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a bordo con i racconti di un sommergibilista


ammiraglia88

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Come state cari Comandanti di Betasom?

Io bene, anche se sono sempre indaffarata (lavoro, casa, familiari) e mi dispiace molto (diciamo pure che "ne risento") che non posso purtroppo dedicarmi come vorrei (per mancanza di tempo) al forum e alle mie passioni.

Non sto a dilungarmi, so che il tempo è sempre tiranno per tutti, e arrivo subito al punto. 😁

 

Ogni tanto mi scrive un signore di una certa età che è stato sommergibilista (scrive a me e ad alcuni amici e compagni di corso). Gli ho già segnalato il forum, ma non mi ha detto se l'ha visto ancora. Ora ha pensato bene di raccontarci un po' di aneddoti e di vita di bordo.

Vi copio la sua e-mail perchè è "fortissima". 😜  Chi è stato sui sommergibili penso che riconoscerà varie cose (e spero gli farà piacere) e a chi, come me, non ci ha vissuto penso che piacerà comunque leggerla, anche perchè è scritta in modo simpatico. A me è sembrato di rivedere e sentire tutto ... sarò mezza matta io (per le cose "navali"),   😜       ma secondo me descrive bene le cose.

 

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Cari tutti,


 

(...)


 

Mancano gli odori e i rumori, ma la tecnologia non è ancora capace di riprodurre gli odori e per i rumori potrei imitarli con la bocca, ma preferisco descriverli a parole.

Entrambe le sensazioni si manifestano con caratteristiche e intensità diverse secondo il tipo di navigazione e il locale nel quale vi trovate.

 

 

Odori:

 

Un odore di fondo permea il sommergibile in permanenza: gasolina più batteria. L’odore della gasolina è quello che potete annusare quando fate rifornimento, se avete una macchina Diesel. Quello della batteria è più difficile da descrivere: è un odore acre, ma non intenso dovuto all’acido solforico che riempie gli elementi al piombo. La miscela è potente ma non sgradita alle narici di un sommergibilista. Io ho una barca a vela con motore ausiliario diesel. Nella cabina ha sempre aleggiato quest’odore dovuto a qualche minima perdita nel vano motore, attiguo alla cabina.E’ un odore familiare che non mi ha mai disturbato. E’ invece una vera ossessione per ogni altro essere umano che frequenti la mia barca. Mio figlio *** e mia nuora che oggi ne hanno la gestione, stanno facendo i salti mortali per eliminare quell’odore. Se mai ci riusciranno, non riconoscerò più la barca come la mia Nessie.

 

In immersione, man mano che passa il tempo, vanno ad aggiungersi altri odori, per primo quello sommamente sgradevole degli avanzi di cibo. E’ un cocktail di odori diversi sui quali primeggia quello delle bucce d’arancia. Roba da vomitare al solo pensiero.

 

L’altro è l’odore di umanità.

 

Seguitemi in questa immersione. Vi parlerò di odori, di rumori. E d’altro.

 

Si esce in mare e quando è il momento, ci s’immerge. A quota periscopica in camera di manovra e in torretta sono accese solo flebili luci rosse. Poi ci si immerge a quota profonda. Dopo qualche ora, la pressione interna al battello comincia ad aumentare per gli inevitabili sfoghi d’aria di qualche utenza, compresi i pozzi neri.

 

La temperatura e il grado di umidità cominciano ad aumentare rendendo la pelle umana sgradevolmente appiccicosa. Uno studio condotto dalla Marina americana ha stabilito che il nervosismo causato dall’astinenza dal fumo è più dannoso dei danni causati dal fumo stesso. Ogni due o tre ore dalla torretta arriva in tutto il battello la comunicazione: “E’ consentito fumare una sigaretta.” E cento sigarette si accendono contemporaneamente, diffondendo nell’atmosfera una nebbiolina azzurrognola che impasta il suo contenuto corpuscolare con tutto il resto già presente. Se è l’ora di pranzo o di cena, chi è libero dalla guardia si stravacca in quadrato e attende il cibo che, di qualunque origine sia e con qualsiasi preparazione, sa inesorabilmente di sommergibile. Finito di cenare, si fa un giro di China Martini, una bevanda orribile che inspiegabilmente ha preso stabilmente piede sui battelli. Dopo cena è obbligatoria una partita a bridge che è seguita da discussioni che terminano solo quando uno dei giocatori deve salire di guardia. E’ rituale che se chi si alza ha perso la mano, si rivolga al compagno con aria stizzita e gli dica: “Ho capito! Non hai capito nulla!” o qualcosa del genere. Se è il vostro turno di riposo, vi stendete sulla vostra cuccetta umidiccia e abbracciate il cuscino spennacchiato cercando di dormire. Le voci della guardia vi giungono attutite dalla camera di manovra: “Quota 180”, “Pari avanti adagio”, “Mare compenso 500”. Da prua l’ecogoniometrista scandisce: “Eliche veloci in avvicinamento.” Se siete a tiro di qualche fregata che vi sta cacciando, il pling pling cadenzato dell’astic vi fa ringraziare il Cielo che non siamo in guerra.Quando ci è sopra, la fregata lancia a mare delle piccole bombe da esercitazione che esplodono con un rumore sordo.

 

Se l’immersione si prolunga oltre le venti ore, comincia ad aumentare il tasso di anidride carbonica.Chi non è di guardia è mandato a dormire per risparmiare ossigeno. Un dolce torpore s’insinua nella mente. Non è spiacevole. Poi occorre venire in superficie.

 

Non è prudente emergere. Ci si ferma a quota snorkel, si alzano le canne e si avvia uno dei motori diesel. Per rendere più rapido il ricambio d’aria, si scende di mezzo metro, in modo che la valvola attraverso la quale si aspira l’aria, finisca sott’acqua e si chiuda. Il motore aspira tutta l’aria del sommergibile e avviene il miracolo: la pressione nel battello diminuisce repentinamente e così la temperatura. Se soffri di raffreddore, ti passa immediatamente: cosa da non credere, Poi si risale alla quota corretta, la valvola si riapre e temperatura e pressione tornano normali. Se soffrivi di raffreddore, ti ritorna con la stessa velocità con la quale ti era passato, ma ora l’ossigeno entra abbondante nei polmoni attraverso i bronchi, il frastuono del motore ti mette allegria. Tutti sorridono e avresti voglia di abbracciare il fuochista di guardia alla tastiera assetto.

 

Se invece è una notte tranquilla e non ci sono navi nei paraggi, si emerge. Si apre il portello della torretta e se si può, si sale in controplancia, all’aperto. Quando la testa emerge dalla mastra del portello, ecco il miracolo: l’aria ha sentore di melone. Solo noi in tutto il mondo sappiamo che l’aria sa di melone. Respiriamo a pieni polmoni e se la notte è serena, guardiamo le stelle che sono tantissime, alcune, grandi, disegnano nel cielo le figure delle costellazioni, altre piccolissime, polvere di stelle, vanno da nord est a sud ovest, donandoci lo spettacolo della Via Lattea.

 

Avete capito perché noi dei sommergibili, siamo segnati per la vita?

