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"un Sommergibile Non E' Rientrato Alla Base" Recensito Da Buzzati


GM Andrea

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Girovagando negli archivi del Corriere della Sera ho trovato questo splendido articolo di Dino Buzzati, giornalista e scrittore che ben conosceva la Marina per essere stato lungamente imbarcato quale corrispondente di guerra.

L'articolo, intitolato "Il gentiluomo che fu eroe pur sapendo che era inutile", apparve sul Corriere del 23 febbraio 1951. Lo trascrivo:

 

 

Giorni or sono un signore che non avevo mai visto venne in redazione per portarmi un libro. «Non sono uno scrittore, ma l'ho scritto io — disse. — Mi chiamo Antonio Maronari. Vorrei proprio che lei lo leggesse». Era un pezzo d'uomo sul 32-33 anni, con una di quel le facce oneste e buone che, sarà impressione personale, ma vanno facendosi sempre più rare a questo mondo. «Vede? Ho fatto la guerra sui sommergibili, ero sottocapo segnalatore e poi sergente, sono stato in Atlantico col comandante Fecia di Cossato. Proprio per lui ci tenevamo, i miei compagni ed io, che questo libro venisse pubblicato. Ma l'editore da solo non se la sentiva, c'è anche una quantità di fotografie. Così ci siamo quotati un po' ciascuno. Non è che il diario delle missioni in Atlantico del Tazzoli, ci terrei proprio che lei lo leggesse».

 

Intanto si guardava intorno un po' spaesato, come fa l'uomo quando è in posti stranieri. Straniera era per lui la nostra redazione ma probabilmente straniero gli riusciva anche tutto il mondo fuori. Passando gli anni, in certo modo egli era rimasto indietro, almeno con la parte migliore di se stesso. Dalle sue semplici parole era evidente che l'ex-sergente, ora semplicemente signor Antonio Maronari, la guerra se la portava ancora dentro non sotto la specie di ricordo, ma come una cosa viva, come un viscere a cui non poteva rinunciare. Strana e per certuni addirittura scandalosa è questa ostinazione di restare con l'animo attaccati a quegli anni. Chissà perché, si direbbe che la gente si sforzi anzi di dimenticarli. Tra valori politici e valori morali si è fatta una tremenda confusione. E oggi c'è chi si vergogna di ciò che gli Italiani hanno saputo fare in guerra. Perché? Se tutto è finito così male, è una buona ragione per seppellire nel silenzio anche gli eroi? Si, lo sappiamo, la parola «eroe» è oggi sulla lista nera. Se ne fece una volta tale abuso — erano allora eroi pure i campioni di boccette e i padri di numerosa prole — che ora la si è messa in quarantena. Quando c'è sospetto di eroismo, si gira al largo, si ha paura, si sembra «nostalgici». Per la confusione che si è detta, meglio, per un fenomeno di pusillanimità, la gente quindi gira al largo dei grandi cimiteri dove giacciono soldati, aviatori e marinai. Si è arrivati anche più in là: oggi perfino la parola «patria» dà a certi Italiani un vago senso di disagio; e molti non sanno più nemmeno cosa sia.

 

Così sul fondo dei sepolcri marini giacciono al buio le nostre navi dimenticate e sole, come se appartenessero a una storia d'altri, di cui è opportuno non parlare. Ma proprio a questa odiosa dimenticanza i tipi come Maronari si ribellano.

 

Confesso che cominciando Un sommergibile non è tornato alla base (editore C.E. Milieri) pensavo che avrei stentato ad arrivare in fondo. I diari di questo genere — che non possono avere il gusto della rivelazione perché i fatti sono già entrati nella cronaca — rischiano spesso di interessare soltanto chi li ha scritti e i pochi che gli erano vicini. Di solito è una vanità letteraria a far uscire dai cassetti, verso la tipografia, questi grossi quaderni di ricordi. Antonio Maronari — pur dimostrandosi persona colta e che non parla mai a vanvera — di ambizioni letterarie non ne ha, basta guardargli in faccia, a Dio piacendo. La sua sola ambizione sarebbe di far voltare indietro gli Italiani, almeno per un attimo, affinchè considerassero il passato. E racconta l fatti cosi come è probabile li raccontasse alla mamma o alla morosa, nei brevi giorni di licenza. Di qui spontaneità, immediatezza, calore umano. Le quattrocento pagine volano via che non ci se ne accorge. E ci sono dei pezzi di primo ordine come quando al largo di Portorico il Tazzoli viene sorpreso da un aereo e sembra che ogni speranza sia perduta e allora Maronari con sincerità assoluta registra il pazzo turbine di pensieri e sensazioni di chi aspetta da un attimo all'altro la catastrofe.

