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Il "Vinzaglio" nella cruna dell'ago


Rostro

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Nella storia militare di Taranto c’è un piccolo episodio che merita di essere ricordato anche perché, se messo in parallelo con il recente passaggio della portaerei Cavour dal canale navigabile, attesta una volta di più di quali imprese straordinarie siano capaci gli uomini della nostra Marina.

Ma andiamo con ordine e inquadriamo l’avvenimento nel suo contesto storico.

L’emanazione il 17 novembre 1860 dei Regi Decreti n. 4419, 4420 e 4421 rappresentò il primo atto della nascente Marina unitaria. Gli ufficiali delle flotte Sarda, Napoletana, Siciliana, Toscana e Pontificia vennero riuniti in un corpo unico e fu data una organizzazione amministrativa alla Regia Marina.

L’allora Ministro della Marina Camillo Benso Conte di Cavour si era subito preoccupato di dare una Marina unica al Regno d'Italia anticipandone di quattro mesi la formale costituzione avvenuta il 17 marzo 1861.

La conseguenza fu che il Governo si trovò ben presto a dover affrontare il problema degli arsenali e delle basi navali da una prospettiva diversa che, non più frazionata su base regionale, avrebbe dovuto tener conto delle necessità strategiche dell’intera penisola.

Necessità che prevedevano un sistema di difesa delle coste fondato su tre dipartimenti militari marittimi, dislocati il primo alla Spezia, il secondo provvisoriamente a Napoli, in attesa di individuare la sede definitiva, ed il terzo ad Ancona, in attesa del trasferimento a Venezia che presto avrebbe dovuto essere strappata agli Austriaci.

 

L’APPASSIONATO ATTIVISMO DEL SENATORE CATALDO NITTI

La scelta della sede del 2° Dipartimento e dell’arsenale militare marittimo accese tra le città interessate una tumultuosa disputa nella quale Taranto si inserì subito da protagonista grazie al senatore Cataldo Nitti che per primo, nel 1861, con un breve ma incisivo scritto dal titolo “Il porto di Taranto nelle future condizioni dell’Italia “, lanciò l’idea di una grande base navale da installare nella città bimare. Taranto per la sua invidiabile posizione geografica rappresentava, infatti, un punto importante all’interno del Mediterraneo, bacino che sarebbe presto diventato “la palestra delle ambizioni e delle avidità delle più grandi nazioni della terra”.

Nitti chiedeva, pertanto, che il Paese si dotasse di una forte stazione navale “al confluente dei due mari – Adriatico e Jonio – sulla porta della penisola, a rimpetto a quella parte dell’Europa e dell’Asia ove esso avrà tanti interessi da proteggere e un giorno forse non lontano, quant’ha di arti la diplomazia”.

 

LA MISSIONE ESPLORATIVA DEL CAPITANO BIFEZZI

La proposta del Nitti e le sue argomentazioni, basate su di una visione che si rivelerà profetica e lungimirante, furono accolte molto positivamente soprattutto negli ambienti dei notabili tarantini. Anche il Governo le ritenne talmente valide ed interessanti che nel 1863 inviò a Taranto in missione esplorativa il Capitano del genio militare Giuseppe Bifezzi, un esperto cartografo dell’Ufficio Topografico Napoletano che ebbe l’incarico di redigere uno studio particolareggiato della città e dei litorali di mar Grande e di mar Piccolo.

 

LA COMMISSIONE VALFRE’

Nel frattempo venne nominata una Commissione militare presieduta dal Tenente Generale dell’esercito Leopoldo Valfrè di Bonzo che ebbe l’incarico di esaminare i porti dell’Italia meridionale e scegliere quello più adatto per ospitare l’arsenale del secondo Dipartimento.

La Commissione giunse a Taranto ai primi del 1865, dopo aver visitato le città di Baia, Castellammare, Augusta, Siracusa  e Brindisi.

Taranto fu lasciata per ultima. Fu un caso? Probabilmente no. Infatti, mentre la Commissione Valfrè visitava le altre città, il Capitano Bifezzi, ebbe il tempo dal 1863 al 1864 di completare il suo minuzioso lavoro prima che la Commissione arrivasse a Taranto.

