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La Nascita della Marina Italiana _ INTERCONAIR Aviazione e Marina


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Come anticipato nel post dedicato alla rivista "INTERCONAIR Aviazione e Marina" inizio la pubblicazione di articoli che reputo interessanti relativamente sia all'ambito del forum ma anche più in generale a quello della difesa.

La mia scelta iniziale era quella di seguire un ordine cronologico di pubblicazione degli articoli apparsi sulla rivista, me nell'occasione del 17 marzo 2022 data della nascita  "legale" della Marina Militare ho preso in considerazione il pezzo che segue e penso che lo stesso apra magistralmente l'epopea della nostra Forza Armata di riferimento :wink:.

Tra l'altro l'autore, il buone Ermanno Martino, com'era suo solito, aveva già all'ora una visione diversa e non sempre allineata (anche se rispettosa) agli autori del periodo, riproponendo una lettura critica degli avvenimenti.

Ultima precisazione, ho lasciato quanto più possibile l'impostazione tipografica iniziale della rivista del tempo, ed anche inserito le immagini allegate all'articolo, aggiungendo in rosso solo delle annotazioni o delle correzioni del testo.

BUONA LETTURA!!!

 

Estratto da "INTERCONAIR - Aviazione e Marina" N. 90 - Giugno 1972

Photos: A. Barili

Ermanno MARTINO

 

LA NASCITA DELLA MARINA ITALIANA

 

Da un punto di vista strettamente legale, la nascita della Marina Italiana si può far ascendere al 17 marzo 1861 quando, a seguito della proclamazione del Regno d’Italia, essa diventò Regia Marina. Tuttavia, già prima di questa data, un Regio Decreto datato 17 novembre 1860 aveva organizzato, sotto il punto di vista amministrativo, la Marina con la fusione delle Marine sarda, borbonico-siciliana, toscana e pontificia, amalgamando tra l’altro in un unico ruolo gli ufficiali delle varie provenienze. Tuttavia, ancor più importante delle date che sopra abbiamo menzionato, ci pare che il Decreto di Garibaldi (1) promulgato a Napoli il 7 settembre 1860, ovvero in data ancora anteriore, possa considerarsi il vero atto costitutivo della nuova Marina, nata dalle ancora incompiute lotte risorgimentali (il grassetto è mio).
Il processo unitario, tuttavia, come d’altronde sottolineato da molti eminenti studiosi, fu un atto puramente burocratico che non diede, come d’altronde non poteva dare, e ne vedremo i motivi, i risultati ch’erano nelle aspettative. E Lissa ne sarà la riprova.

 

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LA MARINA SARDA

La Marina Sarda non vantava grandi tradizioni, anzi, fino all’avvento del Cavour, versò sempre in uno stato di suprema arretratezza, specie sotto l’aspetto della preparazione professionale. All’inizio del XIX secolo, quando cioè il CLERMONT di Fulton aveva già navigato, la Squadra Sarda era quasi esclusivamente composta di navi a remi e a vela, le cosiddette "mezze galere". Queste navi, alla cui voga erano posti i condannati oppure elementi arruolati, la destinavano esclusivamente a compiti semi-costieri che, in fondo, vertevano sulla protezione dei convogli mercantili nei confronti delle scorrerie dei pirati barbareschi.

Con il Congresso di Vienna (1815) e con l’incorporazione di Genova, sogno inappagato di secoli, nello Stato sabaudo, la Marina ebbe un notevole impulso per opera di colui che Vittorio Emanuele I destinò alla sua ricostruzione: il barone Giorgio Des Geneys. Quest’uomo, per molti lati del carattere retrivo e reazionario, spiegò una notevolissima energia nel porre le basi d’una Marina non più costiera, ma alturiere.

Gli esordi non furono felicissimi — vennero costruite due nuove "mezze galere", la LIGURIA e la BERENICE — ma subito dopo, dai cantieri della Foce di Genova, scendevano in mare la corvetta TRITONE da 20 cannoni, il brigantino NEREIDE da 14 cannoni e le fregate MARIA TERESA da 60 cannoni e MARIA CRISTINA da 44 cannoni. Inoltre, i commercianti genovesi, sempre nell’intento di porre un freno all’audacia dei pirati barbareschi, si tassavano per costruire una terza fregata gemella della MARIA TERESA, la COMMERCIO DI GENOVA. Il Des Geneys acquistava anche il mercantile ZEFIRO e ordinava a Livorno due golette (MARIA LUISA e MARIA TERESA) e quattro cannoniere (VELOCE, ARDITA, INTREPIDA e FORTE).

A questa notevole attività costruttiva, tra l’altro esplicatasi in un solo biennio (1815/1817), non corrispose però, da parte del Des Geneys, un’adeguata politica formativa dei quadri ufficiali. Il campo degli studi, malgrado l’istituzione della Scuola di Marina di Genova (1816), rimase fondamentalmente arretrato, vigendo l’opinabile teoria che "più della grammatica valesse la pratica". Tanto per esemplificare, diremo che, nell’anno 1816, le uniche materie d’insegnamento stabilite a Genova erano: geometria, nautica, lingua inglese e disegno. Francamente un po’ poco, specie considerando che nel 1810, nel Collegio di Marina di Venezia, il programma di insegnamento verteva su: aritmetica, geometria, trigonometria, algebra, meccanica dei solidi e dei fluidi, nautica, astronomia, geografia, disegno, tattica navale e arti pratiche e marinaresche.

Le prime prove della rinnovata Marina Sarda si ebbero, come al solito, contro i pirati barbareschi che, non aiutati ma neppure scoraggiati dalla Gran Bretagna, avevano ripreso un’attività che suscitava i timori degli armatori e dei commercianti genovesi. Di tutta questa guerra fatta di colpi di mano dell’una e dell’altra parte, il ricordo più importante rimane quello della spedizione di Tripoli (settembre 1825) effettuata da una Squadra Sarda al comando di Francesco Sivori e composta dalle fregate COMMERCIO e CRISTINA, dalla corvetta TRITONE e dal brigantino NEREIDE.

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La corvetta di I rango EURIDICE, proveniente dalla Marina Sarda e per la quale venne costruita nel Cantiere della Foce di Genova.

Nel corso di quest’azione, svoltasi dal 25 al 27 settembre, si distinse in modo particolare il tenente di vascello Giorgio Mameli (2) che comandava alcune lance che notte-tempo penetrarono nel porto nell’intento di abbordare alcune navi tripoline all’ormeggio. L’azione, malgrado l’accanita resistenza degli equipaggi, ebbe successo, sebbene il forte vento e il mare troppo agitato impedissero poi il rimorchio dei bastimenti in mare aperto.

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La corvetta a vela di II rango IRIDE. Inizialmente battezzata col nome di AQUILA, quest'unità della Marina Sarda mutò nome al suo passaggio nelle file della neonata Marina Italiana.

Il successo di questa spedizione incoraggiò il Des Geneys a insistere presso Carlo Felice, succeduto nel 1821 a Vittorio Emanuele I, per la costruzione di altre importanti unità: la corvetta AURORA e le fregate BEROLDO, HAUTE COMBE, REGINA e CARLO FELICE.

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La fregata ex-sarda DES GENEYS, che fino al 1839 portò il nome di HAUTECOMBE. Nel 1854 venne destinata a fungere da trasporto.

A proposito dell’avvento al trono di Carlo Felice a seguito dei moti costituzionali del 1821, non può essere messa sotto silenzio la parte avuta dal Des Geneys nel tenere sotto controllo la Marina più degli ufficiali, essendo gli equipaggi idealmente dalla parte dei rivoluzionari. Il Des Geneys, esponente del partito assolutista, instaurò da allora una specie di dittatura personale e la Flotta venne inviata in Spagna, al servizio della Santa Alleanza, per reprimere i moti liberali.

