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La Mia Guerra Sul Fondo Del Mare


LinceLC

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Volevo proporre alla base un racconto estrapolato da un’intervista che rilasciò un mio parente, sommergibilista durante la seconda guerra mondiale.

Buona lettura.

 

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“ … «Avevo 20 anni quando dal mio paese d’origine mi destinarono all’imbarco sul torpediniere La Lince. Poi un giorno vennero a chiedere dei volontari per i sommergibili. Qualcuno si fece avanti, gli altri li scelsero. La paga era tripla rispetto agli altri ma io non volevo andare, già avevo paura sopra il mare. Sotto era peggio». Lo spedirono a La Spezia a fare il corso «Avevano bisogno di uomini e quindi fu una scuola molto rapida. Ci spiegarono qualche tecnica di emersione in apnea, solo che le esercitazioni le facevamo a 4 o 5 metri di profondità. E invece se finivi sotto con il sommergibile come minimo eri a trenta metri. Se restavi bloccato sotto i 50 metri era finita, non avevi possibilità di salvarti. La paura era proprio quella di fare la fine del topo – racconta il sommergibilista-. Durante la guerra il nostro lavoro era di fare la scorta ai convogli di navi fra l’Italia e il nord Africa, restavamo sott’acqua tutto il giorno e la notte riemergevamo per riempire le riserve di ossigeno e captare via radio gli ordini del ministro della Difesa. Ma una volta, al largo della Grecia ci bersagliarono con le bombe di profondità. Sono andati avanti per ore, a intervalli. Noi ce ne stavamo a 150 metri di profondità». Ogni tanto il sommergibile si scuoteva mentre si susseguivano i botti attutiti dall’abbraccio del mare: «Dentro aspettavamo che finisse, avevamo un’autonomia di 20 ore per l’aria. Ma si poteva tirare fino a 24. Quando le scorte di ossigeno cominciarono a scarseggiare il capitano ordinò di stendersi a terra e di non muoversi, in questo modo si consumava meno aria. Nessuno parlava. Tutti sudavano, perché quando manca l’aria sudi di più. Abbassarono le luci. Tutto fermo. In superficie c’erano gli inglesi. Durante il corso a La Spezia ci avevano insegnato che come via di fuga si potevano usare le camere dei siluri. Si toglieva il siluro, entrava la persona, si chiudeva il portello interno e si apriva quello verso l’esterno e da lì dovevi risalire da solo, in apnea. Ma eravamo a 150 metri». La pressione era così forte che le lamiere del sommergibile si piegavano come se fossero state prese a pugni dalla massa d’acqua, qualche bullone saltava, mentre le onde d’urto della bombe scuotevano il mare, Nessuno fiatava: sessanta uomini muti come pesci e fermi come statue di sale. «Pensavamo di morire - racconta Tirelli – alla fine il capitano decise: armò il bengala con i colori della resa e ordinò la risalita». Ma sopra trovarono solo il mare. Le corvette Inglesi erano rientrate, la via era sgombra. Si tornava a casa. «Ogni tanto però qualcuno non ce la faceva – dice il vecchio marinaio di pianura -. Ci conoscevamo tutti e durante i turni di riposo in terraferma a volte arrivava la notizia dell’affondamento di un sommergibile con l’intero equipaggio. Allora il cappellano organizzava la Messa funebre e poi non si sapeva più nulla. Neppure sui giornali si leggeva di questi morti. E noi stavamo li, pensando che magari un’altra volta sarebbe stato il nostro turno. Era un’angoscia per quelli persi in fondo al mare e per noi che restavamo e che ci saremmo di nuovo imbarcati». Nonostante la guerra e il cambiamento di fronte dell’8 settembre (quando il suo sommergibile venne portato in rada alla Maddalena e controllato a vista dai tedeschi), Tirelli sfuggi all’abbraccio del mare. Anni dopo, di notte, ogni tanto si sognava ancora il bombardamento nel sommergibile. Si svegliava di botto nel letto e la moglie chiedeva «Che hai?». Lui scuoteva la testa e rispondeva: «Che ho, che ho. Niente». Era solo un incubo che riemergeva dagli abissi della memoria. Articolo di Fabio Bonaccorso”

 

Purtroppo il sommergibile sul quale servì in quel periodo è ancora ignoto.

 

Scritto “per non dimenticare”.

Modificato da LinceLC
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