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Gli Italiani Dell'invincibile Armata - Enrico Cernuschi


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Titolo: GLI ITALIANI DELL'INVINCIBILE ARMATA. L'ALTRA STORIA DELLA GUERRA ANGLO-SPAGNOLA 1585-1604
Autore: Enrico Cernuschi
Casa editrice: Mursia
Anno di edizione: 2016
Pagine: 144

Dimensioni (cm): 21x14
Prezzo: €.16,00

Reperibilità: facilissima

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Dopo essersi dedicato a sfatare i molti miti novecenteschi nati dalla legittima (in quanto arma valida anche in tempo di pace) ed efficiente propaganda d'Oltremanica, in questo recentissimo volume Enrico Cernuschi si dedica a un'altra leggenda, quella della travolgente vittoria inglese contro l'Invincibile Armata, che avrebbe, si è sempre letto, fondato le basi per secoli di dominio britannico sui mari.

Dopo aver definito i termini politici, economici e militari della crisi dei rapporti tra Inghilterra e impero asburgico, e la crisi finanziaria che affliggeva entrambi i contendenti, l'autore descrive le vicende di un conflitto che non si risolse affatto nella spedizione dell'armata spagnola (chiamata "Invincibile" solo parecchi anni dopo) nel 1588. Si scopre in primo luogo che già gli eventi di quell'anno sono assai diversi da come sono usualmente raccontati: la flotta asburgica, che pure pativa l'assenza di un buon numero di galere lasciate imprudentemente a Lisbona, non fu affatto distrutta dai sempre trionfanti vascelli di Drake & C. I danni maggiori furono arrecati dalle intemperie, specie nel viaggio di ritorno; e per converso, statistiche alla mano le perdite umane tra le fila inglesi furono ingenti. Si scopre poi che se in quel conflitto si manifestò la tradizionale preparazione degli artiglieri inglesi, frutto di un intenso addestramento, non di meno la flotta spagnola si limitò a prenderle, anzi dando parecchi dispiaceri agli avversari, specie grazie alla buona prova delle galeazze (tipologia di nave entrata in scena da pochissimi anni).
Ma quel conflitto non terminò nel 1588 lasciando Britain ruling the waves. Subito dopo quella spedizione, gli asburgici si dedicarono a una razionale riorganizzazione della flotta, non trascurando la logistica, l'organica e l'approntamento di nuove fortificazioni nelle Americhe.
Fu così che in quegli anni si registrò il completo fallimento della strategia inglese: dal fallimento dell'invasione britannica in Portogallo (1589) ai ripetuti e sempre vani tentativi d'intercettare il convoglio annuale, fortemente scortato, diretto dall'America alla Spagna, il che convinse infine navarchi (e loro finanziatori) d'Oltremanica che il tempo della guerra di corsa era finito.
In tutte queste vicende, lo si evince già dal titolo, fu rimarchevole il ruolo che ebbero gli italiani: banchieri genovesi o fiorentini, cartografi, architetti, fino a comandanti sul campo quali Alessandro Farnese (comandante delle truppe spagnole nei Paesi Bassi), Francesco Colonna, Gian Andrea Doria o quel Federico Spinola che al comando delle sue galere, portate sin nella Manica e giudicate superate per quei mari, inflisse parecchi danni al traffico anglo-olandese. "Una sorta di prototipo del Principe Borghese", per usare le parole dell'autore.
Corredato da un'ampia bibliografia e da diverse cartine realizzate da Vincent O'Hara, il testo fornisce una chiave di lettura documentata e non convenzionale su vicende ignorate, celate come sono da una secolare mitologia, che (riconoscendo il valore e la perizia sul mare di ciascun contendente) è bene sfatare.

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Non sapevo di questo volume. Leggere di un Cernuschi accostato a questo periodo storico mi ha sorpreso, almeno inizialmente: sarà l'abitudine di saperlo immerso nella storia navale del ventesimo secolo. Comunque, sinora Cernuschi è sempre stato (nella mia esperienza) garanzia di qualità, spero quindi che anche questo volume, nonostante le relativamente poche pagine, mantenga le promesse (e sono curioso di osservare le cartine preparate da V. O'Hara).

Grazie per aver aperto la discussione, penso sia sicuramente un libro da leggere.

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  • 8 months later...