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Ho tolto alcuni nomi e parti perchè non gli ho ancora detto che l'avrei copiata (in parte) qui ... è un'idea che mi è venuta dopo che gli avevo già risposto (dopo aver riletto la sua e-mail per la terza volta! Troppo simpatica!)

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Così, per curiosità, la mia risposta "veloce" è stata questa:

 

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Bruno ... sei fortissimo!
Complimenti per la "simpatica" descrizione.
 
Odori
hai reso bene l'idea ... non ci tengo a conoscerli. Mi dispiace che tuo figlio voglia togliere quell'odore particolare a Nessie, immagino quanto ti sia familiare. Io tifo per te e Nessie, spero che non ce la facciano a toglierlo.
 
Umidità ... odiosa. Se c'è una cosa che non sopporto è il sudare e soprattutto essere appicicaticci ... non oso immaginarvi lì dentro ... è chiaro che fare la sommergibilista non sarebbe stato per me ah ah ah ah
Non vi invidio!
 
Un po' forse "inquietante" essere sempre "aggiornati" sulla situazione: il sentire comunque i vari comandi che vengono dati. Bello sapere tutto, ma mentre magari vorresti riposare e non pensare che sei sotto acqua a chissà quale profondità ecc ecc ...
Bella comunque la descrizione ne fai, sembra di essere lì!
 
Emoziante arrivare in fondo alla descrizione e finalmente poter salire in torretta (in emersione) e "vedere" ... sei riuscito a "farmi letteralmente vedere" il panorama che vi si presenta.
Bellissimo!
Bellissimo soprattutto il tuo "allegro" racconto. Grazie.
 
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Poi, come dicevo, ho riletto quel racconto altre tre volte ...
Ha anche un bel modo di scrivere, "simpatico" ed in più riesce a farmi immaginare molto bene ogni scena.
 
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Una breve parentesi ... oggi non siamo su sommergibili, ma sul "mio" Vespucci. Vi copio una bella descrizione che ha fatto e che ho appena letto.

 

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(parla di un suo superiore un po' "tosto")

 

A bordo del Vespucci, non so per quale mancanza, mi aveva inflitto quella che per lui doveva essere una severa punizione, che fu invece una delle esperienze più belle mai vissute. La punizione consisteva nell’andare sulla delfiniera e là restare finché non mi avesse richiamato. Per chi non lo sapesse, la delfiniera è la rete che si vede stesa ai lati del bompresso.

Era un pomeriggio di vento leggero e il Vespucci navigava placidamente nelle acque del mare di Alboràn. Io mi stesi sulla delfiniera a pancia in su, in attesa del richiamo e della ramanzina annessa.

Poi scese una sera di luna piena. Un gruppetto di marò si accoccolò con una chitarra alla radice del bompresso e qualcuno cominciò a cantare con voce flebile ma abbastanza intonata, le solite canzoni napoletane. Il nostro si era dimenticato di me.

I marò andarono a dormire e più tardi la luna tramontò. Io rimasi solo sotto un cielo stellato come a quelle latitudini capita di vedere. Nessuno che non l’abbia sperimentato, può immaginare che cosa sia il lento beccheggio di un veliero, il sommesso brontolio dell’acqua che si rovescia ai lati della prora in piccole onde che si propagano, prolungandosi nella scia che la nave lascia di poppa. Il rimescolio dell’acqua disturba le noctiluche che lanciano i loro gridolini luminosi come fossero cascate di diamanti e sembra che la nave avanzi in un mare di schegge di cristallo.

Mi sentii parte infima ma cosciente di questo immenso Universo, profondo e incomprensibile e guardavo la striscia obliqua della Via Lattea: miliardi di stelle abbracciate con un unico, breve girare degli occhi. Avvertivo un brivido, non so se per il fresco della notte o per l’emozione. Altre volte, in futuro, proverò sul mare notturno le stesse emozioni, acciambellato nel pozzetto della mia amata Nessie….

 

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Ragazzi, sapete cosa ho scoperto oggi? 😍

 

Recentemente ho scritto a Bruno specificatamente per dirgli che ho pubblicato due parti delle sue e-mail (i racconti) e che c'erano alcune risposte. Gli ho accennato quindi un po' più di voi e di Totiano (che ha risposto per primo).

Oggi ho scoperto che ...

 

Bruno ha visto fondere l'elica del Toti  😮😜

Incredibile! Vero? Avete letto bene!

A qualcuno in particolare   😉   penso che possa interessare "sentire" il suo racconto. Non mi perdo in chiacchiere ve lo copio subito qui sotto.

 

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Venendo a giorni meno lontani, ma di poco, puoi dire al tuo amico Totiano che io ho visto fondere l’elica del Toti. 


 

Se non ricordo male, era l’anno 1968.

 

Per descrivere con toni appropriati quell’operazione metallurgica ci vorrebbe la penna di Omero, quando narra dell’antro di Efesto e delle armi di Achille, o quella di Benvenuto Cellini, quando descrive la fusione del Perseo.

 

Io m’ingegnerò come posso. Sono passati più di cinquant’anni e come spesso capita, dopo tanto tempo i fatti e i volti si fondono o si frantumano in schegge che la memoria ricompone come fa con gli spezzoni dei sogni, cercando un filo razionale che li colleghi, anche quando questo filo non c’è.

 

Il progetto e la commessa per quell’elica erano stati affidati al Signor Radice, uomo geniale e dal carattere facilmente irritabile. La ditta Radice S.p.A. è tuttora viva e vegeta a Sesto San Giovanni.

 

L’oggetto non era di facile fusione perché le pale, per diminuire il rumore, si sovrapponevano l’una sull’altra come i petali di un’orchidea Phalenopsis.

Chi l’avrebbe fusa doveva sapere il fatto suo, così come il Signor Radice che l’aveva scelto.

Quando venne il giorno della fusione, Radice mi comunicò l’indirizzo: Fonderia Albinese, Albino Bergamasco.

 

Non ricordo la via, ma a quel tempo non esisteva il GPS e a furia di chiedere, mi ritrovai entro un vicolo delimitato da due muri di sassi di fiume. Credevo di avere sbagliato indirizzo, ma per girare la macchina dovevo comunque arrivare alla fine del vicolo e fu così che mi ritrovai davanti alla Fonderia Albinese: un capannone fatiscente con un portone sgangherato.

 

“E’ qui che si fonderà l’elica di un sommergibile?” “E’ qui!”

 

Conoscevo il Signor Radice e la sua serietà professionale, altrimenti me ne sarei tornato a casa. Invece entrai.

 

Tutte le fonderie sono ambienti polverosi e fumosi ma quella era speciale: sembrava non avesse finestre. Il buio era rotto solo dal rosseggiare corrusco di alcune staffe poggiate sul pavimento. La forma dell’elica era stata creata in una profonda fossa dalla quale emergevano solo gli sfiatatoi e il foro attraverso il quale sarebbe stato colato il bronzo.

 

Mi misi in un angolo e attesi.

 

Come in una processione, si avvicinò il crogiolo accompagnato dal salmodiare di alcuni uomini che emettevano suoni gutturali e fortemente aspirati, sovrastanti il rumore di fondo, già assordante.

