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Guerrieri Del Sol Levante


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SAMURAI SUL PACIFICO

(di Mario Veronesi) 20/04/17

 

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Riporto integramente questo bell'articolo da http://www.difesaonline.it/news-forze-armate/storia/samurai-sul-pacifico. Al l link citato altre foto storiche.

 

I sentimenti di onore, fedeltà, coraggio e devozione erano tutti sublimati nel "Bushido" (via del guerriero), codice e regola di vita dei samurai, derivato fondamentalmente dal Buddismo-Zen laddove esso incitava alla sopportazione del dolore fisico. I samurai, dalla più tenera infanzia, ricevevano la durissima educazione "Hagakurè" (annotazioni su cose udite all'ombra delle foglie). L'autore, Yamamoto Tsunetomo (1659-1721), un ex samurai che divenne monaco Zen, lo scrisse in un'epoca di pace e di inizio della decadenza dei samurai. Il libro fu adottato per secoli come codice dei samurai ma vide la stampa solo nel 1906. Non fu molto noto durante gli anni dello shogunato, ma in seguito divenne uno dei testi più famosi ed insegnati in Giappone.

Dopo l’apertura del Giappone ai traffici internazionali, i principi del "Bushido" hanno permeato il regolamento dell’Esercito e della Marina, ed in seguito essi furono adottati persino dalla borghesia civile e dalla classe dei funzionari dello stato. Esso ebbe ampia diffusione - e subì la strumentalizzazione del militarismo giapponese della prima metà del XX secolo - al punto che i kamikaze portavano con sé questo testo come ultimo compagno di morte. Questa incredibile applicazione generalizzata di un codice di condotta, rivolto in origine solo ad una classe di eletti, ebbe il potere di fanatizzare un popolo intero. Potrà sembrare impossibile, innaturale, contrario alla logica più elementare delle cose, ma è stato così: possiamo stupircene, ma non possiamo che prenderne atto.

La pratica del suicidio è stata in Giappone, per secoli, una vera e propria istituzione. Infatti, fino al 1950 circa, la stragrande maggioranza dei giapponesi considerava il suicidio talvolta addirittura doveroso, talvolta inevitabile, ma sempre rispettabilissimo. Presso le classi aristocratiche e la gerarchia militare, come sappiamo, darsi la morte per non sopravvivere al disonore esigeva un rituale specifico, anch’esso improntato all’interpretazione giapponese della religiosità e dell’eleganza formale, da noi conosciuto come "Harakiri". In verità i giapponesi non hanno mai usato questo termine, che alla lettera significa (apertura del ventre). Il suicidio eseguito secondo precise regole si chiama per i giapponesi "Seppuku" (suicidio rituale), questa cerimonia mortuaria è più scenografica di quanto generalmente si crede. Tuttavia, la maggior parte dei militari e dei civili giapponesi che si suicidarono nel 1945, in seguito alla sconfitta della guerra, lo fecero più o meno in modo sbrigativo, quindi furono per lo più dei semplici "Harakiri" e non dei "Seppuku"

Premesso questo, non dobbiamo quindi meravigliarci per l’avvento dell’epopea dei kamikaze, essi sono stati gli estremi epigoni di una tradizione millenaria, che ha raggiunto la sua apoteosi nel momento storico più drammatico della storia del Giappone, gli anni di fuoco, di distruzione e di dolore della seconda guerra mondiale.

Kamikaze (vento divino), è un termine che entrò in uso per indicare il nome di un leggendario tifone che si dice abbia salvato il Giappone da una flotta di invasione mongola inviata da Kublai Khan (1215-1294) nel 1281. Come nel XIII secolo, così nell’ottobre 1944, il “vento divino" avrebbe dovuto salvare il Giappone da un’invasione, ovvero dall’invasione alleata. In Giappone la parola kamikaze viene usata solo in riferimento a quel tifone, mentre il termine usato per le unità che eseguivano questi attacchi era “Tokubetsu kogeki tai - unità d’attacco speciale”, solitamente abbreviato in "Tokkotai". Mentre le squadre suicide provenienti dalla Marina imperiale furono chiamate “Shinpu tokubetsu kogeki tai”.

In realtà la storia dei kamikaze ha i suoi lontani inizi prima del conflitto nippo-americano del 1941-1945, per non parlare di interi reparti della morte nipponici che si erano sacrificati durante la guerra russo-giapponese del 1905 all’assalto di Port Arthur, oppure durante la guerra cino-giapponese del 1937. Si trattava allora non di un vero corpo, creato appositamente per gli attacchi suicidi, ma di reparti che si sacrificarono coscientemente quando talune circostanze lo rendevano necessario.

