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I “CAVALLI DA TIRO” DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE


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LO SCENARIO DI RIFERIMENTO

 Nel 1936, con una legge federale degli Stati Uniti, fu approvato il Merchant Marine Act. Considerato da molti come la “Magna Charta” della Marina mercantile americana, conteneva tre principi fondamentali:

 1.    Per la difesa nazionale e per lo sviluppo dei commerci internazionali ed interni era

       necessaria una Marina mercantile moderna ed efficiente.

2.    Le navi di questa nuova Marina mercantile dovevano essere costruite in maniera da

       poter essere convertite in naviglio ausiliario in caso di guerra o di emergenza

       nazionale.

3.    Tutte queste navi dovevano essere costruite negli Stati Uniti, possedute da armatori

        americani e battere bandiera americana.

 Allo scopo di soddisfare questi principi, nell’Act erano previsti sussidi costruttivi ed operativi. Ciò avrebbe consentito alla flotta mercantile nazionale di essere competitiva sul mercato mondiale, dove i costi di fabbricazione erano la metà ed i costi gestionali due terzi di quelli degli Stati Uniti.

 La rimanente vita operativa delle navi della Marina mercantile americana era valutata in media attorno ai cinque anni. A partire dal 1937, l’Act varava un programma decennale che prevedeva la costruzione di cinquanta navi all’anno. La nuova flotta sarebbe stata composta da petroliere veloci e da tre tipi di mercantili – C1, C2 e C3 – con propulsione a turbina, che avrebbe consentito una velocità di esercizio relativamente elevata. La lettera C stava per Cargo, ossia nave da carico ed i numeri 1, 2 e 3 ne definivano la lunghezza, che era rispettivamente: inferiore a 122 metri, compresa tra 122  metri e 137 metri, compresa tra 137 metri e 152 metri.

 All’epoca, solo dieci cantieri USA erano in grado di costruire navi lunghe più di 120 metri, con una disponibilità complessiva di quarantacinque scali, metà dei quali erano già impegnati da costruzioni militari.

 Nel 1939, alla vigilia dello scoppio della guerra in Europa, riconoscendo la necessità di controllare i commerci del Paese, la produzione programmata per il decennio fu raddoppiata, portandola a 100 navi all’anno. Nell’agosto 1940 fu raddoppiata ancora una volta e vennero emessi ordini di costruzione, distribuiti su 19 cantieri, per 200 navi all’anno.

 Nel settembre 1939, subito dopo l’entrata in guerra della Gran Bretagna, la Maritime Commission aveva venduto alla nazione alleata un elevato numero di navi facenti parte della riserva, ma risalenti alla 1ª Guerra Mondiale. Questa operazione commerciale consentì agli Stati Uniti di disfarsi di naviglio ormai obsoleto e, allo stesso tempo, di rimpolpare il tonnellaggio dell’Inghilterra in una fase particolarmente delicata della sua economia, pesantemente condizionata dagli eventi bellici.

 Frattanto, in Europa una nazione dopo l’altra cadeva sotto il dominio di Hitler e l’Inghilterra si trovava da sola a combattere contro la Germania, avendo gli Stati Uniti confermato la decisione di rimanere neutrali. Durante i primi nove mesi di guerra le perdite inglesi ammontarono a 150 navi, per oltre un milione di tonnellate. Solamente nel mese di aprile del 1941 andarono perdute navi per ottocentomila tonnellate di stazza: i sommergibili tedeschi le affondavano più in fretta di quanto gli Inglesi riuscissero a costruirle!

 La Marina mercantile americana aveva tuttavia iniziato a collaborare con le nazioni alleate già molti mesi prima dell’attacco di Pearl Harbor. Gli aiuti americani aumentarono proporzionalmente alla probabilità che gli Stati Uniti venissero coinvolti nel conflitto e, a partire dal maggio 1941, le navi americane portarono rifornimenti non solo alle isole britanniche, ma anche nei teatri di guerra inglesi in Medio Oriente, Africa, Golfo Persico e Oceano Indiano, trasportando complessivamente 48.958 veicoli, 302.698 tonnellate di merci e 814 aerei.

 I continui attacchi dei sommergibili tedeschi avevano falcidiato il tonnellaggio della Marina mercantile britannica. Giunta ad una situazione disastrosa, l’Inghilterra chiese aiuto agli Stati Uniti, che notoriamente possedevano immense risorse naturali ed avevano dimostrato in più occasioni una straordinaria abilità nel portare a termine progetti su larga scala.

Nel settembre 1940 la British Merchant Shipbuilding Mission  si recò negli Stati Uniti per proporre al Governo Federale di costruire navi per la Gran Bretagna, portando con sé il progetto di un mercantile simile alla Dorington Court, varata nel 1939. Era questa una nave con una portata di 10.000 tonnellate ed una macchina a vapore da 2.500 HP in grado di imprimerle una velocità di 10 nodi. Il progetto non era tecnologicamente all’avanguardia, ma il piano costruttivo era semplice ed il propulsore era una macchina alternativa  a carbone, obsoleta ma di estrema affidabilità.

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                                                                                                                                                                                   La Dorington Court

Da quando era entrata in esercizio, la nave non aveva mai dato problemi di sorta ed era ritenuta la soluzione ideale per viaggi in cui la velocità fosse di secondaria importanza rispetto all’affidabilità. L’Inghilterra chiedeva sessanta di queste navi.

Secondo l’ammiraglio Emory Scott Land, presidente della U.S. Maritime Commission, il modo più veloce per l’Inghilterra di avere le navi di cui necessitava sarebbe stato quello di ordinarle direttamente ai cantieri, anziché passare per il Governo degli Stati Uniti; ma purtroppo non erano disponibili, al momento, scali di costruzione. Il Governo decise allora di crearne di nuovi, dove realizzare le 60 navi, che sarebbero state denominate “Classe Ocean”. L’iniziativa avrebbe tra l’altro consentito di rispettare i programmi di attuazione della “flotta d’emergenza” americana.

 Per aggiudicare le nuove costruzioni fu convocato un gruppo di imprese della West Coast specializzate in progettazione e realizzazione di grandi opere, conosciuto come Le Sei Compagnie, di cui era a capo Henry Kaiser, che aveva costruito le mastodontiche dighe di Hoover e Grand Coulee. Nel giro di pochi mesi entrarono a far parte del gruppo anche i cantieri navali Todd Shipyards Inc. di New York e Bath Iron Works del Maine, tra i più antichi e affidabili degli Stati Uniti.

 Anche se non ci fosse stato l’ordine delle 60 navi inglesi, l’accelerazione nella costruzione di nuovi mercantili avrebbe comunque spiazzato le industrie meccaniche che dovevano fornire i propulsori. Non c’erano abbastanza turbine da installare sui nuovi “Modelli C”. Inoltre, sotto l’effetto dei venti di guerra, la richiesta di ulteriore tonnellaggio aumentava di giorno in giorno e presto apparve chiaro che le sofisticate navi previste nel 1936 dalla Maritime Commission avrebbero dovuto attendere tempi migliori. La quantità, piuttosto che la qualità, divenne il nuovo obiettivo da perseguire.