 

Chi in guerra è stato vicino alla Marina avrà notato un tipico fenomeno: quanto più le navi erano piccole, tanto più grandi erano a bordo l'affiatamento e l'entusiasmo. L'ambiente era più cordiale e vivificante sugli incrociatori che sulle corazzate, più sui caccia che sugli incrociatori, più sulle torpediniere che sui caccia. Il massimo era però sui sommergibili. Sulle grandi navi da battaglia, per esempio, il comandante finiva fatalmente per diventare una specie di deità più o meno lontana e misteriosa. Sui sommergibili il comandante invece era un padre, un fratello maggiore, un compagno che la sapeva più lunga, che ci sapeva fare di più, che aveva sulle spalle tutta la responsabilità e cui quindi veniva istintivo di obbedire. Si era tentati di formulare la seguente paradossale legge: il «morale» e l'allegria di un equipaggio crescono in ragione diretta dei suoi disagi, delle fatiche e dei pericoli. Il motivo? Perché sui sommergibili gli uomini sono costretti a vivere gomito a gomito, per mesi interi, in una estrema promiscuità fisica e spirituale, perché in così breve e tribolato spazio si solidifica fortissimo lo spirito e l'orgoglio «di famiglia», perché in quei piccoli scafi assai più che sulle grandi navi le singole personalità hanno modo di farsi conoscere e affermarsi; senza contare che proprio dalla sofferenza nascono le migliori virtù umane, e sui sommergibili in missione la sofferenza è compagna inevitabile. Fatto è che forse mai abbiamo visto concentrazioni di bravi e buoni uomini come a bordo dei sommergibili. Buoni, ripetiamo, moralmente puliti, anche se il loro mestiere era di spaccare in due le navi nemiche e di mandarle ai pesci con equipaggio e tutto.

 

Quest'aria appunto ritroviamo intatta, come se non fossero passati tanti anni, nelle pagine di Antonio Maronari: guerra senz'odio, vissuta come una avventura affascinante, in commovente freschezza d'animo, con uno slancio di altruismo che in tempo di pace — per quanto sia amaro dirlo — sarebbe praticamente una utopia.

 

Ma il centro di gravità del lungo diario — e l'autore certo non se lo proponeva come scopo mentre buttava giù le sue note quotidiane in un angolo del metallico budello, magari quando le bombe di profondità facevano rintronare lo scafo e con mortale angoscia i marinai si fissavano In silenzio — è la figura del comandante Carlo Fecia di Cossato, colui che in cinque missioni atlantiche affondò — impresa senza uguali — centomila tonnellate di naviglio, che dopo l'armistizio ffrontò con la sua torpediniera sette unità tedesche di armamento superiore e le affondò tutte a cannonate, e che nell'agosto 1944 si tolse la vita perché «non si sentiva più di poter servire un Governo il quale, rifiutando di giurare fedeltà al re, lo aveva privato del solo motivo che giustificasse la sua precedente condotta». A pagina 77 — siamo alla prima missione da Bordeaux, quando sul Tazzoli, comandato dal capitano di corvetta Raccanelll, Fecia di Cossato era imbarcato solo per tirocinio— c'è un primo suo ritratto: «E' un tipo strano: biondo, magro, di statura normale, molto distinto... un volto d'asceta, pallido e fine... Cordiale con tutti ma piuttosto taciturno, vive nella nostra comunità senza far rumore, sempre discreto, quasi timoroso di disturbare. Quando dà un ordine lo fa con una tale gentilezza che non si può fare a meno di scattare. Ma la sua flemma credo sia solamente esteriore. Lo si direbbe sempre disattento o apatico o comunque indifferente a tutto ciò che accade intorno a lui, ma quando sente parlare di azioni imminenti, di piroscafi nemici, di agguati o di attacchi si trasforma. Be', lo vedremo alla prova! ».

 

Lo videro, difatti, dopo che egli prese il comando del battello, e il Maronari narra come quest'uomo aristocratico, taciturno e malinconico in pochi giorni diventò per i suoi uomini una specie di dio. Di pagina in pagina anche noi ci si affeziona. Impariamo le sue abitudini, i suoi gesti, i suoi malumori, i suoi ordini fulminei.

 

Eccolo passeggiare su e giù per giorni interi in coperta nella snervante attesa di un incontro col nemico, eccolo sviluppare formidabili energie al momento dell'azione e del pericolo, ecco la sua insofferenza di tigre in gabbia quando passano settimane senza preda, la sua prodigiosa resistenza al sonno e alla stanchezza, la sua autoritaria tecnica di attacco la sua superiorità di gran signore di fronte ai rischi massimi, la sua delicatezza d'animo verso i più umili compagni di missione. E intanto, passando i giorni, il suo volto da San Francesco senza letizia francescana si fa sempre più scavato e scarno, «Dio com'è magro!» mormorano i suoi uomini. E la sua ordinanza riferisce: «E' sceso a cambiarsi per il rientro (dopo quasi tre mesi ininterrotti di Atlantico, durante i quali i viveri si erano dovuti esosamente razionare). Gli tiro fuori dallo stipetto una camicia pulita e lo osservo mentre si toglie il pesante maglione di navigazione. Rimango di stucco! Le costole sporgono dal torace sul quale non c'è altro che la bruna pelle tesa come quella di un tamburo, la spina dorsale e le scapole stanno per saltargli fuori... Commosso fino alle lacrime sono uscito dalla cabina per non veder più nulla. Noncurante di se stesso e della propria salute, nell'interesse di tutti, ha vissuto più parcamente di chiunque altro, senza chiudere occhio, senza perdere di vista un solo istante la sua missione, la sua nave e il suo equipaggio».