Il primo corpo kamikaze era formato in principio dagli aerei superstiti della 201° squadra da caccia; 13 apparecchi erano destinati all’attacco per percussione, mentre altri costituivano la scorta. Il primo comandante del corpo fu il tenente di vascello Yukiho Seki (1921-1944). Il tenente Seki (foto) guidò uno dei tre gruppi di caccia kamikaze, al suo secondo attacco; il primo attacco ufficiale fu condotto da Yoshiyasu Kuno (1921-1944) il 21 ottobre 1944, peraltro senza successo. Erano ai suoi ordini 4 gruppi, denominati: "Shikishima" (nome poetico del Giappone), "Yamato" (la regione di Kyoto, antica capitale del Giappone feudale), "Asahi" (sol levante) e "Yamazakura" (ciliegio selvaggio). L'attacco avvenne il 25 ottobre 1944, durante la battaglia del golfo di Leyte, guidando un gruppo di cinque bombe armate Mitsubishi A6M, questa designazione si otteneva componendo l’"A" per aereo imbarcato, il "6" perché era il sesto modello costruito per la Marina giapponese e la "M" iniziale del costruttore Mitsubishi, chiamato dagli alleati semplicemente Zero. Negli ultimi anni del conflitto, dei 10.937 esemplari prodotti, molti furono trasformati in kamikaze. Prima di partire, Seki consegnò un foglio di carta, accuratamente ripiegato. L’ufficiale che lo ricevette lesse il suo contenuto solo dopo il decollo: "una ciocca di capelli per la vedova". L’episodio rievoca analoghe consegne dei tempi dei samurai, alla vigilia di una battaglia.

Tutti i piloti della prima flotta aerea chiedevano di far parte del nuovo corpo d’attacco speciale, sia gli ufficiali che i sottufficiali (questi ultimi, non essendo stati inizialmente compresi, protestavano per non sentirsi disonorati). Per questi uomini, come per tutti i giapponesi, sopravvivere alla rovina dell’impero, senza aver tentato il possibile e l’impossibile per evitarla, era disonorevole.

Di fronte alle nuove esigenze, il Giappone iniziò a costruire, per la tattica kamikaze, un aereo speciale, vera e propria bomba volante pilotata, da sostituire allo Zero, nato come caccia. L’aereo suicida era l’Ooka (fior di ciliegio), chiamato poi dagli americani "Baka" (in giapponese equivale a stupido). La prima versione di questo aereo fu l’Ooka 11, che veniva portato attaccato sotto la fusoliera da un bimotore in prossimità dell’obbiettivo, giunto a breve distanza, dopo che il pilota kamikaze era sceso spostandosi dall’aereo trasportatore all’abitacolo dell’Ooka, quest’ultimo veniva sganciato e partiva azionato da tre razzi (invece dei razzi, avrebbe dovuto funzionare un motore a reazione, apparso poi, per un ritardo nella costruzione, sulle successive versioni), dirigendo verso la nave nemica. Il primo Ooka 11, denominato "Jinrai" (colpo di tuono), fu prodotto nel settembre 1944.

In quel periodo i kamikaze di base nelle Filippine erano divisi in tre corpi e adottavano ormai anche altri tipi di apparecchi oltre lo Zero; il primo era infatti composto di 17 Zero, mentre il secondo contava su 3 bombardieri medi Suisei ed il terzo aveva in organico 6 bimotori P1Y1 Ginga (via lattea), quest'ultimo tipo d’apparecchio è più noto con la denominazione americana di “Frances”. Il 14 e 15 novembre, alcuni di questi kamikaze, attaccarono le forze americane che avevano conquistato una testa di sbarco a Mindoro, nelle Filippine occidentali, colpendo due incrociatori ed un cacciatorpediniere ed affondando due navi da sbarco per carri armati. Contemporaneamente, altri apparecchi suicidi si gettavano sulle posizioni terrestri americane di Leyte, con una tattica che sarà poi ripetuta ad Okinawa.