Spentosi il Des Geneys (1839), ad esso succedettero il viceammiraglio conte Alberti di Villanova (1839/1841), il contrammiraglio Giuseppe Albini (1841/1844), il contrammiraglio De Viry (1844/1851) e infine il principe Eugenio di Carignano, con interinato del viceammiraglio Serra dal 31 marzo 1848 al 1° giugno 1849.

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Sopra: La fregata a vela SAN MICHELE fu una delle migliori unità della Marina Sarda. Partecipò a tutte le operazioni della I e della II Guerra d'Indipendenza.

In questo periodo, specie fino al 1848, la Marina Sarda toccò il massimo della decadenza, neppure compensata, come al tempo del Des Geneys, da un valido programma costruttivo. Le condizioni a bordo erano pessime e i rapporti tra ufficiali e bassa forza improntati a uno spirito che, a voler essere generosi, si poteva definire "feudale". Era il terrore il cemento che univa gli uomini e non certamente il famoso "Tu con Noi e Noi con Te" della gloriosa Marina della Serenissima.

Nel corso della la Guerra d’Indipendenza, le operazioni della Marina Sarda, allora concepita soltanto come parco semovente d’artiglieria al servizio dell’Esercito, non furono certamente degne di nota particolare. Per essere esatti, l’unico scontro a fuoco fu sostenuto dal brigantino DAINO, al comando del futuro ammiraglio Persano, che scambiò alcune cannonate con le batterie costiere di Caorle (10 giugno 1848).

La Squadra Sarda, agli ordini dell’ammiraglio Giuseppe Albini e che per un determinato periodo operò in correlazione con una Squadra napoletana (3), si limitò soltanto a poche operazioni di blocco, operazioni tra l’altro non andate a buon fine, in quanto la mancanza di propulsione a vapore cominciava a far sentire i suoi negativi influssi.

Ripresa la guerra nella primavera del 1849, neppure questa volta si ebbero scontri di un qualche rilievo. Tuttavia, si verificò un episodio sintomatico, circa lo slegamento esistente tra Stati Maggiori ed equipaggi: l’ammutinamento della Squadra. Questo ammutinamento, esploso dopo l’armistizio di Salasco tra Austria e Piemonte, ebbe origine quando le navi sarde, a causa di un violento fortunale, furono costrette a gettare l’ancora a Punta Salvore (7 aprile 1849) ove già si trovava una Divisione austriaca.

Il tutto prese le mosse da una salva di saluto sparata dalle navi asburgiche, salva alla quale l’Albini fece correttamente rispondere. Questo scambio di cortesie, tuttavia, suscitò le ire degli equipaggi che a gran voce si diedero a reclamare la battaglia oppure, se ciò non era possibile, almeno il rientro a Genova. L’Albini aderì a questa seconda richiesta, ma volle prima distaccare tre unità a Venezia per imbarcare i sudditi sardi ancora nella città. Questo accrebbe l’ira dei marinai che vedevano in questa mossa un pretesto per dividere le forze e consentire cosi ai Capi di consegnare le navi all’Austria, clausola questa che si vociferava inserita nelle clausole armistiziali. La sedizione si scatenò allora su tutte le navi, solo il Persano e il D’Auvara riuscirono a tener in pugno la situazione, gli uomini ebbero il sopravvento e spiegarono le vele mettendosi sulla via del ritorno.

Al rientro a Genova, malgrado le promesse dell’Albini, si diede il via a una serie di processi che, condotti sulla scorta delle medioevali leggi di  Carlo Felice, portarono parecchi alla fortezza. Al solito, mentre alcuni prendevano la via delle galere, altri ottenevano benefici e promozioni.

Fortunatamente, per la già tanto tartassata Marina Sarda, il D’Azeglio, allora Presidente del Consiglio, affidava al conte di Cavour il portafoglio della Marina, trasferendo tra l’altro questo Ministero da quello della Guerra a quello dell’Agricoltura.

Il Cavour, digiuno di cose di mare ma persona aperta e intelligente, si mise subito all’opera, non tanto sotto il profilo delle nuove costruzioni, ma piuttosto sotto quello della disciplina e della preparazione professionale. Egli s’avocò i processi tenutisi a seguito della sedizione della Divisione Albini, processi non tutti limpidi e resi ancor più retrivi dalle passioni del momento, cancellando le sentenze più inique e correggendo, laddove possibile, i più smaccati favoritismi. Per quanto concerne la preparazione dei quadri, diramò (ottobre 1851) i nuovi programmi di studio per gli ufficiali e, l’anno successivo, dispose a bilancio la somma necessaria affinchè, sia presso i Comandi Marittimi sia sulle navi, fosse istituita una scuola elementare per i marinai.

Il 4 novembre 1852, data con la quale il Cavour divenne Presidente del Consiglio a seguito delle dimissioni di Massimo D’Azeglio, fu un grave colpo per la Marina Sarda; il Cavour, infatti, non potè più esclusivamente curarsi di essa, preso come fu dalla composizione di quel mosaico diplomatico, vera colonna portante dell’unificazione italiana. Gli spiriti più stupidamente gretti della Marina cominciarono a far nuovamente sentire la loro voce e l’ambiente cominciò nuovamente a regredire, sebbene non giungesse alla crassa ignoranza dei tempi del Des Geneys.

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La pirofregata di II rango a ruote GOVERNOLO. Proveniente dalla Marina Sarda, si dimostrò una delle migliori navi a ruote piemontesi.

La partecipazione del Piemonte alla guerra di Crimea (1855) ebbe anche una parte navale. Al comando del capitano di vascello Orazio Di Negro, venne formata una Divisione comprendente le navi a vapore allora disponibili (pirofregata CARLO ALBERTO, pirocorvette a ruote GOVERNOLO e COSTITUZIONE), mentre per il trasporto del Corpo di Spedizione (18.000 uomini e 3.500 cavalli) fu invece necessario il noleggio di piroscafi anglo-francesi. Le azioni cui partecipò questa Divisione non furono importanti, anche se contribuirono a mettere in luce la permanente disorganizzazione dei servizi.

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La fregata di I rango a elica (ex-sarda) VITTORIO EMANUELE costruita nel Cantiere della Foce di Genova. Dopo il suo ingresso in servizio nella Marina Italiana venne lungamente adibita a compiti di Nave Scuola.

La II Guerra d’Indipendenza del 1859 ebbe, dal punto di vista marittimo, nuovamente il suo epicentro in Adriatico, mare nel quale operarono una poderosa Squadra francese e una Divisione sarda (capitano di vascello Tholosano) articolantesi sulle pirofregate CARLO ALBERTO e VITTORIO EMANUELE, sulla pirocorvetta a ruote GOVERNOLO, sull’avviso AUTHION e sul piroscafo armato MALFATANO. Unica azione degna di nota fu la conquista dell’isola di Lussino, azione che sarà poi fonte di pericolose illusioni, prima fra tutte il disprezzo per la Flotta austriaca.

Come già nel conflitto del 1848/1849, l’episodio più importante non fu di carattere bellico. A Messina, dove la Squadra sarda aveva gettato le ancore, gli equipaggi in franchigia parteciparono a dimostrazioni popolari anti-borboniche, creando così un arduo problema diplomatico al Cavour.

Altro grave motivo di attrito fu quello dei rapporti tra i superbi ufficiali piemontesi e gli ufficiali della Marina Veneta che, dopo la caduta di Venezia (24 agosto 1849), erano entrati a far parte della Marina Sarda. La rivalità tra Tholosano e Persanini (4) contribuì inoltre ad avvelenare i rapporti tra i quadri degli Stati Maggiori.

Con la II Guerra d’Indipendenza terminava la storia della Marina Sarda come forza a sè stante.

