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L'efficacia Del Tiro Navale Italiano


PELLICANO

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La Rivista Marittima fa da oltre cinquant’ anni parte del mio quotidiano, della mia routine di lettura ed aggiornamento; non sarà sempre il massimo ma le ho sempre attribuito un certo grado di serietà, per il vaglio che ritenevo venisse fatto sulle collaborazioni, e pur non non essendo un organo ufficiale della MMI in generale ritengo ne abbia rappresentato le spinte e gli umori se non proprio il pensiero.

La Rivista Marittima ha avuto alti e bassi, anche per le vicende economiche che riguardano tutte le istituzioni, colpite da tagli indiscriminati, ed è stata soggetta a cambi e critiche, riflesse anche in questa sede.

Nei giorni scorsi ho ricevuto con il consueto ritardo il numero di febbraio, e sono trasecolato per un articolo , sotto l’ introduzione “Storia e Cultura Militare “ di taglio molto revisionista e molto elogiativo dei risultati della 2^ GM

Quando ormai molti decenni fa ho frequentato l’Accademia Navale ho avuto la fortuna di avere non solo insegnati eccezionali, ma anche che gli stessi, tutti reduci dell’esperienza della 2^GM ci trasmettessero la loro esperienza, con franchezza.

Le analisi ricorrenti riguardavano le carenze della nostra Marina, ed uno dei temi, relativi alle artiglierie, riguardava l’inefficacia del nostro tiro navale, con fenomeni pregiudizievoli quali l’ eccessiva dispersione delle salve, la mancanza di cariche a vampa ridotta, le artiglierie che avevano affusti multipli a culla unica, con negative ripercussioni sia sul tiro che sulle strutture, ecc. ecc.

Non voglio, al momento entrare nei dettagli, sempre molto interessanti e sempre fonte di scoperte, anche se ampiamente ed autorevolmente già trattati, ma sono rimasto basito quanto l’autore dell’ articolo, che non cito per non infierire, pontifica in controtendenza affermando, e concludendo, che la dispersione del tiro rispondeva ad una precisa ( ed indovinata) dottrina della Regia Marina…..…

Giustamente la MMI e la Rivista Marittima, non sono responsabili né si identificano nelle affermazioni degli autori, ma forse, definendo l’ organo una rivista tecnica di settore e non un periodico di informazione dove certe libertà sono quasi scusabili, una certa valutazione - se non selezione – a volte non guasterebbe .. soprattutto nel caso di un revisionismo inappropriato a 70 anni da un conflitto ormai metabolizzato …

Rimango per il momento fedele agli insegnamenti ricevuti, ed all’ esperienza acquisita in anni di servizio e di studi navali, sempre grato a coloro che si sono comunque sacrificati, anche se non avevano i mezzi, anche se il successo non è stato dalla loro parte …

 

Forse di fronte a certe affermazioni, si potrebbe aprire una nuova discussione sulla' argomento, ma anche, e più opportunamente - se l' autore è ancora presente nel nostro sito - riprendere una buonissima serie di interventi e spiegazioni sul tiro navale che sono stati un vero trattato

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Sono assolutamente d'accordo, Pellicano. E francamente non ho alcuna remora nel dire il nome dell'autore, perchè Cernuschi, oramai da anni, penso si diverta a scrivere cose che stanno, sicuramente, solo nella sua testa.

 

fra qualche anno probabilmente avremo vinto la guerra.

 

Detto ciò, concordo con te: con roba simile, RM scade nel ridicolo. Perchè alla fin fine, è sempre la rivista UFFICIALE della Marina.

 

Non è Proceedings, con tutto il rispetto.

 

Grazie per la segnalazione.

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A Enrico Cernuschi non è sfuggita questa discussione e mi prega di pubblicare la sua replica, qui in calce.

Personalmente, evidenzio che la RM è una palestra in cui si esercitano le più svariate tesi e opinioni; sulle quali si può senz'altro dibattere ma, mi permetto, non con generiche accuse di revisionismo, che poco o punto aggiungono alla ricerca storica.

 

 

 

Mi sembra che ci sia una grossa confusione.

Procediamo con ordine.

 

L’accusa di revisionismo, che per di più nel linguaggio corrente richiama ben altre e famigerate questioni, non ha rilevanza.

L’accusa o, meglio, la condanna come revisionista è stata inventata da Karl Marx nei confronti di chi non la pensava come lui. Lenin, Stalin, Mao, Kruscev, Breznev, Gorbaciov e P.G. Wodehouse (per quest’ultimo vedi il di lui Il colpo di Cuthbert, ed. Bietti, Milano, 1973) sono revisionisti. Galileo fu condannato, giustamente, per lo stesso motivo. Mario era revisionista rispetto a Silla e viceversa, idem Cesare e Pompeo, oltre che Augusto rispetto a Marc’Antonio. Curioso il caso di Anna Bolena, revisionista rispetto a Caterina d’Aragona, ma a sua volta revisionata dalle successive 4 mogli di Enrico VIII finendo puntualmente decapitata. Quanto a Gesù Cristo, di cui tra pochi giorni ricorrerà la commemorazione, la fattispecie non cambia in quanto fu, oggettivamente, un revisionista rispetto agli scribi e ai farisei, finendo pertanto crocifisso. Alle riunioni di condominio, infine, è revisionista chi non approva o chi parla dopo che il primo dei presenti ha commentato l’ordine del giorno. Il trucco, in buona sostanza, consiste nel nascere e pubblicare prima degli altri. Una volta ottenuto questo risultato fondamentale, il resto è tutta in discesa.

 

Entrando nel merito della questione è evidente che la fattispecie non è il revisionismo, ma casomai la violazione della Lex Iulia maiestatis dell’8 avanti Cristo.

Poiché è dal 1992 che contesto e documento, specificando le fonti, i numerosi errori commessi in sede di vulgata circa la vicenda del tiro navale italiano (e non solo quella) ricordo qui di seguito i relativi scambi di lettere e articoli pubblicati dalle varie testate coinvolte:

Cernuschi Enrico, “Sparammo meglio di quasi tutti”, Rivista Marittima, mar. 1992 (si veda pure Rivista Marittima, ago./set. 1992, ott. 1992, mag. 1994 e apr. 2002)

 

Santoni Alberto, “Perché le navi italiani non colpivano il bersaglio”, Storica, mar. 1995

 

Cernuschi Enrico, “Colpito e occultato”, Storica, lug. 1995

 

Colliva Giuliano, “Questioni di tiro… e altre, le artiglierie navali italiane nella guerra del Mediterraneo”, Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare, set. 2003, dic. 2003 e mar. 2004

 

Colliva Giuliano, “Il tiro navale italiano”, Storia Militare, apr. 2010

 

Cernuschi Enrico, “Vent’anni dopo”, Rivista Marittima, ott. 2012

 

La levata di scudi di ieri, pertanto, non può che stupire, visto che è da un quarto di secolo che sostengo e documento quanto viene oggi contestato.

Più delicata è, casomai, la natura delle accuse.

“…riprendere una buonissima serie di interventi e spiegazioni sul tiro navale che sono stati un vero trattato” significa barare. Gli interventi e le spiegazioni di cui sopra non sono, infatti, che l’ossessiva ripetizione, a colpi di fotocopiatrice e, oggi, di copia e incolla, delle vecchie tesi tratte da USMM, L’organizzazione, tomo I, uscito nel 1975. Il libro in questione era stato redatto dall’ammiraglio Fioravanzo nel 1953, modificato nel 1959 riprendendo alcuni passi de Il tramonto di una grande marina di Iachino ed era rimasto nel cassetto per vent’anni. Si decise di pubblicarlo, agli inizi degli anni Settanta, con un testo che, come si spiega nella prefazione, “…è stato accuratamente mondato da ogni spunto polemico, ridicendo anche al minimo i più semplici commenti”. In realtà la revisione in parola andò molto più in là di queste linee e soltanto la fortunata scoperta, in tutt’altri faldoni, di parte del testo originario, come spiegato nel numero di febbraio 2016 della Rivista Marittima, permette oggi di ricostruire quello che Fioravanzo scrisse veramente (dal 1971 l’ammiraglio non poteva più seguire queste cose). Lo scandalo delle dispersioni aumentate è documentato e spiegato, con solidi argomenti, dal comandante Glicerio Azzoni sin dal 1949 (Azzoni Glicerio, “Distanza efficace di tiro nei combattimenti diurni”, Rivista Marittima, mag. 1949). Ho indicato questa fonte sin dal 1993. Se poi qualcuno non l’ha mai voluta leggere (o non vedo come confutare, visto che il comandante Azzoni era il padre dei Polaris sul Garibaldi) perché innamorato del suono della propria voce o per altri motivi, io non ne ho colpa.

