sagittario e una batteria di obici da 75/13 del San Giorgio, per un totale di circa duecento uomini. Il 9 gennaio li sostituì il battaglione Fulmine (*).

 

Nel frattempo il IX Corpus, responsabile di quel settore per l’Esercito popolare di liberazione jugoslavo, aveva deciso d’intraprendere un’operazione destinata ad annientare il presidio, circondandolo e assalendolo dopo avere sbarrato con sue unità ogni via d’accesso per possibili rinforzi. La diciannovesima brigata slovena di liberazione nazionale Srechko Kosovel, incaricata di attaccare Tarnova, fu per questo rinforzata da una compagnia d’assalto e da armi d’accompagnamento (quattro cannoni, due fucili anticarro, due mortai pesanti e tre lanciamine).

 

Nel paese i marò avevano allestito, compatibilmente con le risorse disponibili e il clima assai rigido, delle opere difensive, costituite da dodici caposaldi, qualche barriera di filo spinato e mine antiuomo.

 

La Kosovel, nel tardo pomeriggio del 18 gennaio, con una temperatura inferiore ai -10 gradi, lasciò le sue basi e a notte fonda giunse nei pressi di Tarnova. Alle 5.50 le sue armi aprirono il fuoco sulle postazioni italiane, mentre i suoi elementi di punta muovevano in avanti. La reazione dei marò, pronta e decisa, fermò il primo assalto. Le forze partigiane si lanciarono in un secondo attacco, che non ebbe miglior sorte del primo; anzi, il Fulmine riprese possesso di qualche posizione temporaneamente abbandonata.

 

Alle 7.00, quando la prima luce consentì di regolare il tiro con precisione, i cannoni slavi aggiunsero i loro proiettili a quelli delle armi leggere. L’accresciuta potenza di fuoco permise agli assalitori di portarsi nuovamente in avanti, conseguendo i primi successi ed espugnando un bunker sul lato nord, quindi altri due. Gli italiani si ritirarono nelle case vicine, da dove continuarono il combattimento bloccando gli attaccanti. In questa fase dello scontro, la seconda compagnia subì la perdita di due ufficiali: alle 7.00 era stato ferito mortalmente il comandante guardiamarina Giovagnorio e, poco più tardi, cadde il guiardiamarina Arrigo Giombini.

 

Alle 11.30, il nucleo di operatori radio del battaglione Freccia, distaccato presso il Fulmine, riuscì a mettersi in contatto con il comando di divisione a Gorizia e a informarlo della situazione, chiedendo soccorsi, mentre dalle postazioni partigiane continuava il tiro delle armi individuali, dei lanciarazzi e dei cannoni. Nel pomeriggio, anche il bunker n. 5 fu smantellato ed espugnato.

 

Verso le 15.00, da parte italiana, si riscontrò un calo d’intensità nel fuoco nemico. I due cannoni automatici calibro 20 e uno dei pezzi da 47 jugoslavi s’erano guastati irreparabilmente, l’altro aveva ancora pochi colpi a disposizione. Con l’oscurità calò una fitta nebbia, poi iniziò a nevicare. Le forze partigiane sospesero gli attacchi, pur continuando l’accerchiamento dell’abitato, le azioni di disturbo e la sorveglianza d’ogni movimento degli assediati. Il Fulmine, nel primo giorno di battaglia, aveva avuto dodici morti (due ufficiali e dieci fra sottufficiali e marò) e venticinque feriti (due ufficiali e ventitré fra graduati e marò).

 

La prima parte della notte trascorse fra un continuo lancio di razzi e segnali luminosi da parte slava. Nonostante queste misure di sicurezza, più tardi gli italiani contrattaccarono e respinsero dal bordo orientale del perimetro le punte avanzate degli assedianti, riprendendo possesso dei bunker 6 e 7. L’improvvisa azione del Fulmine scatenò alle 4.30 un contrattacco del primo battaglione Kosovel. Dopo due ore, alle 6.30 del 20 gennaio, il bunker n. 6 cadde nuovamente in mani partigiane e venne distrutto. Poco dopo, anche la postazione n. 7 venne smantellata e gli slavi riuscirono a impossessarsi anche delle case vicine.

