Vai al contenuto

Vita D'accademia


Marpola

Messaggi raccomandati

Riporto qui di seguito il link a una lunga intervista fatta al comandante Salvatore Romano, che fu compagno di Accademia di mio padre Vittorio nel periodo 1941- 1943 (corso “Le Raffiche”).

Trovo interessante questa intervista perché riporta uno spaccato delle giornate vissute nell’Accademia Navale, giornate che dopo settant’anni sono sostanzialmente le stesse. :wink:

 

http://salrom777.blogspot.it/2012/01/intervista-comandante-salvatore-romano.html?view=flipcard

Link al commento
Condividi su altri siti

Oltre alla "vita d'Accademia" che leggerò con gusto ( e con calma) ho notato un altro "segno del destino" che ultimamente mi lancia avvertimenti tramite Betasom!!! :wacko::biggrin:

In questi giorni mi sto occupando un po' più particolareggiatamente della battaglia di Cheren e cosa ti trovo tra le immagini dell'intervista? La battaglia di Cheren in prima pagina (con la morte di Borghesi...)

Modificato da malaparte
Link al commento
Condividi su altri siti

Ho letto con estremo interesse il racconto che il Comandante Salvatore Romano ha fatto con dovizia di particolari delle sue esperienze vissute nel periodo immediatamente precedente l’entrata in guerra dell’Italia e poi, durante il conflitto, la frequenza dell’Accademia Navale, in parte a Livorno, in parte a Venezia e in parte a Brindisi. Quindi, nell’immediato dopoguerra, il lungo e durissimo imbarco sulla corvetta Scimitarra. Uno spaccato di vita vissuta tra le mille difficoltà di un periodo storico che fortunatamente quasi tutti noi conosciamo solo per averne sentito parlare.

 

Mi ha particolarmente colpito la descrizione della sua esperienza di allievo del corso normale dell’Accademia e la sua lettura mi ha fatto tornare indietro di oltre 50 anni nei miei ricordi. Io ho avuto il privilegio di frequentare il corso di allievo ufficiale di complemento nel lontano anno accademico 1961-1962, quando la durata della leva in Marina era ancora di 26 mesi e gli “AUCD” e “AUCL” (rispettivamente allievi ufficiali di complemento diplomati e laureati) facevano una vita del tutto simile agli allievi della 1ᵃ classe. Mi sia consentito parlare della “nostra Accademia”, e non della “mia Accademia” come la definisce il Comandante Romano, perché sono convinto che l’averne fatto parte costituisca per tutti coloro che l’hanno frequentata un motivo d’orgoglio per la scuola di vita che essa ha rappresentato: valori che oggi sono percepiti dalle nuove generazioni in maniera molto più sfumata, quali Patria, onore, lealtà, disciplina, senso di abnegazione. Non a caso il motto “PATRIA E ONORE” campeggia sul frontone della facciata interna che domina il piazzale al quale fa da sfondo il “brigantino”.

 

Ero appena sbarcato dopo oltre un anno di navigazione come allievo ufficiale di coperta dalla Sebastiano Venier della SIDARMA di Venezia (a proposito, qualcuno del Forum vi è mai stato imbarcato? Era la classica carrettaccia che andava “alla busca” pendolando fra Nord/Sud America e Nord Europa. Nella sua vita precedente, con il nome di Illiria, era una petroliera entrata in servizio pochissimo tempo prima della fine della guerra ed era stata impiegata forse in uno o due convogli prima che fosse autoaffondata a Trieste l’8 settembre 1943. Fu recuperata e, dopo alterne vicende, trasformata nel 1955 in nave da carico secco con stiva e corridoio. Senonchè, l’affondamento aveva provocato una lieve deformazione al calcagnolo che nei numerosi lavori di carenaggio non si riuscì mai a riparare, per cui quando si navigava in tratti di mare soggetti a particolari correnti, il timone si bloccava 5° a dritta e per recuperarne la funzionalità occorreva fermare la macchina e perdere l’abbrivio; per questo motivo quando navigavamo nella Manica e nelle quattro volte che passammo lo stretto di Gibilterra la velocità veniva ridotta a 8 nodi (sic!), con i palloni di non governo già inferiti alla sagola pronti per essere issati a riva…). Sommando il periodo di imbarco sulla Sebastiano Venier a quello dei viaggi estivi che avevo fatto da allievo nautico (ossia da studente) avevo maturato i 18 mesi di navigazione necessari per dare l’esame di “patentino” che mi avrebbe abilitato al comando di guardia in plancia. Ma nel frattempo mi era stata inviata la cartolina di precetto, alla quale non avevo risposto perché imbarcato, quindi mi recai subito alla Capitaneria di Porto di Genova dove fui sottoposto alla visita medica e dichiarato abile. Sarei dovuto partire col contingente del gennaio successivo per una delle due scuole CEMM: Taranto o La Spezia. Però l’ufficiale capo della Sezione Leva della Capitaneria mi consigliò di fare domanda per essere ammesso al prossimo corso di allievi ufficiali di complemento il cui bando sarebbe scaduto di lì a pochi giorni. Mi candidai senza troppa convinzione, ben sapendo quanto era difficile essere ammessi all’Accademia.