Incidiamo, adesso, più in profondità. La storiografia italiana è stata influenzata, dagli anni Sessanta in poi, secondo quanto disse Giuliano Colliva, da due precisi numi tutelari: Alfredo Cucco e Antonino Trizzino. Il primo, vice segretario del PNF nel 1943, lanciò le più feroci accuse contro la Marina, nel luglio 1943, allo scopo di scagionare il partito e, ovviamente, Mussolini, il quale però mostrò di non gradire quella delicatezza durante il Gran Consiglio del 25 luglio. Le riprese calcando, se possibile, ancor più la mano, da sottosegretario alla cultura popolare nel 1944 e trovò degni epigoni in Trizzino e in altri personaggi. Data questa matrice (e il progressivo disinteresse dimostrato dall’Ufficio Storico della MM per queste vicende dopo la scomparsa dell’ammiraglio Cocchia) le fonti secondarie divennero ben presto autoreferenziali con tutte le conseguenze del caso.

Le care memorie degli insegnanti in Accademia di mezzo secolo fa non fanno testo. All’epoca dei fatti saranno stati C.C. o C.F., proprio come Cocchia, il quale, nel dopoguerra, fu un critico feroce sulle pagine, sempre aperte a tutti, della Rivista marittima, ma ebbe altresì l’onestà intellettuale di ammettere, sul pure non tenero Candido, dal 1954 in poi, di essersi sbagliato in quanto non aveva il panorama completo della situazione di cui poté rendersi conto una volta consultati i documenti, finalmente disponibili, dell’archivio dell’USMM di cui fu poi direttore tra il 1958 e il 1963.

“… l’inefficacia del nostro tiro navale, con fenomeni pregiudizievoli quali l’eccessiva dispersione delle salve, la mancanza di cariche a vampa ridotta, le artiglierie che avevano affusti multipli a culla unica, con negative ripercussioni sia sul tiro che sulle strutture, ecc. ecc.” sono tutte sciocchezze demolite non solo da me, ma anche da Colliva, che pure non mi amava visto che lui pure riteneva che non ci fosse spazio, nell’asfittico ambiente delle storia navale italiana, che per la cordata allevata durante gli anni Sessanta e insediatasi nel corso del decennio successivo fatto salvo non professasse i necessari atti di devozione e omaggio.

Della dispersione ho parlato nel numero di febbraio 2016; le cariche a vampe ridotta non le avevano neppure gli altri (basta leggere Naval Weapons of World War Two di John Campbell del 1985 per scoprirlo) e le culle uniche degli incrociatori (le corazzate le avevano tutte), con i cannoni che tirano uno per torre alternandosi, c’entrano come i cavoli a merenda.

“non voglio, al momento entrare nei dettagli” significa non sapere le cose, oltre che lanciare il sasso e nascondere la mano. Un atteggiamento a dir poco discutibile del tutto in linea con un certo stile che non condivido e che scade, quello sì, nel ridicolo, come quando un certo Solone ribatteva dicendo “Ma questo non c’è scritto nel Churchill… Questo Churchill non l’ha detto”. Pover uomo, lui almeno era sincero.

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Una ventata di primavera! :smiley19:

Anche se ovviamente e notoriamente di artiglierie navali ne so quanto di olistica parametrale, mi permetto di intervenire in quanto la moderazione della sezione è mia.

Ottima l'occasione di un confronto su un argomento "delicato" (dato che , volenti o nolenti, l'avere perso una guerra settant'anni fa ancora obiettivamente comporta conseguenze anche pesanti).

Chiedo quindi di evitare espressioni denigratorie/accusatorie tipo "pontifica" "fra qualche anno avremmo vinto la guerra", ironie su insegnanti dell'Accademia, "lanciare il sasso e nascondere la mano " ecc.

Resto alla finestra.

 

 


PS.: sono cresciuta a base di Wodehouse. Il citato era nella collana Bietti "Se sei saggio ridi!" ???? Non l'avevo intercettato....

Modificato da malaparte
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Ho fatto una recensione, opinabile quanto la stessa estensione dell' articolo, ed il fatto che di non aver propinato una trattato a dimostrazione delle tesi espresse (non solo mie) non è evidenza di incapacità ma solo rispetto della sede e dello spazio dove è stata pubblicata la recensione.

In questo Forum, in anni passati, è stata pubblicata una eccellete serie di post sulle artiglierie ed il tiro navale, e non mi sembra che il tanto suscettibile autore abbia trovato il modo ed il tempo di intervenire, forse per mancanza di visibilità.

Nella mia recensione chiedevo di prendere lo spunto per riaprire il tema. e quella poteva , soprattutto PUO', essere la sede per entrare in profondità sulla' argomento

 

Se "qualcuno" voleva rispondere non doveva far intervenire l' aiutante di bandiera ... ho trovato la cosa almeno curiosa, almeno per questo forum, dove i rapporti sono amichevoli ed alla pari ...

Ripetere lo stesso assioma da 25 anni e farlo diventare una verità forse è solo sintomo di testardaggine ... esiste anche un altro detto in merito alla continua ripetizione della stessa tesi ..

 

Aggiungo in calce un particolare, da tecnico che ha vissuto la Marina, da dentro e con amore, oltre che da (moderato e limitato) storico, un po' erede di quelli che non erano "qualunque" pur essendo giovani comandanti o sottordini nella 2^ GM, avevano molto da dire e con umiltà, perché non si perpetuassero errori.

 

Mi duole, e questo si da un "estraneo" al Corpo (anche se trova spazio sulla RM non è stato arruolato ne è autorizzato a dare giudizi su persone che meritano solo rispetto per come hanno servito il Paese ..) l' affermazione gratuita sugli insegnanti dell' epoca ... non e' etica ne' cortese ..... non si tratta di "care memorie che non fanno testo" ma di testimoni diretti e responsabili, che non volevano ribalta o visibilità, ma solo formare ufficiali responsabili, capaci di dire anche di no, di opporsi a quanto non rientrasse nell' etica professionale ( non era mio insegnante .... ma - tra l' altro - seppur da giovane e negletto sotto-sottordine ho lavorato con Azzoni, citato, le cui conclusioni fanno parte delle mie conoscenze dirette e coincidono con quanto ho responsabilmente affermato ...).

Non si può certo accusare la MMI che ha fatto della libera espressione e della libera discussione un credo, se non la dottrina del comando navale, di aver pappagallescamente ripreso sempre una sola tesi, con l' USMM quale produttore

 

 

In merito al tema della dispersione, che se è il caso va trattato in altra parte del forum, riferisco - e dovrebbe essere noto agli storici - che con il parere contrario della RM in piena guerra si abbassarono gli standard di accettazione del munizionamento, con la conseguenza che la dispersione aumentò ancora, non per rispondere ad una dottrina di impiego ma perché le industrie fornitrici non riuscivano a rispettare le specifiche di fornitura; non si trattò certo di una scelta dottrinale per aumentare ancora la dispersione ... ma forse di speculazione ...

Non è un fatto isolato, le lobbies industriali aggiravano molto spesso i requisiti, giocando sulle sponde politiche: risale già al 1933 lo scandalo (uno dei tanti) del riciclaggio (da parte del Gruppo Ansaldo) di corazze e munizionamento scartato in sede di collaudo.

In quanto alla vampa ridotta (non solo uso notturno) era in uso diffuso nella Royal Navy sin almeno dal 1938, come riporta in un suo rapporto(riservato) un giovane ufficiale, Fortunato Marini...

 

.. quanto alla autoreferenzialità è un tema che esula dal forum, e ciascuno può valutare ...

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PELLICANO, onestamente non comprendo il definirmi "aiutante di bandiera". Mi è stato chiesto di pubblicare una replica, così ho fatto. Punto.

Se si vuole ribattere alle tesi esposte, benissimo, ma chiederei un po' di riguardo (quello che ci hanno insegnato in Accademia).

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Calma ragazzi!

(mmh... era da un po che non succedeva!)

 

Una preghiera per Giancarlo: Il tuo commento all'articolo è ottimo e offre eccellenti spunti di discussione, ti prego di non vanificare il tutto con qualche osservazione che potrebbe risultare eccessiva ad altri ma non ai nostri occhi (es. pontifica in controtendenza).

