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Cento Anni Fa Entrano In Servizio I Mas


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pe ricordare l'entrata in servizio dei MAS.

 

http://www.cefalunews.net/cn/news/?id=49695

 

 

Aprile 1916 entrano in servizio i MAS.

Nel aprile 1916, fu consegnato alla Regia Marina il MAS 3, primo mezzo di serie dei MAS “tipo SVAN da 12 t”. di questi mezzi ne furono costruiti circa un centinaio e tutti operarono prevalentemente in Adriatico. Oltre a questo tipo di MAS, ne furono costruiti anche altri tipio, anche dalla ELCO americana, per un totale di 422 di cui 244 entrarono in servizio prima della fine del conflitto.

I tipo SVAN da 12 t si resero protagonisti di audaci missioni forzando i porti e approdi nemici di Durazzo, Trieste, Buccari, fino all’impresa di Premuda, a lunghi e logoranti pattugliamenti ed agguati contro sommergibili e navi nemiche, scorta agli idrovolanti che si recavano a bombardare le installazioni nemiche, senza contare lo sbarco d’informatori dietro le linee nemiche. Attorno a questi mezzi si formo un aurea di legenda tale che la marina austriaca, non esitò a sbarcare ad Ancona per tentare d’impossessarsi di qualche MAS al fine di studiarlo e riprodurlo. Questi mezzi furono la risposta della Regia Marina alla volontà della marina austriaca di evitare lo scontro navale diretto.

Già dal 1906, lo Stato Maggiore della Marina svolse uno studio sulla possibilità di utilizzare imbarcazioni con motore a scoppio nel territorio lagunare veneto, al fine di sfruttare il fattore sorpresa utilizzando i canali della laguna, si giunse alla conclusione che occorreva un mezzo di lunghezza di 10/12 metri, un immersione massima di 0.6 metri e una velocità di 20/22 nodi, armato con un tubo lancia siluri ed armi leggere, il mezzo inoltre doveva anche avere la capacità di navigare in mare aperto. Dato l’indisponibilità al momento di idonei motori a scoppio, il progetto fu accantonato.

Nel 1914, con il deterioramento delle relazioni internazionali, che facevano prevedere l’apertura di un conflitto, l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Capo di Stato Maggiore della Regia Marina, diede un nuovo impulso al progetto, fu richiesto a vari cantieri di presentare dei progetti di massima per il nuovo mezzo. Alla fine dell’anno, lo stato maggiore e la commissione per gli armamenti, ricevette i progetti ed iniziò ad analizzarli, fu scelto quello della Società Veneta Automobili Nautiche SVAN(1), e l’11 marzo 1915 fu emanato l’ordine d’acquisto di due mezzi per le valutazioni in mare. Il mezzo fu inizialmente denominato MAS, acronico di Motobarca Armata SVAN , per diventare poi Motobarca Anti Sommergibile ed infine Motoscafo Armato Silurante, è da ricordare che il poeta soldato Gabriele D’Annunzio, durante la beffa di Buccari, dalla sigla creo il motto della specialità Memento Audere Semper ( ricordati di osare sempre). Oltre che dai cantieri SVAN, questi mezzi furono costruiti anche dai cantieri Ansaldo di Genova (29 unità) e Orlando di Livorno (11 unità).

Il progetto fu elaborato dall’ingegnere Attilio Bisio, direttore della SVAN ed i due prototipi furono pronti per le prove nell’estate del 1915, alle prove i mezzi diedero risultanti insoddisfacenti, sia per la velocità che per la stabilità, dovuta ai pesi dei tubi di lancio, pertanto fu deciso di alcune modifiche che permisero la velocita di 23.5 nodi, anche se la velocità era inferiore a quella richiesta (30 nodi), il 5 gennaio 1916 la Regia Marina accetto il progetto ed ordinò la costruzione di un primo lotto di 8 unità, durante la realizzazione furono introdotte altre varianti atte a rendere l’armamento dei mezzi convertibile ( silurante o cannoniero).

Il MAS era un motoscafo pontato, interamente in legno, con un basso bordo libero, un elevato coefficiente di finezza, con le seguenti caratteristiche: dislocamento 12 t a pieno carico 11t a carico standard; lunghezza ft 16.5m; larghezza ft 2.83m; immersione media di 0.36m a carico normale e di 1.3m (timone) a pieno carico.

Come detto per il mezzo poteva essere armato in due diversi modi:

Cannoniero, che comprendeva un cannone da cannone da 47/40 per il tiro antiaereo o antinave e due mitragliatrici Colt da 6.5mm.