 

Il crogiolo emetteva una luce di un bel colore arancio e una miriade di scintille usciva dalla bocca, andando a spegnersi nella buia profondità del capannone. Fra gli uomini, ce n’era uno che sovrastava per autorità tutti gli altri. Era evidentemente il maestro della cerimonia.

 

Si avvicinarono alla fossa e si arrestarono. Il tempo rimase sospeso per lunghi minuti e se ci fosse stata una mosca, certamente avrebbe smesso di volare. Il bel colore arancio virava impercettibilmente verso un intenso rosso ciliegia. Fu allora e solo allora, quando la tonalità del rosso gli parve quella giusta, che il capo uscì con un urlo che voleva dire “ora”.

 

 Il becco del crogiolo s’inclinò lentamente e cominciò a versare metallo liquido dentro il foro. L’operazione durò qualche minuto.

Lo spettacolo era finito ed io tornai verso casa.

 

Le successive operazioni di distaffaggio, molatura, lucidatura, molto interessanti per l’occhio di un tecnico, furono prive di poesia e alla fine, per far raggiungere all’elica la sua destinazione finale, i due muretti del vicolo furono abbattuti.

 

Il vivo ricordo di quel giorno ha stimolato la mia curiosità ed ecco che cosa ho trovato.

La Fonderia Albinese esiste anche oggi, condotta dei figli di quel signor Giovanni Mismetti che giudicava dal solo colore del crogiolo quando era il momento di colare.


 

Altri tempi, altre strumentazioni, altri uomini.

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Grazie Roberta, e ringrazia il sig Bruno per lo stupendo aneddoto.

Probabilmente ha spostato di un paio d'anni l'evento, ma non ne faccio certo una colpa, anzi! 

Lo spettacolo di una fusione è sempre affascinante ma immagino cosa possa essere assistervi la prima volta, se poi si aggiungono gli ingredienti di un antico sapere c'è da andare in estasi! Immagino fosse li per conto della Marina, quindi era destinato a Marinalles Monfalcone in quel periodo e l'incarico non era da poco perchè il MIBRAL S, metallo di cui era composta l'elica, sembra non fosse di semplice gestione

Gusto per capire di chi stiamo parlando, perchè l'elica è una entita vivente, ecco una foto con un giovane e orgoglioso Direttore di Macchina

elica.jpg

mentre, per il sig Bruno, un video che vede il Toti sullo scalo nel 1967, culminante con il varo (Come sapete ce ne sono molti altri al link Audio e video (delfinidacciaio.it)

 

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Bruno ci legge, perchè gli ho segnalato la pagina della discussione.

Mi ha anche autorizzata a "girarvi" altro materiale, quindi ... a breve vi riporterò qualcos'altro di interessante. Queste erano di sicuro le cose più curiose ed interessanti per chi è stato (o è) sommergibilista.

 

Questo racconto dell'elica è veramente affascinante. Vedevo la scena e pensavo all'importanza di quel momento e alla bravura di questi "maestri". 👏

 

Interessante quel filmato aggiunto da Totiano, utilissimo per capire meglio. E poi è stato bello anche vedere proprio le lavorazioni del Toti. Grazie.

 

Mi piace quella foto di quell'orgoglioso Direttore, rende l'idea delle proporzioni dell'elica. 😮

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  • 2 weeks later...

Sto "preaprando" il materiale da farvi leggere, su autorizzazione di Bruno (che ci segue ... a quota snorkel e controlla tutto con il periscopio).

Iniziamo con le "mappe" del sommergibile Torricelli (disegnate da Bruno).

 

20210331_daBruno_Torricelli_mappa.pdf

20210406_daBruno_Torricelli2_mappa.pdf

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Iniziamo ... dall'inizio dei racconti di Bruno (che risalgono a più di un mesetto fa ).

 

Care e cari tutti,

oggi vi racconterò una storia di mare e di paura.

 

Se guardate il disegno dello scafo resistente sezionato che vi ho mandato qualche giorno fa, noterete che fra un locale e l’altro c’è un diaframma con una porta stile caveau delle banche.

Il diaframma, così come la porta, è resistente alla massima profondità di progetto del sommergibile.

Nella mente dei progettisti, se un locale si dovesse allagare, il resto del battello resterebbe all’asciutto e tutti tornerebbero a casa col sorriso sulle labbra, cantando l’inno dei sommergibili. 


 

Questa sembra un po’ la storia di Cappuccetto Rosso quando arriva il cacciatore che apre la pancia al lupo cattivo e tutti vissero felici e contenti. 


 

Avete capito che qui si dovrebbe parlare del recupero dell’equipaggio in caso d’incidente. 


 

La cosa in teoria potrebbe funzionare se il sommergibile fosse tanto gentile da allagarsi al centro e andasse a posarsi su un fondale sui quaranta metri, con una pendenza non superiore ai dieci gradi. Un fondale fatto proprio apposta. 


 

Simulando questa situazione, ogni anno uscivamo in apnea dal fondo di una torre alta tenta metri, piena d’acqua: è semplicissimo. Sul fondo della torre c’è una garitta con due porte: una dà verso l’esterno e l’altra, verso l’interno della torre. Dopo essere entrati e aver chiusa la porta, si apre una valvola sul fondo. L’acqua entra comprimendo l’aria nella garitta fino all’equilibrio, quando la pressione all’interno raggiunge le tre atmosfere e l’acqua arriva alla gola. Allora si apre la porta verso la torre e ci si butta fuori tenendo la bocca aperta. Poi tutto avviene senza dover fare nulla: l’aria a tre atmosfere nei polmoni esce in continuazione mentre si risale. E’ una sensazione fantastica. Non c’è alcuna sensazione che manchi l’aria, come succede quando ci s’immerge in apnea e ci si ritrova in superficie, freschi come una rosa. 


 

 Per quanto ne so, nella realtà non è mai andata così. 


 

Quelli del Thetis sono crepati quasi tutti in una spanna d’acqua, per mancanza d’aria in un battello con un solo locale allagato, con tutti i mezzi di soccorso lì attorno. 


 

Diversi furono tutti gli altri casi a me noti. Porto l’esempio del Turkutresh, sommergibile turco che conoscevo, che fu urtato a prora da una petroliera. Non si sa se le porte stagne fossero chiuse, ma non avrebbe fatto alcuna differenza. L’allagamento della camera lancio avanti avrebbe compromesso l’assetto. Il sommergibile avrebbe forse mostrato le eliche che giravano a vuoto nell’aria per qualche istante poi, come dice Dante, la prora ire in giù.


 

Prima di raccontarvi una storia finita bene, devo ancora parlarvi di pericoli e sicurezza. 


 

Quando si caricano le batterie, si sviluppa idrogeno. Oltre una certa concentrazione, la miscela aria idrogeno è esplosiva. Per questo motivo i locali delle batterie sono ventilati in continuazione. L’aria aspirata passa in un collettore dov’è montato un analizzatore che segnala la concentrazione d’idrogeno proprio davanti al naso dell’Ufficiale di guardia e ai quadri, a poppa, poi passa in un bruciatore catalitico che brucia l’idrogeno. Tutto sicuro, quindi. 