 

Totalmente gratuite le affermazione di Madmike, invece, che pregherei di astenersi se non ha nulla di concreto da apporre alla discussione

 

A R. Torp. Bora, ovvero il dott Cernuschi, chiedo la cortesia di evitare ogni accenno che possa portare, come gia in passato, a inneschi di flame In questo caso la prima parte di intervento, forse, poteva essere evitata.

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Una ventata di primavera, non si tratta però di fiorellini, bensì di bordate di grossi calibri !!!

 

Non certo al fine di alimentare polemiche, ma per documentarmi più a fondo in merito alla diatriba in corso, ho cercato di risalire alle fonti citate. Reperiti i saggi di Giuliano Colliva sul B.d.A.; non avendo la collezione completa della Rivista Marittima, rintraccerò a breve i fascicoli citati.

Per quanto riguarda, invece, i due saggi di Alberto Santoni ed Enrico Cernuschi, pubblicati, come riportato dallo stesso dott. Cernuschi, in “Storica”, rispettivamente nel marzo e luglio 1995, certamente ci troviamo in presenza di un errore di data: ho sottomano entrambi i fascicoli, ma non ne trovo traccia e nemmeno nell'annata successiva; non sono però in possesso delle precedenti.

Ciò premesso, in merito all'insufficienza del tiro italiano, da modesto cultore di storia navale, tra molti suoi scritti sull'argomento, conosco e riporto quanto scritto da Francesco Mattesini in “L’operazione Gaudo e lo scontro notturno di Capo Matapan”, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1998, capitolo XIV, pagg, 146-148.

A titolo di confronto, e purtroppo di conferma dell’insufficienza del tiro italiano, occorre fare il seguente esempio. Nei due scontri di Gaudo del 28 marzo 1941 gli incrociatori della 3^ Divisione Navale e la “Vittorio Veneto” avevano consumato inutilmente cinquecentoquarantadue granate da 203 m/m e novantaquattro proietti da 381 m/m, sparando a distanza varianti tra i 22.000 e i 25.000 metri su otto bersagli (4 incrociatori leggeri e 4 cacciatorpediniere) che, data la portata più modesta delle loro artiglierie, non poterono rispondere al fuoco, ma soltanto limitarsi a scappare .
Due mesi più tardi, il 21 maggio, due navi tedesche, la corazzata “Bismarck”e l’incrociatore pesante “Prinz Eugen”, furono impegnate in combattimento nello stretto di Danimarca – tra la Groenlandia e l’Islanda – dalle due navi da battaglia britanniche “Hood” e “Prince of Wales”.
La “Bismarck”, sparando su entrambe le unità nemiche dalla distanza iniziale di 24.200 metri, per poi gradualmente scendere a 12.800 metri, un totale di novantatré proietti da 380 m/m (uno in meno di quelli sparati a Gaudo dalla “Vittorio Veneto”), fece saltare in aria la “Hood”, centrandola alla terza salva con tre granate – quando la distanza era ancora notevole, di circa 20.000 metri – e ne piazzò a segno altre quattro sulla nuovissima “Prince of Wales”, vanto dell’industria cantieristica britannica, danneggiandola seriamente. Quest’ultima, pur essendo stata colpita anche da tre proietti da 203 m/m del “Prinz Eugen”, dimostrò di sapere incassare (la sua corazza verticale era di ben 381 m/m), e nel contempo, al pari delle unità tedesche, di sapere a sua volta tirare bene, in quanto, pur non avendo i cannoni ancora a punto e quindi in grado di sparare soltanto al sessanta per cento della sua capacità, alla ottava e nona salva colpì la “Bismarck” con tre granate da 356 m/m procurandole avarie non indifferenti.
Il miglior tiro in assoluto di tutta la seconda guerra mondiale (e direi di sempre) fu conseguito durante l’attacco della Flotta statunitense contro la base giapponese di Truk, nel febbraio 1944. In quell’occasione, avvistate all’orizzonte due navi giapponesi che tentavano di allontanarsi, le grandi e veloci corazzate "Iova" e "New Jersey", aprendo il fuoco con i loro sei cannoni prodieri da 406 m/m (proiettile da 1.220 chili) alla enorme distanza di 35.000 metri, centrarono l'incrociatore "Katori" e il cacciatorpediniere "Maikaze", affondandoli in tre minuti. Questo, e non me ne vogliano gli estimatori della "Bismarck", fu veramente un tiro meraviglioso, reso possibile dalla grande precisione dei telemetri e delle artiglierie.
Di fronte a questi due esempi, ma ve ne sarebbero molti altri, è necessario dare una spiegazione di carattere tecnico sulle “deficienze” del tiro italiano, rispetto a quello ben più efficace che si verificava nelle artiglierie delle altre marine. Lacuna di cui vi era stata consapevolezza fin dalla prima guerra mondiale quando, ha riferito l’ammiraglio Iachino, “era stato notato che le salve delle navi inglesi, francesi e austriache erano sempre assai fitte e avevano una dispersione inferiore alla nostra; cosicché quando una loro salva era centrata sul bersaglio questo veniva sicuramente colpito da almeno un proiettile”.
Invece il tiro italiano, pur risultando “molto spesso a cavallo del bersaglio”, a causa della “grande dispersione dei colpi” non portava agli effetti desiderati. Era infatti “soltanto una questione di fortuna se i proiettili colpivano il segno”, dal momento che, per la eccessiva dispersione longitudinale “anche variabile di salva in salva in maniera irregolare e imprevedibile, la correzione usuale del tiro, in base all’osservazione dei punti di caduta, riusciva assai più difficile da noi che presso le altre marine”.
L’ammiraglio Iachino, ha puntualizzato che queste anomalie erano dovute principalmente ai parametri del munizionamento prodotto dall’industria nazionale, perché le “norme regolamentari per il collaudo delle munizioni erano”, in Italia “assai meno rigorose di quelle in uso nelle Marine estere”.
Ragion per cui, pur disponendo di proietti perforanti e di spolette per nulla inferiori a quelle in uso nella Marina britannica, non corrispose invece alle aspettative la confezione delle cariche di lancio, ove, per quanto possa apparire un problema banale, non fu ottenuta identità tra di esse, relativamente al peso, alle dimensioni, alla distribuzione dei vari elementi che le componevano. Il risultato fu di avere al tiro grandi dispersioni dei proietti di una stessa salva.
Inoltre, pur essendo generalmente buone, le artiglierie italiane, che al pari del munizionamento erano prodotte tutte da Ditte nazionali, avevano “dispositivi meccanici ed elettromagnetici per il caricamento e l’accensione alquanto delicati e spesso facevano avaria durante il tiro prolungato”; ragion per cui le salve delle “navi risultavano dopo qualche tempo incomplete poiché una parte dei proietti rimaneva a bordo”.
L’ammiraglio Iachino, dopo aver affermato che “l’imprecisione delle artiglierie era particolarmente notevole sugli incrociatori da 10.000 e sui C.t.”, ed in parte “anche nei cannoni da 320 mm. delle corazzate tipo CESARE e DUILIO”, ritenne invece che durante la guerra avessero dato “migliori risultati i cannoni da 381 mm. dei tipi LITTORIO”.
Questa considerazione finale dell’ex Comandante in Capo della Squadra Navale, ha però trovato molte opposizioni fra i tecnici del tiro, tra cui, autorevolissima, quella dell’ammiraglio Emilio Brenta, all’epoca della battaglia di Gaudo e Matapan Capo del Reparto Operazioni di Supermarina. Egli ha riportato in un suo articolo che la Regia Marina aveva saputo “tecnicamente eliminare le dispersioni iniziali, maggiori o minori, dei suoi numerosissimi calibri, grossi medi e piccoli”, tanto che, “in alcuni casi fu addirittura necessario aumentare la dispersione perché con quelle troppo limitate era impossibile la direzione del tiro navale”. E concluse affermando che purtroppo non era stato invece possibile attuare tempestivamente la riduzione delle dispersioni per le corazzate tipo “Littorio”, perché esse “furono sfornate guerra durante, in una situazione perciò la meno adatta per compiere studi ed esperienze di quel genere”.
La prima esperienza al tiro dei cannoni da 381 si era avuta durante la battaglia di Capo Telulada del 27 movembre 1940, quando la corazzata “Vittorio Veneto”, a seguito di un’accostata di 180°, si portò in aiuto dei sei incrociatori pesanti della 2^ Squadra (ammiraglio Angelo Iachino), che si stavano ritirando sotto il fuoco di 5 incrociatori leggeri britannici, sostenuti dai 381 m/m dall’incrociatore da battaglia “Renown”. Al breve del breve intervento della “Vittorio Veneto”, che sparò con la torre poppiera, a tiro lento, in sette salve ventinove colpi da 381 senza metterne nessuno a segno, il Comandante Superiore in mare della Flotta italiana, ammiraglio Inigo Campioni, riportò nella sua relazione quanto segue:
Il tiro dei 381 del VITTORIO VENETO è stato iniziato alla distanza telemetrica di 29.000 metri e ultimato alla distanza di 32.500 metri. Brandeggio iniziale 167° brandeggio finale 170°. Poiché per portare il tiro a cavallo è stato necessario allungare di 1.000 metri circa si ritiene di aver sparato a distanze comprese fra i 29.500 e i 33.500 metri.
A tale distanza le salve erano osservabili molto chiaramente confermando la constatazione già fatta altre volte con le corazzate tipo LITTORIO [nelle esercitazioni] è possibile aprire l’azione balistica, se la visibilità lo consente, a 29 km.”