 La produzione su larga scala significava dover modificare velocemente i progetti già elaborati sulle indicazioni della Maritime Commission per avviare immediatamente le costruzioni, ma il tempo necessario per sviluppare i piani di una nuova nave era un lusso che gli Stati Uniti non potevano permettersi. Con la Battaglia dell’Atlantico già in atto, anche i normali tempi di costruzione si dimostravano troppo lunghi. Per ridurli, e allo stesso tempo abbassare i costi, fu deciso allora di assemblare i nuovi scafi saldando le lamiere, anzichè ricorrere alla tradizionale e lenta chiodatura con rivettatura.

 Il miglior progetto immediatamente disponibile era quello portato dagli Inglesi per quella che sarebbe diventata la “Classe Ocean”. La macchina era di potenza adeguata e la capacità di carico soddisfacente per l’uso cui erano destinati i nuovi mercantili. Tra l’altro, lo scafo e l’apparato motore del Dorington Court erano un esempio di semplicità: l’essenzialità delle linee ben si adattava al nuovo concetto di saldatura; la macchina alternativa adottata nel progetto inglese era di concezione elementare e poteva essere realizzata da qualsiasi costruttore di carpenteria metallica, a differenza delle sofisticate turbine ad alta e media pressione con i relativi gruppi riduttori ad ingranaggi progettate per i “Modelli C”. Lo stesso valeva per le caldaie, considerando in particolare la bassa pressione di esercizio richiesta da una macchina alternativa. Infine, questa nave era facile da condurre e la motrice alternativa, in particolare, richiedeva un addestramento minimo del personale.

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        La macchina a triplice espansione di un Liberty                           Schema di funzionamento

All’inizio del 1941 l’ammiraglio Emory Land sottopose al Presidente Roosevelt il progetto inglese, che avrebbe potuto essere modificato per adeguarlo alla produzione di una nave mercantile americana efficiente, di rapida costruzione e che potesse soddisfare i bisogni dettati dallo sforzo bellico. Il commento di Roosevelt fu: «Ammiraglio, penso che questa nave risponda molto bene alle nostre esigenze; può trasportare un buon carico, ma non è bella da vedere: un vero e proprio “brutto anatroccolo”». Appena la stampa venne a conoscenza del sarcastico commento, fece sua la battuta e  da quel momento le navi del programma di guerra furono affettuo-samente soprannominate “I brutti anatroccoli”. Ma le parole di Roosevelt segnarono la nascita della più numerosa classe di navi mai costruite: i “Liberty”, realizzati in quasi 3.000 esemplari tra il settembre 1941 e l’ottobre 1945.

 

I LIBERTY

Nel Febbraio 1941 il Presidente Roosevelt annunciò alla nazione la costruzione di una nuova classe di navi per fronteggiare l’emergenza. Fedele al suo commento iniziale, le descrisse come “oggetti di brutto aspetto” e comunicò che ne sarebbero state costruite duecento esemplari. Questa cifra sarebbe progressivamente cresciuta nel 1942 e 1943 fino a raggiungere il numero di 2.751 navi, per un totale di oltre 27.510.000 tonnellate di portata. 

 

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                                                              Profilo e sezione longitudinale

Cercando di cambiare l’immagine che l’opinione pubblica aveva riportato di questi mercantili d’emergenza, che presto sarebbero diventati il fondamento delle costruzioni navali americane, l’ammiraglio Land dichiarò il 27 settembre 1941 “Giorno della Flotta Liberty”. Quel giorno, infatti, furono varate in diversi cantieri della nazione ben 14 navi “di emergenza”. La prima di queste fu battezzata con il nome di Patrick Henry, in onore dell’omonimo patriota della Guerra d’Indipendenza americana, che fece la famosa dichiarazione “Give me liberty or give me death” (Datemi la libertà o datemi la morte). Di conseguenza, tutte le navi del tipo EC2 (la lettera E stava per emergency) vennero soprannominate “Liberty”.

 Meno di un mese più tardi, il 15 ottobre 1941, scese in mare la prima nave inglese della classe “Ocean”, la Ocean Vanguard, tenuta a battesimo dalla moglie dell’ammiraglio Land.

 La strategia americana di costruire le navi più velocemente di quanto esse venissero affondate, si dimostrò un concetto condiviso, ovviamente in maniera opposta, dalla Kriegsmarine. Nel maggio 1942, l’ammiraglio Karl Dönitz, che di lì a poco ne sarebbe diventato il comandante supremo, in una riunione di alti ufficiali fece la seguente affermazione: «Il tonnellaggio complessivo che il nemico può costruire sarà di circa 8,2 milioni di tonnellate nel 1942 e 10,4 milioni di tonnellate nel 1943. Questo significa che, per neutralizzare le nuove costruzioni, dovremo affondare in media 700.000 tonnellate al mese; soltanto se riusciremo a superare questo numero saremo in grado di diminuire il tonnellaggio del nemico. Comunque, già ora stiamo affondando 700.000 tonnellate al mese». Lo sbaglio commesso da Dönitz fu di sottostimare la capacità produttiva dei cantieri americani.

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             Il promemoria con il quale Roosevelt chiedeva a Land un ulteriore aumento di produzione

I Liberty erano lunghi 135 metri e larghi 17,3. Spinti da una macchina a vapore della potenza di 2.500 cavalli, potevano raggiungere la velocità di 11 nodi (poco più di 20 Km/h); l’autonomia era  di 17.000 miglia (31.500 Km.). Disponevano di cinque stive, tre a proravia della sala macchine e due a poppavia. Avevano una capacità di carico di 10.800 tonnellate: 9.000 nelle stive e 1.800 in coperta, dove potevano trovar posto aerei, carri armati e locomotive. Gli alloggi dell’equipaggio erano sistemati nel cassero centrale.

 Per avere un’idea della potenzialità di trasporto, basti pensare che su un Liberty era possibile caricare 2.840 jeep, oppure 440 carri armati, o 230 milioni di caricatori per fucili, o 3.440.000 razioni da combattimento.

 Il processo di accelerazione nella produzione dei Liberty rivoluzionò il sistema delle costruzioni navali. I vecchi cantieri contribuirono con le loro conoscenze derivate dall’esperienza. I nuovi costruttori svilupparono tecniche moderne e metodi innovativi in quello che era sempre stato un lavoro legato alle tradizioni. La saldatura elettrica era stata solo recentemente sviluppata fino al punto da poter essere adottata nelle costruzioni navali: la prima nave interamente saldata fu varata nel novembre 1940.

