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Il Rompiscatole Di Dunkerque


GM Andrea

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Propongo una puntuta recensione del recente film Dunkirk, per la penna di un anonimo recensore

 

 

 

Anni Sessanta e Settanta (almeno fino alle olimpiadi di Monaco). Il telecomando del televisore non è stato ancora inventato. Niente paura: provvedevo io. Quando la sera del lunedì c’era il film alla televisione sul primo (i canali, all’epoca, erano due, naturalmente in bianco e nero) e papà diceva “Oh, no!” scattavo dalla poltroncina e andavo a girare la manopola del volume fino allo zero. Bisognava fare in fretta perché l’illustre critico cinematografico che ogni tanto precedeva la pellicola aveva il maledetto vizio di raccontare, sin dalle primissime battute, come sarebbe andata a finire la trama. Era di un’abilità diabolica. Tanto era prolisso e sonnecchiante nell’esposizione, tanto era telegrafico con la propria sciagurata frase iniziale. “Questo dramma esistenziale …”, e si capiva subito che finiva male. “Questa cinematograficamente insolita vittoria dei malvagi sui buoni” (per la cronaca Le piccole volpi, con Bette Davis). “Questa commedia ironica, patetica e tragica” (L’ultimo hurrà con Spencer Tracy) e così via. Era una gara tra me e lui, tipo Sfida all’OK Corral (“Questo western dalla conclusione sanguinolenta e amara per tutti…”); talvolta vincevo e talvolta no. Non racconto quello che successe quando, nel 1967, fu la volta della critica micidiale formulata ai danni del film Alfa Tau, del 1942, mandato in onda sugli schermi, in quell’occasione, per la prima volta dalla fine della guerra. Il corso 1968 dell’Accademia di Livorno espresse per iscritto alla direzione della RAI la propria motivata perplessità e, per rivalsa, si diede proprio quel nome.

L’illustre critico, noto in famiglia con l’amabile epiteto di “rompiscatole”, è uno dei non molti personaggi non positivi della mia infanzia. L’idea di fare il paio con lui, pertanto, non mi va certo a genio. Il kolossal cinematografico Dunkirk, tuttavia, non mi lascia altra scelta. Non discuto i meriti artistici della pellicola (si dirà ancora così, visto che è tutto elettronica?), né giudico gli attori, la musica, la fotografia eccetera. Non critico neppure i costumi e la ricostruzione degli ambienti (gli inglesi in questo sono bravissimi). Contesto soltanto l’idea e la sua esecuzione. E’ tutto falso e, quel che è peggio, è volutamente falso, con effetti negativi di non piccolo momento che risalgono ad ancora prima dell’inizio della seconda guerra mondiale. Ma andiamo con ordine.

 

Dulce et decorum

 

In guerra si muore. E’ una realtà dura e, oggi, quasi dimenticata. I fatti, però, sono questi: qualsiasi operazione militare, non fosse altro perché viene svolta in un ambiente anomalo e ostile, richiede un pedaggio. Dato il valore assoluto del supremo sacrificio dei singoli, il problema è quello di stabilire la misura delle perdite e come queste si pongano rispetto alla curva di moto del progresso della comunità che affronta quel pedaggio. Si tratta, beninteso, di un argomento estremamente delicato, ma anche dell’indice infallibile (in quanto pagato col sangue, ossia con l’unica moneta che non si svaluta mai) dell’intensità dello sforzo profuso da un’organizzazione, da una Forza Armata, da una nazione o, addirittura, da un’intera cultura in vista del proprio bene comune.

La vittoria suicida

 