Circostanza, questa, che svelerebbe quali fossero sin dall’inizio le intenzioni del Governo e quali le direttive impartite alla Commissione riguardo alla scelta finale da adottare. Ciò a dispetto delle forti spinte campanilistiche provenienti dagli ambienti napoletani che volevano la loro città come sede del 2° Dipartimento e dell’arsenale.

A favore della scelta di Taranto giocava il ricordo ancora fresco dell’occupazione francese tra il 1801 ed il 1815 quando lo stesso Napoleone Bonaparte, intuendone le notevoli potenzialità logistiche e geografiche, scelse la città bimare come la più idonea per ospitare una grande flotta destinata alle mire espansionistiche nel Mediterraneo orientale.

Al pari del capitano Bifezzi, anche la Commissione Valfrè si trattenne a lungo a Taranto non tralasciando alcun particolare nel suo attento esame della città e delle sue coste.

I notabili tarantini furono talmente soddisfatti dall’interessamento mostrato dalla Commissione che il senatore Nitti fornì un’ulteriore spinta a favore della scelta di Taranto con un nuovo scritto dal titolo “Considerazioni economiche e politiche per le quali l’Italia deve accrescere le sue forze marittime onde meglio giovarsi della sua posizione nel Mediterraneo e massime nel porto di Taranto

Ma in città non tutti erano contenti di quanto stava accadendo. Molto preoccupati, infatti, si mostrarono i pescatori, i quali temevano, e non a torto, che la presenza delle navi militari avrebbe causato limitazioni e danni al loro lavoro.

Nel mar Piccolo in quella seconda metà dell’800 l’attività della pesca godeva di un ambiente naturale favorevolissimo. Circondato sul versante meridionale da alte sponde sulle quali in mezzo a giardini rigogliosi sorgevano poche ville e dimore di campagna, il mar Piccolo ospitava, come ancora oggi, un fiorente allevamento di mitili e ostriche il cui sapore, unico e ineguagliabile, era frutto della commistione tra l’acqua salata e quella dolce sgorgante in mare dalle diverse sorgenti carsiche chiamate citri.

Il senatore Nitti, ancora lui, cercò di convincere i pescatori che il progetto di una grande base navale con annesso arsenale avrebbe trasformato Taranto da piccola e povera città di provincia ad importante centro di convergenza degli interessi politici, militari ed economici della neonata nazione con positive ricadute sul benessere dei suoi cittadini. Ma che ampiezza di vedute potevano avere quei pescatori il cui mondo fatto di povertà e ristrettezze era circoscritto tra piccole barche e i pochi attrezzi del mestiere? Nitti, però, sempre più tenace ed insistente nelle sue affermazioni, tentò di indurre i più refrattari a lasciar perdere la pesca a favore della coltivazione dei campi. Che importava se, così facendo, la secolare vocazione di lavoro sul mare vantata da pescatori e “cozzaruli” sarebbe stata letteralmente gettata alle ortiche?

A sottolineare il radicale cambiamento che si voleva imporre contribuì la vena ironica e un po’ sarcastica del poeta Emilio Consiglio che così declamava in un suo epigramma:

O cefali, allegri!

La sorte è cambiata

Non più vi si tende la fiera “incannata” *

Scorrete pel mare

Tranquilli e giulivi

Ché tutti i marini

Sen vanno agli ulivi

*(tipo di rete usata dai pescatori la cui armatura è costituita da canne)

 

La Commissione Valfrè, intanto, concluse il suo lavoro e presentò al Governo la relazione sui porti dell’Italia meridionale. Come sede del 2° Dipartimento e dell’Arsenale venne proposta Taranto che soddisfaceva tutte le richieste condizioni di natura logistica, geografica e strategica.