Silurante, armato con due siluri, inizialmente tipo Whitehead B57 da 356mm successivamente sostituiti da i Whitehead A90 o A95 da 450mm, e due mitragliatrici Colt da 6.5mm. I siluri erano sistemati a proravia della timoneria, su un sistema di lancio a tenaglie che al fine di ridurre l’ingombro in posizione di riposo erano abbattute all’interno dello scafo, per effettuare il lancio le tenaglie dovevano essere portate fuori con una manovra che richiedeva tempo e l’impiego di almeno tre uomini, tramite un paranco a mano e doveva essere effettuata con mare calmo ed il MAS fermo o a lento moto, per questo veniva eseguita appena usciti dal porto. L’armamento delle due versioni, era completato da una torpedine a rimorchio tipo Ginocchio(2) e a seconda della missione da 4 torpedini da getto (bombe di profondità) o 4 mine. I MAS 1 e 2 ( i prototipi) furono convertiti in posamine e dotati di apposito scivolo per facilitare la messa in mare degli ordigni.

Per l’apparato motore, furono installati motori a benzina Isotta Fraschini “L56” da 220 HP e motori Sterling “L250”o”L350” da 200HP, installati in tandem i due motori conferivano al mezzo una velocità di 22/24 nodi, per ridurre la rumorosità prodotta dagli scarichi dei mezzi nel settembre 1916, si provò a portare gli scarichi sotto il livello dell’acqua, ma se si riduceva la rumorosità all’atmosfera, aumentava quella subacquea, si ricorse così all’installazione di due motori elettrici da 5HP alimentati da batterie, che fornivano al mezzo una velocità di 4 nodi ed un autonomia di 16 miglia, ottenendo in questo modo la quasi assoluta silenziosità del mezzo.

In tutto il conflitto, solo 4 MAS furono affondati in azione, considerando i risultati ottenuti, possiamo affermare che il progetto dei nuovi mezzi fu senza ombra di dubbio ottimo.

  1. La società SVAN con sede a Venezia presso l’isola di Sant’Elena, era specializzata nella costruzione di motoscafi da competizione per le gare motonautiche dell’epoca.
  2. La torpedine a rimorchio, era un particolare tipo di ordigno a contatto, che veniva messo a mare e rimorchiato dal mezzo, cercando di fargli incocciare il sommergibile, agiva a profondità fra i 5 e i 33m a seconda della lunghezza del cavo filato

 

 

 

 

Bibliografia:

Genesi e sviluppo dei MAS, Franco Prosperini, bollettino d’Archivio USMM( settembre 2008)

Prima Guerra Mondiale: nascono i mezzi d’assalto della Regia Marina, Giorgio Giorgerini, bollettino d’Archivio USMM ( dicembre 2008).

 

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Bell'articolo ! Una piccola correzione che peraltro non inficia il contenuto.

 

...1 La società SVAN con sede a Venezia presso l’isola di Sant’Elena, era specializzata nella costruzione di motoscafi da competizione per le gare motonautiche dell’epoca.

 

Negli anni della 1^ GM il cantiere SVAN non si trovava a Sant'Elena (dove peraltro aveva sede il cantiere Celli, altro costruttore storico di MAS, in un ala dell'odierno collegio navale), bensì a poca distanza dall'odierno Museo Storico Navale in riva dei sette martiri, allora riva dell'impero. Proprio a causa della costruzione della nuova riva nel 1935 il cantiere, non trovandosi più fronte mare, fu obbligato a cambiar sede, trasferendosi all'isola della Giudecca.

 

https://www.betasom.it/forum/index.php?showtopic=42776&p=456026

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Bell'articolo ! Una piccola correzione che peraltro non inficia il contenuto.

 

 

Negli anni della 1^ GM il cantiere SVAN non si trovava a Sant'Elena (dove peraltro aveva sede il cantiere Celli, altro costruttore storico di MAS, in un ala dell'odierno collegio navale), bensì a poca distanza dall'odierno Museo Storico Navale in riva dei sette martiri, allora riva dell'impero. Proprio a causa della costruzione della nuova riva nel 1935 il cantiere, non trovandosi più fronte mare, fu obbligato a cambiar sede, trasferendosi all'isola della Giudecca.

 

https://www.betasom.it/forum/index.php?showtopic=42776&p=456026

 

grazie della corrazione, provvederò a correggere gli appunti per futuri utilizzi.

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Impedimento non mi piega.

Leonardo da Vinci – Pensieri.