Allego la recensione firmata dall'amm. Ezio Ferrante apparsa nel numero di gennaio 2017 della Rivista Marittima:

 

Il filone storiografico risorgimentale incentrato sulla partecipazione degli «italiani» alle vicende della storia navale europea, quando l’Italia come Stato unitario non esisteva ancora, rivive nell’ultima fatica di Enrico Cernuschi. E se il tema topico era costituito in genere dagli «italiani a Lepanto», come possiamo leggere anche sulle pagine della Rivista Marittima negli anni Ottanta dell’Ottocento, questa volta, nel libro in discorso, l’attenzione critica si focalizza sul ruolo degli «italiani» all’epoca dell’Invincibile Armata spagnola, cioè alla fine del XVI secolo. È questo, rispetto ai numerosi studi critici sinora apparsi sul tema (da Colin Martin e John Knox Laughton a Jan Dobraczynski, per intenderci), il profilo originale che ci propone l’autore, gettandosi a capofitto (e trascinandosi dietro l’attenzione dei lettori) nella fittissima e complicata trama degli avvenimenti politici e navali nel quasi ventennio di lotta tra il «cattolicissimo» impero coloniale ispanoportoghese (all’epoca, per ragioni dinastiche, unificato in un’unica monarchia) e i nascenti imperi del mare «protestanti», con inglesi e le Province unite olandesi alleati. Quasi in un rinnovato spirito di crociata, tornano alla ribalta i protagonisti di Lepanto, da Alessandro Farnese, governatore delle Fiandre spagnole a Gian Andrea Doria, comandante delle marine imperiali nel Mediterraneo al marchese di Santa Cruz, comandante della marina spagnola, tutti con i propri piani di invasione dell’aborrita Inghilterra, la cui regina Elisabetta era stata scomunicata proprio da papa San Pio V, l’artefice della Santa Lega di Lepanto. Tornano sui campi di battaglia le galee e le galeazze mediterranee che danno ancora buona prova di sé di fronte ai race built galleons inglesi. Ma questa volta la fortuna (o la provvidenza) non assistono l’Invincibile Armata, che nel luglio del 1588 si appresta all’invasione (corroborata dalle galeazze napoletane, da due galeoni toscani e dalla temibile fanteria di marina partenopea) e che, fatalmente, nel giro di due mesi andrà incontro al suo tragico destino. Ma quel che ben si fa rilevare è come l’annientamento di quell’armata che, quasi per ironia della sorte, era stata definita invincibile, non esaurisce di per sé la guerra ventennale, che continua con alterne vicende, puntualmente descritte nei teatri operativi più disparati, dal Mar del Nord all’Atlantico, dal Mediterraneo ai Caraibi. Con gli Inglesi che, pur avendo scongiurato il pericolo dell’invasione spagnola del proprio territorio, alla fine, con trattato di Londra del 1604, persero quella guerra, in cui peraltro (e spesso) era finita per trovarsi a mal partito, con buona pace di un certo tipo di storiografia «nostrana» che vorrebbe sempre e solo gli Inglesi nel ruolo di vincitori, come sottolinea l’autore non senza un pizzico di italum acetum. Come l’incursione in Cornovaglia nel 1595 di quattro galee di base in Bretagna al comando di don Carlos de Amézola ovvero quando, nel 1600, otto galeoni britannici, che tentavano di forzare lo stretto di Gibilterra, sono costretti a battere in ritirata dalla squadra al comando di don Francesco Colonna. E sì perché spesso sono proprio gli Italiani ad avere la meglio contro gli anglo-olandesi! Come ci rivelano, in particolare, i successi dell’attività navale nelle acque basse della costa fiamminga di un’armatella — come direbbe lo storico Augusto Vittorio Vecchj — di una mezza dozzina di galee, armate di tasca propria dal genovese Federico Spinola, «Marte genovés sempre trionfante», un personaggio caro all’autore che, nella prefazione, ascrive la genesi del libro proprio ai contatti stabiliti con i suoi diretti discendenti. «Ottimo e fantasioso marinaio non sprovvisto di spirito cavalleresco» che colpì ben presto, con i propri rapidi e fortunati attacchi al traffico inglese e olandese, la fantasia dei nemici, ispirando persino lo stesso Shakespeare e che all’autore sembra «una sorta del prototipo del Principe Borghese». Ovvero quando Federico, sempre con le sue galee, riesce a forzare lo stretto di Dover per consegnare al fratello maggiore Ambrogio, destinato a diventare il più illustre condottiero dell’esercito spagnolo, il prezioso carico destinato a pagare le proprie irrequiete truppe. Ci sono molti modi di «fare storia» e quello che piace all’autore, come ci ha mostrato in altri suoi scritti (e su cui insiste nelle conclusioni del presente libro), è una storia «senza partito preso a priori», senza preclusioni e, possibilmente, che affronti gli avvenimenti da un’angolatura inedita (o comunque inusuale), in maniera da contribuire a gettare nuova luce sui temi trattati e sfatare vulgate storiografiche spesso dure a morire. Come appunto il mito della vittoria «assoluta» inglese sull’Invincibile armata spagnola, con cui Londra, saldandola alle successive vittorie dell’ammiraglio Nelson di due secoli dopo, si è proposta lo scopo, invero sinora pienamente riuscito «di confermare la natura scontata e immutabile del primato britannico (sui mari) nei confronti del resto del pianeta (…) unitamente al plateale disprezzo sempre dispensato a piene mani nei confronti del nemico», in barba al sempre conclamato fair play britannico.

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