La relazione, inoltre, proseguiva con alcune proposte concrete sulle opere da realizzare:

-         abbattere le vecchie ed ormai inservibili fortificazioni cittadine;

-         creare l’arsenale in mar Piccolo nella zona della insenatura di santa Lucia;

-        chiudere con gettate di massi due delle tre bocche di accesso in mar Grande lasciando libera solo quella tra capo san Vito e l’isola di san Paolo che sarebbe stata sorvegliata e difesa;

-         costruire un sistema di forti e batterie a capo san Vito, sulle isole di san Pietro e san Paolo e a punta Rondinella in modo da poter battere il mare aperto e contrastare eventuali attacchi nemici prima che potessero giungere agli ancoraggi;

-         proteggere le vie terrestri di accesso alla città con altre batterie di sbarramento.

 

L’APPROVAZIONE DEL CONSIGLIO SUPERIORE PER LA DIFESA DELLO STATO

La relazione Valfrè venne trasmessa al Consiglio Superiore per la difesa dello Stato che la esaminò minuziosamente e, dopo lunga discussione, ne sancì l’approvazione.

Il giudizio positivo si fondava, tra le altre cose, sulla rilevante posizione militare e marittima di cui godeva la città. Questa caratteristica, che davvero nessuno avrebbe potuto negare, può essere riassunta in una celebre frase pronunciata negli anni successivi dal deputato ed eroe garibaldino Nino Bixio: “Voi potete dire cento volte non facciamo l’Arsenale a Taranto, ma la natura vi dirà sempre di si”.

 

LA MISSIONE DEL CAPITANO DI FREGATA SAINT BON

L’approvazione del Consiglio Superiore per la Difesa dello Stato rappresentò il “via” definitivo che stava aspettando il Ministro della Marina, generale Diego Angioletti.

Per redigere un progetto dettagliato degli impianti da realizzare, con annesso preventivo di spesa, fu scelto il capitano di fregata Simone Pacoret di Saint Bon.

Ma perché proprio il Saint Bon? Il giovane capitano di fregata già allora era considerato uno dei più brillanti ufficiali della neonata Regia Marina. Le sue doti di carattere e la profonda conoscenza di arsenali e cantieri, consolidata in una recente missione durante la quale aveva studiato quelli francesi ed inglesi, ne facevano l’uomo più adatto al quale il Ministero potesse affidarsi.

Il Saint Bon scese a Taranto e con l’aiuto del maggiore del genio Cesare Guarasci si dedicò allo studio particolareggiato della baia di Santa Lucia in mar Piccolo, luogo che la Commissione Valfré aveva ritenuto il più idoneo per ospitare le strutture dell’Arsenale.

L’insenatura era larga alcuni chilometri e si trovava sulla costa sud del mar Piccolo a circa 2.000 metri dalla città che, ricordiamolo, era allora concentrata esclusivamente sull’”isola”, oggi rappresentata dalla c.d. città vecchia.

Saint Bon visitò il posto e giudicò che per trasformare l’insenatura in darsena occorrevano solo pochi lavori di riempimento e di banchinamento. Le acque di fronte erano sufficientemente profonde ed alle spalle c’era lo spazio necessario per costruire i fabbricati delle officine, depositi ed uffici. L’espansione urbanistica, infatti, non era ancora iniziata ed il terreno a disposizione per la costruzione degli impianti militari era vasto e praticamente libero.

Confermata l’insenatura di S. Lucia e quindi risolto il problema del dove far sorgere l’Arsenale, occorreva affrontare la complessa questione del passaggio delle navi dal mar Grande al mar Piccolo e viceversa.

 

LA SCELTA DEL PASSAGGIO TRA MAR GRANDE E MAR PICCOLO

Le vie di accesso potenzialmente utilizzabili erano due, costituite dai due canali che, allora come oggi, dividono la città vecchia dalla terraferma. Il primo è quello naturale, dalla parte di porta Napoli, nella zona ovest della città. Largo 115 metri, sin dall’antichità era considerato l’accesso naturale al mar Piccolo.