Il picco dell’attività venne toccato il 6 aprile 1945 durante la battaglia di Okinawa, quando varie ondate di aeroplani condussero centinaia di attacchi durante l’operazione “Kikusai” (crisantemi galleggianti), dove vennero utilizzati 1.465 aeroplani. Per questa battaglia era previsto la missione “suicida” della nave da battaglia Yamato che non riuscì a raggiungere l’obiettivo, perché affondata dagli aerei alleati a diverse centinaia di miglia di distanza.Il "colpo" più famoso dei reparti kamikaze avvenne lunedì 14 maggio 1945, nel mar delle Filippine, a circa 150 miglia a sud-est di Kyushu. Erano le 6,56 e la nave si trovò sotto l’ultima nube in cui lo Zeke era entrato, come fosse stato ad attendere quel momento, il piccolo caccia giapponese sbucò dalla base inferiore delle nuvole di poppa, in planata veloce ma poco inclinata, puntando sull’Enterprise. Le 40 e le 20 mm di sinistra lo presero sotto il loro fuoco, mentre la portaerei accostava a sinistra spostando il bersaglio. L’aereo continuò diritto senza deviare di un metro, variando il suo punto di mira per seguire le accostate della nave, precipitando con la sua bomba sulla nave. La bomba penetrò per cinque ponti nel ventre della portaerei elevando una densa colonna di fumo grigio e bianco. L’Enterprise era stata gravemente danneggiata, le fiamme dilagarono dall’estremità anteriore del ponte dell’hangar e lambirono il deposito munizioni dei cannoni da 127 sui due lati del settore prodiero, il ponte di volo fu distrutto fino ad un metro a poppa dall’elevatore demolito. Con il ponte contorto e la bocca dell’elevatore spalancata, la “Big E” non era in grado di far volare i propri aerei. Ma fatto ancor peggiore, i suoi squarci ed il fumo la indicavano quale nave colpita agli altri aerei in avvicinamento. Le sue perdite erano lievi in rapporto al danno subito: 13 morti e 68 feriti. Otto uomini sbalzati in mare furono recuperati dal cacciatorpediniere Waldron. Il corpo del capo pilota Tomi Zai, con i documenti personali, fu ritrovato in fondo alla tromba dell’elevatore, aveva raggiunto il risultato che invano i suoi superiori della Marina imperiale avevano cercato di ottenere. Era riuscito ad estromettere l’Enterprise dalla guerra. La portaerei americana aveva partecipato a 20 battaglie, distrutto 911 aerei e affondato 71 navi nemiche. Dopo Okinawa i combattimenti delle unità d’attacco speciale proseguirono fino al termine del conflitto, le ultime azioni avvennero all’inizio di agosto. Il 15 dello stesso mese, il governo nipponico - minacciato dal lancio di nuove bombe atomiche - capitolò. Il giorno seguente, l’ammiraglio Takajiro Onischi (1891–1945), ideatore e comandante dei kamikaze si uccise col rito del "Seppuku", andando così a raggiungere i suoi 2.530 piloti suicidi. La Marina e l’Esercito giapponese non ebbero mai problemi nel reclutare volontari per le missioni kamikaze; in effetti ci fu il triplo di volontari rispetto agli aerei disponibili. In conseguenza di ciò i piloti esperti venivano scartati, in quanto considerati meglio impiegati in ruolo difensivi e di insegnamento. Venivano spesso tenute cerimonie speciali, immediatamente prima della partenza delle missioni kamikaze, nelle quali ai piloti che portavano preghiere delle loro famiglie venivano date decorazioni militari. Queste pratiche aiutavano a romanzare le missioni suicide, attraendo pertanto altri volontari. Ad ogni componente dell’equipaggio si consegnava la spada corta dei samurai in riferimento al "Seppuku". Fu una delle prime occasioni in cui fu indicato chiaramente il nesso tra il "Bushido" e l’etica militare. Anche "l’Hachimaki" nota bandana bianca con dei motivi patriottici disegnati, era un altro tratto in comune con i reparti kamikaze, alludeva all’epoca dei samurai, mostrava audacia e determinazione, rammentando all’equipaggio il significato del suo sacrificio. Secondo la leggenda i giovani piloti delle missioni kamikaze spesso volano a sud-ovest dal Giappone sopra il monte Kaimon, alto 922 metri. La montagna è anche detta "Satsuma Fuji" (indicando una montagna simmetricamente, come il monte Fuji ma situata nella regione di Satsuma). I piloti, mentre erano in aria, guardavano la montagna e salutavano il proprio paese. I residenti dell’isola di Kikajima, ad est di Amami Oshima, dicono che i piloti lanciavano fiori mentre partivano per la loro missione suicida.