 Assieme alla saldatura fu introdotta la prefabbricazione. Il cantiere Sun Shipbuilding di Chester, Pennsylvania, adottò la tecnica di realizzare la sezione di prua a terra, per poi assemblarla alla nave che si trovava in costruzione sullo scalo. Poi fu la volta delle paratie e delle parti inferiori dello scafo ad essere costruite separatamente a terra ed essere unite successivamente alle altre sezioni sullo scalo. I cantieri Bethlehem-Fairfield di Baltimora furono all’avanguardia in questa nuova metodologia costruttiva; nelle loro officine meccaniche assemblavano contemporaneamente porzioni di scafo per otto navi: in particolare i doppi fondi con le tubazioni per  il combustibile e per il drenaggio delle sentine già installate; dall’officina, la sezione completa veniva trasportata sullo scalo e lì saldata allo scafo.

In Oregon, i cantieri di Portland furono modernizzati per adeguarli alla costruzione prefabbricata. A lavori conclusi si arrivò al punto di costruire a terra l’intero cassero centrale, con gli alloggi arredati e gli strumenti per la navigazione già installati sul ponte di comando. Il tutto veniva poi sollevato da gru gigantesche e saldato allo scafo quando la nave era già stata varata e si trovava ormeggiata alle banchine del cantiere per completare l’allestimento.

 In Nord Carolina, la Newport News Shipbuilding Company affinò le tecniche di prefabbricazione al punto che nel nuovo cantiere di Wilmington venivano preassemblate quasi interamente le due sezioni laterali delle navi; esse venivano poi tagliate in pezzi che fosse possibile movimentare con le gru, trasportate sullo scalo e nuovamente saldate tra di loro. I tempi di consegna, inizialmente previsti in 110 giorni, scesero a 40.

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    Il cassero centrale col ponte di comando, le piazzole delle mitragliatrici, le cabine e i locali comuni,

                                               prefabbricato e montato completamente arredato

I Liberty cominciavano a portare a termine con successo le loro missioni. Erano stati progettati per avere una vita operativa di cinque anni, ma apparve ben presto chiaro che se una di queste navi fosse arrivata indenne a destinazione con il carico del suo primo viaggio, avrebbe adempiuto alla missione per la quale era stata costruita;  tutti i viaggi successivi sarebbero stati un qualcosa in più.

In pochi immaginavano che queste unità avrebbero superato simili pessimistiche previsioni e che, oltre a dimostrarsi dei veri e propri “cavalli da tiro” che permisero la realizzazione di quel “ponte di navi che univa l’America all’Europa” voluto da Roosevelt, sarebbero diventate l’asse portante della marina mercantile mondiale per i successivi venticinque anni. Un risultato così largamente positivo fu ottenuto grazie all’attaccamento al lavoro delle maestranze di cantiere ed alle nuove tecniche introdotte: la capacità di fare il lavoro presto e bene anche quando gli eventi erano già in corso. Questa grande qualità americana, che si estrinseca nello straordinario senso di appartenenza alla nazione da parte dei cittadini, unita alla politica del Governo e ad una scrupolosa programmazione, si dimostrò una risorsa eccezionale.

Per costruire un Liberty erano necessarie 3.425 tonnellate d’acciaio: 2.727 tonnellate di lamiere per lo scafo e 698 tonnellate di profilati per l’ossatura. Le donne rappresentavano oltre il 30% della forza lavoro che, nel 1943, arrivò a 700.000 unità.

Purtroppo, l’improvvisazione delle maestranze, la mancanza di addestramento e l’inadeguatezza dei controlli, insieme a carenze nelle tecniche di saldatura, provocarono problemi di robustezza allo scafo di molti Liberty della prima generazione, alcuni dei quali si spezzarono in due tronconi, specialmente in presenza di tempeste atlantiche con la nave a pieno carico.

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Golfo dell’Alaska, Novembre 1943 – Il John P. Gaines spezzato in due all’altezza del ponte di comando con la parte poppiera ancora galleggiante

Come era già accaduto nella 1ª Guerra Mondiale, anche ora la capacità produttiva dei cantieri americani si dimostrò semplicemente sbalorditiva. Mentre nel 1939 negli scali di costruzione di tutta la nazione veniva varata una nave ogni 13 giorni, e nel 1941 una ogni tre giorni e mezzo, nel 1943 si raggiunse il record di cinque navi al giorno. Solamente in quest’ultimo anno i cantieri produssero navi per 19.210.000 tonnellate di portata, una quantità maggiore di quanto fosse avvenuto negli anni dal 1914 al 1938.

Nel 1942, nei cantieri navali americani furono costruite 746 navi. Nel 1943 ben 1.896, di cui 1.238 erano Liberty. Il costo previsto per ciascuno di essi era di 1.500.000 dollari. A questa cifra andavano aggiunti i costi contrattuali dei cantieri, che oscillavano tra 60.000 e 140.000 dollari per ogni nave.

Il personale complessivamente impiegato nella Marina mercantile USA, dai transatlantici ai rimorchiatori, era nel 1940 di 65.000 uomini e qualche donna. Nel 1943 il numero era cresciuto a 85.000 e nel 1944 a 175.000. Alla fine della 2ª Guerra Mondiale ammontava a 250.000 unità, in gran parte donne.

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                       Un manifesto propagandistico USA per l’arruolamento nella Marina Mercantile

Molti uomini non arruolati nelle forze armate avevano deciso di combattere la loro guerra imbarcandosi sui mercantili.

All’inizio si erano effettivamente incontrate non poche difficoltà a mettere insieme gli equipaggi dei Liberty. Le navi venivano prodotte più velocemente di quanto si potesse reclutare il personale, così a bordo si trovava un guazzabuglio di individui. Furono allora compiuti sforzi congiunti tra i vari sindacati dei marittimi, le compagnie di navigazione e gli istituti nautici nazionali, compresa l’Accademia della Marina mercantile. A Sheepshead Bay, un sobborgo di Brooklyn, a New York, venne istituito il più grande centro di addestramento per marinai generici, dal quale uscivano 30.000 uomini l’anno. Nel Maggio 1944 il limite d’età per entrare nel personale navigante fu abbassato a 16 anni. In una settimana, oltre 7.000 ragazzi si arruolarono come volontari in una quarantina di uffici di reclutamento.

 Il 17 novembre 1941 il Congresso autorizzò l’installazione di cannoni navali sui mercantili per la loro difesa, nonché l’imbarco di personale militare addetto agli armamenti. La prima nave ad esserne dotata fu la Dunboyne.

L’armamento dei Liberty era strettamente rivolto alla difesa antisommergibile ed antiaerea. Consisteva in due cannoni navali da 3 e 5 pollici, disposti il primo a prua ed il secondo a poppa, e in otto mitragliatrici antiaeree da 20 mm. collocate, una per lato, a metà tra la prua e il ponte di comando, quattro sul flying bridge (il cielo del ponte di comando) e due a poppa dietro il cannone.

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                                       Il cannone di prua da 3 pollici e una delle mitragliere da 20 mm.