 

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LA MARINA BORBONICA

Carlo III può essere definito il fondatore della Marina Borbonica. Fu infatti questo re che nel 1741, ancor sotto l’impressione della pre-senza d’una Squadra inglese dinnanzi al porto di Napoli — presenza questa che gli aveva imposto la neutralità nella guerra allora in corso tra Austria e Spagna — diede il via alla costituzione del primo nucleo di quella che doveva poi diventare la Marina Borbonica. Oltre alla messa sullo scalo di diverse unità, il sovrano fece provvedere alla costruzione dell’Arsenale di Napoli e del molo del porto militare mentre, già sei anni prima (1735), era stata fondata la cosiddetta Accademia dei Guarda Stendardi.

Il 1777 vide l’arrivo dell’inglese Edoardo Acton, precedentemente al servizio del governo granducale toscano, chiamato da Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV. L’Inglese, che ebbe il compito di riordinare su nuove basi la Marina, si mise all’opera con impegno: fondò, nel 1780, l’Accademia di Marina di Portici e, sette anni dopo, costituì il Corpo della Fanteria di Marina, provvedendo inoltre al riordino delle artiglierie delle navi e all’istruzione degli artiglieri.

La prima prova, tutto sommato positiva, della rinata Marina Borbonica si ebbe nel 1783 in occasione d’una spedizione contro Tripoli, per la quale il Re di Spagna aveva appunto richiesto il contributo di questa giovane Marina mediterranea.

Durante le guerre napoleoniche, la Marina Borbonica combatté a fianco della Royal Navy nel bacino mediterraneo portandosi pure molto bene, come d’altronde riconobbero anche gli Inglesi, ben noti per essere stati sempre piuttosto avari di complimenti nei confronti dell’altrui valore nautico.

Non è questo il luogo per addentrarci nella descrizione di tutti quei tragici avvenimenti che culminarono con la morte dell’ammiraglio Caracciolo, impiccato nel 1799 a un albero della MINERVA, e con la disfatta della Repubblica Partenopea, ma piuttosto, almeno ai fini del nostro discorso, di ritornare ai tempi della restaurazione borbonica.

Dopo le buone prove che navi e uomini, in questo caso specialmente il Caracciolo e il Bausan, avevano dato in quegli anni, la Marina Borbonica conobbe un periodo di offuscamento, più che altro da imputarsi alla grettezza di Ferdinando I. Questo monarca, preoccupato di possibili infiltrazioni liberali dovute a contatti esterni, interdisse alle proprie navi qualsiasi attività, proibendo loro perfino di allontanarsi dal golfo di Napoli.

Il risultato, una volta che uomini e navi dovettero entrare in azione, non poteva essere che pessimo, come si vide nell’agosto 1828 durante una spedizione contro Tripoli effettuata da una Squadra napoletana (fregate ISABELLA, REGINA e CRISTINA, brigantino PRINCIPE CARLO, goletta LAMPO oltre a varie unità minori) al comando del capitano di vascello Alfonso Sozi Carafa. L’azione delle navi napoletane, nettamente superiori per numero e potenza alle scarse forze del Bey (due golette, un brigantino, dodici barche cannoniere e una corvetta) si risolse, almeno stando alle cronache dell’epoca, soltanto in un "frastuono di artiglieria senza effetti".

Il tener la Marina "sotto naftalina" si rivelò un rimedio ancor peggiore del male che si voleva combattere, in quanto la forzata inattività non poteva che incoraggiare gli uomini a partecipare ai vari moti segreti che si proponevano l’abbattimento della dinastia.

La salita al trono di Ferdinando II (1830) diede maggior impulso alla Marina che, specie se raffrontata allo stato di endemica arretratezza in cui versavano tutte le altre branche dell’attività statale, non pareva neppur appartenesse a un simile Paese.

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Le fregate a vela PARTENOPE (sopra a Napoli, nell'inverno 1866-67 mentre era adibita a nave ammiraglia del Secondo Dipartimento) e REGINA (sotto, dopo la trasformazione in nave ad elica nell'autunno 1865), entrambe provenienti dalla Marina Borbonica, nel 1862 ebbero installato un apparato motore della potenza di 400 H.P. nominali e articolantesi su una motrice alternativa alimentata da 3 caldaie tubolari (velocità 8 nodi).

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L’avvento della propulsione a vapore trovò fertile campo di applicazione. Nel 1834, infatti, Ferdinando II — cui non spiaceva, specie in tempo di bonaccia, atteggiarsi a marinaio — acquistò in Gran Bretagna tre piroscafi cui vennero imposti i -nomi di FERDINANDO I, NETTUNO e S. WENEFRINO (nel testo dell'Ufficio Storico della MM "Navi a vela e navi miste italiane 1861-1887" di  Bargoni F, Gay F. e V.M il nome riportato è SAN VENEFREDE) che, tra l’altro, furono i primi a solcare il Mediterraneo. Nel 1840 venne fondata la Scuola di Pietrarsa, che la stessa Marina Sarda fece visitare ad alcuni suoi ufficiali e che fu in grado di garantire l’autonomia borbonica, per quanto concerneva la costruzione e la conduzione degli apparati motori a vapore.

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Le pirofregate di II rango TANCREDI (sopra) e GUISCARDO (sotto a Napoli verso la fine di agosto 1867) facevano parte, assieme alle gemelle R UGGIERO e ROBERTO, d'un gruppo di unità impostate nel 1841/1842, per conto della Marina Borbonica presso i cantieri Pitcher di Gravesend (Gran Bretagna). Da notare che, all'atto della sua incorporazione nella Marina Italiana, la ROBERTO era pressoché inutilizzabile.

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Le costruzioni militari ebbero una ripresa notevolissima. Nel periodo corrente dal 1841 al 1859, il Regio Cantiere di Castellammare, allora il migliore di tutta la penisola, varò sei pirocorvette (ARCHIMEDE, ERCOLE, CARLO III, SANNITA, ETTORE FIERAMOSCA e TORQUATO TASSO), mentre nel 1842/1844 vennero acquistate in Gran Bretagna altre cinque navi similari (RUGGIERO, GUISCARDO, TANCREDI, ROBERTO e STROMBOLI) e in Francia alcuni avvisi a vapore (MARIA TERESA, PELORO, LILIBEO, PALINURO e MISENO).

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Le fregate di I rango a elica BORBONA e FARNESE. Entrambe appartenenti alla Marina Borbonica, vennero incorporate nella Marina Italiana rispettivamente coi nomi di GARIBALDI (sopra) e di ITALIA (sotto). Nel settembre 1860, data del loro passaggio sotto bandiera italiana, la GARIBALDI era già stata completata, mentre l'ITALIA era ancora in allestimento.

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Degne di nota particolare, sul finire della dinastia borbonica, furono tre unità: il vascello a elica MONARCA e le fregate a elica BORBONA e FARNESE. Il MONARCA, impostato a Castellammare di Stabia, venne varato nel 1858. Si trattava di un’unità derivata direttamente dai vascelli; progettata come nave a vela, ebbe installato, a seguito dell’avvento della propulsione a vapore con elica, un apparato motore articolantesi su una motrice alternativa a movimento diretto alimentata da quattro caldaie tubolari. Nell’agosto 1860 era ancora in allestimento e il mese successivo entrò a far parte della costituente Flotta Italiana col nuovo nome di RE GALANTUOMO.

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IL vascello a elica MONARCA era, nel settembre 1860, la più importante nave borbonica in costruzione. Incorporato nella Marina Italiana col nome di RE GALANTUOMO, si dimostrò nave di scarse possibilità tanto da rimanere in servizio, a prezzo di notevoli lavori, soltanto fino al 1875.

La Marina Borbonica, sotto l’aspetto del materiale e della preparazione professionale, rappresentava indubbiamente la prima forza marittima d’Italia. Tuttavia questo organismo, all’apparenza moderno e potente, era minato da una serie di mali che annullavano quasi completamente il suo valore bellico.

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Sopra: La pirofregata di II rango a ruote ETTORE FIERAMOSCA appartenente alla Marina Borbonica e successivamente incorporata nella Marina Italiana. Nel 1869 venne classificata Corvetta di II ordine a ruote.