«MEMENTO AUDERE SEMPER»

Un giorno, mentre l’Imperiale e Reale Flotta austriaca, alla fonda nei suoi porti muniti, e riparata da complicate ostruzioni e triplici sbarramenti, continuava a covare senza fine «la gloriuzza di Lissa», come disse Gabriele d'Annunzio con impareggiabile ironia, un suo motoscafo candido, armato di un cannoncino a tiro rapido, uscì da Trieste per eseguire il salvataggio di un idrovolante ammarato tra Pirano e Salvare. Navigava sotto la protezione di batterie terrestri; il bel sole italico – era il 22 maggio del 1916 – lo circonfondeva dei suoi raggi, lo zeffiro gli faceva garrire a poppa la bandiera, il mare era calmo e apparentemente sgombro da ogni insidia avversaria: insomma, un quadretto grazioso di un leccato pittor di marine, quasi direi un idillio nautico.

Improvvisamente, un rombo come di tempesta ruppe la calma di quella pacifica navigazione e dai limiti dell’orizzonte sbucò, rapido e rapace, una specie di mostro grigio che aveva sul muso, cioè a prua, due enormi baffi di schiuma bianca: una specie di tricheco meccanico ruggente e tuonante. Era il «M.A.S. 19», comandato dal 2° capo timoniere Eugenio Trentin e pilotato dal volontario motonauta di 2a classe Grammaticopulo, molto esperto della costa nemica. Invano il «Leni» – così chiamavasi il motoscafo austriaco – prese subito caccia; invano le batterie del forte Olmi e di Punta Grossa aprirono subito il fuoco intensificandolo rabbiosamente; invano un idrovolante austriaco si alzò in volo e mitragliò il «M.A.S. 19»; questo continuò imperterrito l’inseguimento fra le granate che gli scoppiavano di prua, di poppa, di fianco, sollevando enormi colonne d’acqua, senza che mai, nonché una di esse, neppure una loro scheggia raggiungesse il mobilissimo bersaglio.

Come un falco famelico, che piomba sulla preda agognata, il «M.A.S. 19» raggiunse il «Leni», lo catturò all’arrembaggio, come s’usava ai bei tempi antichi, lo prese a rimorchio: le batterie lo videro dileguarsi come era venuto, sicuro e impavido.

Il «M.A.S. 19» prese a bordo i tre Uomini costituenti l’equipaggio del «Leni»: erano il pilota Pitacco, col braccio sinistro stroncato da una granata nostra, il motorista Luigi Lorenzoni, il marinaio Antonio Wilmar, tutti tre triestini! Dolorosa constatazione, ed infamia dell’Austria, che costringevali a combattere i fratelli liberatori!

Il «Leni» cominciò ad affondare di prua ed il «M.A.S. 19», essendosi impigliato nell’elica il cavo di rimorchio, lo abbandonò con la certezza che sarebbe andato a picco; poi continuò la sua rotta a piccola velocità e giunse a salvamento sebbene tre idrovolanti nemici lo avessero successivamente mitragliato. Un altro motoscafo austriaco, il «Ninfa», riuscì a ricuperare il «Leni» semi affondato e lo condusse in porto.

Questo fu il battesimo del fuoco dei M.A.S.

 

M.A.S.!

La sibilante desinenza di questa fortuita associazione di lettere, che ha formato un vocabolo nuovo nella nostra lingua, e che significa più nella spagnuola, potrebbe far dubitare che esso sia di origine straniera. Però a torto, ed io rivendico subito al mio Paese la paternità del glorioso neologismo e dell’arnese di guerra che con esso viene designato.

Ho detto «neologismo», ma potrei anche dire «latinismo».

Infatti M.A.S., che deriva dal raggruppamento delle iniziali di tre parole: Motoscafi Anti-Sommergibili e serve a denominare un tipo indovinatissimo di navicelle militari, per una strana, augurale coincidenza è vocabolo latino, carico di forza: significa, in latino, «maschio».

Mas, maschio, è veramente il naviglio audace; maschio il cuore dei motonauti e degli affondatori.

La definizione, però, non è perfetta, perché indica soltanto uno dei molti impieghi guerreschi delle navicelle in parola. Comunque, dal concetto del loro scopo originale ed iniziale è derivata la denominazione del tipo, e da questo la sintesi eroica: M.A.S..

È soltanto nella notte dal 10 all’11 febbraio del 1918 che i M.A.S., minuscoli scorridori del mare animati da uno spirito ultra-garibaldino, assunsero il motto, ormai leggendario, che ne consacra le gesta e le ricorda ai posteri.