 

Una notte il Torricelli stava navigando a snorkel con un po’ di mare. Io ero di guardia e assieme ai due siluristi ai timoni orizzontali e al fuochista alla tastiera assetto, mantenevo il battello alla giusta quota e in assetto, quando l’occhio mi cadde sull’analizzatore d’idrogeno. Aveva cominciato a girare come un ventilatore. Prima di capire che cosa stesse succedendo, vidi arrivare da poppa Capo ***, che come un corridore dei cento dieci a ostacoli, saltava le porte stagne sfoggiando uno stile perfetto: abbassava la testa, gettava avanti una gamba col braccio opposto indietro, piegato al gomito, ritirava l’altra gamba e riprendeva a correre. Passò come un fulmine attraverso la camera di Manovra e sparì oltre la porta che dava sul locale della batteria avanti. Dopo pochi secondi l’indice dell’analizzatore d’idrogeno cominciò a scendere e Capo ***, il Secondo Capo Elettricista di guardia ai quadri, riemerse dalla porta stagna. 


 

Anche lui aveva visto salire la concentrazione d’idrogeno e conoscendo i locali delle batterie come le sue tasche, aveva intuito cos’era successo. 


 

Non dico che la sua prontezza di riflessi abbia salvato il battello, ma certamente Capo *** aveva bloccato sul nascere una situazione potenzialmente molto pericolosa. 


 

Una valvola sulla tubazione della ventilazione si era chiusa da sola. Nessuno è riuscito a capire come e perché, ma tutti hanno capito che distrarsi su un sommergibile non è consentito. 


 

Quella notte non ebbi alcuna reazione, ma il giorno dopo, ripensando all’accaduto, vomitai.

Era la terza e ultima volta che mi capitava da quando ero in Marina.

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Bruno prosegue con i racconti ...

 

 

Eccoci all’interno della camera di lancio avanti. 


 

Assieme all’omologa camera di lancio addietro è il regno di una specie che oggi credo sia estinta: quella dei Siluristi. 


 

Il Silurista faceva a gara con il Cannoniere per conquistare la palma di più ignorante dell’universo marittimo. Guardate i casi della vita: nell’Esercito gli Artiglieri passano per essere l’Arma colta, quasi per definizione. In Marina, i parenti più stretti degli Artiglieri che sono appunto i Cannonieri sulle navi di superficie e i Siluristi nei sommergibili sono invece assurti a sinonimo di persone ignoranti come ciuchi. Eppure a questa categoria appartenevano R**** e M****, i due timonieri d’attacco a me carissimi, dei quali parlerò quando saremo arrivati in Camera di manovra. 


 

D’ora in poi, userò l’indicativo presente invece dell’imperfetto perché guardando queste figure e ricordando, mi sembrerà di essere là hic et nunc.


 

Un’altra licenza poetica è dovuta al fatto che dei cinque anni trascorsi sui sommergibili, quasi uno l’ho passato sul Da Vinci e che sui battelli il personale si avvicendava quasi ogni anno. Alcune persone che citerò come fossero state a bordo contemporaneamente, in realtà lo sono state in tempi diversi. 


 

Tornando alla Camera di Lancio Avanti, i siluristi dormono a stretto contatto con i loro siluri. E’ un rapporto simbiotico. Gli uni non possono esistere senza gli altri e viceversa. (…) I siluri di riserva sono stivati sotto le cuccette e in un pozzetto centrale al quale è stato tolto il pagliolo di copertura per mostrare i siluri.

Al centro troneggia la garitta così detta di salvataggio della quale ho diffusamente parlato nello scritto sulla sicurezza. E’ utilizzata come via d’uscita normale in porto.

All’estrema sinistra verso poppa, c’è la stazione dell’ecogoniometro della quale pure ho parlato in uno scritto precedente. Per vostra conoscenza, sotto e sui fianchi del pozzetto si trovano il Doppio Fondo 1 e la Cassa Assetto di Prora. La conseguenza è che in questa parte del battello lo scafo resistente non è più a sezione circolare, ma ha una sezione quasi ellittica col fondo piano. Chi ha qualche nozione di Scienza delle Costruzioni, sa che cosa ciò voglia dire. 


 

Vi consiglio di guardare la figura della Camera di Lancio a pieno schermo. Vi sembrerà di essere proprio dentro.


 

Dopo avere ben guardato, voltatevi verso poppa e salite tre gradini. Vi troverete dentro il locale della Batteria Avanti che ospita gli Alloggi Ufficiali.

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Complimenti per i disegni stupendi e le belle storie al sig Bruno e grazie a te per averceli portati, Roberta.

Qualche piccolo appunto che mi permetto di fare riguardo al soccorso ai sommergibili sinistrati, da vecchio insegnante di sicurezza a bordo.

Credo che il sommergibile turco fosse il Dumlupinar, un ex USA non troppo dissimile dai nostri.

Per quanto riguarda l'evacuazione di un battello, i disastri sono tantissimi, sempre troppi, anche in tempi recenti: lo stessso Kursk era in fondali idonei alla fuoriuscita ... ma i problemi furono altri.

Puo essere, invece, interessante la storia del HMS Truculent, dove l'equipaggio  uso i sistemi di fuoriuscita dopo la collisione ma non tutti sopravvissero al freddo  (è il motivo per cui oggi ci sono tute di fuoriscita e non semplici cappucci (le Steinke hood, appunto).

Altro esempio che ci interessa ancora di piu è il Peruviano Pacocha, dove molti si salvarono usando la Steinke ma la mancanza di addestramento non concesse la vita a tutti quelli che raggiunsero la superficie.  

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Proseguiamo ... Bruno ha raccontato:

 

Care e cari tutti,

i due locali batterie sono troppo lunghi per la funzione Vector Works attraversa, che ho usato per la Camera di lancio Avanti. Per vedere cosa c’è dentro, ho dovuto togliere lo scafo resistente e sezionare le ordinate. Ciò fatto, ho fotografato il lato di sinistra guardando verso prora e il lato di dritta guardando verso poppa. Spero che riuscirete a sintetizzare l’assieme, tenendo presente che la realtà è molto più angusta di come appaia sul disegno. (…)

Cominciamo a descrivere cosa appare nel disegno del lato di dritta. Andando da prora verso poppa, incontriamo subito il W.C. Ufficiali. Ho già detto altrove della sua ubicazione a una spanna dalla postazione dell’ecogoniometrista. E’ stato spettatore di una storia simile a quella capitata al Comandante Sherman del Sea Tiger in Operazione Sottoveste, solo che là si trattava della doccia e di una graziosa signorina, qui, del W.C. e di un Tenente di Vascello con la funzione di Comandante in Seconda. Del detto Ufficiale, (che chiamerò Comandante X ma che i miei compagni riconosceranno senz’altro) devo tracciare una sintetica biografia.

Era una vecchia conoscenza fin dai tempi dell’Accademia, quando era sottordine alla nostra Classe. Pugliese di nascita, conservava il buono e il gramo tipici di quelle popolazioni. Aveva carattere spigoloso, sprovvisto di senso dell’umorismo, fine intelligenza, volontà di ferro. In Accademia mi aveva rifilato dieci giri di corsa (del cortile) perché a messa, respirando, facevo cigolare la fibbia del cinturone. A bordo del Vespucci, non so per quale mancanza, mi aveva inflitto quella che per lui doveva essere una severa punizione, che fu invece una delle esperienze più belle mai vissute. La punizione consisteva nell’andare sulla delfiniera e là restare finché non mi avesse richiamato. Per chi non lo sapesse, la delfiniera è la rete che si vede stesa ai lati del bompresso.

