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Pelagosa


Red

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Continuo con il quarto racconto tratto dal libro :

" Bandiere sul mare " Episodi della Grande Guerra-

di Michele Vocino.

 

PELAGOSA

 

Le unità che avevano operato lo sbarco si dileguavano sull'estremo limite del mare verso la costa di Puglia, mentre schiariva il giorno.

E il drappello rimase solo, col suo destino e con la sua audacia, su quello scoglio sperduto in mezzo all'Adriatico; due giovanissimi sottotenenti di vascello: Vallauri ora Accademico d'Italia, e Da Zara, e un pugno di subalterni e di marinai.

Erano sbarcati nella notte: l'11 di luglio del 1915.

Un isolotto rupestre, senza alberi, e rive scoscese e in gran parte inaccessibili, alto al massimo un cento metri dov'era il faro, deserto, o almeno in apparenza deserto: Pelagosa.

Dalla Repubblica di Venezia, che vi aveva relegato una volta la bella regina di Cipro, Caterina Cornaro, e, in seguito, un congiunto di lei, nobile Lusignan, nel secolo XIII, era passato chissà come e quando, inospite ed inutile, al Regno di Napoli,

e sarebbe stato quindi italiano se l'Austria, senza nostre proteste ad onta delle invettive di Matteo Renato Imbriani alla Camera, non lo avesse fatto suo costruendovi, nel 1875, un fanale e un semaforo, e poi una chiesetta, di S. Michele, in ricordo del santuario famosissimo sul prossimo Gargàno.

Ora, all'inizio della nostra guerra, era stata decisa la sua occupazione dai nostri, ad appoggiare la prima linea di vedetta avanzata, in collegamento con Pianosa e Tremiti, che facilitasse il compito delle unità alleate in crociera.

E l'occupazione fu effettuata quella notte, col materiale per costruirvi una stazione radio.

Nessuno, nell'isola. Gli ufficiali e i marinai, piazzato alla meglio il materiale, si diedero a perlustrarla cautamente, pronti

all'imboscata, sicuri che almeno l'indispensabile personale adibito al faro dovesse ancora essere là, chissà dove nascosto.

Ma non lo trovarono in quel giorno, nè nella notte, e riuscirono solo a scovarlo il mattino seguente in una grotta dall'ingresso strettissimo ben dissimulato in una frana di grossi macigni: quattro fanalisti croati ed uno di nome italiano, Antonio Barbuto, che vivevano là, soli, avendo mandato le loro famiglie a Comisa di Lissa quando era scoppiata la guerra.

Apparve a notte qualche segnale luminoso in direzione di Cazza, forse una torpediniera, con le fiamme di petrolio che si accendono sotto i palloni di carta mandati in aria nelle feste di campagna. Aspettavano evidentemente risposta da Pelagosa. Ma i prigionieri spergiurando di non conoscere il segnale ch'era forse, dicevano, scambiato tra navi, non vollero palesare il modo di rispondere.

L'isola non risponde ? Non è più nostra, avranno pensato gli austriaci. E mandarono subito un idrovolante, poi un caccia, il " Tatra ". Un pò di cannonate, un pò di bombe dall'alto, un siluro inutilmente lanciato da circa due mila metri contro il "Tatra" da un nostro sommergibile, una scarica di fucileria: nessun ferito e un pò di danni di nessun conto.

Ma oramai il duello era impegnato.

Stazionava nelle acque dell'isola quasi costantemente un sommergibile nostro, in agguato. Sull'isola s'era in vedetta giorno e notte: la stazione radio impiantata da Vallauri funzionava egregiamente. Si sospettava uno sbarco notturno. Si lavorava intensamente al piazzamento delle artiglierie ed alle trincee. Finchè il 28 di luglio il prevedibile attacco in forza venne, preannunziato nelle ore antelucane da un bombardamento al semaforo di Vieste sulla costa garganica : otto unità.

In linea di fila, col bordo di dritta verso la Dalmazia, aprirono il fuoco. Un colpo fortunato tagliò subito l'aereo impedendo

qualsiasi ulteriore comunicazione radio. Un fuoco violentissimo, sempre più ravvicinato ed intenso, battendo sul terreno roccioso dell'isola alzava grandi colonne di schegge e polvere: tale da intontire e da deprimere i difensori. S'udivano dall'isola nettamente, tra un colpo e l'altro, le voci di comando, il ronzio dei ventilatori di macchina, il rumore dei congegni

di chiusura dei pezzi. La nostra gente era nelle ridotte e nelle trincee a posto di combattimento.

