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Lanzerotto Malocello


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Titolo: LANZEROTTO MALOCELLO

Autore: Umberto GOZZANO

Edizioni: Casa Editrice Oberdan Zucchi - Milano 

Pagine: 172

Data di pubblicazione: 1943

Prezzo: -

Reperibilità: difficile

 

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E’ la storia romanzata di Lanzerotto Malocello, commerciante e navigatore genovese di fine 1200, e della sua scoperta delle isole Canarie,  una delle quali porta ancora oggi il suo nome: “Lanzarote”.

Sulla scia dei fratelli Vivaldi, Ugolino e Vadino, avventuratisi oltre le colonne d’Ercole vent’anni prima per costeggiare l’Africa e trovare una nuova rotta per il paese delle spezie, Malocello decide di ripeterne l’impresa ma con lo scopo diverso di trovare nuove terre su cui fondare colonie per i propri commerci. La tradizione diceva che a Ostro (sud) delle colonne vi erano delle isole che alcuni marinai avevano visto e descritto con toni di grande entusiasmo. Gli antichi le avevano soprannominate "Isole Fortunate" ma di esse nulla di certo si sapeva.

Vincendo le perplessità del padre che gli ricordava come i Vivaldi fossero scomparsi senza dare più alcuna notizia, Lanzerotto, appoggiato dall’amico e compagno di viaggio Gianni Lercari, promesso sposo della sorella Piera, riesce a convincere il Comune di Genova a finanziare l’impresa e allestisce nei cantieri che si affacciano sull’arenile del quartiere di Prè una galea “bella e forte” che viene battezzata “Malocella”.

La decisione del Comune non è dettata da sterile munificenza ma ha alla base calcoli ben precisi. Genova viveva allora un periodo di profonda crisi economica dovuta a lotte intestine ed alla rivalità nel Mediterraneo con Catalani, Veneti e Turchi. La spedizione del Malocello avrebbe potuto aprire una nuova rotta, non contesa da altri, per riprendere i proficui traffici che in passato avevano portato tanta ricchezza ai Genovesi.

Costruita e armata la sua robusta galea e selezionato con criteri severissimi l’equipaggio, Malocello è pronto a partire. Il viaggio dovrà avvenire in gran segreto per non destare sospetti tra i pericolosi concorrenti di altri paesi. Così, al primo scalo alle Baleari, l’equipaggio non viene fatto scendere a terra e le provviste vengono fatte trasportare a bordo dai mercanti locali con la scusa della quarantena per una misteriosa malattia.

La seconda tappa è Ceuta (sulla costa africana di fonte a Gibilterra n.d.r.), ultimo approdo prima delle Colonne d’Ercole, dove la Malocella entra in porto issando fieramente sul calcese dell’albero maestro la bandiera di Genova. Il sultano Falù accoglie Malocello con tutti gli onori e dopo il rituale scambio di doni cerca di conoscere il motivo del viaggio. E’ incuriosito e preoccupato dalle dimensioni e dall’armamento della galea che non nasconde certo la sua attitudine alla battaglia. Malocello, però, presentatosi come ambasciatore e portavoce del governo genovese dal quale ha ricevuto l’incarico di rinnovare i contratti commerciali già in corso, afferma di essere in viaggio di esplorazione per cercare nuove terre e mantiene uno stretto riserbo che rende il sultano ancor più sospettoso. Al colloquio assiste, celato dietro un arazzo, Dominico, un rinnegato spagnolo, spia e consigliere del sultano. Quando Malocello si congeda intravede per un attimo la spia e ne fissa in mente lo sguardo furbo e maligno. Dominico intende impedire il viaggio di Malocello e al sultano che gli chiede un parere dice che, con la scusa dell’esplorazione, i Genovesi intendono in realtà appropriarsi di suoi territori per compensare il terreno perduto in Oriente ad opera di Turchi e Veneziani. L’infido Dominico riesce a convincere il titubante sultano che ordina di preparare un agguato da tendere alla nave di Malocello una volta superate le colonne d’Ercole.

I Genovesi partono, oltrepassano le colonne d’Ercole e si dirigono verso sud affrontando nella navigazione l’onda lunga dell’Atlantico per loro del tutto nuova e sconosciuta. Alle prime luci dell’alba una vedetta dà l’allarme: navi a prora!  Sono tre saettie a remi, imbarcazioni leggere e veloci che raggiungono rapidamente la galea. Le attende però un’amara sorpresa. La galea ha i bordi decisamente più alti che rendono l’abbordaggio impossibile. Perdipiù è munita di un robustissimo rostro che sfonda le loro fragili carene, ed è potentemente armata così che, dopo un rapido combattimento, due delle saettie vengono affondate e l’altra messa in fuga.