Dalla parte opposta, a levante, vi era il fossato che circondava il castello, un canale artificiale ricavato sin dai tempi più remoti per la difesa dell’acropoli, successivamente allargato dagli Aragonesi ai tempi della costruzione del castello nel 1481 ed  infine scavato a fondo alla fine del XVI secolo durante il regno di Filippo di Spagna. Interratosi, negli anni era diventato un ricettacolo di immondizie maleodoranti. Nel 1775 fu poi riattivato in occasione di alcune opere di restauro al castello.

Il canale di porta Napoli aveva fondali bassi e rocciosi ed era attraversato da un ponte i cui archi erano alti sull’acqua solo tre metri.

Il fossato del castello, invece, aveva il fondale in terra che rappresentava un indubbio vantaggio perché poteva essere scavato per renderlo più profondo. Tuttavia era angusto, col tempo si era insabbiato ed era ostruito dai ruderi del ponte del Soccorso, uno dei due ponti che anticamente collegavano le uscite del castello con la terraferma (l’altro è l’ancora esistente ed utilizzato ponte dell’Avanzata).

Nel fossato, poi, vi era un altro ostacolo: il lungo ponte in muratura a tre archi della porta di Lecce che metteva in comunicazione la città con la campagna, dove allora sorgevano solo alcuni conventi e qualche villa.

Il Saint Bon, esaminate e messe a confronto le caratteristiche dei due canali, doveva prendere una decisione che conciliasse tutte le esigenze, da quelle marinaresche a quelle politico-militari, non sottovalutando, poi, anche quelle di spesa.

La Commissione Valfré nella sua relazione aveva prospettato la trasformazione in canale navigabile del passaggio di porta Napoli, soluzione sulla quale il Saint Bon non era d’accordo, nonostante quest’ultima offrisse indubbi vantaggi anche in termini di spesa.

Vi erano una serie di considerazioni che lo avevano convinto a scartare questa ipotesi, prima fra tutte quella di carattere marinaresco. Per ragioni topografiche, infatti, l’asse del canale di porta Napoli sarebbe stato curvo invece che rettilineo. Che significava? Significava che le navi avrebbero dovuto entrare ed uscire in accostata (sterzando, cose si direbbe in termini automobilistici), manovra già difficile per le unità di piccole dimensioni, figurarsi per le grandi corazzate che avevano un raggio di evoluzione assai più ampio.

Vi era poi un secondo e non trascurabile problema: la presenza del porto mercantile, che in quella zona era già in fase di realizzazione con i magazzini della dogana.

Gli amministratori locali scrissero un’accorata lettera al Ministero della Marina segnalando i gravi intralci al commercio marittimo che avrebbe provocato il continuo transito delle navi militari. E’ buona regola, infatti, che attività militari e mercantili siano sempre tenute ben separate tra loro. Se si fosse rimasti fermi sulla scelta del canale di porta Napoli si sarebbe dovuta trovare una diversa e non facile sistemazione delle strutture già esistenti. E comunque gli armatori avrebbero preferito dirottare le loro navi verso altri porti con grave danno per l’economia della città perché l’eventuale, ipotizzato spostamento del porto mercantile in mar Piccolo avrebbe significato condizionare il passaggio delle navi da carico alle esigenze militari.

La soluzione proposta dal Saint Bon fu, pertanto, quella di realizzare un grande canale navigabile là dove era il fossato del castello, il c.d. “fosso”, che avrebbe dovuto essere rettificato, per raddrizzarne l’asse, scavato e banchinato.

Per sancire la decisione, però, occorreva prima effettuare una serie di rilievi idrografici che avrebbero dovuto accertare caratteristiche e profondità dei fondali nelle zone di mar Grande e di mar Piccolo situate  nei pressi delle imboccature del fosso, e nella zona di mar Piccolo compresa tra il fosso e la rada di santa Lucia.

All’esito di tali ultime operazioni, conclusa la fase della individuazione dei luoghi e delle opere da realizzare, il Saint Bon sarebbe stato in grado di predisporre un preventivo di spesa verosimile da presentare al Ministero insieme al suo progetto.

 

Per eseguire le operazioni di scandaglio fu messa a disposizione la piccola cannoniera “Vinzaglio”.