La preparazione degli equipaggi era discreta, specie quella dei cannonieri e dei macchinisti, ma difettavano gli ufficiali sperimentati che erano suddivisi in due categorie: ufficiali combattenti e ufficiali piloti; questi ultimi avevano la responsabilità della navigazione. Questa differenziazione, sulla carta ottima, fu invece all’origine d’una serie di gravi incomprensioni e gelosie. Ciò giacchè reclutandosi gli ufficiali combattenti solo nelle famiglie nobili del Regno ed essendo invece quelli piloti di estrazione popolare-piccolo borghese, nella continua inoperosità non potevano che accadere spiacevoli incidenti. Da questa situazione, inoltre, ne derivava che i secondi erano sostanzialmente di idee liberali, in contrasto con le tendenze "legittimiste" degli ufficiali combattenti e della bassa forza.

L’ozio forzato cui la Marina venne sottoposta dalle ristrette vedute di Ferdinando II (le uniche due volte in cui la Marina lasciò il Golfo di Napoli furono per scortare la sorella del Re, che andava sposa in Brasile, e durante la vana crociera del De Cosa in Adriatico) diede cattivi risultati anche per quanto concerneva la mancanza di tirocinio. Prove lampanti furono i due incidenti che portarono alla perdita, rispettivamente per esplosione causata dall’incuria d’un marinaio e per incaglio, delle pirocorvette CARLO III (febbraio 1857) e TORQUATO TASSO (febbraio 1860).

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L'avviso di II ordine a ruote SESIA in primo piano ed i trasporti PLEBISCITO e ROSOLINO PILO in secondo piano. Proveniente dalla Marina Mercantile Napoletana col nome di ETNA, venne affondato a Gaeta nel 1861. Recuperato l'anno successivo venne incorporato nella Marina Italiana.

Per concludere, la Marina Borbonica, sebbene annoverasse unità moderne, era un "gigante dai piedi di argilla" destinato, come in effetti avvenne, a crollare al primo approssimarsi di tempesta. Tuttavia, la prevalenza piemontese fu dovuta soltanto a una particolare situazione politica, non certo a migliori tradizioni. Non dimentichiamo infatti che nel secolo XVIII, mentre la Marina Sarda era ancor ferma alle "mezze galere", la Marina Borbonica allineava alcuni vascelli da 74 cannoni.

 

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LA MARINA TOSCANA

La Marina Toscana, sebbene non in condizioni così disastrose come venne giudicata da alcuni storici, agli inizi del secolo XIX non rappresentava certamente una forza degna di nota particolare. Esisteva è vero qualche unità, ma difettavano completamente le infrastrutture e la volontà politica di operare sul mare.

Il non certo lungimirante Leopoldo II — "Principoni, armate e cannoni; principini, ville e casini" era in proposito un aforisma che aveva incontrato parecchio successo — credeva infatti che a salvaguardare l’integrità territoriale del granducato bastassero i codicilli del Congresso di Vienna.

Al tempo della I Guerra d’Indipendenza, l’unica nave d’un certo peso di cui disponesse la Toscana era il piroscafo-avviso GIGLIO varato nel 1846. Quest’unità aveva però svolto soltanto missioni di trasporto militare, in occasione del conflitto scoppiato col Ducato di Modena per il possesso di Pontremoli e Fivizzano, di trasporto prigionieri e, quando se ne era presentata l’occasione, di salvataggio.

Se alla I Guerra d’Indipendenza i Toscani parteciparono con notevole entusiasmo arruolandosi numerosi nelle file delle truppe regolari, della Guardia Civica e dei Volontari, nulla venne fatto per la Marina che continuò ad essere la "cenerentola". Vane, infatti, furono le proposte che da più parti si levarono per l’istituzione d’un Collegio di Marina a Livorno (gennaio 1848) e per acquistare all’estero qualche unità a vapore.

L’anno 1848 segnò, come d’altronde fece giustamente rilevare il Cavour, la fine della potenza militare toscana, intesa come impiego d’un Esercito regolare e non di volontari. La Marina, dal canto proprio, ridotta al solo GIGLIO e a qualche nave minore, più che altro usata in funzione di sorveglianza costiera e anticontrabbando, dovette attendere parecchi anni per vedere impostate alcune unità: le cannoniere ARDITA e VELOCE e la pirocorvetta di I ordine a elica MAGENTA.

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Sopra: La corvetta di II ordine a elica ETNA che, impostata per conto della Marina Borbonica, venne varata e completata dalla Marina Italiana. La foto mostra: a sinistra la poppa del trasporto WASHINGTON e, in secondo piano, la pirocorvetta STROMBOLI (in disarmo), il trasporto ROSOLINO PILO e l'avviso SIRENA. Sotto: La corvetta a elica MAGENTA, impostata per conto della Marina Granducale Toscana. In secondo piano, da sinistra: gli avvisi MESSAGGIERE e SIRENA e la pirocorvetta a ruote TUKORY.

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Le prime due unità, allestite a Tolone, operarono durante la guerra del 1859 al comando di Romain Desfossés, mentre la MAGENTA, impostata a Livorno nel 1859, venne poi incorporata nella Regia Marina. A proposito di questa nave, celebre per esser stato il primo bastimento militare della rinata Marina Italiana a compiere un viaggio di circumnavigazione, essa ebbe la propria costruzione ripresa nel 1861 venendo dotata di tre alberi a vele quadre e d’una macchina ausiliaria a vapore erogante una potenza di 500 H.P. nominali con una corrispondente velocità di 10 nodi.

Si trattava d’una nave robusta e con un armamento disposto a batteria abbastanza potente (XIV pezzi lisci da 40 libbre a palla, IV pezzi rigati da 160 mm e II obici lisci da 20 cm), ma una volta completata (dicembre 1863) era ormai superata dal progresso tecnico.

 

 

LE OPERAZIONI NAVALI DEL 1860

Nel marzo 1860 veniva costituita, agli ordini del contrammiraglio Carlo di Persano, una Divisione navale articolantesi sulle pirofregate MARIA ADELAIDE, CARLO ALBERTO e VITTORIO EMANUELE, sulla pirocorvetta a ruote GOVERNOLO e sugli avvisi a ruote MALFATANO e AUTHION. Scopo di questa formazione era di attendere l’inizio delle operazioni che Garibaldi intendeva portare contro il regno borbonico; operazioni di cui, ormai apertamente, si parlava a Genova e Milano.

Il 3 maggio 1860, ovvero due giorni prima della partenza di Garibaldi da Quarto, la Squadra di Persano venne destinata a incrociare al largo della Sardegna, e precisamente tra Capo Carbonara e Capo dello Sperone. Lo scopo di questa destinazione fu, per i tradizionalisti, la miglior riprova della volontà del Cavour, senza impegnarsi troppo diplomaticamente, di aiutare i Garibaldini (la flotta, infatti, era alquanto decentrata rispetto all’itinerario del PIEMONTE e del LOMBARDO); per Garibaldi e il Partito d’Azione, invece, questa non fu che una delle mene del governo di Torino per ostacolare la spedizione (il Persano aveva ricevuto l’ordine di arrestare Garibaldi nel caso questi avesse tentato di sbarcare in Sardegna, per levar uomini e per rifornirsi d’armi).

La posizione del Persano non era delle più facili: da una parte i sibillini ordini del Cavour, dall’altra tutto un movimento di opinione che vedeva in questa nuova spedizione del miglior generale italiano la possibilità di affrancare nuovi territori dalla dominazione straniera. Ad ogni modo, in bilico tra il "volere" e il "non volere" del Cavour, l’ammiraglio riuscì a non disturbare la navigazione del convoglio.

Il PIEMONTE e il LOMBARDO, non certamente ceduti a cuor leggero dal Rubattino, come invece riportato dall’agiografia storica risorgimentale, riuscirono infatti a recarsi a Talamone, per rifornirsi di armi e munizioni, e sbarcare poi a Marsala malgrado la sorveglianza, per la verità non troppo accurata, d’una Squadra Borbonica composta da PARTENOPE, STROMBOLI e CAPRI.