I civili imbarcati venivano pagati alla fine di ogni viaggio, mentre i militari erano regolarmente stipendiati e questa fu la causa principale degli attriti che si instaurarono fra i due tipi di equipaggi.

A partire dal 24 febbraio 1943 la paga dei civili fu regolamentata in funzione della tipologia del viaggio e dello scacchiere in cui esso si svolgeva; vennero inoltre introdotti dei bonus in relazione agli attacchi subiti. Un marinaio poteva incrementare dal 40 al 100% la paga stabilita per quel viaggio, compresi gli straordinari, in base alla durata della navigazione in zone considerate soggette ad azioni nemiche. Una maggiorazione di 5 dollari al giorno era riconosciuta per la navigazione nel mare di Murmansk, nel Mediterraneo e nel Pacifico Meridionale. Inoltre veniva concesso un bonus di 125 dollari se una nave era sottoposta ad un attacco nemico in porto o quando si trovava all’ancora.

L’equipaggio di un Liberty era composto in media da 41 persone. Gli ufficiali di coperta erano il comandante, il primo ufficiale, il secondo ed il terzo; gli ufficiali di macchina erano il direttore di macchina, il primo, secondo e terzo macchinista. Erano inoltre previsti due allievi ufficiali: uno di coperta e uno di macchina. Facevano parte dell’equipaggio di coperta il nostromo, sei timonieri, tre marinai generici e un carpentiere. Al servizio di macchina erano addetti tre fuochisti, tre ingrassatori, due operai e un ufficiale di ponte, responsabile dei verricelli, delle condutture di vapore, degli scambiatori di calore e di tutte le attrezzature meccaniche poste al di fuori della sala macchine. I servizi di camera e di cucina comprendevano un capo cameriere, un capo cuoco, un secondo cuoco, un cuoco di notte e fornaio, sei giovanotti di camera e un giovanotto di cucina. Su ogni nave era inoltre imbarcato un radiotelegrafista e un commissario che si occupava della parte amministrativa.

La traversata dell’Atlantico non era affare da poco. Molto spesso il mare era agitato e gli equipaggi soffrivano il mal di mare. In inverno le cose andavano ancora peggio: uno strato di ghiaccio ricopriva tutto ciò che si trovava al di sopra del livello del mare, rendendo quasi impossibile e molto pericoloso camminare all’esterno. Talvolta il ghiaccio era così spesso da mettere a repentaglio la stabilità della nave.

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                       Dicembre 1943 – Un Liberty in navigazione nel Nord Atlantico in tempesta

Ma il problema maggiore era rappresentato dagli U-Boot che pattugliavano l’oceano. Sia che fossero soli o in gruppo per attaccare con la tecnica del “branco di lupi”, avevano come obiettivo quello di silurare tutte le navi che incontravano. Nel primo periodo del conflitto i sommergibili tedeschi riportarono un enorme successo, affondando un numero di navi così elevato che l’Inghilterra dovette affrontare una grave carenza di generi alimentari e di armamenti. Con l’avvento dei convogli di Liberty protetti da una flottiglia di cacciatorpediniere, il blocco tedesco fu rotto.

 In aggiunta ai sommergibili tedeschi operavano, seppure in numero più ridotto, anche battelli italiani che facevano capo alla base della Regia Marina di Betasom, nella città di Bordeaux. I nostri equipaggi scrissero pagine gloriose, sulle quali non mi soffermerò perché già ampiamente note. Solo un deferente ricordo per tutti i nostri sommergibilisti che trovarono la morte in Atlantico e per i loro Comandanti diventati delle vere icone nella storia della nostra Marina.

Il primo convoglio, composto da 44 navi, partì da Halifax il 16 Settembre 1941 ed arrivò a Liverpool il 30 dello stesso mese. Halifax, in Nuova Scozia (Canada), divenne il terminale principale di partenza per i convogli transatlantici. Le navi che li componevano erano di svariati tipi e dimensioni e la velocità del convoglio era condizionata da quella della nave più lenta. La scorta era effettuata da cacciatorpediniere e corvette. Si poteva verificare il caso che un convoglio di 40 navi avesse una scorta di sole tre navi da guerra. In mezzo all’Atlantico i mercantili erano spesso lasciati senza protezione, perché il naviglio minore destinato a questo compito non aveva autonomia sufficiente per effettuare la traversata dell’oceano in andata e ritorno. Quindi i convogli erano scortati per le prime 300-400 miglia dalla Marina Canadese, poi, in prossimità dell’avvicinamento alle coste europee, subentrava la scorta della Royal Navy fino ai porti della Gran Bretagna.

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                                                         Un convoglio in partenza da Halifax

Un convoglio di 45 navi aveva un perimetro di oltre 30 miglia ed era molto facile per gli U-Boot penetrare al suo interno anche quando era sotto scorta, composta al massimo da cinque navi, in quanto i sonar avevano la portata di un miglio. Le perdite alleate nel Nord Atlantico furono considerevoli e dipesero da una serie di ragioni; nei primi mesi di guerra furono particolarmente alte, finché gli Alleati non trovarono il modo di prevenire gli attacchi e di reagire adeguatamente quando questi si verificavano. La caduta della Francia, nel Giugno 1940, fece aumentare ulteriormente le perdite, perché le rotte seguite dai mercantili potevano essere intercettate più agevolmente dai sommergibili e dagli aerei tedeschi di stanza nelle basi francesi.

335473745_12_ConvoglioAtlant.orientale.jpg.591fd47cc340b320410d79b6461d766f.jpg                                               Un convoglio in navigazione nell’Atlantico orientale

Dopo il mese di Maggio 1941, l’affondamento della corazzata tedesca Bismarck ridusse notevolmente il pericolo di attacchi da navi pesanti. Vale la pena di ricordare che i sommergibili navigavano ed attaccavano generalmente in superficie; la navigazione in immersione era solamente una tattica per penetrare nel convoglio e per fuggire dopo aver portato a termine l’azione.

 

I VICTORY

Nel 1943 la U.S. Maritime Commission varò un programma per la progettazione di un nuovo tipo di nave della cosiddetta “flotta di emergenza”, che avesse una buona capacità di carico e una velocità piuttosto elevata. L’obiettivo era di rimpiazzare i più lenti Liberty, che con i loro 11 nodi di velocità massima costituivano una facile preda per i sottomarini nemici.

Il progetto standard studiato dalla commissione prevedeva una nave lunga 136 metri e larga 19. Il 28 Aprile 1943 il progetto fu approvato; a questa classe di navi venne dato il nome di “Victory” e  fu contrassegnata dalla sigla VC2, (V per Victory, C per cargo e il numero 2 la identificava per una nave di medie dimensioni, ovvero con una lunghezza al galleggiamento compresa tra 122 e 137 metri). Anche i Victory avevano cinque stive: tre a proravia del cassero centrale e due a poppavia. La portata era di 10.850 tonnellate di merci tutte sistemate nelle stive, quasi analoga a quella dei Liberty, ma molto più razionale. L’equipaggio era formato da 62 civili e 28 militari, questi ultimi addetti alle armi ed alle telecomunicazioni. Gli alloggi erano situati nel cassero centrale. La differenza principale rispetto ai Liberty era costituita dal sistema di propulsione: la motrice alternativa a vapore aveva lasciato il posto ad una moderna e veloce turbina, che assicurava una velocità di circa 17 nodi (31,5 Km/h).