 

LA CRUNA DELL’AGO

Ma ecco presentarsi un nuovo problema: come far entrare il Vinzaglio in mar Piccolo?

La questione non era di poco conto. La profondità dell’acqua nel fossato, infatti, raggiungeva a stento, nel punto più profondo, il metro e mezzo mentre il Vinzaglio, pur alleggerito di tutto il materiale superfluo, ne pescava 1,95.

Come se non bastasse, nella parte settentrionale del canale, quella più vicina al mar Piccolo, si trovava il lungo ponte di pietra a tre archi di porta Lecce, e sotto uno di questi archi il Vinzaglio sarebbe dovuto per forza passare.

Ma vediamo le caratteristiche di questa nave.

La pirocannoniera “Vinzaglio” era una nave ad elica costruita in legno, varata nel 1860 nei cantieri della Foce del Bisagno a Genova.

Era lunga 34 metri, dislocava 272 tonnellate ed era munita di un apparato motore da 60 HP costruito dalla ditta inglese Penn di Greeenwich che le consentiva una velocità di 7 nodi. Era dotata di tre alberi senza crociami con velature di randa e di fiocco. Il suo armamento consisteva in quattro cannoni da dodici pollici. La nave, cui fu dato il nome di una piccola località nei pressi di Novara, teatro di uno scontro tra piemontesi ed austriaci il 30-31 maggio 1859, prese parte all'assedio di Gaeta con le gemelle Confienza e Curtatone. Durante un cannoneggiamento alla distanza ravvicinata di 200 metri delle batterie della fortezza venne colpita due volte sotto la linea di galleggiamento e fu costretta a ritirarsi per non essere affondata.

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Ma torniamo ai preparativi per il passaggio. Per agevolare il transito del Vinzaglio che, come detto,  era stato alleggerito il più possibile, si provvide a scavare il fosso per renderlo più profondo.

Il fondale era sabbioso e l’operazione non dovette presentare particolari difficoltà. Tuttavia la nave continuava a toccare il fondo. Per farla avanzare era necessario fornirle un aiuto. Cosa si fa quando occorre spostare una nave che non può muoversi con mezzi propri? La si prende a rimorchio! Già, facile a dirsi ma a farsi è un’altra storia. La soluzione però fu ingegnosa e si rivelò efficace. Sulle rive del canale vennero posizionati alcuni argani che sarebbe serviti a trainarla facendola strisciare sul fondale.

Incombeva, però, l’ancor più difficile problema del passaggio sotto il ponte di pietra a tre archi. Da una foto del tempo si può notare che gli archi non avevano tutti la stessa ampiezza. Scartato quello centrale che era il più stretto, la nave sarebbe dovuta passare sotto uno dei due laterali. Ma quale dei due? Quello a ovest, verso la città (vecchia) o quello a est, verso l’attuale città nuova?

Dalla prospettiva della foto riportata qui di seguito, l’arco occidentale si presentava parzialmente coperto alla vista dalla torre di S. Angelo (che dava il nome al castello e che negli anni successivi fu demolita per far posto alla spalla che doveva reggere uno dei bracci del nuovo ponte girevole).

Con ogni probabilità questa era la visuale che si presentava a comandante e timoniere del Vinzaglio all’imboccatura del fosso dalla parte di mar Grande.

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Alla visuale disturbata dal torrione Sant’Angelo, si aggiungeva l’asse longitudinale del fosso che, come si nota dal disegno qui sotto, non era dritto.

 

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Entrata nel “fosso” e superata il torrione Sant’Angelo, la nave avrebbe dovuto manovrare per inquadrare l’arco occidentale. Tuttavia lo spazio era limitato ed occorreva manovrare con grande accortezza per potersi allineare lungo l’asse di quell’arco evitando il rischio di impattare sui pilastri o sulla costa. Inoltre, ammesso che la manovra fosse riuscita, appena superato l’arco la nave si sarebbe trovata di fronte un altro ostacolo, la torre Monacella (demolita anch’essa durante i successivi lavori del nuovo canale navigabile) che avrebbe imposto una repentina accostata a destra per evitare l’impatto.