Purtroppo, dopo la battaglia di Punta Stilo del 9 luglio 1940, che aveva visto impegnate le corazzate “Giulio Cesare” e “Conte di Cavour” con i loro cannoni da 320 m/m, impegnatesi contro tre corazzate britanniche con cannoni da 381 m/m (il combattimento fu sospeso da parte italiana quando la “Cesare” fu colpita da un proietto della “Warspite” sparato dalla distanza di 26.600 metri), le corazzate italiane non ebbero altre occasione per affrontare quelle britanniche. Dopo l’esperienza di Punta Stilo, la prudente condotta di Supermarina evitò sempre di portare al combattimento le sue navi da battaglia contro quelle britanniche.
I cannoni da 381/50 modello 1934 delle corazzate tipo “Littorio”, sistemati in torri trinate dal peso di 1.600 tonnellate, in cui ogni cannone era separato dall’altro da paratie corazzate, in modo da avere locali autonomi, possedevano una elevazione massima di 35°. Essi erano in grado di sparare una salva per torre ogni quarantacinque secondi, scagliando proietti perforanti da 882 chili alla distanza massima di 42.800 metri, e con velocità iniziale del proietto di 870 metri al secondo.
Al pari dei cannoni da 320 m/m delle corazzate classe “Cavour” e “Doria”, i cannoni da 381 avevano “anima ricambiabile a freddo, il che - ha scritto l’ammiraglio Fioravanzo - da una esatta idea dell’elevata perfezione costruttiva raggiunta dall’industria italiana in questo campo”. “Il solo difetto di tali complessi fu la dispersione ancora troppo grande, e ciò era causata in gran parte al fatto che “nei capitolati d’onere per la costruzione delle artiglierie non era accennato (o lo era di sfuggita) il requisito della precisione, mentre erano previsti cospicui premi per ogni metro di velocità iniziale in più di quello fissato, senza badare all’aumento delle dispersioni che questo incremento della velocità iniziale avrebbe prodotto”.
Difetti di dispersione, che pure furono ridotti abbassando la velocità iniziale da 930 a 900 m/s, davano anche i cannoni da 203/53 ad anima sfilabile degli incrociatori pesanti Zara e Bolzano, costruiti nel 1929. Essi tuttavia risultarono migliori – quanto ad elevazione (45°), al caricamento dei proietti e alla celerità di tiro – al Trieste e al Trento, i cui 203/50 con anima fissa, risalenti al 1924, risultavano molto lenti al tiro, poiché le torri binate avevano i due pezzi strettamente vincolati tra di loro, e determinavano dispersioni molto rilevanti. Inoltre possedevano telemetri molto vecchi, che si dimostrarono nelle misurazioni al tiro molto imprecisi.
Fermo restando la bontà del materiale e delle strumentazioni tecniche delle artiglierie da 381 m/m, possiamo concludere sostenendo che i maggiori difetti in esse riscontrati in fase di tiro di precisione erano da ricercare, oltre che sulle cariche di lancio, anche su la scelta dei parametri richiesti all’industria in fase di progetto e di costruzione del materiale.
La causa, ha scritto l’ammiraglio Fioravanzo che per un certo periodo di tempo, nel 1942, comandò la IX Divisione Navale, costituita dalle corazzate “Littorio”, “Vittorio Veneto” e “Roma”, “era dovuta alla eccessiva tolleranza consentita dal peso dei proietti, per i quali si ammetteva un’approssimazione media di circa l’uno per cento, il che produceva una variazione di velocità iniziale dell’ordine di 3 metri per le velocità intorno ai 900 m/s, quali erano quelle da noi adottate. Per i 381 ciò corrispondeva alla distanza di 27.000 metri, ed uno scarto di gettata di 160 metri. Se per combinazione una salva partiva con qualche proietto di peso approssimativo per eccesso e qualche altro approssimato per difetto si aveva un’apertura di 320 metri. Ma se per caso una salva era composta di tutti proietti uguali, allora essa risultava molto raccolta. La grande apertura media delle salve facilitava certamente il cosiddetto centramento del tiro, ma la variabilità dell’apertura complicava il problema di mantenerlo centrato. Analoghe differenze tra il peso delle cariche producevano altre perturbazioni le quali, combinate con tutte le altre cause di dispersione, rendevano irregolare ed eccessivamente elevata l’apertura della salva intorno al suo valore medio”.
In definitiva le scelte degli organi tecnici della Regia Marina portarono a costruire artiglierie con elevato rapporto tra la lunghezza della canna e il suo calibro per renderla capace di sparare il più lontano possibile proietti di notevole peso, a cui era impressa alta velocità iniziale per mezzo di cariche di lancio di grande potenza propellente. Da ciò ne risultava una certa vibrazione della canna, e quindi un aumento della dispersione delle salve ed anche un maggiore logoramento dell’anima dei pezzi, che finivano per influenzare ancora più negativamente la precisione e la continuità del tiro, specialmente durante le fasi di fuoco condotte a ritmo accelerato e di lunga durata.
Ritengo sia interessante far sapere che sulle corazzate tipo “Littorio”, la dotazione normale di proietti per i 9 cannoni da 381 m/m e delle loro cariche di lancio, il tutto ripartito fra i vari depositi, era la seguente: 495 proietti perforanti (a palla), 171 granate dirompenti, 4.320 elementi di carica conservati in cartocci. Pertanto, in definitiva, nel corso di un combattimento navale ogni corazzata di quella classe era in grado di sparare 666 proietti da 882 kg. Ad essi si aggiungevano le dotazioni dei 12 cannoni da 152 m/m che, avendo una elevazione massima di 45°, erano anche impiegati per il tiro antiaerosilurante, in appoggio ai 12 cannoni contraerei da 90 m/m....

 

Successivamente, in altra sede, Mattesini aggiunge:


Non essendo un esperto di artiglierie, sulle cause del cattivo tiro italiano mi sono limitato a fare degli esempi, e a riportare quanto in questo difficile campo hanno sostenuto i veri tecnici. Recentemente però, Giuliano Colliva, in un approfondito saggio pubblicato nel Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare (settembre 2003 e marzo 2004) porta a conclusioni alquanto differenti, mostrando con tabelle comparative, che dopo tutto in ogni Marina vi era stata la difficoltà di colpire il bersaglio con i grossi calibri al disopra della distanza di 20.000. Io ritengo che queste affermazioni dell’amico Colliva andrebbero almeno in parte riviste, perché altrimenti non si spiegano i colpi messi a segno, a distanze ben maggiori dei 20.000 metri, dalla “Warspite” sulla “Cesare”, dalla “Bismarck” sulla “Hood”, e infine quelli della “Iova” e della “New Yersey” rapidamente messi a segno sull’incrociatore “Katori” e sul cacciatorpediniere “Maikaze”, alla distanza di ben 35.000 metri (NdD, in realtà yard) ...

Modificato da danilo43
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Calma ragazzi!

(mmh... era da un po che non succedeva!)

:laugh: Già! :laugh: E comunque per placare i "bollenti spiriti", c'è sempre questa:

 

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E’ necessario precisare che se il dott. Cernuschi mi ha chiesto di pubblicare la sua replica è in primo luogo perché il suo account, a seguito di lontane polemiche, è tuttora inattivo. Dargli uno spazio per rispondere . – anche a fronte di considerazioni del tutto fuori luogo che travalicano nel personale – era il minimo che, per correttezza e doveri di amministratore, dovessi e potessi fare.