Anche il profilo e le tecniche costruttive dei Victory erano diverse da quelle dei Liberty. Una modifica importante riguardava la progettazione dell’ossatura dello scafo. Infatti, mentre nella Classe EC2 la distanza fra le ordinate (le costole della nave sopra le quali vengono saldate le lamiere) era di 76,2 centimetri, nei Victory era di 91 centimetri; questa maggiore distanza faceva sì che lo scafo fosse più flessibile e quindi meno soggetto al pericolo di fratture.

L’United Victory, varato il 12 gennaio 1944 e consegnato il 28 febbraio, fu la prima nave di questa classe ad essere completata. Le successive 33 navi furono battezzate con il nome di Paesi alleati degli Stati Uniti, come, ad esempio, Brazil Victory, U.S.S.R. Victory, Haiti Victory. Alle costruzioni successive furono assegnati nomi di città degli Stati Uniti (Las Vegas Victory, Ames Victory, Zanesville Victory, ecc.) e di importanti college e università americane (Adelphi Victory, M.I.T. Victory, Yale Victory,ecc.). In ogni caso, tutti i nomi delle navi terminavano con il suffisso Victory. Durante la guerra ne furono costruiti 414, di cui 97 adibiti a trasporto truppe ed ulteriori 117 destinati a supporto per missioni d’attacco; un totale di 531 navi.

Grazie ai Victory fu possibile stabilire un efficiente collegamento marittimo con i vari teatri di guerra e queste navi veloci, caratterizzate da una soddisfacente possibilità di carico, furono ampiamente utilizzate sia sul fronte dell’Atlantico che su quello del Pacifico.

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               Oceano pacifico – Ottobre 1944 – Il Bluefield Victory in navigazione a pieno carico

Alla fine della guerra, la Maritime Commission autorizzò la vendita di 170 Victory ad armatori privati; 20 furono dati in prestito alla U.S. Army ed i restanti entrarono a far parte della flotta di riserva. Quando la U.S. Navy ritenne di non necessitare più di queste navi nel brevemedio termine, pur rimanendo possibile il loro utilizzo per fu- ture emergenze, esse furono poste “in naftalina”, ossia rimorchiate in porti di stoccaggio, svuotate di combustibile ed attrezzature, e sigillate tutte le aperture verso l’esterno. Per combattere la corrosione provocata dalla salsedine fu installato un sistema di protezione catodica per lo scafo e di deumidificazione per gli spazi interni.

Alcune di queste navi ritornarono in servizio in occasione di crisi internazionali, come la Guerra di Corea, la chiusura del Canale di Suez del 1956 e la guerra del Vietnam. Altre furono mantenute in attività come supporto logistico al Ministero della Difesa, per qualsiasi necessità di trasporti transoceanici e operazioni militari di altre agenzie governative. Nel 1959, otto Victory furono riclassificati e trasformati in navi di supporto elettronico, telemetrico e recupero per  la NASA a fronte del programma spaziale americano. L’11 agosto 1960, l’Haiti Victory recuperò la capsula del satellite artificiale Discoverer XIII, il primo oggetto costruito dall’uomo ad essere recuperato dallo spazio. Nel novembre dello stesso anno fu ribattezzato Longview, divenendo l’eponimo di una nuova classe di navi, composta da altri due Victory, e continuando a dare supporto al programma spaziale, oltre ad assolvere una serie di attività scientifiche in campo missilistico per conto della U.S. Air Force.

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                                              Il Longview in azione nell'Oceano Pacifico

Nel corso degli anni, molti dei Liberty e dei Victory che si trovavano “in naftalina” sono stati venduti per la demolizione ed attualmente ne restano solamente alcuni esemplari, adibiti a musei galleggianti. Una decina d’anni fa ho avuto l’occasione di visitare uno dei due Liberty superstiti, il Jeremiah O'Brien, che si trova ormeggiato al Fisherman’s Wharf di San Francisco e questo potrebbe essere l’argomento di un prossimo post.

 

LE PETROLIERE T2

 Come abbiamo visto all’inizio, il Merchant Marine Act prevedeva anche la costruzione di una serie di petroliere. Inizialmente, il progetto di queste navi consistette in un adattamento dei piani costruttivi delle petroliere Mobifuel e Mobilube appartenenti alla Socony-Vacuum Company, che più tardi avrebbe cambiato il nome in Mobiloil.

Avevano una lunghezza fuori tutto di 153 metri ed una larghezza di 21 metri; la stazza lorda era di 9.900 tonnellate, con una portata di 15.850 tonnellate ed un dislocamento a pieno carico di 21.100 tonnellate. Sei di queste navi, che costituirono il modello “base” del le T2, vennero costruite nei cantieri Bethlehem-Sparrows Point Shipyard in Maryland.

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Il passo successivo fu un’elaborazione del progetto iniziale, che diede vita alla classe “T2-A”, composta da cinque navi costruite nel 1940 dai cantieri Sun Shipbuilding and Drydock Co. di Chester, in Pennsylvania, per la Keystone Tankship Corporation e le sue affiliate. Prima che fossero completate, nel 1942, furono requisite dalla U.S. Navy per essere utilizzate come petroliere militari. Erano lunghe 160 metri, larghe 21 ed avevano una stazza lorda di 10.600 tonnellate. La portata era di 16.300 tonnellate e ne dislocavano 22.445 a pieno carico. L’apparato motore era costituito da turbine a vapore con riduzioni ad ingranaggi che erogavano una potenza di 12.000 HP ad un’unica elica, in grado di garantire una velocità massima di 16,5 nodi.

 La classe “T2-SE-A1”, messa in cantiere dalla US Maritime Commission, fu quella più vasta fra i vari tipi di petroliere T2. Queste navi derivavano da un progetto che era già stato realizzato dalla Sun Shipbuilding Company per conto della Standard Oil Company of New Jersey che, per evitare le sanzioni previste dalla severissima legge antitrust americana, assunse poi il marchio multinazionale ESSO.

Tra il 1942 e il 1945 furono costruite 481 unità di questa classe, che adottarono la propulsione turboelettrica, consistente in un generatore azionato da una turbina a vapore e collegato ad un motore elettrico che azionava l’elica. In questo modo si evitava l’installazione di gruppi riduttori ad ingranaggi, che per la loro produzione a-vrebbero richiesto parecchio tempo e l’impiego di complessi macchinari che in quel momento erano utilizzati per le costruzioni militari.