In quella buia notte di novilunio tre M.A.S., partiti da Venezia al rimorchio di tre cacciatorpediniere, navigavano nel Quarnaro e si apparecchiavano – armi ed anime – ad una rischiosissima impresa.

A bordo di uno dei M.A.S. vegliava uno straordinario motonauta che era, nello stesso tempo, cavaliere, volatore, fante: guerriero multiforme di tutte le guerre, partecipe a tutte le imprese più rischiose, animatore di tutti gli eroi, integro e operante Tirteo della Quarta Italia.

Perciò il giaciglio che gli aveva improvvisato a poppa un marinaio era indicatissimo a questo Poeta dell’aviazione: tre salvagente.

Gabriele d’Annunzio, di sua iniziativa, aveva trovato anche il cuscino adatto: la gabbia delle due bombe di profondità antisommergibili.

Un giaciglio così scomodo, che anche Costanzo Ciano, capitano dell’impresa e, come si vedrà in seguito, nemico di ogni agio a bordo, lo avrebbe accettato per sé...

La foschia perdurava; il tempo minacciava di guastarsi; il mare era mosso.

Il Poeta, supino nel giaciglio guerresco, però insonne e vigile, riandava a memoria le parole di un suo beffardo messaggio diretto al nemico e da lui letto, prima della partenza, ai marinai per incuorarli ed entusiasmarli.

Li aveva chiamati «Marinai d’Italia, pronti sempre a osare l’inosabile».

La notte per osare l’inosabile era propizia per la mancanza della Luna, alla quale il Poeta, pensando in latino, faceva questa arguta apostrofe: «Tibi cornua nigrescunt, nobis arma clarescunt» (A te le corna diventano nere, a noi le armi chiare).

Ebbene, a bordo, in quella notte illune di vigilia, c’era un altro che pensava in latino... oh, itala gente dalle molte vite! ed era precisamente il timoniere del M.A.S.

Il volontario motonauta Angelo Procaccini, che se ne stava incappucciato alla ruota del timone, pur eseguendo regolarmente e diligentemente il suo dovere, aveva trovato il modo di compiere una piccola disobbedienza e di trasgredire agli ordini precisi di Costanzo Ciano, il quale, come ho detto, non voleva comodità a bordo.

Il timoniere si era procurata, invece, una «comodità»... Giudichino i lettori se sia il caso di adoperare questa parola per una rozza tavoletta di legno da lui inchiodata davanti alla ruota del timone, con il modesto scopo di farsene un riparo, per salvarsi le mani e il viso dalle frustate del vento e dagli schiaffi della spruzzaglia.

La tavoletta inchiodata sulla ruota del timone (ruota della Fortuna che poteva essere propizia o avversa) gli suggerì l’idea di comporre e di scrivere un motto derivando le lettere iniziali di esso dalla parola M.A.S.

En motto acrostico.

Angelo Procaccini era un marinaio d’Italia, disposto, quindi, come tutti gli altri che furono, sono e saranno, ad osare l’inosabile, come giustamente pretendeva il Poeta del Mare Nostro, ma era anche un... timoniere, cioè un uomo riflessivo e ragionatore.

L’impresa che i M.A.S. dovevano eseguire era quanto mai rischiosa; a bordo, oltre ai siluri per offendere, non vi erano altre armi che le bombe di profondità contro i sommergibili, sulla cui gabbia il Poeta appoggiava tranquillamente la testa... Angelo Procaccini, nell’ideare e comporre il suo motto, pensò giudiziosamente, che pur osando l’inosabile, bisognava affidarsi alla... speranza vista e considerata sotto la specie della velocità della navicella.

La velocità, la rapidità di movimento, è la miglior difesa che possa opporre dopo la sorpresa, ad un nemico irritato e vendicativo, un motoscafo quasi inerme.

Un M.A.S..

E, rimuginando questo suo pensiero, egli, quasi a giustificare l’applicazione della tavoletta intrusa, vi scrisse sopra, a matita, il suo molto latino, che era un significativo augurio di uomo pratico e rotto al mestiere.

Scrisse: «Motum Animat Spes»: (La speranza anima il movimento).

Aveva espresso esattamente il suo pensiero; ora si trattava di ottenere In consacrazione ufficiale del motto meritando l’approvazione del Poeta.

Gabriele d’Annunzio lesse e con mortificazione del valoroso motonauta latinista, che si aspettava chissà quale complimento, protestò:

– È un motto imbelle e non si adatta alle nostre macchine da guerra. Bisogna pensare a qualche cosa di più energico.

Il buon timoniere, riavutosi, rispose:

– Nessuno meglio di Lei, Comandante, potrebbe dettare un tal motto.