Era un pomeriggio di vento leggero e il Vespucci navigava placidamente nelle acque del mare di Alboràn. Io mi stesi sulla delfiniera a pancia in su, in attesa del richiamo e della ramanzina annessa.

Poi scese una sera di luna piena. Un gruppetto di marò si accoccolò con una chitarra alla radice del bompresso e qualcuno cominciò a cantare con voce flebile ma abbastanza intonata, le solite canzoni napoletane. Il nostro si era dimenticato di me. I marò andarono a dormire e più tardi la luna tramontò. Io rimasi solo sotto un cielo stellato come a quelle latitudini capita di vedere. Nessuno che non l’abbia sperimentato, può immaginare che cosa sia il lento beccheggio di un veliero, il sommesso brontolio dell’acqua che si rovescia ai lati della prora in piccole onde che si propagano, prolungandosi nella scia che la nave lascia di poppa. Il rimescolio dell’acqua disturba le noctiluche che lanciano i loro gridolini luminosi come fossero cascate di diamanti e sembra che la nave avanzi in un mare di schegge di cristallo.

Mi sentii parte infima ma cosciente di questo immenso Universo, profondo e incomprensibile e guardavo la striscia obliqua della Via Lattea: miliardi di stelle abbracciate con un unico, breve girare degli occhi. Avvertivo un brivido, non so se per il fresco della notte o per l’emozione. Altre volte, in futuro, proverò sul mare notturno le stesse emozioni, acciambellato nel pozzetto della mia amata Nessie….

Stavo però parlando del Comandante X. Uomo di Squadra, era capitato non so se per caso o per scelta, sui sommergibili, con la manifesta intenzione di portare in quel mondo sublunare, lo stile e i modi delle grandi unità di superficie. L’episodio che sto per narrare, essendo l’uomo molto intelligente, gli fece capire che non era il caso. Continuando la sua biografia, si laureò in Ingegneria, studiando senza sosta e senza mai trascurare i suoi compiti a bordo.

Il Comandante X era imbarcato da pochi giorni. Navigavamo in immersione ed io ero di guardia in Camera di Manovra. Si affaccia il ragazzo della Mensa Ufficiali: “Il Comandante X dice che non arriva acqua al cesso!”

Una minima spiegazione tecnica è necessaria. L’acqua arrivava al W.C. direttamente dal mare tramite una tubazione di piccolo diametro, intercettata da una valvola di tutto rispetto, munita di volantino. La pressione sul lato esterno è quella del mare a quella quota: in superficie, un paio di metri di colonna d’acqua, a dieci metri, un’atmosfera, a venti, due e così via. L’apertura graduale della valvola fa fluire l’acqua nella tazza nella quantità e con la forza desiderata. Sotto i centoventi piedi di profondità (circa trentasei metri) è interdetto l’uso dei servizi igienici.

L’affermazione del Comandante X era visibilmente priva di senso. Fosse stato un altro, l’avrei mandato al diavolo ma memore delle punizioni che mi aveva inflitto quando ero un ragazzino, decisi di prendermi una rivincita. Lasciai la Camera di Manovra mi diressi verso prora e giunto sul luogo del delitto, afferrai il volantino e apersi totalmente la valvola. Non ricordo a quale profondità stessimo navigando, ma già a quota periscopica il battente era di poco inferiore ai venti metri, vale a dire, due atmosfere. Un getto d’acqua a quella pressione entrò tangenzialmente nel vaso, compì un mezzo giro e uscì dall’altra parte, inondando il Comandante X. Non fiatò ma sussurrò “eppure l’avevo aperta.”

Da quel giorno forse si rese conto che un sommergibile non è un incrociatore e che là sotto non conta il grado ma l’esperienza.

Lo ricordo ancora quando, verso la fine del mio imbarco sul Torricelli, uscimmo da Livorno con una delle peggiori libecciate mai viste. Era ormai divenuto un sommergibilista quasi perfetto. Eravamo noi due in plancia scoperta con le due vedette imbacuccate nelle cerate, che cercavano di penetrare l’oscurità con i loro binocoli. Nel nero della notte le creste bianche segnalavano l’arrivo di onde enormi che scavalcavano il Torricelli come non accorgendosi della sua esistenza. Ci davamo un contegno, fumando sigari Avana di contrabbando e bevendo birra. Non so lui, ma io ero contento di essere lì, in quel mare, in quell’oscurità ostile, particella senziente in quel caos primordiale. Penso che questa insania, a volte, faccia l’uomo diverso dalle altre creature che popolano l’Universo. O forse no.

Mi accorgo che scrivendo di tutt’altro ho esaurito lo spazio delle due paginette tradizionali.

A risentirci alla prossima puntata.

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Qualche giorno dopo, Bruno prosegue:

 

 

Care e cari tutti,

nella puntata precedente non avevamo fatto molti progressi: ci eravamo fermati al primo locale incontrato che era quello del W.C.

Adesso procediamo speditamente perché il locale successivo è quello della doccia Ufficiali, sul quale non c’è molto da dire.

I due evaporatori che incontreremo quando arriveremo ai locali Motori, producevano in teoria duemila cinquecento galloni di acqua il giorno, funzionando ventiquattro ore su ventiquattro, che equivalgono a poco meno di nove metri cubi e mezzo.

L’energia immagazzinata nelle batterie è destinata esclusivamente a scopi bellici, cioè alla propulsione e ai servizi essenziali. Non era perciò sprecata per scopi voluttuari. Per questo motivo, gli evaporatori funzionavano solo quando almeno un motore termico era in funzione.

L’acqua prodotta degli evaporatori era destinata in buona parte alle batterie e quel poco che restava, prioritariamente ai servizi della cucina. Il conto di quel che restava per lavarsi è presto fatto. Nella più rosea delle condizioni, quando entrambi gli evaporatori funzionavano ininterrottamente per ventiquattro ere, uno dei due produceva acqua per le batterie. Restavano nove metri cubi e mezzo per tutto il resto. Almeno due di quanto restava andava per gli usi di cucina. I sette metri cubi e mezzi andavano equamente divisi fra i cento membri dell’equipaggio.

Navigando in superficie senza mai immergersi, ben settanta litri di acqua erano destinati a ciascun membro dell’equipaggio per lavarsi, sbarbarsi e fare un minimo di bucato. Un sommergibile, come dice il nome, è fatto per immergersi. La razione giornaliera si riduceva in proporzione alle ore passate in immersione. Durante le missioni, poteva ridursi fino a venticinque-trenta litri il giorno. Per restare entro questi consumi, l’acqua era chiusa ai rubinetti ed era aperta una decina di minuti a ogni cambio della guardia, quando toccavano a ciascuno circa dieci litri. I rubinetti erano a scatto: erogavano acqua solo se li tenevi aperti con una mano. La procedura richiedeva che si mettesse il tappo al lavandino e si riempisse la vaschetta per poi lavarsi dentro quell’acqua. Le scarse abluzioni riguardavano sono la parte superiore del corpo: faccia, collo, ascelle e poco altro. Per le estremità inferiori, a mali estremi, estremi rimedi: all’inizio di una missione che si prevedeva lunga e impegnativa, si versava negli Wellington una bottiglia di acqua di colonia di infima qualità, si calzavano gli stivali che restavano calzati fino a fine missione.