 Adottando i medesimi criteri costruttivi già messi a punto per i Liberty, la realizzazione di queste petroliere fu affidata a vari cantieri americani, che riuscirono a contenere i tempi di costruzione in maniera così spinta da sembrare incredibile: dall’impostazione della chiglia alle prove in mare trascorrevano circa 70 giorni, di cui 55 necessari alla costruzione vera e propria sullo scalo e 15 per l’allestimento a varo avvenuto. Il record fu ottenuto dai cantieri della Marinship Corporation, che costruì la Huntington Hills in appena 33 giorni, di cui 28 sullo scalo e 5 per l’allestimento.

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          Una T2 in navigazione con alcune PT boats caricate su un graticcio mobile sopra la passerella

Le petroliere di questa classe non furono le prime navi ad avere la propulsione turboelettrica, che non era un’invenzione recente. Già durante la 1ª Guerra Mondiale questo sistema era stato adottato su alcune navi da carico e da guerra. Nel 1938, due petroliere costruite dalla Sun Shipbuilding Company per l’Atlantic Refining Company di Philadelphia, la J.W. Van Dyke e la Robert H. Colley, erano azionate da un motore della General Electric che forniva una potenza di 6.040 cavalli asse, con una velocità massima di 13,5 nodi. Successivamente, l’Atlantic Refining mise in esercizio altre cinque navi di questo tipo.

Le turbine delle T2 azionavano un generatore connesso ad un motore elettrico che azionava un singolo asse dell’elica. Questo sistema di propulsione forniva una potenza normale di 6.000 cavalli-asse che poteva essere incrementata fino a 7.240, il che significava una velocità di crociera di 14,5 nodi e massima di 15 nodi.

La lunghezza tra le perpendicolari era di 153,31 m. e, fuori tutto, di 159,41 m. Il pescaggio a pieno carico era di 9,46 m.

La stazza lorda era di 10.448 tonnellate e quella netta di 6.150 tonnellate. Il dislocamento a pieno carico era 21.880 t. e la portata di 16.613 t. 

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                                                         Schema di costruzione di una T2

Queste petroliere avevano nove gruppi di tanche: quelli dai nn. 2 a 9 erano costituiti da una tanca principale centrale e due tanche minori laterali, mentre il n. 1 era più piccolo e consisteva in sole due tanche laterali. Sopra queste due tanche era stata ricavata una piccola stiva di 430 mc. La capacità di ogni tanca centrale era di 1.500 mc. e le due laterali di 625 mc., per un totale di 22.500 mc., equivalenti a 16.613 tonnellate.

Per scaricare il carico vi erano due sale pompe: una principale a poppa e una secondaria a prua. La sala principale conteneva tre grandi pompe ciascuna con una capacità di 7,6 mc./min., due più piccole da 1,5 mc./min. e una da 2,6 mc./min. Nella sala pompe di prua c’erano una pompa da 2,6 mc./min. e una più piccola da 1,1 mc./min usate per il trasferimento di petrolio da una tanca all’altra e per lo svuotamento delle casse zavorra, doppi fondi e sentine. Il tempo teorico di scarico di una T-2 era inferiore a 12 ore.

L’autonomia era di 12.600 miglia e normalmente l’equipaggio era composto da 44 persone.

 Le T2 erano facilmente riconoscibili per i grandi oblò rotondi del ponte di comando e per il caratteristico “cappello” sopra il fumaiolo.

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:smiley19:COMPLIMENTI!:smiley19:Topic interessante e ben farcito di notziie. 

Le "Liberty" eran dei "brutti anatroccoli"? Non direi proprio. Certamente dal lato estetico (e tecnico...) non eran all' altezza delle ns motonavi come REGINALDO GIULIANI, CARLO DEL GRECO, FABIO FILZI, MARIO ROSSELLI ed altre di simili dimensioni, ma a me le "Liberty" son sempre piaciute.

Rimango perplesso nel leggere che le "Liberty" potevan trasportare 2840 jeep o 440 carri armati...forse c'è un errore nella fonte da cui hai attinto...

Sicuramente lo leggerò di nuovo per trovare altri spunti di riflessione. 

 

Modificato da Alfabravo 59
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19 hours ago, Alfabravo 59 said:

Le "Liberty" eran dei "brutti anatroccoli"? Non direi proprio. Certamente dal lato estetico (e tecnico...) non eran all' altezza delle ns motonavi come REGINALDO GIULIANI, CARLO DEL GRECO, FABIO FILZI, MARIO ROSSELLI ed altre di simili dimensioni, ma a me le "Liberty" son sempre piaciute.

Rimango perplesso nel leggere che le "Liberty" potevan trasportare 2840 jeep o 440 carri armati...forse c'è un errore nella fonte da cui hai attinto...

 

Ringrazio te e Danilo per le parole di apprezzamento. Le tue osservazioni sono appropriate e cerco di dare una risposta.

Franklin Delano Roosevelt era laureato in legge, anche se non praticò mai la professione di avvocato, e di navi si intendeva abbastanza poco sebbene fosse stato Sottosegretario alla Marina dal 1913 al 1919, ma si occupava di rapporti col personale civile.

La battuta dei “brutti anatroccoli” fatta all’ammiraglio Land ha, secondo me, un chiaro riferimento all’omonima fiaba di Andersen: il brutto anatroccolo preso in giro dagli altri pulcini della covata perché così diverso da loro, si trasformerà poi in un bellissimo cigno.

I Liberty, rispetto ai nostri mercantili di quegli anni, avevano una linea di scafo decisamente più brutta: non avevano il castello di prua, lo scafo era tozzo, una specie di parallelepipedo orizzontale dagli spigoli inferiori arrotondati che si rastremava senza stellatura alle estremità a formare la prua e la poppa, quest’ultima appuntita e non ad incrociatore. Avevano un cavallino piuttosto accentuato per consentire di affrontare al meglio il mare. Tutto questo era dovuto ai limiti imposti dalla saldatura e dagli strettissimi tempi di produzione, quindi le lamiere dovevano avere meno curvature possibili. Il “bellissimo cigno” di Andersen, forse nel pensiero di FDR si estrinsecava nell’immagine luminosa della vittoria finale degli Stati Uniti e degli Alleati, alla quale questa classe di navi avrebbe contribuito in maniera determinante.

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Per quanto riguarda la capacità di trasporto dei Liberty, essi uscivano dal cantiere con un ponte di corridoio che divideva in due parti la stiva. In realtà era possibile collocare dei ponti mobili al di sotto del ponte di corridoio e forse (ma non ne sono sicuro) al di sopra, in modo da moltiplicare la superficie destinata al carico. Ecco quindi la possibilità “teorica” (perché il carico non era mai costituito da un unico tipo di merce) di poter imbarcare 2.840 jeep. Invece i carri armati non potevano essere stivati sui ponti mobili a causa del loro peso, quindi venivano sistemati solo in stiva, in corridoio e in coperta. Il numero di 440 si riferisce a carri leggeri, mentre per il carro medio il numero (sempre teorico) scendeva a 260.

