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Chersino Racconta: Il Mio 8 Settembre


Chersino

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È trascorso da pochi giorni il 72° anniversario dell’8 settembre. Seguendo l’onda dei ricordi vorrei raccontare come vissi io quel fatidico giorno e i drammatici avvenimenti che seguirono.

 

Devo fare una premessa. L’Ammiraglio Polacchini era stato trasferito in Italia il 28 dicembre 1942 e, dal gennaio 1943, fu destinato a Palermo come Comandante del Comando Marina. Mi aveva detto se volevo venire in Italia con lui… ma a Bordeaux c’era Edmonde, la mia ragazza. Gli risposi che sarei venuto volentieri se mi avesse potuto sistemare a Venezia o a Trieste, ma m’interruppe subito dicendomi: «Vedi Fucci, purtroppo non è possibile. Ci sono dei richiamati che hanno necessità di stare vicino alle famiglie e quindi non ti posso accontentare. Se vuoi venire in Italia in qualsiasi altro posto, non ci sono problemi». «No, no, la ringrazio Signor Ammiraglio – risposi - . Qui ho una ragazza e allora preferisco restare».

 

Nuovo comandante superiore della base fu designato il Capitano di Vascello Enzo Grossi, già piuttosto chiacchierato all’epoca perché quando da Capitano di Corvetta comandava il sommergibile BARBARIGO sostenne di avere affondato due corazzate americane, ma forse non era vero.

 

Quel giorno il Comandante Grossi non si trovava a Betasom. Improvvisamente i Tedeschi circondarono la Base (noi eravamo all’oscuro dell’avvenuta firma dell’armistizio), fecero prigionieri tutti gli uomini che vi si trovavano e piazzarono delle mitragliatrici per dissuaderci da ogni tentativo di fuga. Solo due o tre giorni dopo, al ritorno del Comandante Grossi, ci chiesero di fare una scelta: o passare con loro, o essere internati in campo di concentramento. Io pensai che avevo giurato fedeltà al Re, l’avevo scampata fino a quel momento e non me la sentivo di andare forse a morire per combattere al fianco dei Tedeschi, così scelsi di essere internato. D’altra parte vedevo che questa scelta l’avevano fatta anche degli ufficiali – ma non il Comandante Grossi – e dei carabinieri; così non ebbi dubbi sulla validità della mia decisione. Il campo in cui fui internato era a Pessac, nelle vicinanze dell’aeroporto di Merignac.

 

Nel nostro campo, le baracche dei prigionieri erano costruite su palafitte per isolarle dal terreno che era costituito da sabbia umida; noi eravamo in cinque: io, un Secondo capo RT che si chiamava Nicola di cognome e Renato di nome, il Sergente RT Frandi Mario di Pisino, istriano anche lui; quel Paolo Muller che usciva con la sorella di Edmonde; infine c’era Puddu Renato, un sardo.

 

Naturalmente c’erano molti altri prigionieri nella baracca, ma il nostro reparto era costituito da noi cinque. Allora, poichè eravamo a 6 o 7 metri dal reticolato, convinsi gli altri che avremmo potuto rompere il pavimento sotto le brande e fare un buco nel terreno per tentare la fuga; ogni giorno, col nostro piatto e il gavettino d’alluminio, scavavamo per approfondire questo buco e proseguire poi con una galleria. All’angolo della recinzione c’era una garitta con la sentinella: a turno, uno scavava e passava il gamellino con la sabbia all’altro che stava dietro; man mano che si procedeva, il numero dei componenti della “catena della sabbia” aumentava per arrivare a passare il gamellino a quello rimasto fuori, che provvedeva a stenderla sotto la baracca in modo che non si vedesse nessun cumulo. Ormai il tunnel aveva raggiunto una lunghezza di circa 5 metri e non collassava perché la sabbia bagnata del terreno lo teneva insieme. Ad un certo punto è intervenuto un fatto nuovo: un maresciallo dei nostri ha pagato un Polacco che aveva accettato di collaborare coi nazisti e, di notte, l’ha fatto scappare. La mattina successiva, all’appello, si sono accorti che mancava un prigioniero; allora i militari tedeschi hanno preso a girare per il campo con i cani e hanno trovato il nostro tunnel, così il piano di fuga è tramontato miseramente. Però a noi non ci hanno fatto niente perché non sono riusciti a scoprire chi aveva scavato la galleria. In realtà, se fossero stati furbi, ci avrebbero potuto trovare guardando la matricola riportata sui gamellini che avevamo lasciato nella galleria: quella volta ci era andata liscia!