 

La breccia nelle linee esterne determinò l’inizio della crisi per gli italiani; più tardi, anche i bunker 3 e 4 furono presi dagli attaccanti. La loro perdita costrinse i marò ad arretrare la linea difensiva settentrionale sino all’abitato. Da parte slava si giudicò prossimo il tracollo dei difensori e si decise di compiere lo sforzo finale. Il terzo battaglione, di riserva nel bosco a nord-ovest di Tarnova, ricevette l’ordine di avanzare, ma la sua azione fu fermata dal tiro dei difensori. Giunse così il pomeriggio del 20 gennaio.

 

Il comando partigiano prese la decisione d’investire massicciamente tutto il perimetro facendo intervenire anche il secondo battaglione, che al crepuscolo riuscì a catturare la postazione n. 11, arrestandosi per il fuoco rabbioso dei Volontari di Francia proveniente dalle case a sud dell’abitato.

 

Calata la sera, il primo battaglione andò in supporto al secondo e attaccò a est, sul fianco sinistro, il settore della terza compagnia. Riuscì a conquistare i bunker 8 e 9, i cui difensori si rinserrarono nell’osteria del paese. Il comandante Bini, a questo punto, si trovò costretto a una decisione. Il mancato arrivo dei rinforzi, l’esaurirsi delle munizioni, il progressivo avanzare degli slavi, la disgregazione delle linee difensive e, infine, l’autorizzazione a ritirarsi, preventivamente trasmessa dal comando di divisione, lo convinsero a ordinare l’abbandono del paese per salvare i superstiti del battaglione. La manovra comportava un prezzo assai alto: l’abbandono dei feriti gravi. Quanti erano ancora incolumi e i feriti in grado di camminare, lasciando le loro postazioni, si sarebbero concentrati presso il comando di battaglione e la colonna, così formata, avrebbe cercato di rompere l’assedio, dirigendosi verso Gorizia.

 

Alle ore 20.00 cominciò a venire diramato l’ordine di rendere inutilizzabili le armi pesanti e di concentrarsi entro le 24.00 al comando di battaglione. Alcune postazioni ricevettero la disposizione solo attorno alle 23.30. Ad altre non pervenne. Il combattimento si concentrò nella parte meridionale dell’abitato, dove resistevano due bunker e alcune case. Gli italiani, asserragliati nelle abitazioni, esaurite le munizioni e le bombe a mano, usavano dell’esplosivo per improvvisare ordigni con cui contenere la pressione nemica. Di quando in quando il fuoco cessava e arrivavano degli inviti alla resa. Il secondo battaglione jugoslavo espugnò il bunker n. 12 e, verso mezzanotte, cadde l’ultima postazione protetta, la n. 10. Resistevano quattro caposaldi: uno era il comando di battaglione, dov’era concentrato il grosso dei superstiti.

 

Alle 2.30 del 21 gennaio la colonna del Fulmine mosse verso ovest. Per aprirsi la strada verso sud-ovest i marò dovettero annientare a colpi di bombe a mano (sei Balilla italiane legate attorno a una M24 tedesca) uno dei bunker in cui s’erano insediati dei partigiani con una mitragliatrice Mg 42. Il compito venne assolto dagli uomini della terza compagnia.

 

Un gruppo in ritirata, al comando del tenente di corvetta Stefano Balassa, venne individuato e posto sotto tiro. Costretti a ripiegare, i marò si asserragliarono in una casa. Vicini a loro, chiusi in un’altra abitazione, alcuni superstiti agli ordini del guardiamarina Minervini, già circondati e isolati quando era stato impartito l’ordine di ripiegamento, resistevano a oltranza.

 

I reparti partigiani si resero conto di essere padroni di quanto rimaneva di Tarnova. Posti dei reparti attorno agli ultimi nuclei di italiani, gli uomini della Kossovel cominciarono il saccheggio. Entrati nell’infermeria, presero ad ammazzare i feriti; solo qualcuno si salvò, perché riuscì a nascondersi o venne creduto morto. Gli slavi uccisero anche alcuni abitanti del paese e incendiarono delle case. Fra gli italiani, al precipitare degli eventi, non erano mancati i casi di suicidio per evitare di cadere vivi in mani nemiche: fu il caso del guardiamarina Roberto Valbusa della terza compagnia.