D’Annunzio pensò un momento...

Bisogna soffermarci e ricostruire la scena: il timoniere, che abbrancato alla ruota attende ansioso il responso, mentre la spruzzaglia irosa asperge e il vento sferza i due uomini; mentre, rimorchiati verso l’Ignoto, i tre M.A.S. si preparano a staccarsi dai cacciatorpediniere come lupatti dal fianco della madre.

No, non è la speranza che anima il movimento, perché i Trenta Motonauti sono già «al di là della speranza» o, per meglio dire, sono «contro» la speranza. Ciascuno di essi porta sul cuore il suo viatico tricolore, una bandieretta, «una favilla della bandiera grande», che il Poeta ha distribuito ad ogni compagno prima della partenza da Venezia.

Orbene, nel piccolo tricolore, come dirà Lui stesso nella Canzone del Quarnaro, e come, certo, già pensa, il verde è «disperato»...

Gabriele d’Annunzio pensò un momento.

Ricordò le imprese di Goiran e di Berardinelli, di Ciano e di Rizzo, i due prediletti camerati che erano con lui a quella nuova impresa beffarda, ricordò Pagano di Melito e tutti gli eroi dei M.A.S..

Nella notte buia guizzò il lampo del suo Genio e nacque il motto preciso, la leggenda dell’ardimento perenne.

Un motto che non vanta l’impresa compiuta, ma impone di compiere la nuova in progetto; un motto che non è esaltazione, auto-esaltazione orgogliosa, né invocazione rivolta alla Divinità protettrice, ma è, nella decisa forma imperativa, un ammonimento severo, anzi, un comando militare.

Motto degno di Marinai che sanno osare l’inosabile!

Il Poeta, rivolgendosi al timoniere, gli disse:

– Scriva, invece: Memento Audere Semper!

Il bravo Procaccini esultò e, tenendo con la sinistra il timone, che non va mai abbandonato, riuscì a scrivere in chiare maiuscole sopra la tabella il motto imperioso e gli parve, che per la bocca del Poeta glielo ripetessero il Dovere e il Sacrificio: «ricordati di osar sempre»!

Con questo motto, subito diffuso e risaputo, le tre navicelle mollarono i rimorchi e imboccarono il canale di Farasina.

Memento audere semper!

Così tutti i marinai dei M.A.S. diventarono... latinisti.

 

Tratto dal libro "Le Audaci imprese dei MAS" dell'Ammiraglio di Divisione Ettore Bravetta - 1930 (Terza Edizione)

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  • 3 weeks later...

COME E PERCHÉ I M.A.S. FURONO

COSTRUITI ED IMPIEGATI

 

Quindici anni prima della Grande Guerra la Marina italiana possedeva già alcuni motoscafi. I primi che solcarono le acque dei nostri porti militari e delle nostre rade ebbero un compito modesto, limitato al traffico fra il bordo e la terra, sostituendo in parte i tradizionali palischermi a vela ed a remi, croce e delizia dei guardiamarina d’una volta, e le rumorose barche a vapore, che le torpedini ad asta avevano tentato di tramutare in arnesi da guerra con scarso successo.

Fu una sostituzione irruente, sconvolgente, come di ragazzacci indisciplinati che mettessero a soqquadro una casa bene ordinata e molto compassata.

Ecco in qual modo ne parla un egregio ufficiale nostro, tracciandone un burlesco e ben riuscito quadretto.

«Ricordo le prime impressioni: due enormi baffi d’acqua spumeggianti a prora ed un uomo incappucciato alla ruota del timone anche sotto il più bel sole italico! Era un bolide lanciato a velocità fantastica, in mezzo ad un frastuono di scoppi e borbottii provocati dallo scappamento libero presso il pelo dell’acqua e dalla corsa affannosa dei pistoni nei cilindri, che lasciava a poppa un’onda divergente, nella quale danzavano i palischermi con i remi prudentemente fornellati per non farseli mangiare dal tramestio delle acque. E poi un vero rovinio al barcarizzo della nave alla quale attraccava, con schianti, sobbalzi, sussulti e ricadute, che facevano immancabilmente accorrere accigliato il Comandante in seconda e, mugugnando in pretto dialetto partenopeo, il maestro d’ascia, segno di grave disappunto!».

Di anno in anno, di esperienza in esperienza, il motoscafo venne migliorato e perfezionato; si disciplinò, diventò docile e obbediente; tuttavia allo scoppio della guerra libica venne lasciato nelle darsene, sebbene, prima di questa, in Italia, fino dal 1906, fosse già balenata l’idea di utilizzarlo come vero c proprio strumento bellico di offesa, armandolo di cannoni e di siluri.