Eppure, più ancora delle sue meravigliose scorribande, chi fosse Carlo Fecia di Cossato ce lo rivela, nella prefazione, la testimonianza di un suo collega e fraterno amico, il comandante Longanesi Cattani, pure valorosissimo sommergibilista atlantico. Longanesi ricorda una conversazione avuta con lui al principio del 1941. Discutevano sull'andamento della guerra e Fecia di Cossato negava nel modo più categorico la possibilità di una nostra vittoria.

 

«Ma — aggiunse — tutto questo che ti ho detto circa la inevitabile sconfitta che ci aspetta non può avere e non avrà mai nessuna conseguenza sull'impegno che io metterò a combattere questa guerra. Si vinca o si perda, il mio dovere di ufficiale e di comandante è quello di tenere duro, di pestare il nemico finché avrò mezzi ed ordini per farlo». E con tanta disperazione passò di vittoria in vittoria.

 

Può darsi che a certa gente questo modo di ragionare sembri un po' alla vecchia, romantico, assurdo, medioevale. (Oggi sono di moda i «casi di coscienza» che troppo spesso, caso strano, coincidono col minore rischio). Personalmente penso che quello sia, per un soldato, anzi in genere per l'uomo, il ragionamento più nobile, onesto e vorrei dire anche intelligente. Certo è il modo più pulito e chiaro di comportarsi in guerra perché automaticamente esclude l'interesse personale, l'odio, la faziosità, la cattiveria.

 

Nessun più grande eroismo — si diceva una volta — che combattere una battaglia fino in fondo pur sapendo che è una battaglia perduta; appunto come Fecia dì Cossato. Ma c'è ancora chi intende queste cose?

 

 

Aggiungo che sempre sul Corriere, due mesi dopo, l'11 aprile 1951, nella sua rubrica Dialoghi coi lettori, lo scrittore e giornalista Giuseppe Marotta così rispondeva a un avvocato che gli chiedeva un consiglio per un libro "fuori del comune":

Certo. Proprio in questi giorni mi sono imbattuto in un lavoretto non dei soliti. Titolo: «Un sommergibile non è rientrato alla base...» Autore Antonio Maronari (un semplice uomo di mare, un sergente del sottomarino « Tazzoli » che durante l'ultima guerra operò nell'Atlantico). Editore: Milieri. Un articolo di Buzzati sul Corriere della sera mi ha indotto all'acquisto del volume. Buzzati, senza rendersene conto, mi tiranneggia. Le sue parole e i suoi affetti di vetro di Murano, gentili e vagamente remoti, allontanati starei per dire dalla pagina con una sorta di elegante, dolce presbiopia, mi incantano. E «Un sommergibile non è tornato alla base» non mi è piaciuto meno che a lui. Si tratta del mansueto, umile resoconto di una grande tragedia: quella di aver combattuto una guerra che fin dall'inizio s'indovinava ed era perduta. E c'è il ritratto di un eroe, il comandante Fecia di Cossato. Lei gusta ancora gli eroi, avvocato? Io sì, molto. Quale altra finestra possiamo aprire, desiderando rinnovare l'aria torbida e pesante di scientifici accomodamenti, di scaltri baratti e compromessi? L'eroe, igiene del mondo.

 

 

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Può darsi che a certa gente questo modo di ragionare sembri un po' alla vecchia, romantico, assurdo, medioevale. (Oggi sono di moda i «casi di coscienza» che troppo spesso, caso strano, coincidono col minore rischio). Personalmente penso che quello sia, per un soldato, anzi in genere per l'uomo, il ragionamento più nobile, onesto e vorrei dire anche intelligente. Certo è il modo più pulito e chiaro di comportarsi in guerra perché automaticamente esclude l'interesse personale, l'odio, la faziosità, la cattiveria.

 

Buzzati ha sempre avuto un apenna irraggiungibile, ma questa recensione è davvero commovente. Grazie Andrea!

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  • 2 weeks later...

"Un sommergibile non è tornato alla base" è un classico della letteratura di guerra. Ne posseggo un'edizione del 1957 che acquistai nel 1959 quando ero ancora un giovane studente del Nautico di Genova. In tutti questi anni mi è capitato di rileggerlo piu' volte, ma la recensione di Buzzati me lo ha fatto vedere sotto una luce nuova che mi ha provocato un'intensa emozione.

 

Grazie Andrea!

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