 

A settembre del 1961 venni convocato a Livorno per la visita medica e, in caso di esito positivo, per i test attitudinali. Quando mi resi conto dell’enorme numero di candidati a fronte di 326 posti disponibili, dei quali solo 122 tra Stato Maggiore e Capitanerie di Porto sarebbero stati alla mia portata in base al mio titolo di studio, mi resi conto che forse stavo perdendo del tempo. Sorprendentemente mi trovai tra coloro che “sopravvissero” alla visita medica e quindi affrontai i test attitudinali durati un paio di giorni. Al termine fummo mandati tutti a casa con l’intesa che, se fossimo stati accettati avremmo ricevuto un telegramma di convocazione.

 

Ebbene, in maniera del tutto inaspettata verso metà ottobre ricevetti il telegramma ed entro pochissimi giorni avrei dovuto presentarmi in Accademia. Così ebbe inizio la mia indimenticabile esperienza di scuola di vita, oltre che professionale.

 

Il Comandante dell’Accademia era allora il contrammiraglio Giuseppe Roselli Lorenzini, il valoroso comandante di sommergibili che operarono sia in Mediterraneo che in Atlantico dalla base di Betasom. Fu Capo di Stato Maggiore della Marina dal 1970 al 1973.

 

fa370872-5f54-4fd2-b6ba-50d591d08292_zps

L’Ammiraglio Roselli Lorenzini alla cerimonia del giuramento degli allievi dell’Accademia Navale il 4 dicembre 1961

 

Ben poco era cambiato da quando 20 anni prima ne aveva varcato la soglia il Comandante Romano. Una delle poche varianti era costituita dalla sveglia che avveniva alle 06.30, ma il tempo per le pratiche mattinali e la piegatura (doveva essere perfetta) di lenzuola, coperte e pigiama che venivano poi racchiusi nel materasso piegato a metà, era lo stesso: mezz’ora e tutto ciò avveniva sotto lo sguardo vigile dell’aspirante della 4ᵃ Classe di turno quel giorno al nostro dormitorio. Il dormitorio, che noi delle Capitanerie di Porto condividevamo con i Commissari, era all’ultimo piano del fabbricato centrale, proprio sotto il torrino dell’orologio. Alle 07.00 tutti di corsa in piazzale per la ginnastica sotto la guida di Capo Gasparini o di Capo Passi e alle 07.30, inquadrati e di corsa, una Sezione dopo l’altra, in sala mensa per la colazione. Correre era una delle regole principali dell’Accademia: tutti gli spostamenti di gruppo dovevano essere effettuati di corsa.

 

Dopo la colazione avevamo mezz’ora di libertà, nella quale dovevamo andare a studio per recuperare nel nostro banchino i libri necessari per seguire le lezioni della giornata, dare un eventuale veloce ripasso, se necessario fermarci da un “rappezzino” e recarci infine nell’aula dove alle 08.30 si sarebbe tenuta la prima ora (anche per noi di 55 minuti) di lezione con relative interrogazioni o compiti in classe. Alle 10, un quarto d’ora di pausa per il “panino” e poi si riprendevano le lezioni fino alle 12.15. La piscina era prevista una volta la settimana, a noi capitava sempre l’ultima ora prima dell’assemblea, alla quale partecipavamo accaldati dalla doccia fatta prima di rivestirci e con i capelli bagnati (ovviamente non era previsto l’asciugacapelli), nel piazzale sferzato dal libeccio o dalla tramontana che d’inverno soffiano quasi permanentemente su Livorno; ma nessuno si ammalava! Proprio la piscina merita un discorso particolare: l’acqua era gelida anche ai miei tempi, ma non lo pareva poi così tanto perché dovevamo restare inquadrati a bordo piscina bagnati per la preventiva doccia fredda, finchè Capo Pucci non ci faceva scendere in acqua quattro alla volta per impartirci lezioni di nuoto e salvamento. Poi c’erano il trampolino di 3 metri e la piattaforma di 5 metri. Venivamo istruiti su come tuffarci di testa senza dare delle pericolose spanciate in acqua: tutto bene finchè i tuffi avvenivano dal trampolino, ma dalla piattaforma le cose si complicavano un po’, perché l’acqua sembrava molto più distante di quanto lo fosse in realtà e alcuni non riuscivano a vincere la paura derivante dal’istinto di conservazione; ma presto le cose cambiarono, quando fu comunicato che chi non se la sentiva di tuffarsi, così come chi non riusciva a fare il percorso di agilità a stadio entro il tempo previsto, non sarebbe andato in licenza per Natale.

 

Dopo il termine delle lezioni avevamo un quarto d’ora per riportare libri e quaderni nei nostri banchini dell’aula di studio e poi schierarci con la 1ᵃ e la 2ᵃ classe per l’assemblea nel piazzale presieduta dal Comandante in 3ᵃ C.V. Carlo Ernesto Balbo Bertone di Sambuy per la lettura dei “compensi e dei castighi”. Un vezzo dell’arcigno Comandante Sambuy era di proclamare “LETTURA DEI CASTIGHI”, omettendo volutamente la parola “compensi” dei quali veniva data comunque lettura.