Il Persano, una volta che i Mille furono a terra, si mise in contatto con la nave che aveva già provveduto a distaccare a Palermo, la pirocorvetta a ruote GOVERNOLO. Quando cadde il capoluogo siciliano ricevette l’ordine di recarvisi anch’egli per impedire, come temeva il Cavour, che i Garibaldini impadronendosi delle navi borboniche e portando gli ufficiali dalla loro parte, costituissero una Repubblica Meridionale.

Ad ogni modo, di tutta questa farraginosa situazione politico-diplomatica, il risultato fu che alcuni ufficiali borbonici, sinceramente propensi alla causa unitaria (il capitano di vascello Anguissola fu il primo a mettere a disposizione del Persano la propria unità, la pirocorvetta VELOCE) ebbero il medesimo trattamento riservato ai "soliti furbi" che, pur restando in servizio, mantennero segrete intelligenze col Comandante della Squadra Sarda. Questi, fedele agli ordini del Cavour, pur non disdegnando i servizi offertigli — con l’Anguissola ebbe inizio una duratura amicizia — incoraggiò gli ufficiali borbonici di sentimenti unitari a mettersi a disposizione di Garibaldi e anzi la VELOCE, ribattezzata TUKORY, fu il primo bastimento della Marina Dittatoriale Siciliana (5). Così, auspice il Cavour, un ufficiale del Persano, il conte G. Piola Caselli, comandante dell’AUTHION, venne messo al fianco di Garibaldi, per sorvegliarne le mosse e per riorganizzarne la Marina.

Il 21 agosto 1860, Garibaldi e Bixio sbarcarono tra Capo dell’Armi e Capo Spartivento (Calabria) con due piroscafi, il TORINO e il FRANKLIN, in questo indirettamente aiutati dal Persano che, destinate alcune unità a Messina che ancora resisteva, vincolò i movimenti delle navi borboniche.

Garibaldi entrò a Napoli il 7 settembre 1860, mentre Francesco Il con le poche truppe rimastegli fedeli andava ad asserragliarsi nella fortezza di Gaeta. Fu in questa data che Garibaldi promulgò l’Editto di cui già abbiamo fatto cenno nelle premesse e che dunque deve intendersi come l’atto costitutivo, se non ufficiale almeno politico, della Regia Marina.

A questo proposito giova ricordare che già erano stati fatti diversi tentativi di impadronirsi di alcune unità borboniche, appunto sfruttando i legami segreti già esistenti tra vari ufficiali e il Persano. Per tutte vale l’impresa di catturare il vascello a elica MONARCA, allora in allestimento a Castellammare. L’azione, che avrebbe dovuto essere compiuta dalla TUKORY, stabiliva che il comandante della nave borbonica, il capitano di vascello Vacca, non avrebbe dovuto trovarsi a bordo "per non compromettersi" (sic! ), ma l’azione andò a vuoto per l’intervento del comandante in seconda del MONARCA, Guglielmo Acton.

Nel frattempo, alla Squadra di Persano era intanto giunto l’ordine di recarsi ad Ancona, dove si erano asserragliate le truppe pontificie sconfitte dal generale Cialdini a Castelfidardo (6).

La Squadra Sarda destinata a quest’operazione risultò composta dalle seguenti navi: MARIA ADELAIDE, VITTORIO EMANUELE, CARLO ALBERTO, GOVERNO-LO, COSTITUZIONE e MALFATANO, oltre ai piroscafi TANARO e DORA che trasportavano le artiglierie d’assedio destinate ad Ancona. Un’altra unità a vela, la SAN MICHELE, era aggregata a questa formazione ma, per manovrare assieme alle pirofregate, doveva essere rimorchiata nel settore di competenza dal piroscafo CONTE DI CAVOUR.

L’azione contro la città marchigiana non si presentava molto facile, per la mancanza d’una base d’appoggio, nella quale far eventualmente ricoverare le unità colpite dai forti terrestri, e perchè l’istituzione d’un rigido blocco avrebbe diminuito l’efficienza delle navi a vapore.

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Le ,fregate di I rango a elica MARIA ADELAIDE (sopra) e DUCA DI GENOVA (sotto). Provenienti dalla Marina Sarda, furono progettate dal Generale G.N. Felice Mattel.

A.e.M.1972.06_090.104_img.DUCA.DI.GENOVA

Dopo due vani tentativi di forzare lo sbarramento all’imboccatura del porto e prendere così sul rovescio le batterie della piazza, essendo già iniziato l’attacco decisivo dal lato terra, il generale Cialdini sollecitò al Persano l’intervento dei gros-si calibri delle navi. Il consiglio di guerra, tenutosi nella notte tra il 27 e il 28 settembre 1860 sulla MARIA ADELAIDE, fu tempestoso: i comandanti in sottordine, e particolarmente il Galli della Mantica, comandante della CARLO ALBERTO, erano nettamente contrari a un’azione ravvicinata; unica eccezione l’Albini, comandante della VITTORIO EMANUELE.

L’azione a fondo venne tuttavia decisa, anche perchè Ancona doveva cadere prima che si verificasse un eventuale intervento franco-austriaco in favore del Papa, e in essa si comportò molto bene la VITTORIO EMANUELE dell’Albini che, col suo fuoco ravvicinato, fece saltare in aria la polveriera della batteria della Lanterna. Poco dopo, i difensori della città alzavano bandiera bianca chiedendo di parlamen-tare.

Malgrado il successo dell’azione, sorsero però aspre critiche nei confronti del Persano accusato di poca risolutezza e di aver seguito lo scontro finale fuori tiro. Queste critiche, che ebbero il loro più strenuo sostenitore nel Galli della Mantica, che giunse persino a fasciarsi la destra per non doverla porgere al Persano, erano campate in aria, ma contribuirono ad avvelenare vieppiù i rapporti tra gli ufficiali. Persano non poteva essere accusato di viltà, sia per la sua azione del 26/27 settembre contro lo sbarramento all’ingresso del porto, sia perchè aveva ricevuto l’ordine tassativo del Cavour di risparmiare le navi giacchè, in caso di guerra contro l’Austria, esse rappresentavano la sola forza disponibile, almeno sino a quando le unità borboniche non fossero state rimesse in grado di prendere il mare.

La Marina, dall’azione contro Ancona, ebbe gloria e onori, forse per controbilanciare le gesta di Garibaldi: il Persano venne promosso viceammiraglio e 1’Albini venne decorato di medaglia d’oro.

L’ultima azione della Marina Sarda del 1860 fu quella contro Gaeta, piazzaforte dove s’era rifugiato l’ultimo dei Borboni. Quest’azione, che vide impegnato nuovamente il Persano, si svolse tra notevoli difficoltà, specie per la presenza d’una poderosa Squadra Francese al comando del viceammiraglio Barbié de Tinan. Ad ogni modo, e questo fu un indubbio merito del Persano, le provocazioni del francese, notoriamente avverso alla causa unitaria italiana, non trovarono risposta e infine giunsero le vincolanti disposizioni di Napoleone III al suo ammi-raglio.

L’azione a fuoco della Flotta Sarda contribuì ad accelerare notevolmente la caduta della piazza che si arrese il 13 febbraio 1861 seguita, appena un mese dopo, dall’ultimo baluardo borbonico, Messina. L’unità d’Italia stava diventando un fatto compiuto.

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Sopra: La PRINCIPE UMBERTO nella foto a Genova nel 1869, classificata come fregata di I rango a elica, era in realtà gemella della pirofregata corazzata PRINCIPE DI CARIGNANO. Scafo in legno con corazza di ferro omogeneo.

STATI MAGGIORI ED EQUIPAGGI AL MOMENTO DELL’UNIFICAZIONE

Fra tutti i principali esponenti della Regia Marina appena formata, anche per le ristrette dimensioni di questo scritto, ci pare interessante soffermarci un attimo sul trinomio che sarà poi alla base della disgraziata giornata di Lissa: Persano, Albini e Vacca.