Le soluzione che sembrava meno rischiosa era, pertanto, quella di passare sotto l’arco orientale (quello sul lato della attuale città nuova).

Infatti, imboccato il canale, la nave avrebbe avuto lo spazio necessario per assumere la rotta rettilinea necessaria per allinearsi lungo l’asse centrale dell’arco.

In tal modo si sarebbe ridotto al minimo il rischio di impattare contro pilastri o sponde, trovando poi il percorso sgombro da altri ostacoli una volta superato l’arco.

Ragionamento corretto? Solo in apparenza perché alla fine la scelta cadde sull’ipotesi più difficile e rischiosa: passare sotto l’arco occidentale, quello vicino alla città (vecchia). Ma perché?

 

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Il ponte in muratura di porta Lecce con l'arco occidentale in fase di demolizione visto dal lato di mar Piccolo.

Sul lato destro si nota già il muro di sponda della banchina in fase di costruzione e, dietro l’arco, il torrione Sant’Angelo che appare già parzialmente demolito per far passare il “Vinzaglio”

 

Il motivo ce lo spiega Nicola Caputo che nel suo libro “Investivamo alla marinara” ci racconta che l’arco di destra (quello dalla parte del futuro Borgo) “poggiava su fondali secchi e sabbiosi che avrebbero reso impossibile il passaggio” (evidentemente su quel lato del fosso, completamente in secca, l’opera di scavo e soprattutto quella di trascinamento furono ritenute di impossibile realizzazione).

La scelta obbligata, pertanto, cadeva sull’arco di sinistra ma la visuale verso il mar Piccolo, come abbiamo descritto prima, era coperta dal torrione Sant’Angelo. Come fare? Dopo aver studiato e ristudiato il problema venne presa la decisione di tagliar via una parte di quel fastidioso torrione. Si, avete capito bene! Del resto, a quel tempo chi avrebbe potuto lagnarsi di tale scempio? Le Sopraintendenze per i beni culturali erano di là da venire ed il combattivo prof. Luigi Viola, creatore del Museo archeologico, sarebbe arrivato a Taranto solo vent’anni dopo. Forse, in uno sforzo di pessimistica lungimiranza, venne previsto che alla fine quel torrione sarebbe stato sacrificato del tutto per far posto alle sponde del costruendo ponte girevole (come vedremo in seguito).

Si giunse così al fatidico giorno del passaggio, il 23 luglio 1865.

Tirato da argani e paranchi il Vinzaglio fu trascinato lungo il fosso scavato all’occorrenza. Giunto davanti all’arco sinistro fu sicuramente necessario smontare la parte superiore degli alberi (“sghindare gli alberetti”, come direbbero i puristi)  che, altrimenti, avrebbero impattato contro la parte superiore del ponte.

Sulle sponde nel frattempo si era assiepata una gran folla che non voleva assolutamente perdersi quello spettacolo straordinario. Accompagnato dalle grida di giubilo e dagli applausi degli spettatori, il Vinzaglio dopo lunga e faticosa manovra, “spinte o sponte”, come racconta lo Speziale, alla fine passò e dette fondo alle ancore nel mar Piccolo.

Era la prima volta, dopo secoli, che una nave da guerra entrava nuovamente in quello specchio d’acqua.

Il Vinzaglio fece la sua parte. Effettuò i rilievi che gli erano stati affidati e, concluso il suo lavoro, percorse a ritroso il fosso per tornare in mar Grande.

Si era intanto giunti al maggio del 1866. L’Ammiraglio Persano era arrivato a Taranto per assumere il comando della flotta che stava radunandosi in vista della tragica avventura di Lissa. Il Saint Bon dovette così abbandonare il progetto cui stava lavorando per imbarcare come Comandante sulla corvetta Formidabile.

Quello che sembrava dover essere un rinvio solo temporaneo, con la sconfitta di Lissa si risolse invece nell’abbandono del progetto dell’Arsenale che fu rinviato a data da destinarsi. Le aggravate ristrettezze di bilancio suggerirono di concentrare le poche risorse disponibili sul completamento dell’Arsenale di La Spezia, avvenuto nel 1869, mentre per quello di Taranto si dovette attendere ancora un ventennio.