Facciamo un esempio macroscopico. La Russia sovietica di Stalin pagò con 20 milioni di morti la propria partecipazione alla seconda guerra mondiale. L’URSS non aveva problemi di materie prime ed era protetta da uno spazio infinito che la rendeva, storicamente, a prova d’invasione. In più era dotata, dall’inizio degli anni Trenta, di un complesso militare e industriale senza confronti (quanto meno dal punto di vista quantitativo) rispetto ad amici e nemici. Eppure la carneficina consumatasi tra il 1941 e il 1945, una volta che venga riferita ai 150 milioni scarsi di abitanti dell’Unione Sovietica di quegli anni, si rivelò fatale per la Russia nata dalla rivoluzione. Una volta sommati, infatti, quei 20 milioni alle stragi causate dalle purghe e dai conflitti che avevano straziato quel Paese dal 1914 in poi, quell’ulteriore salasso si rivelò fatale per lo sviluppo della futura superpotenza sovietica. Nonostante le bombe nucleari e i missili, sempre più perfezionati, messi in capo durante la Guerra fredda, quel rinnovato confronto con l’Occidente si rivelò, alla lunga, insostenibile. Non si trattò solo di una mera questione materiale, per quanto fosse stato necessario attendere la metà degli anni Settanta per riparare gli ultimi danni provocati dall’invasione tedesca del 1941. Il guaio grosso consistette, infatti, nell’esaurimento del serbatoio umano dell’Unione Sovietica. Le perdite erano state tali e tante, soprattutto tra le classi più giovani e intellettualmente vivaci, che a un certo punto fu necessario ricorrere, per ricoprire il ruolo trainante di segretario del partito, al figlio di una vittima delle persecuzioni staliniane, tale Michail Sergeevič Gorbačëv. Il risultato finale di quella scelta obbligata fu quello che tutti conosciamo. All’epoca di Stalin una simile carriera da parte del discendente di un nemico del popolo non sarebbe stata neppure concepibile, data l’abitudine di sterminare, per precauzione, le famiglie dei rei, agnati e cognati inclusi, ma ormai i morti erano stati troppi e fu necessario fare, per ironia della sorte e mancanza di meglio, di tutta l’erba un fascio. La troppo costosa vittoria culminata innalzando la bandiera sulle rovine del Reichstag distrutto dai bombardieri inglesi, si rivelò, così, per quello che era stata in realtà: una forma di suicidio differito, quantomeno dall’autunno 1943 in poi.

 

La generazione perduta

 

L’Inghilterra del 1939 non aveva raggiunto, durante la Grande Guerra, i limiti della follia omicida russi, ma li aveva, non di meno, sfiorati. Gli oltre 800.000 caduti e 7.796.267 tra feriti e malati (con l’aggiunta di quasi 200.000 prigionieri) evidenziati alla Storia ufficiale della Gran Bretagna durante la Grande Guerra edita nel 1930 dall’His Majesty Stationary Office avevano colpito, infatti, il fior fiore della borghesia e dell’aristocrazia del Regno Unito falciando sia i futuri quadri sia, più in generale, gli uomini di cuore e di buona volontà, visto che si trattava, in buona sostanza, soltanto di volontari, non essendo stato possibile applicare, in pratica, fino al 1918, la coscrizione obbligatoria. E tutto ciò senza contare le perdite subite contemporaneamente dai Dominion e delle truppe coloniali; queste ultime spese, naturalmente, a piene mani a partire dai contingenti indiani, mandati al massacro sui campi di ben tre continenti, allo scopo di risparmiare almeno qualche goccia di sangue britannico.

Il grido unanime che si alzò in Europa dopo questo massacro senza precedenti (le guerre rivoluzionari e napoleoniche, durate tra tutto 23 anni, costarono, complessivamente, meno di un milione e mezzo di caduti), fu: “Mai più una follia come questa”. La soluzione del problema (visto che la geopolitica lasciò subito intravedere dietro l’angolo un altro e identico conflitto, innescato a tempo dal consueto - e inevitabile - problema germanico) variò a seconda delle diverse nazioni e culture interessate, tutte più o meno esauste dopo quella prova terribile. I francesi pensarono di ricorrere al cemento, creando a questo scopo la Linea Maginot, con un esito finale non proprio felice. I tedeschi adottarono l’apriscatole brevettato della Blitzkrieg, salvo andarsi a infilare di nuovo, nel giugno 1941, nella solita trappola senza scampo della guerra su due fronti che avevano già esperimentato durante la precedente apocalisse. Gli italiani misero in piedi un bluff delegando, per di più, ogni pensiero a Mussolini salvo indignarsi, a posteriori, perché quel dittatore aveva adottato la loro medesima soluzione arrivando, alla fine, a ingannare anche sé stesso. I russi copiarono a lettere ingrandite le lezioni tedesche dei due conflitti mondiali senza però arrivare mai a capirle veramente fino in fondo. I britannici, infine, pensarono bene di non combattere la prossima guerra.

 

Atto di presenza

 

Non combattere, tuttavia, non significava non voler partecipare (soprattutto in vista della spartizione delle spoglie) al previsto nuovo conflitto europeo. In effetti si trattava soltanto di non pagare più la sale besogne de l’infanterie, da lasciare ai francesi e agli altri alleati di turno. Proprio per questo motivo il piccolo British Expeditionary Force (BEF, formato da 5 divisioni a fronte delle contemporanee, e analoghe 94 grandi unità transalpine, nonostante il fatto che la popolazione metropolitana di partenza dei due Paesi fosse praticamente la stessa), inviato a malincuore Oltremanica nel 1939, era solo una garanzia simbolica non spendibile. I francesi, per contro, avevano preteso sin dal gennaio 1939 l’invio di quelle truppe a titolo di pegno e di contro-assicurazione nel caso il Regno Unito avesse deciso, a un certo punto, di tentare la carta della pace separata con la Germania lasciando Parigi a vedersela da sola, sul più bello, con il diabolico cancelliere.