 

Il mattino successivo, la colonna del Fulmine in ritirata prese contatto con reparti tedeschi e, poco dopo, un autocarro del comando di divisione li raccolse e li riportò a Gorizia. Quasi contemporaneamente, una colonna germanica proveniente da Sanbasso raggiunse Tarnova, provocando il ripiegamento delle forze slave. I capisaldi dei guardiamarina Minervini e Balassa avevano combattuto tutta la notte senza arrendersi e stavano ancora resistendo.

 

La battaglia di Tarnova finì così. Il Fulmine ebbe ottantasei morti e cinquantasei feriti, la Kosovel dichiarò trentatré morti e settantuno feriti. A solo commento, riportiamo le parole dello storico partigiano Stanko Petelin: “Si è in genere dell’opinione che gli italiani come soldati fossero meno validi dei tedeschi. In questo caso ciò non corrisponde al vero. In quei due giorni di combattimento i fascisti italiani a Trnovo (Tarnova della Selva) mostrarono una forte tenacia”.

 

(*) Il battaglione Fulmine si articolava su:

 

- compagnia comando;

 

- prima compagnia, su tre plotoni fucilieri; oltre alle armi individuali erano in dotazione fucili mitragliatori Breda 30, quattro mitragliatrici Breda 37 e quattro mortai Brixia da 45 mm.;

 

- seconda compagnia, su tre plotoni; oltre alle armi individuali erano in dotazione due fucili mitragliatori Breda 30, mitragliatrici Breda 37, due fucili anticarro Solothurn da 20 mm., quattro mortai Brixia da 45 mm. e tre mortai Cemsa da 81 mm.;

 

- terza compagnia Volontari di Francia, formata da volontari figli di italiani emigrati oltralpe; fucili mitragliatori Breda 30, mitragliatrici Breda 37 e mortai Brixia da 45 mm.

 

Comandante ad interim era il tenente di vascello Eleo Bini, essendo il comandante effettivo Giuseppe Orrù ricoverato in ospedale per ferite riportate in combattimento. L’età dei volontari era mediamente inferiore ai vent’anni, ma non mancavano dei veterani. L’armamento individuale era composto principalmente da mitra Beretta Mab 38, da fucili 91 e da pistole Beretta mod. 34. Non tutte le armi d’accompagnamento in dotazione al battaglione vennero portate a Tarnova, dove la forza delle compagnie era la seguente:

 

- prima compagnia: settantuno uomini;

 

- seconda compagnia: sessantuno uomini;

 

- terza compagnia: ottantadue uomini.

 

In totale, duecentoquattordici uomini.

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Capire il passato per costruire il futuro

 

di Vettor Maria Corsetti

 

«Quanto ai fatti veri e propri svoltisi durante la guerra, ritenni di doverli narrare non secondo le informazioni del primo venuto né secondo il mio arbitrio, ma in base alle più precise ricerche possibili su ogni particolare, sia per ciò di cui ero stato testimone diretto, sia per quanto mi venisse riferito dagli altri. Faticose ricerche; perché i testimoni dei singoli fatti riferivano su cose identiche in maniera diversa, ognuno secondo le sue particolari simpatie e la sua memoria. E forse la mia storia, rimasta spoglia dell’elemento fantastico, accarezzerà meno l’orecchio, ma basterà che la giudichino utile quanti vorranno sapere ciò che del passato è certo, e acquistare ancora preveggenza per il futuro» (Tucidide, La guerra del Peloponneso, I, 22).

 

Il classicismo è d’obbligo, in quanto la citazione spiega meglio di altre lo spirito che anima L’Orizzonte e cosa si propone questa nuova iniziativa editoriale. Non una pubblicazione di stampo reducistico o l’ennesimo tentativo di lettura a senso unico - del resto, al di là della testimonianza diretta la ricerca storica compete agli storici di professione, che devono analizzare i fatti del passato in piena libertà di giudizio, lontani da chiusure e condizionamenti politici - né un recupero fuori tempo massimo di ideologie legate al secolo appena trascorso, bensì un serio momento di dibattito, volto principalmente a fare chiarezza e rendere giustizia a quegli uomini in uniforme che vissero una delle fasi più drammatiche dell’Italia post-unitaria: l’armistizio dell’8 settembre 1943 e il biennio di guerra civile. Questo nella convinzione che solo comprendendo pienamente quei fatti e spezzando la logica - prevalentemente marxista e radical-azionista - di una loro interpretazione canonica ci potremo lasciare alle spalle molte divisioni che da oltre cinquant’anni caratterizzano la vita del nostro Paese.