La navigazione riprende, i lievi danni subiti dalla Malocella vengono riparati ed i pochi feriti curati. Ma le sorprese non sono finite. Poco dopo viene avvistato in mare il relitto di una barca che testimonia la vicinanza di qualche terra. Ed, Infatti, presto la galea giunge in vista di una piccola isola disabitata che viene battezzata Lanzarote. L’esplorazione continua e vengono scoperte altre isole alle quali verrà dato il nome di Palma e Forteventura. Su quest’ultima, più grande e montagnosa, abitano due tribù di nativi che inizialmente si dimostrano amichevoli. Malocello decide di fermarsi. Con la collaborazione dei nativi fa costruire un forte e raddobbare la galea la cui carena, dopo il lungo viaggio, ha bisogno di essere ripulita e calafatata. Ma altre insidie si celano dietro una parvenza di tranquillità. Un emissario del sultano sbarca e minaccia dure rappresaglie ai nativi se non si solleveranno contro i Genovesi che vengono dipinti come pericolosi conquistatori. I capi delle due tribù sono titubanti, gli stranieri sono pacifici e li trattano con rispetto. Alla fine però il timore di essere uccisi o ridotti in schiavitù ha la meglio e, appoggiati dai soldati del Sultano, si decidono ad attaccare i Genovesi. La lotta si rivela impari. La potenza dell'armamento e l'abitudine al combattimento consentono a Malocello e ai suoi di far strage dei nativi che, a poco a poco, desistono e si ritirano. Ma l’attacco arriva anche dal mare dove numerose piroghe di nativi assaltano la Malocella. Anche questa battaglia è cruenta e sanguinosa ma ancora una volta i Genovesi hanno la meglio. Non è ancora finita. La saettia che si era salvata mettendosi in fuga durante il primo agguato ricompare ed impegna la Malocella in un altro violento e sanguinoso scontro. Ha nuovamente la peggio e, dopo essere stata catturata, viene data alle fiamme. Malocello osserva adesso i prigionieri, riconosce l’infido Dominico e capisce che è lui ad aver sobillato i nativi. Per chiudere definitivamente la partita invia allora due colonne di soldati verso i villaggi dei nativi che dopo un rapido combattimento si arrendono e vengono sottomessi. Forteventura è finalmente genovese, pronta a diventare una colonia della Superba. La grande impresa è compiuta. Bisogna ora portare la buona notizia a Genova e organizzare la prima spedizione di coloni. La Malocella intraprende il lungo viaggio di ritorno con non poche difficoltà. Molti dei banchi di voga sono rimasti vuoti e ci vogliono sette mesi per raggiungere Genova. Dell’originario equipaggio molti sono morti in battaglia ed altri sono rimasti come pionieri sulle isole scoperte. All'arrivo a Genova Malocello viene accolto trionfalmente e non nasconde la sua soddisfazione. E' consapevole però che non bisogna fermarsi e che occorre organizzare una nuova spedizione per consolidare la conquista delle nuove isole. Tuttavia, contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, non viene intrapresa alcuna nuova spedizione. I fratelli Vivaldi non erano stati trovati e questa circostanza, insieme ad un altro vano tentativo effettuato da altri navigatori in Egitto, raffredda gli ardori accesi dal ritorno di Malocello. Il tempo passa, la Repubblica è scossa da lotte intestine e tutto viene alla fine dimenticato. Vent’anni dopo un navigatore francese (si tratta del nobile normanno Jean de Béthencourt– n.d.r.), prese possesso delle belle isole dal nome italiano passando per molto tempo come lo scopritore del piccolo arcipelago. Dei primi pionieri rimasti sulle isole nulla più si seppe. Furono abbandonati al loro destino ed anche Malocello ed i suo amico Lercari, amareggiati dagli accadimenti, rinunciarono ad ulteriori viaggi. Il loro nome però non è stato dimenticato e lo stesso Petrarca in un suo scritto ricorda la coraggiosa impresa con queste parole: “…colà a memoria dei nostri padri approdava una flotta di guerra genovese”.

L'opera del Gozzano è un libro che scorre piacevolmente anche se le notizie storiche si rivelano in parte lacunose e non sempre del tutto attendibili. Il suo maggior pregio è, tuttavia, quello di aver ben rappresentato le caratteristiche della marineria nel periodo tra la fine del 1200 e gli inizi del 1300 in cui a far da protagonista troviamo la galea.

Le galee erano le maggiori navi da battaglia di quel tempo e rappresentarono per vari secoli le tipiche imbarcazioni guerriere del Mediterraneo. Avevano uno scafo lungo e snello della lunghezza di cinquanta metri per una larghezza di sette metri. Sul ponte erano sistemati i banchi per i rematori, trenta per lato, disposti in modo tale che ciascuno potesse ospitare tre vogatori. La galea era detta “a terzarolo” (quando i rematori manovravano ciascuno un remo) o “a scaloccio” (quando i tre vogatori dello stesso banco azionavano lo stesso remo).