Dopo alti e bassi (la storia nel dettaglio magari ve la racconterò un’altra volta) giunse finalmente la legge n. 833 del 29 giugno 1882 che dette il via ai lavori di costruzione del canale navigabile e dell’arsenale.  

E’ interessante notare, però, che questa legge non istitutiva ufficialmente l’Arsenale ma si limitava, nell’ambito di alcuni finanziamenti previsti per l’adeguamento degli arsenali di La Spezia e di Venezia, a stanziare la somma di 9.300.000 lire anche per l’Arsenale di Taranto…

Si trattò quindi di una nascita clandestina, ma perché?

Addolcire l’originario disegno di legge fu una scelta dell’allora ministro della Marina Ferdinando Acton che per non suscitare le prevedibili proteste di Napoli, che si sarebbe vista privare della sede del 2° Dipartimento, rese il provvedimento più modesto e quindi “digeribile” anche dai napoletani. In pratica si trattò di una nascita senza battesimo, si potrebbe dire “di straforo”, clandestina appunto, mimetizzata nelle pieghe di un provvedimento che prevedeva altro. Un vecchio vizio dei nostri legislatori che pare quindi avere origini ben lontane…

Questo, comunque, è sintomatico del travagliato iter che subì il progetto dell’Arsenale tra discussioni politiche, interessi campanilistici, ristrettezze di bilancio, interruzioni, rinvii e polemiche di ogni tipo.

Ogni cosa però ha il suo prezzo e Taranto dovette pagare quei vent’anni di ritardo assistendo impotente, e forse disinteressata, al sacrificio di una parte consistente del castello al quale venne tagliata la… “coda”. Il passare del tempo aveva infatti reso necessaria una rivisitazione del progetto iniziale del Saint Bon (già peraltro rivisto e ridotto per ragioni tecniche ed economiche) nel senso che si dovette spostare l’asse del canale navigabile di parecchi gradi a sinistra affinché la sponda orientale non si trovasse troppo vicina ai palazzi che nel frattempo erano sorti in quello che sarebbe divenuto il c.d. Borgo (la città nuova).

Nel 1865, infatti, abolite le secolari servitù militari che avevano imposto alla città di restare chiusa entro i confini fortificati dell’isola, venne approvato il nuovo piano regolatore elaborato dall’architetto Davide Conversano che prevedeva l’occupazione degli ampi spazi al di là del fosso.

Questo consentì l’espansione della città sulla sponda orientale ma impose successivamente, per la rivisitazione del progetto del canale navigabile, la demolizione sulla sponda opposta del torrione Sant’Angelo e delle tre torri più piccole della cinta difensiva (Monacella, Mater Dei e Vasto) ritenuti ormai inutili e d’intralcio.  

La mancata inaugurazione ufficiale dell’Arsenale costituisce, poi, l’ultima testimonianza del faticoso percorso che portò alla sua istituzione e conferma quella nascita “clandestina” che per ragioni politico/campanilistiche dovette avvenire, come detto in precedenza, senza clamori e quasi sottobanco.

Negli annali della storia della città, infatti, la data di inaugurazione si fa coincidere con quella del 21 Agosto 1889 quando il re Umberto I, primo sovrano di casa Savoia a scendere nella città bimare, si recò in visita a Taranto cogliendo l’occasione per visitare i cantieri dei lavori dell’Arsenale.

Lo Stabilimento, però, essendo ancora ben lungi dall’essere completato, non vide né allora né in seguito, il taglio ufficiale di alcun nastro inaugurale.  

Modificato da Rostro
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Complimenti, Rostro! Una lettura scorrevole e interessante con aspetti storici a me (ma credo a gran parte dei Betasomiani) del tutto sconosciuti. Concordo con Malaparte: sarebbe quanto mai opportuno trovare il modo di pubblicare questa vicenda su qualche giornale o rivista. Mi viene in mente MARINAI D'ITALIA, per esempio. 

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