 

Terminata l’assemblea, una Sezione alla volta lasciava il piazzale di corsa per salire (correndo anche sulle scale) alla mensa, dove ciascuno aspettava in piedi dietro alla propria sedia che tutti fossero entrati e venisse dato l’ordine di sedersi. Anche lo svolgimento dei pasti aveva un suo rituale: un aspirante della terza classe assegnato ad ogni Sezione che raggruppava circa 20 allievi suddivisi per Corpo di appartenenza, ci insegnava il bon ton che un ufficiale di marina doveva tenere a tavola, a partire dalla posizione in cui lasciare le posate sul piatto, fino a come sbucciare la frutta con forchetta e coltello: particolarmente difficoltose le arance che minacciavano di schizzare da un momento all’altro fuori dal piatto … e allora sarebbero stati giri di corsa del piazzale nel primo mese del corso, o giri di barra in quelli successivi.

 

Vale la pena di soffermarsi un momento sulle punizioni più comuni che erano i giri di corsa o i giri di barra, che venivano comminati dopo che ci eravamo impratichiti grazie alle ripetute esercitazioni sul brigantino. Bastava un nonnulla per “beccarsi” cinque giri. Il momento più critico era al pomeriggio, dopo le attività sportive e la merenda, quando tutti gli allievi di complemento si trovavano riuniti a studio. Eravamo quasi a fine giornata e la stanchezza cominciava a farsi sentire, tanto più che dopo pranzo, fatta una breve ricreazione, andavamo a stadio per l’attività sportiva, tra cui il famigerato percorso di agilità controllato, cronometro alla mano, dall’inflessibile Capo Passi. L’atmosfera ovattata dello studio, dove non si sentiva volare una mosca, complice l’aria viziata dal respiro di 300 persone, dopo qualche tempo induceva fatalmente ad addormentarsi sia pure per brevi momenti, perché il subconscio ordinava al cervello che dovevamo restare svegli. Era molto probabile che in uno di questi momenti di “abbiocco” ci si sentisse battere con due dita sulla spalla: aperti gli occhi, la figura di uno degli aspiranti della 4ᵃ classe addetti alla sorveglianza incombeva sul malcapitato di turno; un sorriso beffardo era stampato sul suo viso e la mano aperta a ventaglio significava alzarsi e andarsi a fare cinque giri di barra. L’aria fredda del piazzale e il vento che soffiava tra le sartie man mano che ci si arrampicava avevano già provveduto al totale risveglio … e meno male, perché in prossimità della coffa o della barra le sartie si restringevano come il vertice di un triangolo e allora non c’era più spazio per far appoggiare entrambe le scarpe sulle griselle all’interno delle sartie. Proprio per questo le ultime griselle sporgevano all’esterno del lato sinistro della sartia per una decina di centimetri in modo da consentire l’appoggio alla scarpa sinistra; ma non bastava ancora, perché le infinite salite e discese da parte degli allievi l’avevano parzialmente consumata conferendole una forma inclinata verso l’esterno, sdrucciolevole a contatto con la suola di cuoio delle scarpe, in particolare quando pioveva. Naturalmente era vietatissimo passare dal “buco del gatto”, ma bisognava arrampicarsi praticamente a forza di braccia su una specie di rete (di cui non ricordo il nome) posta tra il bordo esterno della coffa o della barra e la parte terminale della sartia. Giunti sulla barra arrampicandosi dal lato sinistro dell’albero di trinchetto, si scendeva dal lato di dritta e così via per cinque volte. Ritornati a studio, ci si presentava all’aspirante pronunciando la frase “punizione eseguita”.

 