Ma l’utile idea restò nel campo delle astrazioni come tante altre, perché i motori a scoppio marini non avevano ancor raggiunto il grado di perfezione occorrente per attuarla.

Nel 1914, sotto l’assillo delle ostilità inevitabili, la Marina Italiana approfittò dei mesi della neutralità per esumare i progetti dal polveroso sepolcro degli archivi ed intraprendere degli studi accurati, nel corso dei quali furono pure visitati parecchi cantieri navali stranieri specializzati nella costruzione di motoscafi da diporto.

Constava, infatti, che non appena scoppiato lo immane conflitto qualche cantiere degli Stati Uniti aveva intrapreso, per conto di Marine belligeranti, la costruzione di alcuni esemplari di un tipo di motoscafo da pattuglia destinato alla polizia del mare e alla repressione del contrabbando. Come si vede, al motoscafo si assegnava allora, all’estero, un compilo bellico assai modesto.

Le proposte americane risultarono difettose ed infelici; valgano ad esempio, tra le molte, quella di un motoscafo di ben quaranta tonnellate, specie d’ippopotamo inadatto a qualunque operazione di agguato e di sorpresa, e l’altra, non meno divertente, di un motoscafo zanzara, o moscerino, con siluro poppiero slittante sulle acque, che aveva bisogno della più assoluta calma per operare...: qualche cosa come il celeberrimo siör Panera, il duellista di fcrravilliana memoria, il quale, come ognun sa, pretendeva che l’avversario stesse fermo per poterlo infilzare. E come se ciò non bastasse a render ridicolo il progetto, questo motoscafo zanzara annullava il vantaggio della propria piccolezza e della conseguente sua scarsa visibilità, facendo un rumore infernale; preannunciandosi con ogni sorta di stridori e di fragori, quasi volesse dar l’allarme ai cannonieri nemici con un anticipo più che sufficiente per caricare i pezzi, aggiustare il tiro e mandarlo a picco con pochi colpi bene assestati.

E pensare che la Marina Italiana esigeva un motoscafo, che a 500 metri fosse perfettamente silenzioso!

Il motto: «l’Italia fa da sé», essenzialmente politico, ebbe nel caso nostro un’interpretazione tecnica delle più soddisfacenti.

L’ingegno italiano ideò, e le maestranze italiane costruirono, il motoscafo silurante che venne chiamato M.A.S. perché, come ho già detto, da principio si era pensato di destinarlo esclusivamente alla caccia dei sommergibili.

Il comandante Paul Chach, uno dei pochi francesi che esaltarono il valore dei nostri marinai, descrivendo mirabilmente, nel suo «On se bat sur mer – Mare Amarissimo» la gesta di Premuda, ha scritto: «Come diavolo questi battelli pigmei possono sistemare a bordo tanti grappini e tutto il cavo di rimorchio? Oh !... essi trovano posto per molte altre cose. Anzitutto, entro tubi sommersi, due siluri innescati e pronti a scattare, Poi delle bombe; di quelle bombe enormi di cui una sola basta a sfondare un sommergibile se per avventura scoppia abbastanza vicino al suo scafo. Finalmente i motori: a scoppio per far della velocità, elettrico silenzioso per gli ultimi minuti dell’attacco. Aggiungete otto uomini d’equipaggio. Gli Italiani sono costruttori famosi».

Prima di narrare sommariamente l’evoluzione progressiva dei M.A.S. bisogna insistere, per la storia, sulle date che stabiliscono la nostra priorità.

Come si è veduto nel precedente capitolo, i motoscafi italiani iniziarono le loro operazioni offensive il 22 maggio del 1916 catturando il «Leni», ma fu soltanto il 30 aprile del 1917 – circa un anno dopo – che quelli inglesi, designati col gruppo di lettere C.M.B. (Coastal Motor Boats) si scontrarono una prima volta col nemico al largo di Zeebrugge. Armati di un siluro poppiero, i C.M.B. potevano navigare soltanto con calma piatta, mentre i M.A.S. andarono a qualsiasi sbaraglio con qualunque mare; tanto è vero che il loro ardimento, la suprema abilità dei comandanti, l’intrepidezza degli equipaggi, contribuirono a creare intorno agli agili e fragili scafi non soltanto un’atmosfera di epopea, ma anche una vaga e misteriosa luce di leggenda.