 

Contrariamente a quanti «si immersero nelle acque di quella piscina miracolosa dentro cui si tuffano i lebbrosi per uscirne purificati», a pagare il conto della storia furono soprattutto quei volontari della RSI che si presero carico di colpe e responsabilità nazionali, ritenendo loro dovere combattere una guerra perduta in nome dell’onore. Molti scelsero la X Flottiglia MAS, non solo per il richiamo ideale costituito dai suoi gloriosi fatti d’arme, ma per i valori e per lo stile di vita che questa rappresentava. Altri italiani, che si trovavano al Sud, scelsero i ranghi del Regio Esercito, ma vennero presto e scientemente dimenticati perché non collocabili - come i partigiani trucidati a Porzus - nello scenario politically correct (per la cultura dominante) e sostanzialmente falso della «Repubblica nata dalla Resistenza».

 

Questo giornale nacque a pochi mesi dalla conclusione del conflitto per volontà della X Flottiglia MAS, con il proposito di gettare un ponte verso il dopoguerra e favorire la riconciliazione nazionale. Si volevano così evitare, o almeno contenere, gli effetti nefasti dell’armistizio di Cassibile, che - come ha ricordato un autorevole studioso - aveva segnato per molti «la morte della Patria». Rivede la luce oggi, in un contesto storico completamente diverso ma con la stessa volontà di costruire il futuro e di portare un contributo dialettico anche ai più scottanti e attuali temi nazionali, nel rispetto del motto che apriva L’Orizzonte del 12 febbraio 1945: «Solo la libertà delle nazioni può garantire quella dei cittadini».

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Mi scuso con tutti voi per la disattenzione .... ma alcuni articoli non ricordavo propio dove li avessi presi, dove ho potuto ho messo la provenienza.

Con Fulmine ho chiarito tramite Mp....

per le richieste

il link del sito gestito da fulmine è gia presente in uno dei primissimi post nella discussione "Decima"

domani posterò altre notizie sulla decima cercando di stare più attento la prossima volta :s11: posterò i riferimenti adeguati.

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  • 1 year later...

Riporto alla luce un vecchio post, indirettamente per merito di Magico 8°/88.

 

Un piccolo saggio di cosa potrete trovare nel database di Betasom provando ad usare la funzione "CERCA" del forum, che trovate sotto il Tazzoli, nella testata del forum.

 

Credo che chiunque voglia approfondire, rileggere o scoprire qualcosa sulla Decima non possa non apprezzare il lavoro che al tempo aveva inviato EmaZ.

 

Che fine hai fatto Emaz? :s09:

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Visitatore Kashin
Riporto alla luce un vecchio post, indirettamente per merito di Magico 8°/88.

 

Un piccolo saggio di cosa potrete trovare nel database di Betasom provando ad usare la funzione "CERCA" del forum, che trovate sotto il Tazzoli, nella testata del forum.

 

Credo che chiunque voglia approfondire, rileggere o scoprire qualcosa sulla Decima non possa non apprezzare il lavoro che al tempo aveva inviato EmaZ.

 

Che fine hai fatto Emaz? :s09:

 

Non posso che quotare ancora una volta BETASOM .......(Ma non c'e' da preoccuparsi hahahah )

gran bel materiale della Decima ,dettagliato,completo,interessantissimo.....un peccato che il Comandante Emaz non scriva piu' da tempo sarebbe stato indiscutibilmente fonte di cose uniche ...almeno per me che amo ma non sono un profondo conoscitore .

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  • 2 months later...

Girovagando per internet ho trovato questa pagina sulla decima

 

link decima

 

E di rimando anche la pagina sul com.sub.in.

link com.sub.in

 

Spero vi possano interessare

 

(p.s. un consiglio ... apriteli con explorer perchè su modzilla non mi si caricavan le pagine...può esser anche un problema del mio pc)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(ho appena comprato il libro "Junio Valerio Borghese e la X°Flottiglia Mas appena lo finisco posto una mia recensione sul libro e qualche foto)

Modificato da EmaZ
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