In merito alle accuse di “revisionismo” già mi sono espresso: se si vuole confutare una tesi lo si può fare liberamente, ma con gli argomenti e non con le invettive.

Ci tengo però a sottolineare che se c’è qualcuno che rispetta profondamente la Marina e i suoi uomini questo è proprio Enrico Cernuschi. I suoi testi, che traggono dall’oblio sacrifici e meriti spesso dimenticati, parlano per lui.

Lo stesso Autore mi prega, per i motivi precisati all’inizio di questo intervento, di replicare in maniera per lui tombale, in questa sede, alle osservazioni di Pellicano:

 

1) nel 1975, a Bologna, un vecchio sottufficiale di Marina mi disse che avevano sparato a Bergamini nel torrione del Roma perché voleva arrendersi agli americani, "Così,. bang bang!" disse, facendo pum con le dita. Non discussi né mi permisi di criticare quel vecchio marinaio con tanto di solino e decorazioni.

 

2) La storia delle presunte minori tolleranze de "... gli standard di accettazione del munizionamento, con la conseguenza che la dispersione aumentò ancora, non per rispondere ad una dottrina di impiego ma perché le industrie fornitrici non riuscivano a rispettare le specifiche di fornitura; non si trattò certo di una scelta dottrinale per aumentare ancora la dispersione ... ma forse di speculazione ..." non è nota a nessuno, storici o profani come me. Su quali documenti si fonda questa tesi?

.

3) "Non è un fatto isolato, le lobbies industriali aggiravano molto spesso i requisiti, giocando sulle sponde politiche: risale già al 1933 lo scandalo (uno dei tanti) del riciclaggio (da parte del Gruppo Ansaldo) di corazze e munizionamento scartato in sede di collaudo". Qui andiamo un po' meglio; c'è infatti un libro di Curami e Ceva a questo proposito, ma il fatto è che la Marina intervenne e proprio per questo le corazze del Bolzano furono rifatte e rimontate e i vertici dell'impresa ligure, a partire da Cavallero, silurati lasciando spazio ad Agostino Rocca. Nessuno scandalo, quindi, ma una truffa tentata e fallita. La Marina era la vittima predestinata e reagì.

 

4) "In quanto alla vampa ridotta (non solo uso notturno) era in uso diffuso nella Royal Navy sin almeno dal 1938, come riporta in un suo rapporto (riservato) un giovane ufficiale, Fortunato Marini..." Qui o non si sa cosa si dice, oppure si confonde volutamente. I fatti sono i seguenti: le cariche a vampa ridotta erano diffuse tra tutte le Marine in dal 1919 sull’onda dei proietti tedeschi di quel tipo, ma erano disponibili ( e tecnicamente realizzabili) soltanto fino al calibro 120 - 135. La mancanza di cariche a vampa ridotta lamentata in primo luogo da Iachino era in merito ai G.C. e ai medi calibri, e nessuna Marina ebbe a disposizione cariche del genere nel corso della Seconda guerra mondiale.

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Ammiro le competenze che state esprimendo in questa discussione, io purtroppo non sono in grado di fare tanto anche se non mi mancano le fonti da cui attingere per seguire la discussione. Non sono intervenuto prima perché non ne ho, appunto, le competenze però devo ammettere che dai libri che ho letto ho sempre appreso che uno dei problemi della nostra artiglieria era la dispersione delle salve e la mira scadente; se questo non corrisponde al vero, questo forum è adatto per discuterne.

 

 

Forse di fronte a certe affermazioni, si potrebbe aprire una nuova discussione sulla' argomento, ma anche, e più opportunamente - se l' autore è ancora presente nel nostro sito - riprendere una buonissima serie di interventi e spiegazioni sul tiro navale che sono stati un vero trattato

 

Concordo PELLICANO, ma non con i toni e la forma con cui hai aperto la discussione, inappropriati per il forum; pertanto, prima di proseguire con il vero argomento (le artiglierie) è opportuno fari i dovuti chiarimenti, magari anche le dovute scuse. Un conto è contestare una tesi, un conto è accusare una persona (di cui si è fatto nome e cognome, mentre così non è per l'autore della discussione) e la rivista per cui scrive di revisionismo e di inventarsi le cose.

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  • Comando Flottiglia

Il Direttivo e i Moderatori di BETASOM si dissociano dalle considerazioni poco rispettose, anche sul piano personale, pubblicate in questa discussione nei confronti del dott. Cernuschi, confermandogli stima per la sua opera di ricerca e divulgazione.

 

Allo stesso modo non si condividono le considerazioni negative espresse nei confronti della Rivista Marittima e della sua linea editoriale.

 

Il forum è luogo di confronto, anche serrato, ma nei limiti della continenza e del rispetto reciproco.

 

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Scusate il ritardo, ma sono continuamente in viaggio..

Il quadrato è un luogo sacro della nave, privato, proprio degli imbarcati, dove tutti sono spinti (od erano spinti ..) ad esprimere liberamente le loro opinioni, dove le intemperanze (e gli errori) si emendavano con una o più passate, le offese ( una volta) potevano risolversi (fuori del quadrato) tra gentiluomini ..

 

Postare una recensione, che è soggettiva e opinabile, ha un proprio spazio, è una forma di invito al dibattito, all’ approfondimento .. non so se sia mai stato fatto ma è – credo- fattibile/ possibile postare una controrecensione …

Come tutte le cose opinabili la mia recensione può e deve essere dibattuta nella sede opportuna, e nel forum ci sono gli spazi tecnici e volendo gli spazi storici dove i membri possono esprimersi.
Non sapevo, e fa parte della mia ammenda, di precedenti vicende e banner relativi agli interessati, carenza che ha indurito la mia risposta e, peggio, mi ha indotto in errore nei confronti di un collega, che ho immediatamente contattato.

 

Per quanto mi riguarda – nei confronti dei membri del quadrato che avrebbero potuto ritenersi colpiti della mia forma e della mia irruenza – mi sono scusato e non ho nessuna remora a fare pubblica ammenda (per forma ed irruenza).

 

Nei confronti della RM ho lo stesso rispetto che ha un figlio per la famiglia ed i gioielli di famiglia, solo che come membro la vorrei sempre migliore, vorrei di più, e non solo il solo – nemmeno in questo consesso – che ha rivolto critiche, a volte più estese .. (mi sembra senza troppe levate di scudo …).

Le scuse che mi competono – per irruenza e vocaboli - sono state inviate e le ribadisco pubblicamente, ma non mi scuso per le opinioni, meno per la mia formazione in una Marina il cui primo insegnamento era come dir di no, e bandire la risposta signorsi.

Ci sono altri elementi di scuse che riguardano persone estranee ed attività tirate indebitamente in ballo, come gli insegnati dell’ Accademia Navale e la loro trasmissione di esperienza.

 

Non è solo un’ opinione prendere posizione in merito alla forma di porre gli argomenti, e rivisitarli, considerazioni alla base della mia recensione: non è disonorevole aver perso la guerra, ma il modo come ci siamo entrati e con quali mezzi: riconoscerlo – anche alla luce delle conoscenze e del senno di poi, con il testimone diretto di chi ha vissuto l’ esperienza - è rendere il dovuto rispetto al valore di coloro che pur consapevoli hanno compiuto sino in fondo il proprio dovere.

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Grazie Giancarlo, penso che le buone intenzioni ci siano tutte e spero saranno riconosciute.

 

Torniamo al problema, che non è la Rivista Marittima, ma l'efficacia o meno del tiro navale italiano.

credo che, anzi, potremmo proprio cambiare il titolo

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Occorre tuttavia un'ultima precisazione per Pellicano: in Marina il quadrato è un luogo privato e riservato ai suoi membri. Questo è un forum pubblico, le cui discussioni possono essere lette da chiunque.

E non è il singolo utente a decidere chi può o meno esprimersi. A prescindere dalla formazione avuta.

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E' un periodo in cui son molto impegnato. Leggerò comunque l' articolo di CERNUSCHI dopodichè farò le mie considerazioni.

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Come suggerito il titolo della discussione è stato modificato

 

Ottimo, sono curioso di approfondire l'argomento.

 

 

 

Come ho già scritto, personalmente ho sempre letto e sentito che il tiro navale delle unità italiane è stato considerato sempre impreciso e inutilmente dispersivo, come confermerebbe anche quanto riportato da danilo43 qualche post sopra, che riporto per comodità:

 

Una ventata di primavera, non si tratta però di fiorellini, bensì di bordate di grossi calibri !!!