 

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Un carro armato leggero americano della 2 Guerra mondiale (sin.) e uno medio (dx)

 

Ecco infine la mia fonte d'informazione: quando ho visitato il Jeremiah O'Brien, accompagnato da un veterano della U.S. Navy che mi faceva da guida, ho potuto sbizzarrirmi a fare le domande più disparate, ottenendo sempre delle risposte chiare, che mi sono sembrate plausibili, come quelle dei carichi “teorici” di mezzi mobili.  

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Complimenti per l'articolo di eccezionale interesse; vorrei contribuire all'iniziativa con quattro immagini del sottoscritto realizzate quand'era appena diciottenne; si tratta dell'unica "Liberty" T 2,  prima rifornitrice di squadra ed ammiraglia della III Divisione Navale "Sterope" A 5368 (ex "Enrico Insom") in servizio nella Marina Militare Italiana dal 1959 al 1975.

 

 

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Per le Liberty ho, da tempo, una vera passione! Grazie Max per questo articolo. Trovo che ciascuna Liberty, e come avete letto erano davverto tante, abbia una storia interessante da raccontare. Coglierei allora l'occasione per raccontarvene una anch'io. Nel 2013, durante la progettazione esecutiva del costruendo Museo Navale di Imperia, mi interessai alle vicende di una di esse in particolare, la Sestriere, della quale curai la ricostruzione del ponte di comando presso il museo. Feci molte ricerche (trovando molta difficoltà nel reperimento dei dati minimi necessari) e scrissi un breve articolo che vi sottopongo, se vorrete.

La motonave sestriere

Un’intensa storia silenziosa

A cura di Roberto Bajano

 

 

 

Introduzione

Nella vasta e inconsueta terminologia marittima, con il termine Carrette del mare vengono indicate le navi utilizzate per qualsiasi tipo di traffico mercantile, capaci di trasportare qualsiasi carico a qualsiasi nolo, anche poco remunerativo, in qualsiasi parte del mondo.

Non c’è disprezzo in questo termine; non c’è distacco né indicazione d’inferiorità come potrebbe sembrare a chi non biascica un poco il linguaggio marinaro. Tutt’altro.

Si tratta di una denominazione che trova un preciso corrispettivo nel termine inglese “tramp”, vagabondo, nell’accezione tipica di chi vive senza scopi e sogni lontani, di chi vive alla giornata, non a scrocco si badi bene, ma con piena disponibilità ad accettare qualsiasi tipo di lavoro provvisorio, senza badare troppo a orari e vincoli di sorta. Anche in spagnolo esiste un termine che descrive in due parole tali caratteristiche: “buque vagabondo”.

Pertanto l’italiano Carretta è un termine benevolo, forse un poco ironico, certamente affettivo per quelle navi che tanto hanno dato alla marineria mercantile per tutta la prima metà del 900 e poco oltre. Navi che hanno saputo trasportare di tutto e a tutto hanno saputo adattarsi: dai minerali ai cereali, dalle macchine di ogni tipo, anche ferroviarie, alle truppe militari, ai profughi, ai migranti. Navi che, come se non bastassero le loro stesse difficoltà di esistenza, hanno dovuto attraversare una rovinosa guerra mondiale, la maggior parte senza riuscire a superarla o senza resistere alle conseguenti crisi commerciali e relativi disarmi.

La M/n. Sestriere è stata una delle poche sopravvissute a quello sconquasso planetario. Ha ceduto soltanto, come è normale nella vita di tutti, alla vetustà e al cambiamento che ha portato nel mondo mercantile alla completa trasformazione del naviglio, prediligendo unità sempre più grandi e sempre più nettamente suddivise per specialità.

 

 

 

Cenni storici

Come ogni Carretta del mare che si rispetti, la M/n. Sestriere non gode di fama e nomea a livelli popolari. Una cosa è citare a chiunque un Titanic o un’Andrea Doria, navi per le quali si può avere una ragionevole certezza che il nostro interlocutore ne sappia qualcosa; assai differente è invece citare la M/n. Sestriere. In quest’ultima ipotesi ben difficilmente ci si sentirà rispondere: “sì, la conosco”.

Eppure la Sestriere è stata una nave onesta, che ha fatto in silenzio il suo dovere attraverso tutti i mari del globo in ogni condizione, al completo servizio dell’Italia, della sua gente e delle attività nazionali. In silenzio, appunto, ha ricoperto ruoli anche cruciali per l’Italia durante e dopo il terribile secondo conflitto mondiale, ad esso sopravvivendo tra pochi altri superstiti, ma mantenendo quello che potremmo definire un basso profilo ed un anonimato che ne ha precluso ampia notorietà al pubblico. Ben venga allora, accennarne brevemente una scheda storica.

Costruita presso i cantieri Tosi di Taranto nel 1942, viene varata nel febbraio dello stesso anno. La propaganda bellica ne enfatizza l’evento nel pieno sviluppo dell’impegnativo programma di rinnovamento della flotta, specificando che essa vada a sostituire la Villarperosa, catturata nel 1941 a Wilmington dagli Statunitensi. Madrina del varo fu infatti la signora Angiolini Merlano Persia, moglie del comandante del Villarperosa, all'epoca ancora prigioniero degli Stati Uniti assieme ad altri comandanti italiani arrestati e trattenuti negli Stati Uniti per aver reso inservibili le macchine dei propri natanti a seguito della confisca.

Appena dopo il varo e la conclusione dell’allestimento, ha preso parte alla guerra dei convogli di rifornimento alla Libia, sopravvivendo alle bombe di aereo e ad una mina che ha costretto la nave ad un periodo di riparazioni. Era insieme alla Nino Bixio quando questa fu silurata dall'HMS Turbulent il 17 agosto 1942. In quella occasione entrambe le navi rimpatriavano i soldati italiani prigionieri in Nord Africa, e l’attacco subito fu causa di gravissime perdite umane. Scampata al disastro, la Sestriere proseguì sulla sua rotta verso Brindisi scortata dal Castore e dal Da Recco.

Nell’ottobre dello stesso anno ha scaricato a Bengasi le ultime riserve di benzina in fusti a beneficio del fronte in ritirata da El Alamein, assistendo impotente al rogo dei velivoli italiani sui campi di aviazione.

Ha scansato i siluri dei sommergibili britannici nel canale di Sicilia e a Capo Matapan. Ha subito un pesante bombardamento a Biserta, sfuggendone nella notte in barba agli incrociatori nemici che pattugliavano la costa tunisina, dopo lo spegnimento di un incendio a bordo e con il fianco squarciato fino a qualche palmo dalla linea di galleggiamento.