Nel 1914 era successa la stessa cosa. Ma in quell’occasione il piccolo contingente del British Army inviato in terra di Francia si era fatto coinvolgere sin dal principio sui campi di Amiens consumandosi, da allora in poi, come cera sul fuoco in meno di due anni. Nel 1940, poiché l’esperienza a qualcosa serve, dopo tutto, le cose andarono diversamente. Dopo essersi attestati, con prudenza, in prossimità della Manica (eccezion fatta per la solitaria e spendibile, in quando scozzese, 51st Highland Division, inviata a titolo di ostaggio nei forti della Maginot e arresasi in massa, alla fine, dopo aver lamentato in migliaio di caduti, a Rommel), i britannici iniziarono la propria ritirata in direzione di Dunkerque il 19 maggio 1940, ovvero nove giorni dopo l’inizio dell’offensiva germanica in Occidente. Per l’occasione i francesi inventarono un’espressione, il celebre “filarsela all’inglese”, diventato proverbiale. In effetti si trattò di un disinvolto “Ti saluto e me ne vado” eseguito senza preavviso, tanto che due giorni dopo, ad Arras, nel corso del disperato contrattacco lanciato dal comandante in capo francese Maxime Weygand nel tentativo di mozzare la testa del Gruppo d’armate tedesco A (sbucato inaspettatamente dalle Ardenne il 14 maggio e lanciatosi a rompicollo in direzione della costa travolgendo l’intero schieramento dell’Armée), l’altra branca della tenaglia alleata, ovvero il BEF, mancò - inaspettatamente - all’appello. Quel giorno fecero capolino in linea – a beneficio delle pagine dei futuri libri di storia – soltanto un battaglione di carri armati pesanti Matilda e un gruppo motorizzato d’artiglieria da campagna, tosto ritiratisi entrambi dopo le prime perdite abbandonando i propri mezzi per far prima. In questo modo, fino all’inizio della battaglia di Dunkerque, il 25 maggio, le perdite inglesi non hanno superato, dal 10 maggio, le 500 unità tra morti (un quarto di quella cifra), feriti e prigionieri su un totale di oltre 400.000 soldati ormai presenti in terra di Francia. Le originarie 5 divisioni erano infatti salite, nel frattempo, a 14, ma si trattava di grandi unità ancora in addestramento (la coscrizione obbligatoria era stata introdotta nel Regno Unito appena nell’aprile 1939) e destinate, in base alle intese anglo-francesi, ad assolvere, fino al 1941 incluso, solo compiti di manovalanza e di fortificazione, peraltro mai effettuati.

Da allora e fino alla resa di Dunkerque, avvenuta il 3 giugno 1940, i caduti inglesi furono poco più di un centinaio, bombardamenti e morti annegati inclusi. Detto in altre parole, nel film oggetto di queste righe se ne vedono molti di più. Si tratta di una cifra senz’altro tragica, ma di per sé tanto più notevole in quanto si conoscono pressoché all’unità le vittime scomparse con le navi che cercavano di reimbarcarli. E’ così confermato quanto i francesi hanno sempre cupamente affermato, da allora fino a oggi, senza essere mai ascoltati da una storiografia che sembra conoscere soltanto l’inglese ignorando, viceversa, la lingua di Cartesio e di Voltaire, ossia il fatto, innegabile, che la difesa di quella piazza contro i tedeschi l’assolsero, in tutto e per tutto, gli sventurati transalpini per due settimane di fila. Unica eccezione: la breve partecipazione straordinaria (un cameo direbbero, non a caso, al cinema) di un brigata (su 3 battaglioni) Guardie. Alla fine, a titolo di ringraziamento per questo sacrifico e dopo che Churchill in persona aveva reclamato davanti al ramingo governo transalpino (facendo sfoggio per l’occasione del proprio notoriamente pestifero francese) l’onore, per l’Esercito britannico, di assicurare la retroguardia a Dunkerque, rimasero a terra, al termine del reimbarco di circa 215.000 inglesi (un quarto dei quali salvato dalla Marine nationale, altra grande dimenticata di quei giorni nonostante un grosso sacrificio di navi e di marinai), oltre 40.000 francesi. A questi si aggiunsero, nelle lunghe colonne avviate in prigionia, oltre 20.000 disertori britannici rifugiatisi da tempo nel sottosuolo di quella città.