L’autore si lancia poi in una dettagliata descrizione delle caratteristiche della galea e degli uomini che formavano l’equipaggio utilizzando termini che sinceramente, sino alla lettura del libro, poco o per nulla conoscevo. A fianco di termini conosciuti come chiglia e diritti di prora e di poppa, timone, castello di prora, castello di poppa, etc. sono comparsi termini come “steminare” (elementi che fanno parte della struttura dello scafo), “soprasalienti” (in pratica soldati della fanteria di marina dell’epoca che imbarcava in tempo di guerra nel numero di circa una compagnia trovando posto a prora, armata di balestre, addetta all’abbordaggio e comandata da un capitano, da un alfiere e quattro caporali); “sopracomito” (era il comandante della galea, posizionato accanto al timoniere sul cassero di poppa, al di sotto del quale, nella parte più nobile della nave, si trovava la cabina del “Capitano” appellativo destinato al capo della spedizione); “comito” (il comandante in 2^); “sottocomito” (due sottordini, uno addetto alle vele e l’altro agli alberi ed alla ciurma). Tra le cd. maestranze si incontrano nomi curiosi come barilaro, remolaro, paggi (quest’ultimi erano una specie di mozzi, chiamati anche, in tono canzonatorio, scannagalli), barbiere (la cui inaspettata particolarità, oltre all’intuitivo compito principale, era il disimpegno dell’ulteriore mansione di medico di bordo!).

L’equipaggio normale di una galea era di 300 uomini, due terzi dei quali erano addetti alla voga. E qui si apre un capitolo di sorprendenti notizie per il profano:  la cosiddetta “ciurma al remo” in origine era formata da uomini liberi. Solo successivamente venne sostituita da prigionieri di guerra o da colpevoli di gravi delitti che erano stati condannati al remo (da qui nasce l’appellativo di galeotto usato come sinonimo di detenuto). La vita dei rematori non era esattamente una passeggiata di salute: la ciurma, infatti, veniva legata ai banchi e lì restava per tutta la durata del viaggio. L’orario di lavoro non era da soggetti sindacalizzati: 12 ore filate, cibo scarso e scadente, sferzate dell’aguzzino che faceva la spola lungo la corsia per controllare che la voga non avesse interruzioni o rallentamenti. Come se ciò non bastasse i rematori non potevano parlare e per questo dovevano tenere la bocca impegnata con un tappo stretto tra i denti. Ma, come abbiamo visto, tra i galeotti potevano esserci uomini liberi. Erano i cosiddetti “Buonavoglia” (una definizione che la dice lunga sullo spirito che li sorreggeva), poveri disgraziati che per miseria trovavano ingaggio sulle galee. Tuttavia, nei loro confronti la disciplina era meno crudele, non dovevano portare il tappo in bocca, avevano cibo migliore e la sera venivano slegati per consentir loro di dormire distesi.

Per quanto riguarda invece le armi di cui era fornita la galea l’autore ne cita una vasta gamma, i cui nomi in alcuni casi mi sono inizialmente apparsi misteriosi: Oltre alle ben conosciute catapulte, mi sono imbattuto in altri nomi inconsueti quali mangani, baliste e scorpioni. Per scoprirne il significato mi è venuto in aiuto il buon abate Guglielmotti dal cui vocabolario marino e militare edito nel 1889 ho verificato che catapulte, mangani e baliste fanno parte tutti delle c.d. artiglierie da corda, con queste differenze: “la Balista lanciava mazzi di saette a strage, la Catapulta travi ferrate a squarcio, ed il Mangano spingava sassi e macigni a conquasso” Manca lo scorpione ma anche qui il Guglielmotti si è rivelato un prezioso maestro definendolo: “Antica macchina militare e manesca, da lanciare una o due saette piccole, acutissime, mortifere.- d'onde il suo nome. Lo scorpione era pur detto Manubalista: e si adoperava, come la balestra, da un solo soldato. Lo Scorpione, nella decadenza e sturbo del medio evo, confuso coll'Onagro, si maneggiava da quattro e più soldati, e lanciava sassi, e lunghi dardi incendiari”.

In definitiva, per chi riesca a trovarne una copia, posso affermare che non si rimane delusi dalla lettura di questo libro, fonte di interessanti spunti per approfondimenti e ricerche.