Una delle punizioni “storiche” del mio corso fu data alla compagnia del complemento, della quale io facevo parte, che avrebbe dovuto sfilare a Firenze in occasione della festa del 2 giugno 1962. Al comando di uno dei tre ufficiali sottordine al complemento, il famigerato Signor Fantin (capitano del Genio Navale) marciavamo tutte le mattine per le vie dell’Ardenza preceduti dalla fanfara dell’Accademia per allenarci alla fatidica sfilata. Pochi giorni dopo l’inizio di questa prassi, uscì sul Telegrafo – il giornale di Livorno – un articolo di fuoco contro questa nuova iniziativa dell’Accademia che provocava il risveglio anticipato di molti Livornesi con le note dell’inno della Marina Militare. A partire dal giorno successivo la banda fu sostituita dalla grancassa che serviva a dare il tempo. Una mattina, secondo il Signor Fantin che marciava in testa alla compagnia con tanto di sciabola, la risposta al comando di “attenti a…” e di “cadenza” non era battuta all’unisono da noi allievi, risultando al suo orecchio un po’strascicata. Allora ci comminò seduta astante 10 giri di corsa del piazzale da farsi al rientro in Accademia subito dopo la colazione. Le lezioni in aula erano ormai terminate e trascorrevamo normalmente la mattinata e il tardo pomeriggio a studio per ripassare le materie d’esame. E infatti dopo colazione, tutta la compagnia cominciò a correre perfettamente inquadrata e mantenendo il passo lungo il perimetro del piazzale. Eravamo quasi tutti giovanissimi e animati da spirito goliardico, che sarebbe poi esploso in occasione della festa del Mac π 100. Fui io a lanciare l’idea, dopo pochi giri, di sfottere in qualche modo il Signor Fantin che ci osservava imperturbabile al centro del piazzale, ossia di compiere un giro a velocità sostenuta e quello successivo molto più lentamente strascinando i piedi allo scopo di creare un insopportabile rumore di fondo che rimbombava per tutto il piazzale. L’idea fu immediatamente condivisa dalla maggioranza e iniziammo la nostra protesta. Il Signor Fantin dopo pochi istanti si rese conto dello sfottò che avevamo messo in atto e, rosso dalla collera, ci urlò che avremmo corso a tempo indeterminato. La nostra preparazione atletica, eravamo ormai al termine del corso, aveva raggiunto un livello invidiabile e non ci mancava sicuramente il fiato. Andammo avanti così fino alle 11, saltando anche il “panino”, finchè il nostro Cerbero ci ordinò di fermarci. A questo punto, il capocorso uscì dalle righe e, correndo, si presentò davanti al Signor Fantin; dopo un impeccabile saluto, rimanendo sull’attenti, chiese che fosse concesso a tutta la compagnia di fare una doccia straordinaria. «Permesso accordato» fu la risposta dell’ufficiale.

 

Ho voluto raccontare questo episodio a conferma del fatto che in Accademia esisteva una disciplina ferrea, un po’ stile Cajenna come afferma il Comandante Romano, ma anche un grande rispetto delle persone, una tradizione della Marina, come ho sempre constatato nella mia breve carriera di ufficiale.

 

Anche ai miei tempi in Accademia non giravano soldi. Eventuali consumazioni al bar venivano pagate con blocchetti di buoni rilasciati dal Capo Borsellinaio e dallo stesso addebitati sul conto dell’allievo. Ad ogni franchigia veniva distribuito il borsellino contenente 1.000 lire e, al rientro, doveva essere riconsegnato con il denaro restante. Ogni sabato ciascun allievo riceveva un estratto conto della sua “situazione finanziaria” che doveva essere restituito firmato. Le famiglie avevano il compito di alimentare il conto. Poiché le franchigie, limitate al giovedì e alla domenica salvo eventuali punizioni o insufficienze riportate in interrogazioni o compiti in classe, prevedevano la possibilità di rientrare dopo cena in tempo per l’assemblea serale prima di salire nei dormitori, era chiaro che le 1.000 lire non erano sufficienti per pagare la cena in ristorante (che doveva essere “decoroso”), il biglietto d’ingresso in uno dei cinema di via Grande, la strada principale di Livorno dove si svolgeva svolgeva lo “struscio” e il biglietto del filobus di andata e ritorno. Allora i miei genitori, come del resto quelli di molti altri allievi, lasciavano nel ristorante che avevo scelto un fondo prepagato dal quale veniva scalato l’importo dei pasti consumati. Non ricordo quale fosse il nome del ristorante, ma lo frequentai per tutto il periodo dell’Accademia insieme al mio grande amico Roberto Serra col quale ero stato compagno di banco nell’ultimo anno di frequenza dell’Istituto Nautico di Genova. Una sera in quel ristorante incontrai il Comandante Loppel, che era stato il mio primo comandante sulla Sebastiano Venier, prima che fosse sotituito dal Comandante Spina. Era un Lussiniano dai modi spicci, che dopo le prime tre parole pronunciate in italiano proseguiva il discorso nel suo dialetto, molto simile al triestino; quando mi vide abbozzò un sorriso (fatto rarissimo per lui) e mi disse: «Ostia, Brandinali, i te ga ciolto in Academia! Bon, non star far monade perché ti ga de dar el patentino. Sentite e mangia, adesso». Questa fu il massimo dell’espansività di cui fu capace il Comandante Loppel.

 