Il conte Carlo Pellion di Persano è conosciuto come "il vigliacco di Lissa", anche se successive indagini storiche hanno poi dimostrato la falsità di quest’accusa, inscenata per impedire di andare troppo a monte, circa la responsabilità della criminosa impreparazione della Flotta.

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La corvetta di I rango a elica SAN GIOVANNI, unità a vela ex-sarda traformata nel 1861/1862.

Il Persano non fu un vigliacco, ma neppure un fulmine di guerra. Tutto sommato, era un buon professionista, ma occorreva un uomo di ben altra tempra, per cementare una Squadra di caratteristiche eterogenee come quella che mise in campo il neonato Regno d’Italia. Fu un assertore del vapore, titolo di merito non indifferente in un’epoca di crisi mondiale nel campo delle costruzioni navali, ed è giusto riconoscergli, quando resse il Ministero della Marina dal marzo al dicembre 1862, di aver almeno ridotto il Programma Menabrea riportandolo entro termini, se non completamente accettabili, almeno non disastrosi.

Altro titolo di merito del Persano fu quello di non aver ostacolato, ma bensì aiutato, la spedizione dei Mille, assumendosi notevoli rischi, specie interpretando i sibillini ordini del Cavour e dimostrando, in confronto al regionalismo di tanti esponenti politico-militari del Piemonte, di saper anteporre il bene nazionale alle mire espansionistiche del Regno di Sardegna, almeno com’erano concepite dalla parte più retriva della classe dirigente piemontese.

Si comportò onorevolmente all’assedio di Gaeta e all’attacco contro Ancona, ma ebbe il grave torto di non scoraggiare le mene degli ufficiali a lui favorevoli, portando così altri germi di dissoluzione nella Regia Marina. Altro appunto che gli si può muovere è quello di aver ottenuto la promozione ad ammiraglio negli ultimi giorni del ministero Rattazzi, nel quale il Persano deteneva il portafoglio della Marina. I suoi difensori lo dicono completamente estraneo a questa nomina, ma ciò non toglie che anche questo abbia contribuito ad accrescere il solco esistente tra lui e gli altri ammiragli, segnatamente l’Albini e il Vacca.

Non fu un uomo eccezionale, fu soltanto un uomo normale travolto da avvenimenti più grandi di lui. Forse a causa delle sue amicizie (Cavour, d’Azeglio, ecc.), fu inviso a parecchi suoi colleghi che gli rimproveravano di essere un "racco-mandato di ferro". Ad ogni modo, dopo l’ingiusto trattamento riservatogli dopo Lissa, seppe comportarsi in maniera dignitosa e virile.

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Sopra: la pirofregata corazzata MESSINA che, al pari della gemella PRINCIPE DI CARIGNANO, venne progettata come pirofregata a elica e soltanto in un secondo tempo, quando ancora si trovava in costruzione, fu trasformata in pirofregata corazzata.

Altro esponente della Marina Sarda fu Giovanbattista Albini — figlio di quel Giuseppe Albini che comandò la Flotta sarda nella I Guerra di Indipendenza — tipico prodotto di quell’ambiente retrogrado creatosi con l’avvento del Des Geneys. Molto coraggioso, ma negato a tutto quanto odorava di novità, era un buon manovratore — qualità richiesta a tutti gli ufficiali della Marina Sarda della prima metà del XIX secolo — ma richiese, in odio al Vacca, il comando d’una squadra di corazzate. Tutto sommato, fu un uomo nato in un secolo sbagliato, ma si dimostrò onesto non cercando, durante il processo Persano, di dissimulare il rancore che nutriva nei confronti del suo Comandante.

Giovanni Vacca, proveniente dalla Marina Borbonica, fu un caso a sé stante. Colto e ben preparato professionalmente, era però un intrigante alla continua ricerca del proprio tornaconto: Cavour lo giudicò piuttosto aspramente. La sua adesione alla causa italiana, infatti, sapeva più di calcolo che non di fede. E questo lo dimostrò con l’insistenza con cui richiese il "premio" per la sua scelta. Di carattere venalissimo — durante la guerra del 1866 volle sempre essere pagato in oro, per compensare le perdite che allora aveva la valuta in carta — era avido di riconoscimenti e di onorificenze, tanto da lamentarsi che un ammiraglio francese non avesse ricambiato le decorazioni che, invece, il Vacca aveva conferito a lui e al suo Stato Maggiore.

Durante il processo Persano diede sfogo al suo carattere ritorto, ostentando obbiettività e reverenza, ma cercando di influenzare i giudici in senso sfavorevole al suo Comandante. Per concludere il ritratto di quest’uomo, diremo soltanto che, proprio a quei tempi, era più inviso ai suoi corregionali che non ai Piemontesi.

Gli equipaggi, sotto l’aspetto professionale, erano piuttosto carenti, specie i cannonieri e i macchinisti, ovvero quelle specializzazioni più direttamente connesse all’ondata di modernismo che aveva interessato le principali Marine dell’epoca. La chiusura della famosa scuola borbonica di Pietrarsa, trasformata in officina di costruzione, fece dipendere la Regia Marina dall’estero, sia con l’avvento di elementi ingaggiati, sia con l’invio di personale da parte dei cantieri costruttori durante il periodo di garanzia degli apparati motori.

Gli ufficiali, anch’essi carenti dal punto di vista professionale (7), erano avvelenati da rapporti regionalistici, in questo non certo aiutati dai loro superiori che tendevano a circondarsi di elementi a loro devoti. I Piemontesi vennero grandemente agevolati, mentre gli ufficiali di altra provenienza furono quasi messi in disparte. La stessa politica del Cavour non fu un modello di limpidezza: prima si rifiutò di riconoscere le promozioni di Garibaldi e di Persano durante la spedizione dei Mille — il d’Azeglio definiva tout-court "`disertori" gli ufficiali della Marina Borbonica che avevano abbracciato la causa italiana —, poi preoccupato della lunga fila di dimissioni presentate da ufficiali di sentimenti borbonici, si preoccupò di allettarli con promesse di miglioramenti di carriera. Il risultato fu che coloro, come l’Anguissola, che avevano disinteressatamente aderito alla causa italiana furono retrocessi (gli ufficiali borbonici che avevano seguito Garibaldi e diversi ufficiali della Marina Veneta del 1848 che avevano fatto domanda per entrare a far parte della Regia Marina), mentre furono premiati elementi infidi. Se a questo aggiungiamo le diversità regionalistiche, il quadro non poteva essere, come poi in effetti si dimostrò, più disarmonico e disarticolato.

 

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Le cannoniere corazzate PALESTRO (sopra) e VARESE (sotto), iscritte nel Programma Navale approvato nel 1864, vennero costruite in Francia. Completate nel 1866 (la PALESTRO nel gennaio e la VARESE nel giugno) presero parte alla III Guerra d'Indipendenza, nel corso della quale la PALESTRO si perdette a Lissa.

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I PROGRAMMI NAVALI DAL 1861 AL 1866

Cavour aveva già incluso nel Programma Navale sardo le due pirocorvette corazzate TERRIBILE e FORMIDABILE che vennero commesse in Francia e precisamente ai Chantiers et Forges de la Méditerranée a La Seyne. Cavour, inoltre, una volta deciso il trasferimento della principale base della flotta a La Spezia, conscio della notevole arretratezza in cui versava la nascente industria siderurgica nazionale, allacciò opportuni contatti con l’industriale americano Webb affinchè si trasferisse in Italia. Questi incontri non andarono a buon fine, per le eccessive pretese dell’americano, ma l’idea del Cavour dava un’esatta dimensione di quelle che erano le capacità industriali dell’Italia di allora; inoltre, avrebbe avuto il vantaggio di consentire la costruzione di unità omogenee, con minor spesa che non nel caso in cui le medesime navi fossero state assegnate all’estero. Tuttavia, a seguito delle conversazioni avute col Webb, si decise la costruzione di due fregate corazzate (RE D’ITALIA e RE DI PORTOGALLO), che vennero commesse ai cantieri Webb di New York e il cui progetto aveva suscitato consenso e interesse negli ambienti della Regia Marina

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Sopra: la pirocorvetta a elica CARACCIOLO, impostata nel 1865 a Castellammare. Questa unità in legno, che doveva essere seguita da una gemella mai costruita per insufficienza di fondi, venne impostata con il nome di BRILLANTE, poi mutato in quello di CARACCIOLO, mentre era ancora sullo scalo.