Perplessi e stupefatti gli Austriaci, incapaci di reagire, parevano quasi giustificarsi della loro impotenza attribuendo ai M.A.S. delle qualità tecniche assolutamente inesistenti, o per lo meno esagerate. I nemici credevano che essi fossero corazzati (e lo erano infatti, ma unicamente di... coraggio); li stimavano assai più veloci di quanto in realtà fossero e supponevano che essi avessero un sistema speciale per saltare gli sbarramenti e le ostruzioni; infine ritenevano che potessero muoversi ed avvicinarsi silenziosamente, come se i motori fossero ovattati, o fatti di... feltro!

Queste erronee supposizioni del nemico sono il più bello elogio alla perizia ed al valore dei nostri motonauti, i quali, con le virtù caratteristiche della nostra gente, con lo spirito di iniziativa e di combattività che sono tipici nei Latini, riuscivano sempre a supplire alle inevitabili deficienze delle nuove macchine navali da guerra, che la Patria aveva ad essi affidate.

I M.A.S., e specialmente quelli della prima serie, erano ben lontani dall’aver raggiunto la perfezione che ad essi attribuiva il nemico.

Ai tecnici che assistevano alle prove iniziali di collaudo, i primi M.A.S. offrirono, nel 1915, questo poco consolante spettacolo: la prua, troppo aggravata dal tubo di lancio, si immergeva quasi completamente e, alle alte andature, sollevava un’onda enorme, la quale faceva da remora allo scafo. Inoltre pareva impossibile ottenere la silenziosità dei motori.

D’altra parte, le Autorità navali non volevano rinunziare a due requisiti che sono le caratteristiche basilari dei nostri M.A.S.: leggerezza dello scafo (dodici tonnellate) ed elevata velocità: da principio si tentò di raggiungere quella di venticinque nodi l’ora, forzando i motori. Si dovette, pertanto, rinunziare al tubo di lancio, che venne sostituito dal cannone; cosicché il M.A.S. silurante diventò cannoniere e fu adoperato in una quantità di servizi ausiliari nell’Adriatico, e destinato alla difesa del traffico marittimo nel Tirreno. Tuttavia, mentre i comandanti e gli equipaggi si addestravano sui M.A.S. cannonieri, il nostro Genio Navale, seguendo le direttive dell’ammiraglio di Revel, strenuo propugnatore dell’uso del M.A.S. silurante in azioni offensive, studiava modifiche ed eseguiva esperimenti sulla nuova serie di cinquanta navicelle ordinate all’inizio del 1916.

Trenta di queste erano del tipo americano (da quaranta tonnellate) e furono adibite alla difesa del traffico ed alla scorta dei piroscafi; le modifiche si fecero sulle altre venti, del tipo nostro, di piccolo tonnellaggio. Esse furono alquanto allungate per dar posto ad un terzo motore; ebbero, in conseguenza, tre propulsori indipendenti: venne opportunamente modificato il passo delle eliche e si ottenne così di superare le venticinque miglia orarie a pieno carico, raggiungendo con alcune anche la velocità non certo di sprezzabile di ventotto miglia.

Era la piena vittoria del nostro criterio tecnico e bisognava, ora, sfruttarla a vantaggio del M.A.S. silurante.

Ma come fare se, come ho detto, l’applicazione del tubo di lancio appesantiva di troppo la prua e andava a detrimento della velocità?

Si ritornò ad un sistema antico.

Usavasi giù da molto tempo in Marina di armare talvolta le barche a vapore con due leggeri siluri sostenuti lateralmente, a destra ed a sinistra, da due appositi portasiluri a tenaglie le quali, con un sistema a scocco manovrato mediante una leva, si aprivano lasciandoli liberi in mare, e contemporaneamente mettendone in azione le motrici. E proprio l’ammiraglio di Revel, il fervido propugnatore del M.A.S. silurante, aveva fatto, in guerra guerreggiata, un ottimo esperimento di questo apparecchio quando, il 24 febbraio del 1912, durante il conflitto italo-turco, la sua Divisione navale, composta di due incrociatori del tipo «Garibaldi», si era presentata davanti a Beyrut, dove si trovava la grossa cannoniera corazzata ottomana «Awillah».

Colpirla e di struggerla a cannonate era impresa ardua anche per i nostri bravi cannonieri, poiché qualche colpo poteva danneggiare altre navi, magari neutrali, e perciò, dopo qualche bene aggiustata salva, una barca a vapore, armata di siluri nella maniera anzidetta, si staccò dalla nave ammiraglia e portandosi audacemente, in pieno giorno, all’imboccatura del porto, li «scoccò» contro la cannoniera nemica, che così ricevette il «colpo di grazia».