Arrivarono gli esami di fine corso, superando i quali saremmo finalmente stati nominati Aspiranti. L’unica materia che rappresentava per me un problema era la Storia Navale, insegnata dal Comandante Francardi. Si trattava in sostanza di un dettagliato resoconto delle singole battaglie sostenute dalla nostra Marina durante la 2ᵃ Guerra Mondiale. La materia mi era particolarmente ostica perché, per ogni battaglia, bisognava ricordare il nome delle navi che vi parteciparono, le modalità con cui erano venute in contatto col nemico, quali erano le navi nemiche ingaggiate, i vari cambiamenti di rotta nel corso della battaglia, il giorno e l’ora in cui era iniziato lo scontro, i danni riportati da entrambe le formazioni, particolari atti di eroismo da parte dei comandanti e degli equipaggi. Di tutto questo nella mia testa avevo una marmellata incredibile, confondendo battaglie, date, navi partecipanti e quant’altro. Durante l’anno me l’ero cavata nelle interrogazioni scritte che faceva il Comandante Francardi, scopiazzando qua e là, ma ora eravamo arrivati al “redde rationem” e pensavo che il mio sogno di diventare ufficiale che avevo coltivato in otto mesi di duro lavoro si sarebbe infranto qui. Venne finalmente il giorno dell’esame: entrai in aula con malcelata sicurezza pronto ad essere fatto fuori; gli esaminatori mi accolsero con cordialità e mi invitarono ad accomodarmi sulla sedia posta di fronte alla cattedra, poi quello seduto al centro mi chiese quali furono gli avvenimenti che posero fine alla 2ᵃ Guerra Mondiale. Credo che nei miei occhi sia apparso un lampo di gioia: durante la licenza di Pasqua avevo letto un “libro condensato” su Selezione dal Reader’s Digest, periodico al quale mio padre era abbonato, che trattava proprio questo argomento e capii che raccontandone il contenuto tenendo la parola per quanto più tempo fosse stato possibile mi avrebbe permesso di salvarmi. Trascorsero così circa 15 minuti, il tempo in cui normalmente si svolgeva l’interrogazione. L’ufficiale che mi aveva posto la domanda mi chiese dove avevo approfondito l’argomento, che avevo trattato in modo molto più ampio di quanto fosse riportato sul testo di Storia Navale in dotazione agli allievi ed io con prontezza (e una buona dose di faccia tosta) gli risposi che gli aspetti storici che avevano caratterizzato la 2ᵃ Guerra Mondiale mi avevano appassionato e proprio sfogliando i libri nella Sala di Lettura dell’Accademia avevo potuto ampliare le mie conoscenze. Il risultato fu un 20 e lode, che contribuì a farmi terminare gli esami classificandomi al secondo posto nella sezione delle Capitanerie di Porto e dandomi la possibilità di scegliere la destinazione fra quelle disponibili. Poiché il primo classificato, anche lui di Genova, avrebbe scelto Imperia (l’unica in Liguria) io scelsi la seconda più “vicina” che era Rimini.

02_Aspiranti%20CP_zpsj2gojsfm.jpg

I neo aspiranti delle Capitanerie di Porto pronti a lasciare l’Accademia

Trascorse a casa le due settimane di licenza di fine corso, mi presentai alla Capitaneria di Rimini dove fui assegnato come sott’ordine all’Ufficiale in 2ᵃ, il quale mi inserì subito nelle sezioni Tecnica, Gente di Mare e Armamento e Spedizioni che lui seguiva interinalmente. L’addestramento fu molto rapido e presto mi lasciò ampia autonomia.

 

A fine luglio fu assegnata a Rimini la motovedetta CP 216, una delle prime in dotazione alle Capitanerie di Porto: si stavano gettando le basi della futura Guardia Costiera.

03_CP%20216_zps9mg9vwnj.jpg

La motovedetta CP216 – La mitragliera è stata aggiunta in epoca successiva

Il comandante della Capitaneria me ne assegnò il comando e, pur continuando il mio lavoro nelle Sezioni di cui ero informalmente responsabile, uscivo quasi ogni giorno per vigilanza ai natanti durante la stagione estiva e anche di notte – tutto l’anno – per vigilanza pesca lungo tutto il litorale di competenza della Capitaneria di Porto di Rimini che andava da Cesenatico a Gabicce Mare. Non essendo la motovedetta dotata di radar, d’inverno in presenza di nebbia la navigazione era piuttosto problematica: gli unici punti di riferimento erano i nautofoni disposti nei vari porti e ogni ora dovevo dare la mia posizione alla Capitaneria via radiotelefono. L’ingresso nel porto di Rimini con mare agitato era abbastanza avventuroso, perché dovevo entrare nel porto-canale a tutta forza cavalcando l’onda di risacca per evitare di traversarmi; poi giunto alla radice del molo di ponente riducevo la velocità al minimo sufficiente per governare e quindi attraccare alla banchina antistante la Capitaneria.

 

In definitiva il periodo dell’Accademia e quello del mio servizio a Rimini sono stati tra i più belli e formativi della mia vita. Mi piacerebbe che qualche socio del Forum si riconoscesse in qualcuno dei fatti che ho raccontato e mi contattasse per unire i nostri ricordi.

Link al commento
Condividi su altri siti

:smiley19::smiley19::smiley19: 30 anni fa anch' io ero a Rimini! Nella sez. "Parola di marinaio" ho raccontato un paio di episodi: "LA LANA DEI PIOPPI" e "CAPO "CATALESSI" ED I PORTACHIAVI SONORI"

 

Vorrei che anche tu in questa sezione raccontassi qualcosa di COMPAMARE RIMINI!

Link al commento
Condividi su altri siti

Ho letto con estremo interesse il racconto che il Comandante Salvatore Romano ha fatto con dovizia di particolari delle sue esperienze vissute nel periodo immediatamente precedente l’entrata in guerra dell’Italia e poi, durante il conflitto, la frequenza dell’Accademia Navale, in parte a Livorno, in parte a Venezia e in parte a Brindisi. Quindi, nell’immediato dopoguerra, il lungo e durissimo imbarco sulla corvetta Scimitarra. Uno spaccato di vita vissuta tra le mille difficoltà di un periodo storico che fortunatamente quasi tutti noi conosciamo solo per averne sentito parlare.