Nel febbraio del 1944 si varò un piano di produzione per una nuova arma battezzata Kaiten, letteralmente “che sovverte i cieli”. La produzione della nuova arma restava secretata, si anticipava la strategia dei corpi speciali e i marinai condividevano il destino dei piloti suicidi. Otsu era una piccola isola del Mare Interno, qui si addestravano i piloti di Kaiten. Benché antecedente ai corpi speciali dell’ammiraglio Onischi, il Kaiten entrò in scena dopo di loro e il primato di una strategia pianificata competé agli aerei della Marina imperiale. I marinai suicidi colpivano nell’ombra e non furono mai avvolti dall’aura che circondava i colleghi aviatori, li celava un’oscurità troppo densa, un segreto impenetrabile.

Come mai tanta insistenza sulle torpedini umane, nonostante i fallimenti? Dipendeva dalla situazione disperata, dalla crisi della flotta navale, dalla differenza tecnologica nei confronti dell’America che ormai appariva incolmabile. Si pensò di tutto: barche cariche d’esplosivi, uomini rana "Fukuryu" (draghi striscianti) che si calavano da piccole imbarcazioni con scarse possibilità di ritorno. Barche suicide, denominate "Shinyo" (scuoti l'oceano), ovvero barche per la collisione caricate di esplosivo che arrivavano a pesare anche due tonnellate. Questi motoscafi veloci erano guidati da un uomo e raggiungevano una velocità di circa 30 nodi, dotate in genere di due bombe di profondità o di una carica esplosiva. Quelle caricate con bombe di profondità, non furono propriamente barche suicidio. In effetti l’idea era quella di sganciare le bombe di profondità e poi disimpegnarsi dall’obbiettivo prima dello scoppio. Tuttavia, l’onda dall’esplosione avrebbe probabilmente ucciso l’equipaggio o almeno sommerso la barca. Di questi "Shinyo" ne furono costruiti 6.200 per la Marina imperiale. Circa 400 di queste barche furono trasportate a Okinawa e Formosa, il resto fu disposto mimetizzandolo lunghe le coste del Giappone, per un’ultima difesa contro l’invasione americana. Erano pronte ai primi di gennaio 1945 per lo sbarco americano nel golfo di Lingayen. Nel corso dell’attacco molte furono neutralizzate dai cannoni e nei successivi sbarchi americani non apportarono quel decisivo contributo per il quale erano state costruite. I kamikaze dell’acqua non riportarono brillanti successi né alle Filippine, né a Iwo Jima e tanto meno ad Okinawa.

Quando la guerra finì, l’immagine pubblica dei piloti kamikaze cambiò drasticamente. I superstiti erano guardati con sospetto o indifferenza e spesso giudicati fanatici ed in ultima analisi giudicati responsabili della guerra. Nel corso dei decenni, dopo la fine dell’occupazione americana nel 1952, i piloti kamikaze riacquistarono lo status di eroi nazionali, come durante le fasi finali della guerra. Gran parte di questa inversione di tendenza dell’opinione pubblica è nata grazie agli sforzi del “Museo della Pace Chiran” in Kyushu della prefettura di Kagoshima, museo per piloti kamikaze, aperto nel 1975 nell’ex “Base Chiran Air”, dove partirono 436 piloti dell’Esercito imperiale che non fecero più ritorno. Poco prima della partenza essi furono tutti fotografati e le immagini sono oggi esposte al museo della pace di Chiran, avevano tra i 17 e i 28 anni. La maggior parte indossava un casco d’aviatore e occhiali sulla fronte. Un migliaio di fotografie occupano le pareti della prima sala del museo. Silenziosi, i visitatori osservano i volti di questi uomini, si avvicinano alle didascalie per leggere i loro ultimi messaggi, le loro ultime poesie scritte a mano con cura e lasciano spazio all’immaginazione, magari guardando gli oggetti porta fortuna che accompagnavano il volo di coloro i quali avevano ricevuto il “foglio rosso”: ovvero l’ordine di partire per il fronte.

Il museo è divenuto una popolare destinazione turistica con oltre 500mila visite all’anno. Oltre a questo museo, citiamo il “Kaiten Memorial Museum”, dedicato ai marinai kamikaze. Libri, film e altri musei hanno contribuito in modo significativo alla rinascita della reputazione di questi uomini.

 

 

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