Poi, al rientro, la rinascita.

Se appena si poteva, si prendeva un giorno di permesso, si prenotava una camera nell’albergo più vicino e si preparava con cura e con calma il rito. L’attrezzatura comprendeva un capiente borsone, un cambio di biancheria, una divisa pulita e un sigaro Avana di contrabbando. Non poteva mancare una saponetta Life saver, un oggetto britannico spacciato per sapone, nero come il catrame e di eguale odore. Il suo aspetto e il suo odore promettevano un’efficacia senza pari nella lotta contro sudiciume ed eventuali parassiti.

Nel borsone finivano tutta la biancheria e la divisa portata a bordo durante la missione. La vasca era riempita di acqua calda quanto il corpo poteva sopportare e nel liquido si scioglieva di tutto: bagno schiuma, acqua di colonia e quant’altro di fragrante capitava a tiro. Poi, acceso il sigaro, ci s’immergeva in quel lavacro lasciando fuori dal liquido solo la bocca. Si chiudevano gli occhi, si aspirava con voluttà quel fumo azzurrino, reggendo il sigaro con una mano bagnata e si assaporava il tempo che passava, senza rumori, senza odori, senza il fastidio dell’attesa che qualcuno venisse a svegliarti per montare di guardia. Era pura sensazione tattile dell’acqua calda, con l’esclusione di tutti gli altri sensi.

Il tempo passava, la temperatura del bagno declinava inesorabilmente, seguendo la curva del raffreddamento naturale. Prima che l’acqua fosse troppo fredda, ci si svegliava dall’incanto. Deposto l’Avana e brandita l’infame saponetta, ci si sfregava in ogni angolo del corpo, grattando vigorosamente fino a far riemergere in superficie il pallore della pelle. Poi si usciva dall’acqua e ci si avvolgeva in un candido accappatoio folto come una pelliccia. Ci si abbandonava sul letto e si dormiva così, tanto a lungo quanto il nostro organismo ne era capace. B*** dormì due giorni di fila prima di essere svegliato a forza.

Un bagno caldo, che per una persona normale non è degno neppure di essere ricordato, per noi era come un’epopea. E questo, come l’aria che sa di melone, ha fatto di noi gente diversa, che può trasformare cose banali in avvenimenti da ricordare anche dopo che sia passato un mezzo secolo abbondante.

E’ ora di tornare al locale Doccia Ufficiali. Come avete capito, in missione era utilizzato come deposito per oggetti vari. D’altra parte, anche in Operazione Sottoveste il locale doccia aveva un utilizzo improprio: ospitava il Marinaio Orsby in attesa della sua festa.

Anche questa volta l’onda dei ricordi mi ha fatto andare qua e là per una paginetta e mezza. La prossima puntata sarò, forse, più ligio al mio dovere di portarvi in giro per il Torricelli.

Un abbraccio a tutte e tutti.

Bruno

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Altra puntata con Bruno ...

 

Camminando verso poppa oltre la doccia, sul lato dritto s’incontrano gli alloggi Ufficiali.

Alloggi è una parola grossa per definire ciò che noi chiamavamo Il Loculo del LucumoneEtrusco.

Si trattava di cubicoli lunghi forse due metri e mezzo. La larghezza non superava il metro e mezzo. Che cosa c’era in questo spazio? Il disegnetto (vedi sotto) mostra una sezione del battello all’altezza del quadrato Ufficiali. I cubicoli sono a sinistra.

Si vedono due cuccette, una sopra l’altra, larghe una settantina di centimetri, una scrivania con una sola sedia e all’altra estremità, (non visibile) un lavandino e due stipetti.

La mia cuccetta era quella superiore del primo loculo. Sopra la mia cuccetta s’intravede una parte dei tubi dell’impianto idraulico che mi hanno tormentato durante la degenza che vi ho raccontato in uno dei capitoli dedicati a B***.

 

 

 

 

A poppavia dell’ultimo alloggio si trovava l’Ufficio Cifra, l’unico locale a bordo munito di porta con chiave.

Che cosa ci fosse oltre quella porta, lo sapevano solo il Comandante e un Secondo Capo che ne conservava le chiavi ed entrava e usciva da quel locale con aria circospetta, tirandosi dietro la porta.

Arrivati alla porta stagna, ci giriamo e torniamo verso prora. In mezzo al corridoio c’è un portello a raso che dà accesso al locale batteria. Quando passate, assicuratevi che sia chiuso. Non fate come il direttore del Da Vinci.

Quando imbarcai su quel battello, mi accompagnò in un giro esplorativo. Giunto al portello della batteria si voltò verso di me che seguivo, avvertendomi: “Quando passa, si assicuri che questo portello sia chiuso.” Il portello era aperto e il Direttore, voltato verso di me, fece un passo in più e scomparve alla mia vista.

 

 

 

Lasciamo il Da Vinci e torniamo sul Torricelli.

Scendiamo attraverso il portello e vediamo che cosa si nasconde in questo locale. Nella figurina qui sopra si vedono sei rettangoli. Ogni rettangolo è un elemento della batteria, a sezione quadrata con seicento millimetri di lato, un metro di altezza e un peso di una tonnellata. In ogni locale delle batterie sono sistemate ventun file di elementi per un totale di centoventisei.

 

 

 

Ora sono costretto a darvi qualche numero. Chi s’intende di elettrotecnica salti queste spiegazioni.

Gli elementi di una batteria di questo tipo, qualunque sia la loro dimensione, forniscono una tensione di circa due volt. (La batteria della vostra macchina è composta di sei elementi collegati in serie e quindi fornisce una tensione di dodici volt).

I centoventisei elementi della nostra batteria sono pure collegati in serie. Ai capi della batteria sarà quindi disponibile una tensione di circa duecento cinquantadue volt, circa il doppio di quella che arriva alle prese di casa nostra.

Ci interessa sapere quanta energia può essere stipata in quegli elementi.

Qui devo fare ricorso al cosiddetto paragone idraulico che rende bene l’idea (vedi disegno-schema sotto).

 

 

 

A sinistra è rappresentato un bidone che contiene diciottomila seicento chili di acqua.

Se lo sollevo da terra di due metri, devo spendere (e poi avrò a disposizione) un’energia di 18600 kg x 2 m = 37.200 kg x m che poi potrò utilizzare come voglio, ad esempio, con una semplice turbina collegata a una pompa, per sollevare da terra di quasi un metro 37.200 kg di Acqua (dico quasi perché una parte dell’energia andrà comunque perduta in attriti vari.)

A destra è invece rappresentato uno dei nostri elementi. Gli Ampere ora (A x ora) corrispondono nel paragone al peso dell’acqua, i Volt, (V) all’altezza da terra del recipiente.