 

Mi ha particolarmente colpito la descrizione della sua esperienza di allievo del corso normale dell’Accademia e la sua lettura mi ha fatto tornare indietro di oltre 50 anni nei miei ricordi. Io ho avuto il privilegio di frequentare il corso di allievo ufficiale di complemento nel lontano anno accademico 1961-1962, quando la durata della leva in Marina era ancora di 26 mesi e gli “AUCD” e “AUCL” (rispettivamente allievi ufficiali di complemento diplomati e laureati) facevano una vita del tutto simile agli allievi della 1ᵃ classe. Mi sia consentito parlare della “nostra Accademia”, e non della “mia Accademia” come la definisce il Comandante Romano, perché sono convinto che l’averne fatto parte costituisca per tutti coloro che l’hanno frequentata un motivo d’orgoglio per la scuola di vita che essa ha rappresentato: valori che oggi sono percepiti dalle nuove generazioni in maniera molto più sfumata, quali Patria, onore, lealtà, disciplina, senso di abnegazione. Non a caso il motto “PATRIA E ONORE” campeggia sul frontone della facciata interna che domina il piazzale al quale fa da sfondo il “brigantino”.

 

Ero appena sbarcato dopo oltre un anno di navigazione come allievo ufficiale di coperta dalla Sebastiano Venier della SIDARMA di Venezia (a proposito, qualcuno del Forum vi è mai stato imbarcato? Era la classica carrettaccia che andava “alla busca” pendolando fra Nord/Sud America e Nord Europa. Nella sua vita precedente, con il nome di Illiria, era una petroliera entrata in servizio pochissimo tempo prima della fine della guerra ed era stata impiegata forse in uno o due convogli prima che fosse autoaffondata a Trieste l’8 settembre 1943. Fu recuperata e, dopo alterne vicende, trasformata nel 1955 in nave da carico secco con stiva e corridoio. Senonchè, l’affondamento aveva provocato una lieve deformazione al calcagnolo che nei numerosi lavori di carenaggio non si riuscì mai a riparare, per cui quando si navigava in tratti di mare soggetti a particolari correnti, il timone si bloccava 5° a dritta e per recuperarne la funzionalità occorreva fermare la macchina e perdere l’abbrivio; per questo motivo quando navigavamo nella Manica e nelle quattro volte che passammo lo stretto di Gibilterra la velocità veniva ridotta a 8 nodi (sic!), con i palloni di non governo già inferiti alla sagola pronti per essere issati a riva…). Sommando il periodo di imbarco sulla Sebastiano Venier a quello dei viaggi estivi che avevo fatto da allievo nautico (ossia da studente) avevo maturato i 18 mesi di navigazione necessari per dare l’esame di “patentino” che mi avrebbe abilitato al comando di guardia in plancia. Ma nel frattempo mi era stata inviata la cartolina di precetto, alla quale non avevo risposto perché imbarcato, quindi mi recai subito alla Capitaneria di Porto di Genova dove fui sottoposto alla visita medica e dichiarato abile. Sarei dovuto partire col contingente del gennaio successivo per una delle due scuole CEMM: Taranto o La Spezia. Però l’ufficiale capo della Sezione Leva della Capitaneria mi consigliò di fare domanda per essere ammesso al prossimo corso di allievi ufficiali di complemento il cui bando sarebbe scaduto di lì a pochi giorni. Mi candidai senza troppa convinzione, ben sapendo quanto era difficile essere ammessi all’Accademia.

 

A settembre del 1961 venni convocato a Livorno per la visita medica e, in caso di esito positivo, per i test attitudinali. Quando mi resi conto dell’enorme numero di candidati a fronte di 326 posti disponibili, dei quali solo 122 tra Stato Maggiore e Capitanerie di Porto sarebbero stati alla mia portata in base al mio titolo di studio, mi resi conto che forse stavo perdendo del tempo. Sorprendentemente mi trovai tra coloro che “sopravvissero” alla visita medica e quindi affrontai i test attitudinali durati un paio di giorni. Al termine fummo mandati tutti a casa con l’intesa che, se fossimo stati accettati avremmo ricevuto un telegramma di convocazione.

 

Ebbene, in maniera del tutto inaspettata verso metà ottobre ricevetti il telegramma ed entro pochissimi giorni avrei dovuto presentarmi in Accademia. Così ebbe inizio la mia indimenticabile esperienza di scuola di vita, oltre che professionale.

 

Il Comandante dell’Accademia era allora il contrammiraglio Giuseppe Roselli Lorenzini, il valoroso comandante di sommergibili che operarono sia in Mediterraneo che in Atlantico dalla base di Betasom. Fu Capo di Stato Maggiore della Marina dal 1970 al 1973.