Ad ogni modo, l’opera del Cavour, Ministro della Marina dal 17 marzo al 4 giugno 1861, non si limitò a cercare di dare un indirizzo unitario alle costruzioni navali, ma si estrinsecò in una serie di provvedimenti amministrativi:

- conferma dei Dipartimenti settentrionale (Genova) e meridionale (Napoli) e istituzione del Dipartimento dell’Adriatico (Ancona), però con minori prerogative;

- miglioramento delle Scuole di Marina di Genova e Napoli; potenziamento del Corpo del Genio Navale;

- istituzione del Commissariato Navale;

- creazione del Consiglio d’Ammiragliato.

Queste norme, che probabilmente anche il Cavour giudicava suscettibili di miglioramento, non erano forse le più adatte a una Marina di così recente costituzione e il cui tessuto connettivo presentava ancora tante smagliature. In effetti, troppi organi erano decentrati, col risultato che non solo venivano creandosi vari centri decisionali (i Comandanti Generali Dipartimentali di Genova e Napoli avevano completa autonomia sull’armamento delle navi, sulla scelta dei comandanti, sulle riparazioni, sulle promozioni, sul personale, sulle scuole, ecc.), ma si tendeva a seguire una politica divisa in un momento in cui gli sforzi dovevano essere incanalati in un’unica direzione.

Morto il Cavour, dopo una reggenza interinale del generale Manfredo Fanti (4/12 giugno 1861), venne chiamato al dicastero della Marina il generale del Genio Luigi Federico Menabrea. Il nuovo Ministro, reputato un gran tecnico, partorì un Programma costruttivo addirittura cervellotico, ma che fece però la gioia dei "conservatori" che mal sopportavano l’avvento del vapore rimpiangendo sempre le bianche vele. Questo Programma, infatti, comprendeva ben trentasei unità (12 pirovascelli, 12 pirofregate e 12 pirocorvette) ma, a dispetto del numero, l’unico fattore positivo era quello d’una spesa notevolissima, spesa solo compensata dal vantaggio (sic! ) di poter vincere a mani basse la guerra navale del 1859. . . Cominciava così l’era dei Programma Navali "a posteriori" che, purtroppo, condizionerà la Regia Marina fino alla II G.M.

Fortunatamente, caduto il Ministero Ricasoli di cui faceva parte il Menabrea, il nuovo Presidente del Consiglio, Urbano Rattazzi, affidò il Ministero della Marina all’ammiraglio Persano. L’aver affidato questo dicastero a un uomo competente, rappresentò per la Marina un’insperata ancora di salvezza. Il disgraziato Programma Menabrea cadde un po’ nel dimenticatoio e, con la medesima spesa, si iscrissero a Bilancio le quattro pirofregate corazzate classe REGINA MARIA PIA, assegnate poi a cantieri francesi, che dovevano dimostrarsi tra le più valide unità della Regia Marina.

Altre unità di linea dell’epoca furono anche le pirofregate corazzate classe PRINCIPE DI CARIGNANO che, impostate sotto il Programma Menabrea, erano nate come pirofregate a elica. Ad ogni modo, le prime due unità della serie (PRINCIPE DI CARIGNANO e MESSINA) vennero trasformate mediante l’applicazione di piastre di ferro da 110 mm mentre erano ancora sullo scalo; una terza unità, la CONTE VERDE, venne invece direttamente costruita come pirofregata corazzata.

Tuttavia, la situazione che il Cavour prima e il Persano poi si trovarono ad affrontare non era delle più rosee. Infatti, oltre alla ben nota deficienza dell’industria cantieristica nazionale, si doveva affrontare anche il problema delle maestranze e degli ingegneri navali che, all’epoca, erano più degli artigiani che degli scienziati.

Poichè non era tempo di esperimenti — le relazioni austro-italiane continuavano a essere tese e una guerra era prevista a breve scadenza, come poi in effetti sarà — si dovette continuare a commettere le navi principali a cantieri esteri (bisognerà attendere il giugno 1869 per vedere, con la pirofregata corazzata ROMA, il completamento della prima unità di linea italiana), anche perchè i progettisti italiani, appunto privi d’una solida base tecnica, erano piuttosto restii dal discostarsi troppo dai canoni dei pirovascelli.

Malauguratamente, il Programma Menabrea era stato iniziato e così, nel periodo 1862/1864, vennero varate le pirofregate ETNA e PRINCIPESSA CLOTILDE, il cui denaro sarebbe stato più proficuamente speso nella costruzione della ROMA che, forse, avrebbe potuto essere pronta all’epoca di Lissa.

Tuttavia, sempre per quanto concerne la decisione di assegnare all’estero le unità principali, nasceva un altro problema, che non poteva che ripercuotersi negativamente sulle già scarse possibilità’ tecniche della Regia Marina di allora. Il commettere unità all’estero portava inevitabilmente a disporre di navi, frutto di soluzioni tecniche che poco avevano in comune con le necessità italiane, e che spesso avevano differenti prestazioni per quanto concerneva la manovrabilità, la velocità e la tenuta di mare.

 

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Le pirocorvette corazzate FORMIDABILE (sopra) e TERRIBILE (sotto), già iscritte nel Programma Navale Sardo, furono le prime corazzate con scafo in ferro entrate in servizio nella Marina Italiana. Costruite in Francia, rivelarono una serie di difetti che resero necessari una notevole mole di lavori, per consentire loro di restare ancora in servizio.

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Tutte le navi costruite all’estero, a eccezione delle REGINA MARIA PIA, non diedero i risultati sperati. Le due FORMIDABILE si dimostrarono poco marine, lente e scarsamente protette. Altro fallimento completo furono le RE D’ITALIA costruite a New York dai cantieri Webb. Queste navi, del tipo GLOIRE francese, avevano scafo in legno interamente protetto da piastre metalliche esterne (120 mm di spessore massimo al galleggiamento), artiglieria in batteria con la quasi totalit à dei pezzi ad anima rigata.

Tuttavia, malgrado queste soluzioni di avanguardia, le RE D’ITALIA avevano dei gravi difetti che si estrinsecavano principalmente nell’insufficiente corazzatura dell’opera viva e nelle pessime prestazioni dell’apparato motore che dai 13 nodi del 1864 (anno di consegna) passava agli 8 nodi di appena due anni dopo.

Altro spreco di danaro da sottolineare fu quello inerente il pirovascello a elica RE GALANTUOMO che, per raggiungere a stento i 7/8 nodi (9 nodi di progetto), dovette essere sottoposto a un’imponente serie di lavori interessanti l’apparato motore e l’elica. In un determinato momento, giova sottolineare che la nave raggiungeva appena i 4 nodi, tanto che in Parlamento fu definita "aborto di bastimento".

Tuttavia, se l’Italia di quel tempo, per quanto concerneva la Marina non poteva certo definirsi all’avanguardia, e succintamente ne abbiamo visto i motivi, con l’ariete corazzato AFFONDATORE si ebbe un momento addirittura futuristico.

Il progetto di questa nave, opera dei cantieri Millwall di Londra, era in effetti completamente rivoluzionario, in quanto conteneva soluzioni che, con gli ovvii miglioramenti tecnici delle varie epoche, saranno poi messe in pratica anche sulle navi attuali.