 

Non certo al fine di alimentare polemiche, ma per documentarmi più a fondo in merito alla diatriba in corso, ho cercato di risalire alle fonti citate. Reperiti i saggi di Giuliano Colliva sul B.d.A.; non avendo la collezione completa della Rivista Marittima, rintraccerò a breve i fascicoli citati.

Per quanto riguarda, invece, i due saggi di Alberto Santoni ed Enrico Cernuschi, pubblicati, come riportato dallo stesso dott. Cernuschi, in “Storica”, rispettivamente nel marzo e luglio 1995, certamente ci troviamo in presenza di un errore di data: ho sottomano entrambi i fascicoli, ma non ne trovo traccia e nemmeno nell'annata successiva; non sono però in possesso delle precedenti.

Ciò premesso, in merito all'insufficienza del tiro italiano, da modesto cultore di storia navale, tra molti suoi scritti sull'argomento, conosco e riporto quanto scritto da Francesco Mattesini in “L’operazione Gaudo e lo scontro notturno di Capo Matapan”, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma, 1998, capitolo XIV, pagg, 146-148.

 

A titolo di confronto, e purtroppo di conferma dell’insufficienza del tiro italiano, occorre fare il seguente esempio. Nei due scontri di Gaudo del 28 marzo 1941 gli incrociatori della 3^ Divisione Navale e la “Vittorio Veneto” avevano consumato inutilmente cinquecentoquarantadue granate da 203 m/m e novantaquattro proietti da 381 m/m, sparando a distanza varianti tra i 22.000 e i 25.000 metri su otto bersagli (4 incrociatori leggeri e 4 cacciatorpediniere) che, data la portata più modesta delle loro artiglierie, non poterono rispondere al fuoco, ma soltanto limitarsi a scappare .

Due mesi più tardi, il 21 maggio, due navi tedesche, la corazzata “Bismarck”e l’incrociatore pesante “Prinz Eugen”, furono impegnate in combattimento nello stretto di Danimarca – tra la Groenlandia e l’Islanda – dalle due navi da battaglia britanniche “Hood” e “Prince of Wales”.

La “Bismarck”, sparando su entrambe le unità nemiche dalla distanza iniziale di 24.200 metri, per poi gradualmente scendere a 12.800 metri, un totale di novantatré proietti da 380 m/m (uno in meno di quelli sparati a Gaudo dalla “Vittorio Veneto”), fece saltare in aria la “Hood”, centrandola alla terza salva con tre granate – quando la distanza era ancora notevole, di circa 20.000 metri – e ne piazzò a segno altre quattro sulla nuovissima “Prince of Wales”, vanto dell’industria cantieristica britannica, danneggiandola seriamente. Quest’ultima, pur essendo stata colpita anche da tre proietti da 203 m/m del “Prinz Eugen”, dimostrò di sapere incassare (la sua corazza verticale era di ben 381 m/m), e nel contempo, al pari delle unità tedesche, di sapere a sua volta tirare bene, in quanto, pur non avendo i cannoni ancora a punto e quindi in grado di sparare soltanto al sessanta per cento della sua capacità, alla ottava e nona salva colpì la “Bismarck” con tre granate da 356 m/m procurandole avarie non indifferenti.

Il miglior tiro in assoluto di tutta la seconda guerra mondiale (e direi di sempre) fu conseguito durante l’attacco della Flotta statunitense contro la base giapponese di Truk, nel febbraio 1944. In quell’occasione, avvistate all’orizzonte due navi giapponesi che tentavano di allontanarsi, le grandi e veloci corazzate "Iova" e "New Jersey", aprendo il fuoco con i loro sei cannoni prodieri da 406 m/m (proiettile da 1.220 chili) alla enorme distanza di 35.000 metri, centrarono l'incrociatore "Katori" e il cacciatorpediniere "Maikaze", affondandoli in tre minuti. Questo, e non me ne vogliano gli estimatori della "Bismarck", fu veramente un tiro meraviglioso, reso possibile dalla grande precisione dei telemetri e delle artiglierie.

Di fronte a questi due esempi, ma ve ne sarebbero molti altri, è necessario dare una spiegazione di carattere tecnico sulle “deficienze” del tiro italiano, rispetto a quello ben più efficace che si verificava nelle artiglierie delle altre marine. Lacuna di cui vi era stata consapevolezza fin dalla prima guerra mondiale quando, ha riferito l’ammiraglio Iachino, “era stato notato che le salve delle navi inglesi, francesi e austriache erano sempre assai fitte e avevano una dispersione inferiore alla nostra; cosicché quando una loro salva era centrata sul bersaglio questo veniva sicuramente colpito da almeno un proiettile”.

Invece il tiro italiano, pur risultando “molto spesso a cavallo del bersaglio”, a causa della “grande dispersione dei colpi” non portava agli effetti desiderati. Era infatti “soltanto una questione di fortuna se i proiettili colpivano il segno”, dal momento che, per la eccessiva dispersione longitudinale “anche variabile di salva in salva in maniera irregolare e imprevedibile, la correzione usuale del tiro, in base all’osservazione dei punti di caduta, riusciva assai più difficile da noi che presso le altre marine”.

L’ammiraglio Iachino, ha puntualizzato che queste anomalie erano dovute principalmente ai parametri del munizionamento prodotto dall’industria nazionale, perché le “norme regolamentari per il collaudo delle munizioni erano”, in Italia “assai meno rigorose di quelle in uso nelle Marine estere”.

Ragion per cui, pur disponendo di proietti perforanti e di spolette per nulla inferiori a quelle in uso nella Marina britannica, non corrispose invece alle aspettative la confezione delle cariche di lancio, ove, per quanto possa apparire un problema banale, non fu ottenuta identità tra di esse, relativamente al peso, alle dimensioni, alla distribuzione dei vari elementi che le componevano. Il risultato fu di avere al tiro grandi dispersioni dei proietti di una stessa salva.

Inoltre, pur essendo generalmente buone, le artiglierie italiane, che al pari del munizionamento erano prodotte tutte da Ditte nazionali, avevano “dispositivi meccanici ed elettromagnetici per il caricamento e l’accensione alquanto delicati e spesso facevano avaria durante il tiro prolungato”; ragion per cui le salve delle “navi risultavano dopo qualche tempo incomplete poiché una parte dei proietti rimaneva a bordo”.

L’ammiraglio Iachino, dopo aver affermato che “l’imprecisione delle artiglierie era particolarmente notevole sugli incrociatori da 10.000 e sui C.t.”, ed in parte “anche nei cannoni da 320 mm. delle corazzate tipo CESARE e DUILIO”, ritenne invece che durante la guerra avessero dato “migliori risultati i cannoni da 381 mm. dei tipi LITTORIO”.

Questa considerazione finale dell’ex Comandante in Capo della Squadra Navale, ha però trovato molte opposizioni fra i tecnici del tiro, tra cui, autorevolissima, quella dell’ammiraglio Emilio Brenta, all’epoca della battaglia di Gaudo e Matapan Capo del Reparto Operazioni di Supermarina. Egli ha riportato in un suo articolo che la Regia Marina aveva saputo “tecnicamente eliminare le dispersioni iniziali, maggiori o minori, dei suoi numerosissimi calibri, grossi medi e piccoli”, tanto che, “in alcuni casi fu addirittura necessario aumentare la dispersione perché con quelle troppo limitate era impossibile la direzione del tiro navale”. E concluse affermando che purtroppo non era stato invece possibile attuare tempestivamente la riduzione delle dispersioni per le corazzate tipo “Littorio”, perché esse “furono sfornate guerra durante, in una situazione perciò la meno adatta per compiere studi ed esperienze di quel genere”.

La prima esperienza al tiro dei cannoni da 381 si era avuta durante la battaglia di Capo Telulada del 27 movembre 1940, quando la corazzata “Vittorio Veneto”, a seguito di un’accostata di 180°, si portò in aiuto dei sei incrociatori pesanti della 2^ Squadra (ammiraglio Angelo Iachino), che si stavano ritirando sotto il fuoco di 5 incrociatori leggeri britannici, sostenuti dai 381 m/m dall’incrociatore da battaglia “Renown”. Al breve del breve intervento della “Vittorio Veneto”, che sparò con la torre poppiera, a tiro lento, in sette salve ventinove colpi da 381 senza metterne nessuno a segno, il Comandante Superiore in mare della Flotta italiana, ammiraglio Inigo Campioni, riportò nella sua relazione quanto segue:

Il tiro dei 381 del VITTORIO VENETO è stato iniziato alla distanza telemetrica di 29.000 metri e ultimato alla distanza di 32.500 metri. Brandeggio iniziale 167° brandeggio finale 170°. Poiché per portare il tiro a cavallo è stato necessario allungare di 1.000 metri circa si ritiene di aver sparato a distanze comprese fra i 29.500 e i 33.500 metri.