 

fa370872-5f54-4fd2-b6ba-50d591d08292_zps

L’Ammiraglio Roselli Lorenzini alla cerimonia del giuramento degli allievi dell’Accademia Navale il 4 dicembre 1961

 

Ben poco era cambiato da quando 20 anni prima ne aveva varcato la soglia il Comandante Romano. Una delle poche varianti era costituita dalla sveglia che avveniva alle 06.30, ma il tempo per le pratiche mattinali e la piegatura (doveva essere perfetta) di lenzuola, coperte e pigiama che venivano poi racchiusi nel materasso piegato a metà, era lo stesso: mezz’ora e tutto ciò avveniva sotto lo sguardo vigile dell’aspirante della 4ᵃ Classe di turno quel giorno al nostro dormitorio. Il dormitorio, che noi delle Capitanerie di Porto condividevamo con i Commissari, era all’ultimo piano del fabbricato centrale, proprio sotto il torrino dell’orologio. Alle 07.00 tutti di corsa in piazzale per la ginnastica sotto la guida di Capo Gasparini o di Capo Passi e alle 07.30, inquadrati e di corsa, una Sezione dopo l’altra, in sala mensa per la colazione. Correre era una delle regole principali dell’Accademia: tutti gli spostamenti di gruppo dovevano essere effettuati di corsa.

 

Dopo la colazione avevamo mezz’ora di libertà, nella quale dovevamo andare a studio per recuperare nel nostro banchino i libri necessari per seguire le lezioni della giornata, dare un eventuale veloce ripasso, se necessario fermarci da un “rappezzino” e recarci infine nell’aula dove alle 08.30 si sarebbe tenuta la prima ora (anche per noi di 55 minuti) di lezione con relative interrogazioni o compiti in classe. Alle 10, un quarto d’ora di pausa per il “panino” e poi si riprendevano le lezioni fino alle 12.15. La piscina era prevista una volta la settimana, a noi capitava sempre l’ultima ora prima dell’assemblea, alla quale partecipavamo accaldati dalla doccia fatta prima di rivestirci e con i capelli bagnati (ovviamente non era previsto l’asciugacapelli), nel piazzale sferzato dal libeccio o dalla tramontana che d’inverno soffiano quasi permanentemente su Livorno; ma nessuno si ammalava! Proprio la piscina merita un discorso particolare: l’acqua era gelida anche ai miei tempi, ma non lo pareva poi così tanto perché dovevamo restare inquadrati a bordo piscina bagnati per la preventiva doccia fredda, finchè Capo Pucci non ci faceva scendere in acqua quattro alla volta per impartirci lezioni di nuoto e salvamento. Poi c’erano il trampolino di 3 metri e la piattaforma di 5 metri. Venivamo istruiti su come tuffarci di testa senza dare delle pericolose spanciate in acqua: tutto bene finchè i tuffi avvenivano dal trampolino, ma dalla piattaforma le cose si complicavano un po’, perché l’acqua sembrava molto più distante di quanto lo fosse in realtà e alcuni non riuscivano a vincere la paura derivante dal’istinto di conservazione; ma presto le cose cambiarono, quando fu comunicato che chi non se la sentiva di tuffarsi, così come chi non riusciva a fare il percorso di agilità a stadio entro il tempo previsto, non sarebbe andato in licenza per Natale.

 

Dopo il termine delle lezioni avevamo un quarto d’ora per riportare libri e quaderni nei nostri banchini dell’aula di studio e poi schierarci con la 1ᵃ e la 2ᵃ classe per l’assemblea nel piazzale presieduta dal Comandante in 3ᵃ C.V. Carlo Ernesto Balbo Bertone di Sambuy per la lettura dei “compensi e dei castighi”. Un vezzo dell’arcigno Comandante Sambuy era di proclamare “LETTURA DEI CASTIGHI”, omettendo volutamente la parola “compensi” dei quali veniva data comunque lettura.

 

Terminata l’assemblea, una Sezione alla volta lasciava il piazzale di corsa per salire (correndo anche sulle scale) alla mensa, dove ciascuno aspettava in piedi dietro alla propria sedia che tutti fossero entrati e venisse dato l’ordine di sedersi. Anche lo svolgimento dei pasti aveva un suo rituale: un aspirante della terza classe assegnato ad ogni Sezione che raggruppava circa 20 allievi suddivisi per Corpo di appartenenza, ci insegnava il bon ton che un ufficiale di marina doveva tenere a tavola, a partire dalla posizione in cui lasciare le posate sul piatto, fino a come sbucciare la frutta con forchetta e coltello: particolarmente difficoltose le arance che minacciavano di schizzare da un momento all’altro fuori dal piatto … e allora sarebbero stati giri di corsa del piazzale nel primo mese del corso, o giri di barra in quelli successivi.