Il punto qualificante di questa nave era la disposizione assiale dell’armamento (II pezzi da 254 mm) in due sistemazioni brandeggiabili, una a prora e l’altra a poppa. Ciò consentiva un volume di fuoco del 100 per cento al traverso e, in caccia come in ritirata, del 50 per cento. Questo in un’epoca in cui la disposizione in batteria delle artiglierie era ripresa pari pari dai vascelli di quattro secoli prima.

Che poi l’AFFONDATORE, unitosi alla Squadra del Persano soltanto il 19 luglio 1866, ovvero soltanto alla vigilia di Lissa, non abbia dato i risultati sperati è un fatto, ma che la nave fosse frutto d’una concezione rivoluzionaria è innegabile.

 

CONCLUSIONE

La Regia Marina, come d’altronde è evidente, nacque unita soltanto sulla carta, non certo negli spiriti e nel materiale.

La ridda di Ministri che, dal 1861 al 1866, si alternarono alla sua guida — ben quattordici di cui soltanto due, il Persano e il Maggior Generale Efisio Cugia, diedero prova di competenza — non poteva dare certamente un indirizzo unita-rio, specie in quei cruciali anni.

Sotto il punto di vista addestrativo, l’opera dell’on. Alfonso La Marmora e del Luogotenente Generale Diego Angioletti, che ressero il Dicastero della Marina nel periodo corrente dal settembre 1864 al giugno 1866, fu particolarmente deleteria. Infatti, per ragioni finanziarie, l’addestramento e la preparazione tattica furono ridotti al minimo, istituendo una piccola Divisione d’Evoluzione al comando del vice-ammiraglio Vacca. In verità troppo poco per forgiare uno strumento complesso come una Flotta che, com’era nell’aria, entro un brevissimo periodo di tempo avrebbe dovuto essere impiegata in operazioni belliche.

Il principale fulcro di coesione, per ragioni squisitamente politiche, fu la Marina Sarda che, sotto l’aspetto tecnico-addestrativo, non era certo all’altezza dei tempi nuovi. Non per nulla, essa aveva cominciato a esistere come marina a remi all’epoca della vela e come marina a vela all’epoca del vapore. Quindi, malgrado i continui retorici richiami alle glorie delle Repubbliche Marinare, la Regia Marina nacque tarata per le rivalità personali e regionali, per il poco addestramento degli equipaggi, per l’obsolescenza del materiale (vedi tabella) e per la mancanza di un uomo che sapesse coagulare tutti i fermenti che l’agitavano.

D’altronde, come ha fatto giustamente notare il prof. Mariano Gabriele nel suo pregevole studio dedicato a "La politica navale italiana dall’unità alla vigilia di Lissa", come la somma delle provincie non diede subito lo stato, così la somma delle Marine non diede subito la nuova Marina. La prova del fuoco fu negativa, ma è giusto sottolineare che mancò il necessario periodo di tirocinio. Nemmeno un uomo eccezionale, e nessuno di coloro che ressero e guidarono la Regia Marina dal 1861 al 1866 si dimostrò tale, avrebbe potuto far molto; forse, sarebbe riuscito a limitare i danni, almeno quelli morali.

L’assoluta mancanza di tradizioni — le due precedenti campagne navali risorgimentali erano state troppo facili — non poteva certo rappresentare una solida base su cui edificare qualcosa di nuovo, specie se i risultati dovevano vedersi, come in effetti avrebbero dovuto, in un brevissimo lasso di tempo. Cosa ovviamente impossibile considerando che la Royal Navy, per giungere a Trafalgar, aveva dovuto attendere secoli e che Nelson, l’uomo cui va ascritto il merito della più decisiva vittoria navale della storia (Trafalgar, non dimentichiamolo, riuscì ad annullare Austerlitz, la perla di Napoleone), non rappresentava che il vertice d’una piramide alla cui base stavano Drake, Rodney, Hood, Howe e tutti gli altri che, nel corso dei secoli, avevano navigato e combattuto su tutti gli oceani.

ERMANNO MARTINO

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NOTE:

(1) Il testo del Decreto era il seguente: "Tutti i bastimenti da guerra e mercantili appartenenti allo Stato delle Due Sicilie, arsenali e materiali della Marina, sono aggregati alla squadra del Re d’Italia Vittorio Emanuele, comandata dall’ammiraglio Persano. F.to Garibaldi".

(2) Giorgio Mameli, padre del poeta Goffredo caduto ventunenne in difesa della Repubblica Romana (1849).

(3) La Divisione napoletana, al comando del Brigadiere (Commodoro) Raffaele De Cosa, si componeva delle fregate a vela REGINA e ISABELLA, delle pirocorvette ROBERTO, RUGGIERO, GUISCARDO, SANNITA e CARLO III e del brigantino PRINCIPE CARLO. Tuttavia questa formazione, che pur annoverava cinque battelli a vapore che sarebbero riusciti preziosissimi, per gli ordini di Ferdinando II dovette rientrare, malgrado l’opposizione del De Cosa che, per protesta, si dimise dal servizio.

(4) Il Persano, allora capitano di vascello, era stato posto sotto accusa nel 1853 per il naufragio, causato dall’urto contro uno scoglio, della pirocorvetta GOVERNOLO che conduceva Vittorio Emanuele II e il suo seguito a una battuta di caccia in Sardegna. Giudicato colpevole di "manovra imprudente" fu condannato a sei mesi di retrocessione, condanna poi annullata dalla Corte di Cassazione per infondatezza. Il Persano, che in un primo momento voleva dare le dimissioni, nel 1859, desiderando prender parte alla guerra contro l’Austria, accettava un comando in sottordine, quello della pirofregata CARLO ALBERTO, sebbene vantasse una superiore anzianità di servizio nei confronti del Comandante la Divisione Sarda, il capitano di vascello Tholosano. Ecco dunque spiegati i motivi degli attriti tra gli ufficiali che parteggiavano per l’uno o per l’altro dei due parigrado.

(5) La Marina Dittatoriale Siciliana, costituita ufficialmente il 5 luglio 1860 per venire incontro alle sempre piu crescenti esigenze logistiche della spedizione garibaldina, venne formata, esclusa la TUKORY, dalle seguenti navi acquistate in Francia e Gran Bretagna: AMSTERDAM (ex-francese OREGON), FRANKLIN (ex-francese BELZUNCE), WASHINGTON (ex-francese HELVETIE), VITTORIA (ex-inglese LONDON), CAMBRIA (ex-inglese), WEASEL (ex-inglese), CALATAFIMI (ex-inglese FERRET), FERRUCCIO (ex-inglese BADGER), ROSOLINO PILO (ex-inglese CITY OF ABERDEEN), INDIPENDENZA (ex-inglese INDIPENDENCE), PLEBISCITO (ex-inglese PANTHER), ANITA (ex-inglese QUEEN OF ENGLAND) e BALENO (ex-inglese FAIRY QUEEN). La Marina Dittatoriale Siciliana venne sciolta a Napoli il 17 novembre 1860 e la maggior parte delle sue unità incorporate nella Marina Sarda.

(6) La battaglia di Castelfidardo, combattuta il 18 settembre 1860 tra l’Esercito Sardo (generale Enrico Cialdini) e quello Pontificio (generale Lamoriciére) s’era conclusa con la vittoria dei primi; vittoria che aveva obbligato i Papalini a rinchiudersi in Ancona.

(7) I due comandanti che a Lissa comandavano le due RE D’ITALIA, Augusto Riboty ed Emilio Faà di Bruno, sono due esempi. II primo, uomo retto e onesto, chiedeva il comando d’una pirofregata, giustamente reputandosi più adatto a quest’incarico; il secondo, nel 1866 credeva ancora nell’abbordaggio.

Modificato da magico_8°/88
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Grazie Fabrizio, articolo di innegabile valore! Su alcune conclusioni o affermazioni si puo forse discute, ma è innegabile il pregevole approfondimento storico.

A volte mi viene da pensare che certe problematiche della F.A. trovino origine proprio in quegli anni...

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