 

Mi è dispiaciuto leggere nel libro “Le avventure di un marinaio di BETASOM” scritto da Mario Frandi lo stesso racconto di cui sopra, ma con lo svolgimento dei fatti riguardanti lo scavo della galleria diverso da quanto avvenne in realtà e soprattutto l’essersi attribuito la paternità del tentativo di fuga, che invece fu solamente mia.

 

Arriviamo al 28 settembre, una data che non dimenticherò mai, perché ci hanno caricato sui carri bestiame ammucchiati in più di duecento per ogni vagone con un bidone per fare i bisogni. Mi ricordo le porte scorrevoli dei carri, molto spesse e robuste perché dovevano trattenere il bestiame; non le hanno piombate, ma erano chiuse dall’esterno con un gancio, quindi era assolutamente impossibile fuggire. Dopo un’ora di attesa il treno è partito con due locomotive a carbone, una in testa e una in coda, perché altrimenti in salita una sola non sarebbe riuscita a trainare tutti quei vagoni.

 

Non riuscivo a rassegnarmi all’idea di essere deportato in chissà quale posto della Germania e allora cercai d’inventarmi qualcosa per scappare; chiesi se qualcuno aveva con sé un coltellino col seghetto, o qualcosa del genere e venne fuori un coltello svizzero di quelli con diverse lame, tra le quali c’era anche un seghetto; ma il proprietario non me lo voleva dare, perché diceva che se fosse successo qualcosa avrebbe finito per andarci di mezzo lui; io lo rassicurai dicendogli che se ci avessero scoperto avremmo detto che eravamo stati noi cinque a tentare la fuga. Il mio piano era di riuscire a segare la porta del vagone per azionare il gancio esterno e, quando il treno avrebbe rallentato in salita, saremmo saltati giù. In realtà non ci eravamo resi conto del grande spessore di quella porta, per cui abbiamo cominciato a segare dandoci il cambio durante tutta la notte, ma alla mattina avevamo portato via solo un pezzetto della porta. A un certo punto arriva un militare e ci urla in tedesco: «Traditori di Badoglio, dove avete la sega?» In quel momento il coltellino l’avevo in mano io e gliel’ho consegnato; lui ha spezzato la lama della sega e l’ha gettata fuori, poi mi ha restituito il coltellino dicendo: «Per questa volta è andata così, ma alla prossima vi sparo».

 

Alla fine siamo arrivati a Francoforte sul Meno; mentre siamo in stazione suona l’allarme aereo; i Tedeschi se la danno a gambe e ci lasciano dentro i vagoni chiusi dall’esterno, roba che se bombardano fanno una carneficina. Invece, fortunatamente, dopo una mezz’ora cessa l’allarme. I Tedeschi ci fanno scendere e da lì ci fanno camminare per circa 4 chilometri con lo zaino in spalla. Io avevo già regalato metà roba del mio corredo che, fra divise estive ed invernali, scarpe da libera uscita e da lavoro, era molto cospicuo. Arriviamo al campo dove saremmo stati internati; alla sera ci danno un po’ di brodaglia; non c’erano brande e dormivamo per terra sulla paglia; al mattino presto ci hanno fatto alzare e ci hanno preso tutta la roba che avevamo, i documenti, addirittura anche le mie patenti di guida; si sono tenuti i vestiti e con tutte le carte hanno fatto un falò nel piazzale. A quel punto non avevamo più identità, non eravamo identificabili se non per un numero che ci avevano assegnato. Ci hanno dato la divisa da prigionieri: sui pantaloni, all’altezza del ginocchio c’era la lettera M sulla gamba destra e la lettera I su quella sinistra, che stavano a significare “Militare Internato”, mentre sulla schiena del giaccone era riportata la scritta “Prigioniero di Guerra”. Sono stati davvero dei delinquenti perché i prigionieri di guerra ricevevano dei pacchi della Croce Rossa e noi niente, assolutamente niente perché eravamo internati e, quando è finita la guerra, non abbiamo ricevuto nessun indennizzo perché non avevamo lo status di prigionieri di guerra.