L'alba s'era schiarita: il limpido mattino di estate ormai illuminava in pieno il dramma sul mare.

Il nemico, ammainate quattro imbarcazioni, mandò a terra una cinquantina di uomini, in tre drappelli, al comando di un giovane ufficiale. " In questo momento, scrive Vallauri nel suo diario, fui spettatore di un bellissimo gesto; il sottotenente

Da Zara , che era rimasto a S. Michele, incerto sulla direzione che avrebbe preso l'attacco, visto pronunciarsi questo sulla costa nord e temendo con ragione che i pochi uomini rannicchiati nel fondo delle trincee più esposte non fossero in condini

di reagire da soli al nemico, si mosse di corsa in terreno perfettamente scoperto: aveva la giacca bianca, senza berretto.

Per quei pochi istanti il fuoco quasi a bruciapelo dei cinquanta cannoni nemici si concentrò intorno la sua magra figura che a gran salti divorava rapidamente lo spazio. Le granate scoppiavano a pochi passi da lui come fiori di fuoco.

Giunto incolume sulla trincea vi si lasciò cader dentro di colpo ed il nemico ebbe forse l'illusione di averlo abbattuto " .

Scariche di fucileria d'ogni parte: sorpresi da questa vivace e inattesa resistenza, gli austriaci si gettarono a terra, e presero ad avanzare lentissimamente mentre da bordo continuava il fuoco con la massima intensità. Uno dei nostri, il cannoniere Morena, ferito mortalmente nel passare dalla sua trincea devastata alla prossima, s'accosciò gridando al comandante di salutargli la mamma; ma non è morto. E' morto solamente un marinaio segnalatore, Franceschelli, ottimo allievo del terzo corso d'ingegneria a Napoli e della leva di mare per avere passato un anno all'Accademia di Livorno, e che dopo sue ripetute insistenze era stato preso in quella piccola spedizione di cui egli, come gli altri, ignorava la meta.

" Di complessione quasi gracile, scrive lo stesso Vallauri, aveva dato prova di una tenacia e di una forza di volontà meravigliose nel compiere i più duri lavori della difesa, così che gli altri marinai avevano per lui rispetto e simpatia. Era il miglior tiratore del presidio e ciò forse gli parve rendere più doveroso il suo intervento. Dal piazzale del faro non poteva tirare sugli sbarcati e volle perciò salire sulla torre. Invano ne fu dissuaso. Uno dei primi colpi di granata lo raggiunse, due schegge lo colpirono al capo e al petto ed ebbe una gamba fracassata dalle macerie: spirò il giorno dopo " .

Un quarto d'ora d'inferno: i nostri disposti a morire, ma non ad arrendersi, senza speranza, bruciarono il cifrario e i documenti riservatissimi, ma resistettero. Finchè, d'un subito, da bordo venne l'ordine di ritirarsi, e la ritirata dei drappelli nemici immediatamente s'effettuò sotto il fuoco della nostra fucileria continuato contro le imbarcazioni e diretto contro i caccia più vicini. Abbandonati sulla spiaggia, rimasero un battello e una cassetta con ordigni da minatori.

Il sommergibile ch'era in quella notte all'agguato, francese, " l'Ampère ", per la sua posizione nulla potè subito fare, e quando riuscì in posizione di lancio, la squadriglia, avvistatolo, prese il largo a tutta forza.

Otto giorni dopo un altro sommergibile, nostro, il " Nereide ", si sacrificava eroicamente, disperatamente, nelle stesse acque.

Era attaccato agli scogli in una calanca dell'isola, e gli uomini erano intenti a sbarcare alcuni oggetti portati al presidio, quando il comandante, Carlo Del Greco, ch'era a terra, s'accorse di un periscopio emerso a breve distanza.

Era la fine della sua nave ! Poteva lasciarla al suo destino, vuoto strumento di guerra distrutto senza vittime: non volle.

Una probabilità su mille: salvarla, la nave. Una su centomila: aver tempo d'affondare l'avversario. Un attimo per la decisione. Tentò. Comandò, breve: " A bordo ! "

E tutti i suoi uomini, che adoravano il loro comandante, marinaro a tutta prova, e che adoravano il secondo, Corrado Boggio, il silenzioso asceta giovanissimo che dominava gli uomini con la sua bontà, come un santo, senza mai punire, tutti si precipitarono al loro posto di manovra e di combattimento.