Proprio perché i numeri raccontano, brutalmente, questa poco edificante storia, fu necessario modificare sin dal principio le cifre elevando, per esempio, a 30.000 i caduti del British Army come fece Churchill in persona, davanti ai Comuni, solo pochi giorni dopo il reimbarco. Ebbe così inizio, da allora fino a oggi, una vera e propria sagra statistica che spazia, a seconda della fonti, da 11.014 morti a oltre 40.000 vittime sommando, per l’occasione, senza andare troppo per il sottile, i francesi ai britannici. In realtà, come ha scritto Andrew Mollo nel proprio celebre The Armed Forces of World War II, su un totale complessivo di 412.000 soldati appartenenti alla British Expeditionary Force (includendo in quella cifra anche i tardivi e avari rinforzi inglesi arrivati - e subito ripartiti - nel giugno 1940), i caduti ammontarono, in tutto, a 4.206 uomini, oltre tremila dei quali perirono, assieme a una quantità non nota di civili britannici in fuga, a bordo del transatlantico Lancastria, affondato da aerei tedeschi al largo di St. Nazaire il 18 giugno del 1940. I francesi, tra nazionali e truppe coloniali, lamentarono a loro volta oltre 80.000 caduti nella difesa della propria patria mentre belgi e olandesi pagarono un tributo, tra morti e feriti, di rispettivamente 23.350 e 9.779 soldati, come ricorda Alan Shepperd nel proprio France 1940.

Non parliamo, infine, della battaglia aerea su Dunkerque. Secondo una pia leggenda si trattò del battistrada alla successiva, trionfale battaglia d’Inghilterra. I commenti del tempo dei soldati tornati dalla Francia concordano, tuttavia, sia pure nella confusione generale del momento, su un solo punto: l’assenza della RAF e la libertà di movimento dei bombardieri tedeschi, i quali affondarono (assieme alle motosiluranti germaniche), 13 cacciatorpediniere (7 dei quali francesi), 1 cannoniera, 6 dragamine di squadra, 4 motosiluranti e 262 tra pescherecci, panfili, traghetti, rimorchiatori, piroscafi e navi ausiliarie alleate, ovvero un quarto del totale delle unità, tra grandi e piccole, impegnate nell’evacuazione.

Conclusione

Non si deve fare, naturalmente, l’errore di attribuire ai soldati inglesi la patente di vigliacchi. Essi si limitarono a obbedire, con intimo sollievo, agli ordini ricevuti, peraltro del tutto conformi rispetto alla loro cultura isolana. Non a caso i britannici ricordano ancora oggi con piacere la battuta riferita dall’ammiraglio Andrew Browne Cunningham (all’epoca comandante della Mediterranean Fleet) nelle proprie memorie il giorno dell’entrata in vigore dell’armistizio francese con i tedeschi e gli italiani “Ora so che vinceremo perché, grazie a Dio, non abbiamo più alleati”. Come benservito non c’era male.

Pochi mesi dopo, nel dicembre 1940, con stupore dello Stato Maggiore del Regio Esercito (ma non di un osservatore attento come l’allora maggiore Alberto Bechi Luserna, addetto militare aggiunto a Londra dal 1936 al 1940 e prima medaglia d’oro alla memoria contro i tedeschi dopo l’8 settembre 1943), quello stesso British Army che aveva abbandonato intatti, a Dunkerque, 2.742 cannoni, 63.879 autoveicoli e oltre 500.000 tonnellate di munizioni, per tacere della maggioranza dei fucili, si batté bene contro gli italiani e i libici subendo perdite, in termini di caduti e di feriti, nell’ordine di 1 a 1 (salvo raccontare, in seguito, una storia ben diversa) riconquistando il terreno perduto in Egitto pochi mesi prima per poi spingersi fino ai confini della Tripolitania. Perse poi, in due settimane, quello che aveva preso in due mesi, ma questa è un’altra storia.

L’Africa Settentrionale, infatti, era il terreno scelto da Londra sin da prima della guerra per vincere una campagna politicamente e militarmente redditizia; non certo i lugubri campi di Ypres, della Somme e di Passchendaele della Grande Guerra.

Quest’apparentemente frigida vocazione a combattere solo dove occorre, e non altrove, pagando il necessario prezzo di sangue solo quando è ritenuto necessario senza inutili sprechi non è, a sua volta, che la conferma del fatto che in guerra, come in economia, bisogna tendere a ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. Per il resto basta la propaganda e Dunkirk, film di ottima fattura, è propaganda. Quella stessa propaganda che rovinò la Francia del 1939-1940 gettandola, da allora in poi e fino a oggi, in braccio ai tedeschi, oltre che in preda a una lunga guerra civile dimostratasi peggiore, se possibile, di quella italiana del 1943-1945. E poiché la tendenza degli errori è quella di ripetersi, sarà bene non farsi sedurre troppo, in questi tempi così difficili, dal technicolor e da messaggi subliminali di vario tipo che possono sottintendere molte cose, nessuna delle quali, però, che rientri nella cerchia degli interessi continentali.

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