L’energia stoccata in tutti gli elementi quando sono pieni, sarà dunque di 18.600 x 2 x 126 = 4.687.000 V x A x ora

Il V x A si chiama Watt (W). Poiché il Watt è una quantità molto piccola, si usa normalmente un suo multiplo mille volte più grande, che tutti conoscono: il kilowatt. Altrettanto noto è il kilowattora che compare sulle nostre bollette.

L’energia stoccata in ciascuna batteria quando è carica sarà dunque di 4.687 kilowattora.

Abbiamo detto che possiamo usare questa energia come vogliamo, per esempio, variando i kW assorbiti. Se, ad esempio, assorbiremo 468,7 kW, occorreranno dieci ore per vuotare la batteria. Se pretenderemo di ricavarne 4.687, dopo un’ora saremo a secco. Questa è la scarica dell’ora usata per valutare lo stato di una batteria. Per dare un’idea delle quantità in gioco, un contatore domestico è previsto per un assorbimento massimo di 3 kW. Una batteria del Torricelli sarebbe stata in grado di alimentare per un’ora alla massima potenza circa 1.500 abitazioni, le due batterie, una piccola città con tremila abitazioni che consumano tutte a tutta

birra.

Fine della sezione didattica.

 

 

 

La gestione delle batterie è un fattore decisivo per l’efficacia operativa di un sommergibile.

Sarà inutile sprecare energia per avvicinare in immersione un bersaglio se quando arriveremo in zona, avremo il fiatone elettrico, cioè se non avremo più energia per sviluppare la massima velocità durante l’attacco e il successivo disimpegno.

Ho studiato questo problema e ho trovato una soluzione che mi ha fatto guadagnare due decorazioni che conservo gelosamente. Ne parleremo, forse, quando saremo in Camera di Manovra.

 

 

 

Il capitolo Batterie non sarebbe completo se non vi raccontassi il cambio di quelle del Torricelli.

Quando ero Direttore, andammo alla Spezia per un turno di grandi lavori, i primi effettuati in quell’Arsenale nel dopo-guerra. Era previsto il cambio delle batterie, giunte a fine vita.

Anticipo che per permettere la circolazione dell’aria che teneva freschi gli elementi, questi erano distanziati da coppie di cunei di legno forzati lungo gli spigoli. Questa notizia ci servirà in seguito.

Tutto era nuovo, compresa la ditta fornitrice delle batterie che non ne costruiva più da almeno trent’anni.

Detta a parole, l’operazione era semplice: si apriva un portello imbullonato sullo scafo resistente, si toglievano i vecchi elementi e si mettevano quelli nuovi.

La procedura doveva essere inventata.

Fra i due portelli e i rispettivi locali batterie c’erano i copertini sui quali posavano gli alloggi Ufficiali ed Equipaggio: gli arredi dovevano essere rimossi e i copertini fatti a pezzi e portati a terra.

Sopra i due portelli c’era la coperta costituita da centine d’acciaio sulle quali posavano doghe di legno distanziate fra loro di circa un centimetro. La lunghezza di ogni doga era diversa e dipendeva dalla sua posizione in coperta. Tracciammo allora una mappa della coperta, numerando tutte le posizioni, poi marcammo tutte le doghe e infine le smontammo, ammucchiandole in banchina. Il rimontaggio sarebbe stato un puzzle micidiale.

Tolti i primi cunei di distanziamento, ci si presentò una visione da incubo: gli elementi non erano rigidi, ma si spanciavano sotto il loro stesso peso. In un futuro non lontano avremmo dovuto rimettere al suo posto l’ultimo elemento della nuova batteria. Le notti che seguirono furono una sequenza di incubi alla fine dei quali la lotta con l’ultimo elemento finiva sempre con una sconfitta, intervallati da periodi di lucidità durante i quali immaginavo procedure vincenti che svanivano al risveglio. Il problema si presentò subito quando cercammo di completare la prima fila di elementi. Sistemati tutti i cunei distanziatori, l’ultimo elemento visibilmente non poteva entrare. Li togliemmo tutti e avvicinando gli elementi fino a farli toccare, c’era spazio sufficiente per l’ultimo elemento. Tutti gli elementi entrarono con relativa facilità. Una volta inseriti, distanziarli correttamente non fu un lavoro facile: dovevano essere spostati agendo a colpi di mazza sui cunei. Provando e riprovando, trovammo la sequenza giusta d’inserimento dei cunei e alla fine stanchi ma soddisfatti, collegammo tutti gli elementi e partimmo con la prima carica.
 

(…)

Un saluto a tutti

Bruno

Modificato da ammiraglia88
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Sono quasi "in pari" ... questo è della scorsa settimana. Sempre Bruno che ci racconta:

 

--------------

Dovremmo essere prossimi alla fine del racconto che per tante puntate ci ha tenuto entro il locale Batteria Avanti. Stiamo passando davanti al locale Marescialli. Se dovessi rendere l’onore dovuto a questo gruppo di uomini che hanno servito il proprio immemore Paese per tutta la vita (e per loro è il caso di dirlo) in pace e in guerra, non mi basterebbero i prossimi dieci capitoli, anche perché sarei un ingrato se non ricordassi anche quei marescialli che hanno accompagnato con affetto e fermezza i miei primi passi in Marina. Dei tanti che vorrei ricordare, ora ne citerò solo due, rimandando forse ad altra occasione il compito di togliere gli altri dalla nebbia della dimenticanza cha avvolge le azioni e i volti degli uomini valorosi ma semplici.

L’onore di essere citato per primo spetta a Capo B***, Cannoniere che più Cannoniere non si può. Venne ad accoglierci al cancello dell’Accademia in quell’elegantissima divisa corta estiva che il perverso desiderio di imitare gli Americani ha fatto abbandonare. Il suo doppio era Capo R***, Romagnolo, Vittorio di nome. Formavano una coppia formidabile. Capo B**** le sparava grosse, aveva sempre per le mani una qualche vedova e propinando al compagno le sue improbabili avventure, sottolineava i passaggi salienti con un intercalare assertivo Vittò! Ahe! Questo intercalare con l’Ahe! ripetuto tre volte, divenne il grido del nostro Corso.

 

Torniamo al Torricelli.

Già l’ho detto: durante i miei cinque anni d’imbarco sui due sommergibili molte persone sono cambiate, uomini diversi hanno ricoperto la stessa funzione. La necessità di semplificare il racconto mi obbliga ad appiattire le prospettive, mettendo tutti assieme nello stesso spazio e nello stesso tempo, uomini e avvenimenti diversi.

L’alloggio Marescialli era occupato dai quattro sottufficiali più anziani del battello.

Di norma il più anziano di tutti era il così detto Contabile di Macchina, che non era per nulla un contabile. Conosceva il battello come le sue tasche, a lui rispondevano meccanici, motoristi e fuochisti e lui rispondeva al Direttore. In immersione sedeva davanti all’albero di Natale e alla tastiera idraulica. Di ciò parlerò diffusamente in Camera di Manovra.

Seguiva il Capo Silurista, aggregato nel sistema ai Cannonieri, poi c’era l’immancabile Nostromo che sui sommergibili non ha granché da fare.