S'immersero: ultimo, sulla torretta, il comandante, a dare l'estremo sguardo nostalgico alla vita.

Appena giù, un siluro passò loro di prora, senza toccare il battello. Un altro subito lo colpì in pieno. " Dopo che la colonna d'acqua ricadde - scrisse il comandante austriaco nel suo rapporto - non fu più possibile vedere il sommergibile; al suo posto v'era alla superficie una zona circolare liscia; e quando passati otto minuti, ritornai sul posto dell'affondamento, non trovai altro che frammenti di legno " .

Nè quelle, eroicamente scomparse negli abissi con la loro nave dal bel nome marino, furono le ultime vittime che il deserto scoglio adriatico chiese al nostro eroismo in faccia a Lissa......

Vita di esasperazione la vita del presidio, in vedetta senza riposi, in arsura nell'estate torrida senz'acqua, soli, in quel deserto azzurro dominato dall'ombra della morte.

Un idrovolante nemico....Bombe dall'alto ogni giorno.....Un probabile attacco dal mare.....E finalmente, all'alba del 17 agosto, un nuovo attacco in forza: diciannove unità !

Il comando del presidio era allora tenuto dal capitano di corvetta Egidio Ricciardelli.

Mezzora di fuoco intenso, da tutte le navi, a bordate. La rovina da per tutto: edifici, ridotte, trincee,radio.

Polvere, e macerie, e feriti, e morti: e i superstiti pronti sempre a respingere un probabile sbarco, malgrado tutto.

" Siamo rimasti tre nel trincerone - scrive Da Zara - e tutti e tre malconci, ma la preoccupazione di aver da fronteggiare

uno sbarco ci sostiene. Raccogliamo le salme in un angolo...scopriamo le cassette delle munizioni che sono state seppellite dal crollo di un tratto di trincea e puliamo e verifichiamo i fucili.......Il povero Abbundo è trovato morto dietro la chiesetta di S. Michele: una granata gli ha tagliato netta la testa ! "

Lo sbarco non fu tentato. Però, dopo quel bombardamento che tutto distrusse, parve ai Comandi dell'Armata inutile sacrificio, o per lo meno sproporzionato a gli effetti, mantenere ancora un presidio sull'isola. E l'isola fu quindi sgombrata

il giorno appresso.

Poi l'isola rimase deserta, in tutta la guerra. Gli austriaci non tentarono nemmeno d'occuparla, nè di mettervi qualche fanalista borghese, per le segnalazioni.

Quando il 3 novembre 1918, lo stesso Da Zara fu inviato, al comando d'un gruppo d'arditi, per una ricognizione nell'isola,

trovò immutate le rovine che aveva lasciato da tre anni. " Visitate accuratamente tutte le grotte capaci di offrire un rifugio e la rovine del castello e dei fabbricati di S. Michele - egli ha scritto nel suo rapporto - non ho trovato qualsiasi presenza di vita. Alle ore 6 la ricognizione era finita; ma avendo nel frattempo constatata la presenza di un mulo e di una gallina, ho ispezionato accuratissimamente anche i luoghi che meno e per niente si prestano ad offrire rifugi e ridossi....Nessuna orma di passi umani, nessun avanzo di fuochi, nessuna cisterna d'acqua ho trovato in nessun posto, nessun rifugio artificiale, nessuno sgombero delle rovine nei punti più ingombranti per un eventuale traffico, ho notato......Per quanto meravigliato che dei due muli e delle cinque o sei galline lasciate nell'isola allo sgombero del nostro presidio, un mulo ed una gallina abbiano potuto sopravvivere per tre anni in una località assolutamente priva d'acqua e con poca vegetazione, resistendo ad arsure estive ed ai rigori invernali, in questo più accurato giro ho nuovamente constatato e verificato, con l'aiuto della luce ormai chiara, l'assoluta mancanza di qualsiasi traccia di vita umana nell'isola di Pelagosa ".

Ora l'isola è tornata, come doveva, italiana, con un semaforo e un faro, riconsacrata, dopo la breve parentesi austriaca,

al nostro buon diritto dall'audacia e dal sangue di quei ragazzi, fiore di nostra gente.

 

FINE

 

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