 

Dopo qualche giorno ci trasferiscono in un campo nei pressi di Colonia, non mi ricordo il nome della località; so che era un po’ in collina. Alla mattina ci venivano a prendere con dei camion e ci portavano a lavorare a Colonia sulla ferrovia, oppure a sgombrare le macerie. Alcuni erano destinati nelle fabbriche. A noi cinque è toccato di andare a lavorare in uno stabilimento dove facevano le torrette per i sommergibili: come è strano il destino! A mezzogiorno ci davano una brodaglia con una patata o addirittura mezza, una carota; alla sera ci davano anche un pezzo di pane, che ci doveva bastare fino alla sera successiva. L’unico vantaggio era che lavoravamo al coperto, però tutti i giorni c’erano i bombardamenti.

 

Ad un certo momento ci hanno portato in un campo più piccolo a margine del cantiere per la costruzione della fiera internazionale di Colonia, inattivo a causa della guerra. Lì eravamo in mezzo a dei Francesi internati che vestivano in borghese. Per uscire dal campo, dovevano passare davanti ad una baracca che aveva una finestra di vetro dietro alla quale c’era la guardia tedesca che avrebbe dovuto controllare se il Francese era autorizzato ad uscire; in realtà, siccome i Francesi erano gli unici a vestire in borghese, non veniva effettuato nessun controllo. Io ho subito pensato che questa leggerezza da parte delle guardie tedesche ci avrebbe forse consentito di scappare. Tutti noi cinque eravamo d’accordo per tentare la fuga. Però le cose stavano andando per le lunghe, per cui Mario Frandi, quello del libro, ha deciso di andarsene da solo; abbiamo poi saputo che è arrivato sano e salvo in Spagna; ha avuto una grande fortuna, perché i Tedeschi quando catturavano i fuggitivi, li maltrattavano e li mandavano a lavorare nelle miniere di sale. Arriva anche il giorno che scappa Puddu, ma lo prendono e non abbiamo saputo più niente di lui, solo che ha avuto una punizione terribile.

 

Nonostante il rischio che sapevamo di correre, non ce la facevamo più a restare prigionieri in quel campo e allora io ho chiesto ai due amici che erano rimasti se fossero d’accordo nel tentare la fuga senza aspettare ancora. Loro si sono dichiarati d’accordo. Mi sono dato da fare per vendere l’orologio che ero riuscito a conservarmi e ho preso dei franchi francesi; Renato Nicola vende anche lui il suo orologio e prende dei marchi tedeschi; solo Muller è rimasto col suo orologio, ma non gliel’abbiamo fatto vendere, perché almeno uno di noi tre sarebbe stato in grado di sapere che ore erano. Io avevo salvato nel mio zaino un giaccone da marinaio e una paio di pantaloni della divisa, poi mi era rimasto anche il berretto con il nastro che riportava la scritta “SOMMERGIBILI”; in pratica avevo messo insieme una divisa da marinaio. Anche Renato aveva conservato la sua divisa da 2° Capo, ma gli avevo fatto strappare i bottoni dorati della Marina con l’ancora e gli avevo fatto cucire dei bottoni civili. Io invece ho scambiato con un Francese il mio giaccone militare con una giacca borghese, però sotto avevo la divisa.