Da ultimo, ma non ultimo, il Capo Elettricista. Era Toscano della Toscana più profonda, dove nulla va bene e tutto è da rifare. Stava rintanato nel locale Quadri Elettrici a poppa, da dove amministrava l’energia disponibile per la propulsione e i servizi di bordo. Non calzava mai scarpe o stivali, ma un paio di pantofole di pezza con le quale si muoveva senza fare alcun rumore.

Parlare di quadri elettrici e del Capo Elettricista mi ricorda quanto le nostre sensazioni e la valutazione delle distanze siano condizionate dai luoghi, dal tempo, dalle circostanze e persino dagli stati d’animo.

Valutata su un disegno, la distanza fra Camera di Manovra e Quadri Elettrici, era di una trentina di metri. Camminando in coperta, erano due passi.

In porto, andare dalla Camera di Manovra al Locale Quadri già voleva dire attraversare gli alloggi dell’equipaggio posti sopra la Batteria Addietro e due Locali Motori: un bel pezzettino. Quando ero Direttore, durante le lunghe navigazioni in immersione mi ero imposto di fare un giro fino ai quadri ogni sera.

 

Lasciavo la Camera di Manovra con passo deciso. Passata la porta stagna che immetteva nel locale Equipaggio, la mia baldanza evaporava.

I marinai liberi dal servizio dormivano nella luce rossastra che rompeva appena l’oscurità. Il locale sembrava non finire mai. Avanzavo nella quasi oscurità lungo i locali igienici dell’Equipaggio che sembrava si fossero raddoppiati di numero. Dopo un tempo che mi pareva lunghissimo, arrivavo finalmente alla porta stagna che separava il locale Equipaggio da quello dei Motori Termici Avanti. Un altro mondo.

Provenendo dalla semioscurità silenziosa degli alloggi, le normali luci non particolarmente brillanti che illuminavano il locale sembravano fari abbaglianti. Se si navigava ‘sulle batterie’, nel due locali Motori Termici si sentivano solo i secchi Tac o i più tenui Tac, Tac, dei corpi metallici che, raffreddandosi dopo lo spegnimento dei motori, riprendevano lentamente le loro dimensioni originali.

Il personale di guardia che non aveva nulla da fare, stava appollaiato su sgabelli di fortuna.

Buona sera, Direttore”. Buona sera, ragazzi. Tutto apposto?” “Tutt’apposto”.

Attraversavo i due locali fermandomi ogni tanto a scambiare quattro parole con quei ragazzi ai quali volevo bene e che forse ricambiavano. Quando sbarcai, mi regalarono una maniglia della tastiera assetto che conservo sulla libreria del mio studio, fra i cimeli più cari che ho.

Mai nella mia vita le differenze di condizione sociale hanno contato così poco. Dopo tanti anni ancora ringrazio la sorte che mi ha fatto vivere questa esperienza. Anche in mutande, se lo meritavi, eri il capo, altrimenti nessun gallone dorato ti poteva togliere la patente di uomo da nulla.

Se invece si navigava a Snorkel, uno dei due locali era una bolgia infernale nella quale l’uso della parola era inutile. Per attirare l’attenzione di qualcuno, gli si buttava fra i piedi una chiave inglese. Il resto della conversazione erano gesti, mimica facciale, ammiccamenti di assenso o di diniego.

Alla fine, passata l’ultima porta stagna, entravo nel regno del Capo elettricista. Era stato come la traversata del Mar Rosso. Una meta raggiunta dopo un lungo viaggio, attraverso tappe ormai lontane, irreali, costellato d’incontri consueti eppure vissuti ogni volta come se fosse la prima.

Buona sera, Capo, Buona sera Direttore.

 

Ho detto quasi tutto sui locali attraversati. Dopo il capitolo dedicato a Camera di Manovra e Torretta, basteranno due parole per liquidare la Camera Lancio Addietro che è come quella Avanti ma con quattro tubi di lancio invece di sei.

Più a prora dell’alloggio Marescialli c’era il camerino del Comandante. Era del tutto simile agli altri alloggi Ufficiali, ma c’era una sola cuccetta. Non avendo mai varcato la porta immateriale della tenda che assicurava un minimo di riservatezza, non posso dirne altro.

Poi c’era il Quadrato Ufficiali con annesso Riposto.

Nel corso dei grandi lavori alla Spezia, approfittando della distruzione totale del quadrato per il cambio delle batterie, avevo provveduto al suo restyling. Feci rivestirle pareti di acciaio inossidabile con pannelli di legno di noce. In Galleria, a Milano, acquistai una riproduzione del Nudo Rosa di Modigliani in grandezza naturale,

che collocai sulla parete alle spalle del Comandante.

 

In questa veste il quadrato era più adatto alla cerimonia della cena e alle attività ricreative come le intendevamo noi.

Presiedeva il Comandante, G***, detto il Pilotauro perché era un pilota di Marina prima che questa possedesse portaerei e si sganciasse dalla tirannia dell’Aeronautica.

Di norma, mentre gli altri cenavano, l’Ufficiale più giovane, in piedi, leggeva poesie di Omar Khayyam.

Vi domanderete chi era costui.

Era un Arabo, anzi, un Tagico vissuto attorno al X secolo che s’intendeva di matematica, geometria, astronomia e che componeva poesie.

Le sue quartine sono dedicate soprattutto al motivo del vino e all'esaltazione del mondo bacchico, ma contengono anche temi più profondi.

Quando non ascoltavamo poesie, discutevamo di argomenti vari, evitando quelli vietati, cioè Servizio e donne. Gli argomenti che restavano erano forzatamente non banali.

Si mangiava come si mangia su un sommergibile, cioè da schifo, ma si beveva spesso champagne (che costava poco), si fumavano Senior Service di contrabbando, talvolta si cenava indossando il frac sopra il maglione, come segno di scherno alle disposizioni della Squadra che ne aveva imposto la presenza a bordo.

Quando era il turno di avvicendare le razioni “K”, era festa grande. C’era dell’ottimo prosciutto di San Daniele in confezioni sigillate, Bottiglie di Chianti e soprattutto, scatole di latta stagnata che contenevano gallette che non sapevano di sommergibile.

La cena spesso finiva con un giro di China Martina offerto da chi aveva qualcosa da farsi perdonare.

Dopo cena il quadrato si trasformava nel tempio del Bridge. Partite interminabili come le discussioni che seguivano.

Oltre il quadrato, verso prora, c’era il riposto Ufficiali, un angusto buco dove le nostre due ordinanze preparavano i piatti di portata, lavavano le stoviglie, preparavano il caffè e nelle grandi occasioni calzavano guanti bianchi e servivano a tavola.

Una sera venne a cena da noi l’Ammiraglio Mimbelli. I due ragazzi, molto emozionati, si davano da fare con piatti, bicchieri, zuppiere bottiglie e caraffe. Fu servita una zuppa preparata dal cuoco dell’equipaggio che da borghese gestiva un ristorante. Non male.

Terminato il primo giro, R***, proprio lui, si avvicinò all’Ammiraglio con la zuppiera e chiese:

Ne vuole ancora Ammiraglio?

No, grazie.

Ne prenda, tanto se no la buttiamo via.

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