A tale distanza le salve erano osservabili molto chiaramente confermando la constatazione già fatta altre volte con le corazzate tipo LITTORIO [nelle esercitazioni] è possibile aprire l’azione balistica, se la visibilità lo consente, a 29 km.”

 

Purtroppo, dopo la battaglia di Punta Stilo del 9 luglio 1940, che aveva visto impegnate le corazzate “Giulio Cesare” e “Conte di Cavour” con i loro cannoni da 320 m/m, impegnatesi contro tre corazzate britanniche con cannoni da 381 m/m (il combattimento fu sospeso da parte italiana quando la “Cesare” fu colpita da un proietto della “Warspite” sparato dalla distanza di 26.600 metri), le corazzate italiane non ebbero altre occasione per affrontare quelle britanniche. Dopo l’esperienza di Punta Stilo, la prudente condotta di Supermarina evitò sempre di portare al combattimento le sue navi da battaglia contro quelle britanniche.

I cannoni da 381/50 modello 1934 delle corazzate tipo “Littorio”, sistemati in torri trinate dal peso di 1.600 tonnellate, in cui ogni cannone era separato dall’altro da paratie corazzate, in modo da avere locali autonomi, possedevano una elevazione massima di 35°. Essi erano in grado di sparare una salva per torre ogni quarantacinque secondi, scagliando proietti perforanti da 882 chili alla distanza massima di 42.800 metri, e con velocità iniziale del proietto di 870 metri al secondo.

Al pari dei cannoni da 320 m/m delle corazzate classe “Cavour” e “Doria”, i cannoni da 381 avevano “anima ricambiabile a freddo, il che - ha scritto l’ammiraglio Fioravanzo - da una esatta idea dell’elevata perfezione costruttiva raggiunta dall’industria italiana in questo campo”. “Il solo difetto di tali complessi fu la dispersione ancora troppo grande, e ciò era causata in gran parte al fatto che “nei capitolati d’onere per la costruzione delle artiglierie non era accennato (o lo era di sfuggita) il requisito della precisione, mentre erano previsti cospicui premi per ogni metro di velocità iniziale in più di quello fissato, senza badare all’aumento delle dispersioni che questo incremento della velocità iniziale avrebbe prodotto”.

Difetti di dispersione, che pure furono ridotti abbassando la velocità iniziale da 930 a 900 m/s, davano anche i cannoni da 203/53 ad anima sfilabile degli incrociatori pesanti Zara e Bolzano, costruiti nel 1929. Essi tuttavia risultarono migliori – quanto ad elevazione (45°), al caricamento dei proietti e alla celerità di tiro – al Trieste e al Trento, i cui 203/50 con anima fissa, risalenti al 1924, risultavano molto lenti al tiro, poiché le torri binate avevano i due pezzi strettamente vincolati tra di loro, e determinavano dispersioni molto rilevanti. Inoltre possedevano telemetri molto vecchi, che si dimostrarono nelle misurazioni al tiro molto imprecisi.

Fermo restando la bontà del materiale e delle strumentazioni tecniche delle artiglierie da 381 m/m, possiamo concludere sostenendo che i maggiori difetti in esse riscontrati in fase di tiro di precisione erano da ricercare, oltre che sulle cariche di lancio, anche su la scelta dei parametri richiesti all’industria in fase di progetto e di costruzione del materiale.

La causa, ha scritto l’ammiraglio Fioravanzo che per un certo periodo di tempo, nel 1942, comandò la IX Divisione Navale, costituita dalle corazzate “Littorio”, “Vittorio Veneto” e “Roma”, “era dovuta alla eccessiva tolleranza consentita dal peso dei proietti, per i quali si ammetteva un’approssimazione media di circa l’uno per cento, il che produceva una variazione di velocità iniziale dell’ordine di 3 metri per le velocità intorno ai 900 m/s, quali erano quelle da noi adottate. Per i 381 ciò corrispondeva alla distanza di 27.000 metri, ed uno scarto di gettata di 160 metri. Se per combinazione una salva partiva con qualche proietto di peso approssimativo per eccesso e qualche altro approssimato per difetto si aveva un’apertura di 320 metri. Ma se per caso una salva era composta di tutti proietti uguali, allora essa risultava molto raccolta. La grande apertura media delle salve facilitava certamente il cosiddetto centramento del tiro, ma la variabilità dell’apertura complicava il problema di mantenerlo centrato. Analoghe differenze tra il peso delle cariche producevano altre perturbazioni le quali, combinate con tutte le altre cause di dispersione, rendevano irregolare ed eccessivamente elevata l’apertura della salva intorno al suo valore medio”.

In definitiva le scelte degli organi tecnici della Regia Marina portarono a costruire artiglierie con elevato rapporto tra la lunghezza della canna e il suo calibro per renderla capace di sparare il più lontano possibile proietti di notevole peso, a cui era impressa alta velocità iniziale per mezzo di cariche di lancio di grande potenza propellente. Da ciò ne risultava una certa vibrazione della canna, e quindi un aumento della dispersione delle salve ed anche un maggiore logoramento dell’anima dei pezzi, che finivano per influenzare ancora più negativamente la precisione e la continuità del tiro, specialmente durante le fasi di fuoco condotte a ritmo accelerato e di lunga durata.

Ritengo sia interessante far sapere che sulle corazzate tipo “Littorio”, la dotazione normale di proietti per i 9 cannoni da 381 m/m e delle loro cariche di lancio, il tutto ripartito fra i vari depositi, era la seguente: 495 proietti perforanti (a palla), 171 granate dirompenti, 4.320 elementi di carica conservati in cartocci. Pertanto, in definitiva, nel corso di un combattimento navale ogni corazzata di quella classe era in grado di sparare 666 proietti da 882 kg. Ad essi si aggiungevano le dotazioni dei 12 cannoni da 152 m/m che, avendo una elevazione massima di 45°, erano anche impiegati per il tiro antiaerosilurante, in appoggio ai 12 cannoni contraerei da 90 m/m....

 

Successivamente, in altra sede, Mattesini aggiunge:

 

Non essendo un esperto di artiglierie, sulle cause del cattivo tiro italiano mi sono limitato a fare degli esempi, e a riportare quanto in questo difficile campo hanno sostenuto i veri tecnici. Recentemente però, Giuliano Colliva, in un approfondito saggio pubblicato nel Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare (settembre 2003 e marzo 2004) porta a conclusioni alquanto differenti, mostrando con tabelle comparative, che dopo tutto in ogni Marina vi era stata la difficoltà di colpire il bersaglio con i grossi calibri al disopra della distanza di 20.000. Io ritengo che queste affermazioni dell’amico Colliva andrebbero almeno in parte riviste, perché altrimenti non si spiegano i colpi messi a segno, a distanze ben maggiori dei 20.000 metri, dalla “Warspite” sulla “Cesare”, dalla “Bismarck” sulla “Hood”, e infine quelli della “Iova” e della “New Yersey” rapidamente messi a segno sull’incrociatore “Katori” e sul cacciatorpediniere “Maikaze”, alla distanza di ben 35.000 metri (NdD, in realtà yard) ...

 

Non sono abbonato a Rivista Marittima e non ho letto quanto ha scritto il dott.Cernuschi, vorrei effettivamente capirci qualcosa di più.

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Non sono abbonato a Rivista Marittima e non ho letto quanto ha scritto il dott.Cernuschi, vorrei effettivamente capirci qualcosa di più.

 

Malissimo! Niente di più facile di abbonarsi :laugh:

 

Per chi fosse interessato posso comunque inviare in privato l'articolo

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Malissimo! Niente di più facile di abbonarsi :laugh:

 

Ci penerò, è che al momento ho già troppi abbonamenti.

 

 

Per chi fosse interessato posso comunque inviare in privato l'articolo

 

Se me lo potessi mandare mi faresti un gran piacere

Malissimo! Niente di più facile di abbonarsi :laugh:

 

Per chi fosse interessato posso comunque inviare in privato l'articolo

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  • 2 weeks later...