 

Il 28 di ottobre suona l’allarme aereo. Paolo Muller ci ha ripensato e ha rinunciato a scappare, forse perché non sapeva dove avrebbe potuto andare dopo: è vero che lui usciva con la sorella della mia ragazza, ma in famiglia non ne sapevano nulla; io invece ero fidanzato ufficialmente e a casa di Edmonde avrei trovato un rifugio sicuro. Allora io e Renato abbiamo trovato una valigetta 24 ore e ci abbiamo messo dentro i nostri berretti da marinaio, poi siamo usciti; c’era nebbia e siamo passati davanti alla baracca dove c’era il posto di controllo; il Tedesco, vedendoci in borghese, ci ha scambiati per Francesi e siamo transitati senza problemi. Paolo Muller ci ha lanciato al di là del reticolato la 24 ore e ci siamo incamminati verso la stazione ferroviaria di Colonia che non era molto lontana. Appena arrivati, vado a comprare con i soldi tedeschi che mi aveva dato Renato due biglietti per Francoforte sul Meno. Ci siamo seduti nella sala d’aspetto in attesa del treno, che era in ritardo; dopo un po’ vediamo passare all’esterno quelli col chiodo sull’elmetto, i militari della gendarmeria; ho pensato: non abbiamo documenti, se ci fermano e ce li chiedono siamo fritti; in effetti sono entrati, hanno guardato un po’ intorno e sono usciti dalla porta che dava sui binari; grande sospiro di sollievo da parte nostra. Finalmente arriva il treno e a quel punto mi sono un po’ confuso con il tedesco: ho domandato al capotreno che era sceso se quello era il treno proveniente da Monaco e lui, naturalmente in tedesco e in maniera sgarbata mi risponde: «Non viene, va a Monaco». Ho ringraziato e siamo saliti.

 

Intanto si era messo a nevicare e faceva un freddo terribile. Nella valigetta 24 ore ho messo la giacca e abbiamo tirato fuori i nostri due berretti; Renato rovescia il cappotto e lo tiene sul braccio; in sostanza avevamo indosso solo la nostra divisa, da marinaio io e da sottufficiale Renato. Per essere più pronti a scappare non abbiamo preso posto in uno scompartimento, ma ci siamo seduti su un seggiolino ribaltabile nel corridoio. Viaggiavamo da un’ora e mezzo o due quando vediamo una luce che girava nel corridoio buio; fortunatamente non è arrivata fino a noi. Ho detto: «Questa volta ci è andata bene!». Proseguiamo un’altra oretta, perché ci voleva del tempo per andare da Colonia a Francoforte, quando veniamo illuminati dalla luce che prima non ci aveva inquadrato. Era il controllore, una donna anche abbastanza carina, che ci chiedeva i biglietti; io le ho detto che non capivo (ma avevo capito benissimo), poi le faccio: «Mussolini marine». E lei: «Gut kamerad! (…adesso proseguo in italiano). Non state lì nel corridoio a prender freddo, venite nello scompartimento; vi avviso io quando arriviamo a Francoforte».

 

Siamo entrati in stazione più o meno alle 3 del mattino e faceva sempre più freddo; allora dico a Renato: non possiamo andare avanti così, tu non puoi mettere il cappotto, io non ce l’ho… Nella stazione c’era un Comando di tappa tedesco: un maresciallo con due militari controllavano i soldati che andavano in licenza o rientravano al corpo. Io vado dove sono i civili e il controllore delle Ferrovie che verificava la validità dei biglietti mi urla: «Dall’altra parte i militari». Io, con tono conciliante, rispondo: «È uguale… ». Poi mi rivolgo a Renato: «Muoviti cog###ne! Se ti fanno passare coi militari non hai nessun documento!» Allora passa anche lui e usciamo. Penso: «Adesso, con questo freddo, carichi di fame come siamo cosa facciamo?» Camminiamo attorno alla stazione e vediamo una grande sala d’aspetto piena di militari tedeschi. In un angolo c’era una specie di piccolo bar dove distribuivano una bevanda nera e amara, forse caffè d’orzo, non so cosa diavolo fosse, ma era calda. Ci sediamo ad un tavolo vuoto e dico a Renato: «Senti, io vado a prendere due tazze di quella roba lì. Quello che è, è, ma almeno ci scaldiamo un po’». Siamo lì da una mezz’oretta quando capita dentro la gendarmeria. Gli sussurro: «Svelto, facciamo finta di dormire». Avevamo una fifa tremenda: eravamo due mosche bianche, gli unici Italiani in mezzo a tutti quei militari tedeschi! Ma quelli sono passati senza notarci.