Dopo l’occupazione dell’Italia da parte degli Alleati, ha rimpatriato molti altri prigionieri di guerra sparsi per il globo: nel 1946-1947 fu inviata in Estremo Oriente a prelevare gli uomini del Regg. "San Marco" di stanza a Tientsin, e gli equipaggi di molte navi tra le quali la Conte Verde. In tutte queste occasioni, la M/n. Sestriere è stata pertanto il primo lembo di Patria per moltissimi connazionali, che ne hanno dedicato particolare affezione e simpatia.

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, al comando del Capitano Accame, ha partecipato quale unica nave italiana ai convogli anglo-americani in Atlantico.

Nell’ambiente marittimo si ricordò a lungo la cosiddetta “Seconda Spedizione dei Mille”, definita anche “Il Viaggio della Rinascita” dalla stampa dell’epoca, avvenuta nel novembre 1946 quando la Sestriere trasferì negli Stati Uniti 50 equipaggi italiani per armare altrettante Liberty Ships acquistate da armatori italiani. Circa mille persone, dunque. Mai tanti comandanti e ufficiali, scrive il comandante Pro Schiaffino nel suo Le carrette degli armatori genovesi, si sono contemporaneamente trovati su una sola nave.

Il viaggio di ritorno non avvenne né per la stessa rotta, né senza carico: dopo aver attraversato il Canale di Panama, entrò in Oceano Pacifico e, facendo tappa in Cina e in India portoghese, raggiunse il Giappone ove imbarcò 1300 ex prigionieri italiani (alcuni con mogli locali e figli frattanto avuti). Raggiunta successivamente Massaua, il principale porto in Mar Rosso dell’ormai smembrata Africa Orientale Italiana, imbarcò altri ex prigionieri del "San Marco" ivi stanziati e fatti prigionieri nell'aprile 1941.

Quello dell’8 novembre 1946 fu probabilmente l’ultimo trasporto esclusivamente passeggeri della M/n. Sestriere. In seguito essa subì alcune trasformazioni per essere convertita in nave frigorifero e fare rotta sulla Linea del Sud, ove per i primi dei successivi vent’anni di navigazione, trasportò anche i nostri migranti verso le Americhe.

Nei suoi ventotto anni di attività, la M/n. Sestriere ha avuto incidenti, collisioni e avarie. Ha subito bombardamenti, incendi, attacchi al siluro e ammutinamenti, ma è sempre tornata al porto di casa con il suo motore. Solo l’ultimo viaggio, quello verso la demolizione, è avvenuto al rimorchio. È forse per non farsi vedere in quella condizione, sostiene il suo ultimo affezionato comandante Vittorio G. Accame, che una mattina di maggio del 1970 la Sestriere è partita in silenzio e al buio, prima dell’alba, per la sua ultima destinazione.

Fonti:

Aldo Cocchia, Convogli - Un marinaio in guerra 1940-1943, Mursia Editore, Milano, 2004

Dobrillo Dupuis, Forzate il blocco!, Mursia, Milano, 197

Pro Schiaffino, Le “carrette” degli armatori genovesi, Nuova editrice genovese, Genova 1996

Flavio Serafini, Ponte di comando, Giribaudo 2002

Carlo Gatti, L’ultimo viaggio della M/n. SESTRIERE 15.4.1970, In <http://www.marenostrumrapallo.it /index.php?option=com_content&view=article&id=211:sestriere&catid=53:marittimo >, 23/12/2013

Giornale Luce C0221 del 09/02/1942, Cantieri Navali, Il varo della nave Sestriere, Archivio Istituto Luce

Le foto allegate testimoniano i danni subiti durante i bombardamenti a Biserta, una bella immagine della nave ritratta dal fotografo navale francese Toulon, e gli allestimenti al museo navale di Imperia, durante e dopo i lavori.

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Modificato da Bob Napp
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Che piacere risentirti, Roberto! L'articolo che hai pubblicato è molto interessante e la ricostruzione del ponte di comando della Sestriere, per quanto ho potuto rilevare dalle foto postate, quasi perfetta (non ho visto la consolle del radar e la colonnina  del pilota automatico.

La lettura del tuo articolo mi ha fatto tornare indietro di tanti anni, quando ho fatto i miei primi due imbarchi da Mozzo-Allievo nautico sulla M/c Italmotor il primo (1958) e sulla M/n Villarperosa (non la prima, quella che citi tu, ma la seconda varata nel 1957 ed entrata in servizio non ricordo bene se alla fine di quello stesso anno o ai primi del 1958), nel 1959. Ebbene, non passava giorno che a bordo non si parlasse della Sestriere e della Sises, le due navi "storiche" dell'ITALNAVI, la società alla quale appartenevano anche l'Italmotor e la Villarperosa. Non c'era comandante, 1° o 2° ufficiale che non vi fossero stati imbarcati e gli aneddoti sulla vita di bordo e sui viaggi di quelle due navi si sprecavano.

A proposito del mio articolo sulle Liberty, non dobbiamo dimenticare che anche l'ITALNAVI ebbe quattro Liberty, le famose Italmare, Italcielo, Italsole, Italvega e Italterra. Famose (all'epoca) perché furono le prime navi adibite esclusivamente al trasporto di auto della FIAT (la quale era la proprietaria dell'ITALNAVI) negli Stati Uniti. In particolare 1100 e 600, berlina e multipla. Naturalmente le Ro-Ro dovevano ancora essere inventate, quindi le auto si caricavano e scaricavano con le gru di banchina o con i bighi di bordo passando per i boccaporti. Per la verità, queste navi dei Liberty avevano mantenuto solo lo scafo: nelle stive erano stati costruiti diversi ponti intermedi con un a luce tra l'uno e l'altro di poco più di 2 m., la motrice alternativa era stata sostituita con un motore diesel (FIAT, ovviamente), i bighi originali sostituiti con altri più moderni con motore elettrico ed era stata costruita una lunga tuga sopra la coperta per ricavare altro spazio di carico. Qui di seguito posto una foto dell'Italterra che dà un'idea delle modifiche esterne.

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On 5/27/2019 at 7:14 PM, BUFFOLUTO said:

si tratta dell'unica "Liberty" T 2,  prima rifornitrice di squadra ed ammiraglia della III Divisione Navale "Sterope" A 5368 (ex "Enrico Insom") in servizio nella Marina Militare Italiana dal 1959 al 1975.

Belle le foto della Sterope che hai postato. Di questa nave non conosco molto, tranne che venne acquisita dalla Marina da un armatore privato e non, come potrebbe apparire logico, da una delle tante T2 che la U.S. Navy aveva all'epoca in "naftalina". Il fatto che tu abbia scattato quelle foto a 18 anni e le altre numerose e belle foto di navi della Marina Militare che hai postato in precedenza mi fanno supporre che tu faccia parte o abbia fatto parte della Marina. Forse sai qualcosa di più su questa che è stata una nave importante per la nostra Flotta. Se sì, hai voglia di raccontarcelo?

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