Dal momento che non in pochi mi hanno chiesto l'articolo in questione, su autorizzazione della Direzione della Rivista Marittima rendo disponibile il testo

Con l'occasione ricordo doverosamente che la RM è una palestra in cui tutte le voci sono libere di confrontarsi e che l'abbonamento alla stessa - organo della Marina Militare senza fini di lucro - è cosa buona & giusta

CERNUSCHI_NUMERI,NAVI,CANNONI.pdf

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  • 2 weeks later...

La rititolazione del Topic mi porta a suggerire ai Moderatori di spostare la discussione in "TECNICA"

E' un periodo in cui son molto impegnato. Leggerò comunque l' articolo di CERNUSCHI dopodichè farò le mie considerazioni.

L' argomento è molto impegnatvo ed il "ristretto spazio tiranno" della R.M. ha impedito al Dott. CERNUSCHI di manifestare le proprie idee come si deve: 6 pagine son un pò poche...

 

A mio parere lo studio migliore risulta ancora quello che il compianto Giuliano COLLIVA pubblicò sul BOLLETTINO d' ARCHIVIO dell' U.S.M.M. nel 2003 - 2004 per un totale di 190 pagine (!) Il CERNUSCHI nel suo articolo "NUMERI, NAVI E CANNONI" definisce "solidi studi che han fatto giustizia con metodo scientifico".

 

Con le dovute autorizzazioni sarebbe opportuno che il lavoro del COLLIVA fosse messo a disposizione dei Betasomiani.

 

Nella prima parte COLLIVA traccia una storia della siderurgia militare in Italia, un' industria che all' inizi del secondo conflitto mondiale poteva ben confrontarsi con quella degli altri protagonisti sia come cannoni che come apparati di punteria.

Naturalmente c'è chi ha fatto meglio come ad esempio i Tedeschi e gli Americani, grazie alla loro migliore industrializzazione.

 

I Tedeschi, ad esempio, curavano in modo maniacale l' addestramento e la manutenzione delle proprie artiglierie, mentre nelle altre Marine, tra cui la nostra, c' eran problemi di personale. Tali problemi derivavano dal fatto che la specializzazione in artiglieria era poco ambita dagli equipaggi in quanto, una volta tornati alla vita civile, avevano poche possibilità di valorizzare questa pur notevole specializzazione.

 

G. COLLIVA inizia la seconda parte rammaricandosi della "distruzione col fuoco", avvenuta negli anni "50", di molti documenti proprio riguardanti le nostre artiglierie navali. Comunque negli Archivi non c'è menzione alcuna di quella scarsa qualità del munizionamento così tanto citata dai Protagonisti della nostra guerra sul mare.

 

Mi ha molto interessato ciò che COLLIVA ha scoperto in merito alle artiglierie Inglesi: molto buoni i loro "381", meno efficienti e causa di numerosi problemi il "356" ed il "406".

Altrettanto i Francesi con i loro "380" e "330" che ebbero problemi di messa a punto e c'è persino il giudizio piuttosto negativo di un anonimo C.te di una corazzata che critica non solo la qualità delle artiglierie principali, ma anche la loro disposizione a bordo.

 

La seconda parte termina con l' esame dei principali scontri navali: come noi, anche gli altri han cercato di colpire i bersagli alle massime distanze.

Ma a parte qualche sparuto colpo fortunato, di certo non in grado di decidere una battaglia, i risultati son sempre stati deludenti. Insomma la precisione del tiro per i calibri maggiori (406 e 381) era intorno ai 20 - 24.000 mt. In ogni caso tutti han fatto pochi "centri" in relazione al numero di colpi sparati.

 

Infine nella terza parte il COLLIVA descrive le nostre norme di combattimento.

 

Riassumendo, le nostre direttive imponevano d' iniziare a sparare alle massime distanze, ma poi le si doveva serrare fino ad arrivare a quelle ideali a seconda del tipo di nave avversaria e, naturalmente, dell' armamento disponibile. Era previsto anche una fase iniziale di ritirata rispetto al nemico allo scopo di farsi inseguire e dividerne le forze per poi ingaggiarle singolarmente.

 

Interessanti sono le direttive Inglesi ai propri C.ti: più che ordini il COLLIVA li giudica come norme di comportamento che prevedono persino la possibilità di ...subire delle perdite(!)...Ma sempre nell' ambito di un contegno aggressivo (si parla persino di... :ohmy: superiorità della razza inglese :wacko: (!))

 

Come nella seconda, anche in quest' ultima parte si descrivono i principali scontri navali che ci videro protagonisti.

 

Le conclusioni? Riporto integralmente ciò che Giuliano COLLIVA ha scritto a pag. 57 del fascicolo di Marzo 2004 del BOLLETTINO d' ARCHIVIO dell' U.S.M.M.

 

"E' ora abbastanza facile giungere alla conclusione del perchè i nostri cannoni navali hanno messo a segno così pochi colpi durante la seconda guerra mondiale. In quasi tutti gli scontri le nostre unità hanno aperto il fuoco e hanno continuato a sparare da distanze non solo non previste dalle norme, ma assolutamente impossibili, alle quali nessun cannone navale ha mai colpito (con le due eccezioni che abbiamo descritto nella seconda parte). Quando le nostre unità si son impegnate alle distanze non solo indicate dalle disposizioni di tiro della nostra Marina ma anche tatticamente valide - perchè oltre i 20.000 m l' osservazione dei punti di caduta delle salve è nella pratica quasi impossibile - hanno messo a segno sempre un buon numero di colpi, raggiungendo gli stessi risultati conseguiti dalle artiglierie delle altre Marine su tutti i fronti marittimi della seconda guerra mondiale".

 

P.S. Una domanda tecnica. Nella terza parte, citando una direttiva dell' Amm. Dino DUCCI, i nostri incrociatori pesanti vengono indicati col termine "GIL". Ebbene, qual' è l' origine di questa definizione che mai ho più letto altrove?

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  • 10 months later...

Riporto integralmente ciò che Giuliano COLLIVA ha scritto a pag. 57 del fascicolo di Marzo 2004 del BOLLETTINO d' ARCHIVIO dell' U.S.M.M.

 

"E' ora abbastanza facile giungere alla conclusione del perchè i nostri cannoni navali hanno messo a segno così pochi colpi durante la seconda guerra mondiale. In quasi tutti gli scontri le nostre unità hanno aperto il fuoco e hanno continuato a sparare da distanze non solo non previste dalle norme, ma assolutamente impossibili, alle quali nessun cannone navale ha mai colpito (con le due eccezioni che abbiamo descritto nella seconda parte). Quando le nostre unità si son impegnate alle distanze non solo indicate dalle disposizioni di tiro della nostra Marina ma anche tatticamente valide - perchè oltre i 20.000 m l' osservazione dei punti di caduta delle salve è nella pratica quasi impossibile - hanno messo a segno sempre un buon numero di colpi, raggiungendo gli stessi risultati conseguiti dalle artiglierie delle altre Marine su tutti i fronti marittimi della seconda guerra mondiale".

Più o meno questo concetto è espresso dai C.ti P. RAPALINO e G. SCHIVARDI alla pag. 69 del loro libro TUTTI A BORDO.

 

"L' avversario si affronta sempre di prora, stringendo la distanza alla massima velocità "sparando in caccia" e non alla massima distanza balistica o di poppa in allontanamento".

 

 

A mio parere lo studio migliore risulta ancora quello che il compianto Giuliano COLLIVA pubblicò sul BOLLETTINO d' ARCHIVIO dell' U.S.M.M. nel 2003 - 2004 per un totale di 190 pagine.

Con le dovute autorizzazioni sarebbe opportuno che il lavoro del COLLIVA fosse messo a disposizione dei Betasomiani.

:rolleyes::ph34r::rolleyes::ph34r::smile:

 

 

 

P.S. Una domanda tecnica. Nella terza parte, citando una direttiva dell' Amm. Dino DUCCI, i nostri incrociatori pesanti vengono indicati col termine "GIL". Ebbene, qual' è l' origine di questa definizione che mai ho più letto altrove?

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Ho provveduto a spostare in tecnica, Antonio.

In effetti non ricordo di avere mia visto quella definizione...

GIL... :huh: Potrebbe essere Grandi Incrociatori Leggeri?

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Alfabravo,

 

In effetti, avrebbe senso.

Tuttavia, a me risulta che quella definizione ("Large Light Cruiser") fu usata dagli Inglesi per Corageous e Glorious, prima che diventassero portaerei.

Si trattava però di navi piuttosto diverse dalle nostre. Magari le due definizioni sono nate in maniera indipendente con significato non proprio equivalente, oppure per GIL dobbiamo pensare a qualcos'altro...

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