 

Intanto ci eravamo informati a che ora c’era il treno per Metz, perché dovevamo andare verso la Francia. Bisognava aspettare fino alle 8.30-9 della mattina. Eravamo giunti all’ora in cui doveva arrivare il treno che proveniva da Amburgo, ma non si vedeva niente; poi siamo venuti a sapere che aveva più di due ore di ritardo. Noi non ce la facevamo più ad aspettare, allora mi rivolgo a Renato: «Senti, mi è venuta un’idea; ci stai? Adesso passiamo dal Comando di tappa tedesco e domandiamo dov’è la Feldkommandantur». [la Feldkommandantur era il Comando Militare della zona] E lui: «Va bene, tu sai un po’ parlare, io non so niente … quindi non ho alternative». Andiamo direttamente dal maresciallo e gli chiedo: «Per favore, sottufficiale mi sa dire dov’è la Feldkommandantur?» e lui, senza sospettare nulla: «Uscite dalla stazione, prima andate a destra, poi proseguite dritto finché non vedrete scritto, sulla sinistra, Feldkommandantur». Ho ringraziato, salutato e ce ne siamo andati.

 

Fuori dal palazzo del Comando c’era una sentinella alla quale mi sono rivolto; ha suonato un campanello ed è uscito un Sergente. Gli dico: «Non parliamo tedesco». E lui: «Italiani?» «Sì – gli rispondo – cerco un ufficiale che parli l’italiano o il francese». «Sì, sì, c’è un Maggiore che parla bene il francese. Seguitemi». Ci accompagna su dal Maggiore, salutiamo e mi rivolgo a lui in tedesco: «Noi apparteniamo al Gruppo sommergibili di base a Bordeaux». Questo lo sapevo dire perché l’avevo imparato dal Comandante Anfossi. Gli spiego che non parlo fluentemente il tedesco e allora proseguirò in francese: «Noi siamo della Marina Italiana di Mussolini; veniamo dalla Scuola Sommergibilisti di Gotenafen [con il nome di Gotenhafen era stata battezzata la città polacca di Gdynia dopo l’invasione tedesca del 1939. Qui fu istituita una scuola di guerra per i sommergibilisti tedeschi. A partire dal 1941, a fianco dei Tedeschi operò anche la Sezione tattica sommergibili italiani (Marigammasom) dove veniva completato l’addestramento di ufficiali e marinai dei nostri sommergibili destinati a combattere in Atlantico] e il treno è partito con più di due ore di ritardo da Amburgo a causa di un bombardamento inglese sulla città. Mentre cercavamo di metterci in salvo, il sottufficiale – e indico Renato – ha rotto la tasca del cappotto e ha perso i documenti. Signor Maggiore, le chiediamo di farci i documenti per rientrare alla base di Bordeaux dove eravamo diretti e in più se ci fa dare qualcosa da mangiare, perché siamo a digiuno da due giorni». Lui chiama il sottufficiale e gli dice: «Faccia un permesso per questi due camerati italiani che sono di Mussolini e devono andare a Bordeaux; faccia anche un buono per tre giorni di mangiare». Questo compila i documenti, il Maggiore li firma e ci dice di andare al Comando di tappa della stazione dove avremmo potuto prelevare i viveri.