In conclusione lasciatemi ora confessare che questa recensione vuole essere l’affettuoso omaggio ad un ex sottufficiale segnalatore della Marina Militare che da poco non è più con noi. Da giovane aveva sposato la figlia di uno dei librai storici di Taranto e dopo il peggioramento delle condizioni di salute della moglie aveva preso in mano le redini dell’attività pur consapevole delle difficoltà di gestione di una libreria dalle tradizioni illustri. Ma come in genere accade tra coloro che provengono dalla “grande silenziosa” aveva saputo condurre con impegno e maestria anche questa attività per lui inconsueta. Di qualunque testo avessi bisogno, romanzo, saggio, libro scolastico o universitario, lui immancabilmente lo tirava fuori o, se non presente in negozio, ma ciò accadeva davvero raramente, dava incarico ad uno dei suoi collaboratori per farmelo arrivare in pochissimo tempo. Naturalmente in libreria c’era una sezione dedicata ai libri di storia militare e della Marina in particolare, che curava di persona in modo competente e meticoloso. Ne parlavamo spesso quando andavo a trovarlo nei miei pomeriggi di “franchigia” discutendo di questo o quel libro e dei rispettivi autori. Quante storie, quanti aneddoti ho ascoltato mentre mi mostrava interessanti fotografie scattate durante i suoi periodi di servizio a bordo (Montecuccoli, Abba, Altair) e a terra (scuole CREM di Taranto nel 1946, Varignano per il corso sommozzatori con la M.O.V.M. Marino come istruttore, Vesco comandante e Badessi vice). E quanti libri, anche fuori catalogo, mi ha procurato (tra i quali alcuni della prima edizione della Storia della Marina a cura dell’USMM). E quanti piccoli omaggi ogni volta che mettevo piede in negozio. Questo libro su Malocello è uno di quei regali. Fa parte di un’intera collana formata da altri quattro libri che una sera decise di regalarmi. Libri tutti dedicati a grandi navigatori italiani: Antonio Da Noli, Giovanni da Verrazzano, Nicolò Zeno, Nicoloso Da Recco. Nomi ben conosciuti nella Marina italiana, non solo per il valore dei personaggi ma anche perché a loro furono dedicate le unità della Classe “Navigatori” costruite negli anni 30 per la Regia Marina. Mi sono convinto che non fu un caso che avesse deciso di regalarli proprio a me con cui anche di quelle navi aveva parlato. Era certo che sarebbero finiti in mani sicure, che li avrebbero sfogliati per essere letti, apprezzati e custoditi, con cura e con rispetto. Sapeva che la loro sorte non sarebbe stata far da spessore alla gamba di qualche tavolo claudicante.

Grazie Capo, mi piace chiamarti ancora così, come in Marina, per la tua gentilezza, per il tuo garbo e per quella spontanea simpatia che mi dimostravi accogliendomi in negozio con larghi sorrisi e l’espressione contenta di chi rivede un vecchio amico, sentimenti che la comune radice marinara rendeva ancora più apprezzati. Ora che sei lassù non potrò più trascorrere quei miei piacevoli pomeriggi tra l’odore dei tuoi libri e le nostre chiacchierate. La libreria ha chiuso, per sempre, lasciando un vuoto incolmabile in tutti coloro che, anche grazie a te, ne avevano fatto un punto di riferimento sicuro, prezioso e indimenticabile.

Modificato da Rostro
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  • 1 month later...

Rostro parla si romanzo storico, benchè accurato. Per chi volesse trovare altre notizie, suggerisco "Le Americhe annunciate; viaggi ed esplorazioni prima di di Colombo, a cura di Ilaria Luzzana Caraci, Diabasis, 1991 con i contributi di numerosi docenti universitari ee ampia bibliografia, mappe d'epoca ecc.. Per quanto riguarda Lanzarotto, il saggio di Pietro Barozzi (che ammetto di avere scorso alquanto in fretta, perché sto consultando il libro per altre ragioni) mette in luce che non si può parlare di colonia genovese (ALMENO COME INTENDIAMO NOIA IL TERMINE COLONIA), ma di concessioni o tappE per viaggi ulteriori o luoghi di scambio commerciale.

Nessun cronista e nessuno storico genovesi parlano di Malocello e della sua scoperta, il che fa dedurre che non ci fosse interferenza da parte del governo nè di privati genovesi all'impresa di Maloncello, tanto più che un possedimento in Canaria nn avrebbe avuto significato per Genova, ma semmai per la penisola iberica.

Tutto fa pensare, inoltre, che Malocello sia partito non a fine '200, ma nel Trecento avanzato.

Quanto a Lanzarotto, resta il buio assoluto sulla sua persona. Se ne conosce la famiglia, certo di origine genovese, forse polceverasca, ed alcuni degli esponenti.

Più importante nella conoscenza di queste isole fu però un altro genevese, Nicoloso da Recco, che col fiorentino Angiolino del Teggia de' Corbizzi nel 1341 guidò una spedizione portoghese, lasciando il trattatello De Canaria.

Torno comunque a quel che stavo cercando io e  nel caso raccomando l'imponente bibliografia (10 pagine fitte fitte, ) in calce al libro.

 

Modificato da malaparte
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