A di stanza di anni, si può dire che la sorte dell’«Awillah» turca abbia influito in modo nefasto su quella di molte navi, militari e commerciali, dell’Imperial Marina Austriaca… Infatti i portasiluri a tenaglia vennero applicati felicemente ai M.A.S., che ritornarono in tal modo al loro primitivo impiego.

Ed altri impensati impieghi si aggiunsero, man mano che l’esperienza li suggeriva e il perfezionamenti li permetteva; cosicché il M.A.S., ideato in origine per dare la caccia ai sommergibili nemici, finì per diventare l’«ardito della flotta» e, a seconda del suo armamento, venne impiegato utilmente ed effettivamente in ben undici modi diversi, che mi piace elencare:

1°) Ricerca ed attacco di sommergibili nemici.

2°) Azione durante gli attacchi aerei.

3°) Scorta dei convogli di navi mercantili.

4°) Vigilanza su specchi d’acqua nei quali si eseguivano lavori.

5°) Scorta ed appoggio a spedizioni aeree.

6°) Posa di torpedini, erroneamente chiamate, con un anglicismo, «mine».[1]

7°) Dragaggio di torpedini.

8°) Ricupero o affondamento di torpedini alla deriva.

9°) Scorrerie sulle coste nemiche.

10°) Crociere ed agguati contro il traffico nemico.

11°) Vigilanza delle coste e dei porti.

Un arido elenco di modi d’impiego che contiene e nasconde una quantità di episodi ignorati e che nessuno conoscerà mai completamente, sia perché non tutti i M.A.S. ritornarono dalle loro imprese; sia perché il rischio e il pericolo si accompagnano volentieri con la modestia e il silenzio, doti preclari dei marinai italiani.

Notti illuni, pazienti agguati, scorrerie arditissime, soste sugli sbarramenti, mentre le cesoie meccaniche addentano e tagliano i cavi d’acciaio e l’occhio insonne dei riflettori nemici fruga le tenebre; attimi di trepidante attesa quando il siluro scoccato si tuffa, e segue la sua traiettoria, e porta seco, contro il bersaglio, la possente carica ed il cuore ansioso del siluratore; lotte silenziose contro gli ostacoli e contro gli elementi... ecco quel che dice l’arido elenco a chi sa leggerlo con mente di marinaio!

Tenterò – nei capitoli seguenti – per quanto mi varranno la passione del mestiere e l’ammirazione per i fortunati che fecero la guerra contro l’Austria, aspirazione dei miei giovani anni – di dar voce e colore agli esempi più importanti dei modi come furono applicati i «concetti di impiego» enunciati dall’ammiraglio di Revel, che li accompagnò con le seguenti significative esortazioni:

«In Adriatico i M.A.S. sono armi da adoperarsi senza risparmio e senza tema di sacrificarli, quando ricorre il momento bellico opportuno: normalmente devono invece essere tenuti pronti quasi come il fucile alla rastrelliera: nella massima efficienza, e bisogna risparmiarli quanto più è possibile nei servizi normali».

E più oltre:

«La tattica dei M.A.S. è ancora nell’infanzia, ma queste armi nuove hanno già dato – essenzialmente per virtù ed ardire di uomini – un rendimento bellico di primaria importanza, ed hanno pure una giovane ma gloriosa tradizione.

Sia essa sempre presente alla schiera dei Comandanti che si va formando, i quali devono aggiungervi nuovi fasti e nuove glorie. Nell’impiego dei M.A.S. la sagacia sia sempre congiunta all’audacia; i Comandanti osino l’inosabile e sappiano che tale condotta sarà sempre onorevole e altamente stimata, anche quando la fortuna non corrisponda al valore e l’unità di loro comando vada perduta».

Saggie parole, criterio eccellentissimo, diametralmente opposto a quello prevalente nei tempi lontani della mia giovinezza, quando ai comandanti ed ufficiali si inculcava sopra tutto la prudenza, la prudenza, e poi ancora… la prudenza!


[1] La torpedine, dal verbo latino torpescere = intorpidire, è una raia che ha in corpo un apparato elettrico col quale può dare alla preda scosse sufficienti per istordirla, ed anche ucciderla. Roberto Fulton designò col nome di torpedo i suoi apparecchi subacquei di scoppio, ad ancoramento. Saint Bon ordinò che si chiamasse l’arma subacquea semovente col nome di siluro, pesce elettrico potentissimo appartenente all’ordine dei malacopterigi addominali.

Tratto dal Libro dell'Ammiraglio di Divisione Ettore Bravetta - Le Audaci Imprese dei M.A.S. - 1930

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