 

Usciamo e andiamo verso la stazione ferroviaria: «Renato – dico – non fermiamoci qui a mangiare, prendiamo i treno e scendiamo a Metz, perché se gli è venuto qualche sospetto vengono a prenderci al Comando di tappa e ci fanno nuovamente prigionieri».

 

Metz era la stazione successiva; scendiamo e andiamo al Comando tappa, dove troviamo un Sergente della Wehrmacht: «Buongiorno Sergente – dico mostrandogli il nostro permesso e il buono dei pasti per tre giorni – non abbiamo fatto in tempo a prelevare i viveri al Comando tappa di Francoforte perché il treno era in partenza, ci può far dare le nostre razioni?». Lui chiama un militare perché vada a prendere il mangiare; poco dopo ritorna con due pagnotte nere e una bianca, accompagnate da un quadrato di una sostanza indefinibile, probabilmente era margarina, ma la fame era così tanta che non abbiamo fatto gli schizzinosi.

 

Risaliamo sullo stesso treno per Parigi e nello scompartimento troviamo dei militari teschi che

andavano in Francia, chi a Parigi, chi altrove perché tutta la Francia era stata occupata. Abbiamo fatto combriccola; loro venivano da casa da dove avevano portato del lardo, del formaggio, del pane di segale e ci hanno invitato a condividere con loro ciò che avevano. Noi potevamo mettere

in comune solo il pane e la margarina, ma era quello che loro mangiavano tutti i giorni e la nostra offerta non ha avuto molto successo. Fatto sta che abbiamo mangiato con loro e ci sembrava di aver fatto un grande pranzo.

 

Alla sera eravamo già a Parigi. Io tiro fuori i soldi francesi e andiamo in un alberghetto nelle vicinanze della stazione; dopo essermi informato quando partiva il primo treno per Bordeaux e

saputo che ci sarebbe stato solo la mattina successiva verso le 8.15, abbiamo preso una stanza. Non ci pareva vero di passare finalmente una notte in un letto e ci siamo buttati a dormire vestiti, tanta era la stanchezza e il sonno arretrato. Ci siamo svegliati la mattina dopo, solo pochi minuti

prima dell’orario di partenza del treno e siamo corsi di volata in stazione senza nemmeno lavarci, fortunatamente eravamo già vestiti! Il treno era in partenza, carico di militari. Un ufficiale ci ferma mentre stiamo salendo dicendoci che quel convoglio è riservato alle truppe tedesche. Allora io gli faccio: «Mussolini Marine, andiamo a Bordeaux…» In sostanza gli dico che noi dobbiamo assolutamente rientrare alla base di Bordeaux e lui: «Ja, ja kamerad, gut, gut, gut».

 

Stavamo viaggiando già da un po’ di tempo quando arriva il controllore francese al quale domando se alla stazione di Bordeaux c’è un Comando tappa della Marina italiana. Lui mi risponde affermativamente assicurandomi che è aperto tutti i giorni; quindi, appena il treno si ferma in stazione, scendiamo e cerchiamo di squagliarcela senza farci notare, perché se quelli del Comando di tappa ci avessero individuato, saremmo finiti nuovamente alla Base. Ma eravamo in divisa, io la giacca borghese l’avevo messa dentro la valigetta e Renato continuava a portare il cappotto rovesciato sul braccio. Il Sergente di servizio al Comando di tappa ci ha notato e fermato, chiedendoci di mostrargli i permessi. Naturalmente noi non avevamo alcun permesso all’infuori di quello tedesco e allora, strizzandogli l’occhio, gli ho detto: «Ma va là, che abbiamo fatto una scappata per venire a trovare due ragazze che conosciamo». E lui di rimando: «Sapete che questo non si può fare; adesso io dovrei denunciarvi». «Dai, non farlo…». A questo punto lui m’interrompe: «Ma io ti conosco. Non eri imbarcato sul MOROSINI?» Evidentemente mi confondeva con un altro, ma prendo la palla al balzo: «Lo vedi che mi conosci?» «Va bè, va bè, per questa volta andate». Siamo usciti dalla stazione e lì io e Renato ci siamo lasciati con un abbraccio; non ho saputo più niente di lui.

 

Come ho già detto in un altro dei miei racconti, sono subito andato a casa di Edmonde, creando una grande sorpresa in tutta la famiglia perché non avevano più avuto mie notizie da quando ci avevano portato via dal campo di Pessac, tre settimane prima. La loro accoglienza fu la stessa che avrebbero riservato ad un figlio.

 

Purtroppo il mio rifugio presso la famiglia di Edmonde fu di breve durata, perché durante un mio spostamento in bicicletta dal locale dove stavo rintanato nella fabbrica di botti di suo padre per andare alla villa di Pessac, venni riconosciuto da due miei ex commilitoni di Betasom che erano passati con i Tedeschi, il Sergente autista Annibale Riva e il 2° Capo Falasca che mi fecero arrestare dai Tedeschi.

 

A proposito del 2° Capo Falasca, mentre ero al Deposito Marina di Venezia appena rientrato in Italia nell’agosto del 1945, per essere sottoposto alla discriminazione [La “discriminazione” era una sorta di interrogatorio cui erano sottoposti gli internati militari italiani reduci dalla Germania per stabilire se dopo l’8 settembre erano passati a collaborare con i Tedeschi. Venivano quindi sbrigate la pratiche amministrative e matricolari dei reduci, penalizzando coloro che venivano identificati come collaborazionisti], l’ho incontrato e lui mi si è avvicinato per chiedermi di ritirare la denuncia che avevo fatto nei suoi confronti per avermi arrestato insieme al Sergente Riva. Per lui sarebbe stato importante, perché, essendo di carriera, con questa mia denuncia che testimoniava la sua collaborazione con i Tedeschi, sarebbe stato congedato. Mi è venuto in mente tutto il male che mi aveva fatto arrestandomi e allora non ci ho visto più: gli ho urlato di andarsene via e di non farsi vedere mai più, perché assieme agli altri marinai rientrati dalla prigionia che avevano assistito a questo nostro alterco, avrei potuto fargli passare un brutto momento.

 

Torniamo al mio nuovo internamento. Arrivato in Germania, sono stato portato in una caserma delle SS nei pressi di Stoccarda, dove ho dovuto difendermi dall’accusa di diffamazione nei confronti dei Tedeschi. Ho detto solamente che ero molto arrabbiato per il trattamento che avevo ricevuto durante la prigionia, ma non li avevo mai diffamati. Per mia fortuna lì ho trovato un Maggiore, una brava persona, che si era quasi commosso a sentirmi raccontare le mie vicende vissute da prigioniero. Comunque, se avessero voluto delle maggiori informazioni sul mio conto, avrebbero potuto rivolgersi al Capitano di Fregata Becker della Kriegsmarine, il quale era stato ufficiale di collegamento tedesco a Betasom e mi aveva conosciuto personalmente quando svolgevo la mia mansione di autista alla Base. Dopo questa mia dichiarazione, l’interrogatorio è terminato e mi hanno portato in un campo di concentramento vicino a Monaco di Baviera, a Ludwigsburg. Lì, lavorando, mi era venuto un ascesso a un dito della mano; mi hanno portato all’ospedale per prigionieri di Hellbrun, dove mi hanno operato senza alcuna anestesia e ho dovuto sopportare un dolore indescrivibile.

 

Poco tempo dopo, sono stato trasferito a Papenburg, vicino a Dortmund in un piccolo campo di concentramento. Lì divento amico di un Olandese che lavorava nella ditta Johan Bunte di Papenburg. Noi internati lavoravamo fuori dal campo, però non ci portavano con i camion perché eravamo sparpagliati in diverse fabbriche. Nel mio caso, mi veniva a prendere questo Olandese che mi portava a lavorare nella stessa ditta dove lavorava lui. C’erano dei camion, dei pullman… ma adesso comincia un’altra storia.

 

 

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