 

Vale la pena di soffermarsi un momento sulle punizioni più comuni che erano i giri di corsa o i giri di barra, che venivano comminati dopo che ci eravamo impratichiti grazie alle ripetute esercitazioni sul brigantino. Bastava un nonnulla per “beccarsi” cinque giri. Il momento più critico era al pomeriggio, dopo le attività sportive e la merenda, quando tutti gli allievi di complemento si trovavano riuniti a studio. Eravamo quasi a fine giornata e la stanchezza cominciava a farsi sentire, tanto più che dopo pranzo, fatta una breve ricreazione, andavamo a stadio per l’attività sportiva, tra cui il famigerato percorso di agilità controllato, cronometro alla mano, dall’inflessibile Capo Passi. L’atmosfera ovattata dello studio, dove non si sentiva volare una mosca, complice l’aria viziata dal respiro di 300 persone, dopo qualche tempo induceva fatalmente ad addormentarsi sia pure per brevi momenti, perché il subconscio ordinava al cervello che dovevamo restare svegli. Era molto probabile che in uno di questi momenti di “abbiocco” ci si sentisse battere con due dita sulla spalla: aperti gli occhi, la figura di uno degli aspiranti della 4ᵃ classe addetti alla sorveglianza incombeva sul malcapitato di turno; un sorriso beffardo era stampato sul suo viso e la mano aperta a ventaglio significava alzarsi e andarsi a fare cinque giri di barra. L’aria fredda del piazzale e il vento che soffiava tra le sartie man mano che ci si arrampicava avevano già provveduto al totale risveglio … e meno male, perché in prossimità della coffa o della barra le sartie si restringevano come il vertice di un triangolo e allora non c’era più spazio per far appoggiare entrambe le scarpe sulle griselle all’interno delle sartie. Proprio per questo le ultime griselle sporgevano all’esterno del lato sinistro della sartia per una decina di centimetri in modo da consentire l’appoggio alla scarpa sinistra; ma non bastava ancora, perché le infinite salite e discese da parte degli allievi l’avevano parzialmente consumata conferendole una forma inclinata verso l’esterno, sdrucciolevole a contatto con la suola di cuoio delle scarpe, in particolare quando pioveva. Naturalmente era vietatissimo passare dal “buco del gatto”, ma bisognava arrampicarsi praticamente a forza di braccia su una specie di rete (di cui non ricordo il nome) posta tra il bordo esterno della coffa o della barra e la parte terminale della sartia. Giunti sulla barra arrampicandosi dal lato sinistro dell’albero di trinchetto, si scendeva dal lato di dritta e così via per cinque volte. Ritornati a studio, ci si presentava all’aspirante pronunciando la frase “punizione eseguita”.

 

Una delle punizioni “storiche” del mio corso fu data alla compagnia del complemento, della quale io facevo parte, che avrebbe dovuto sfilare a Firenze in occasione della festa del 2 giugno 1962. Al comando di uno dei tre ufficiali sottordine al complemento, il famigerato Signor Fantin (capitano del Genio Navale) marciavamo tutte le mattine per le vie dell’Ardenza preceduti dalla fanfara dell’Accademia per allenarci alla fatidica sfilata. Pochi giorni dopo l’inizio di questa prassi, uscì sul Telegrafo – il giornale di Livorno – un articolo di fuoco contro questa nuova iniziativa dell’Accademia che provocava il risveglio anticipato di molti Livornesi con le note dell’inno della Marina Militare. A partire dal giorno successivo la banda fu sostituita dalla grancassa che serviva a dare il tempo. Una mattina, secondo il Signor Fantin che marciava in testa alla compagnia con tanto di sciabola, la risposta al comando di “attenti a…” e di “cadenza” non era battuta all’unisono da noi allievi, risultando al suo orecchio un po’strascicata. Allora ci comminò seduta astante 10 giri di corsa del piazzale da farsi al rientro in Accademia subito dopo la colazione. Le lezioni in aula erano ormai terminate e trascorrevamo normalmente la mattinata e il tardo pomeriggio a studio per ripassare le materie d’esame. E infatti dopo colazione, tutta la compagnia cominciò a correre perfettamente inquadrata e mantenendo il passo lungo il perimetro del piazzale. Eravamo quasi tutti giovanissimi e animati da spirito goliardico, che sarebbe poi esploso in occasione della festa del Mac π 100. Fui io a lanciare l’idea, dopo pochi giri, di sfottere in qualche modo il Signor Fantin che ci osservava imperturbabile al centro del piazzale, ossia di compiere un giro a velocità sostenuta e quello successivo molto più lentamente strascinando i piedi allo scopo di creare un insopportabile rumore di fondo che rimbombava per tutto il piazzale. L’idea fu immediatamente condivisa dalla maggioranza e iniziammo la nostra protesta. Il Signor Fantin dopo pochi istanti si rese conto dello sfottò che avevamo messo in atto e, rosso dalla collera, ci urlò che avremmo corso a tempo indeterminato. La nostra preparazione atletica, eravamo ormai al termine del corso, aveva raggiunto un livello invidiabile e non ci mancava sicuramente il fiato. Andammo avanti così fino alle 11, saltando anche il “panino”, finchè il nostro Cerbero ci ordinò di fermarci. A questo punto, il capocorso uscì dalle righe e, correndo, si presentò davanti al Signor Fantin; dopo un impeccabile saluto, rimanendo sull’attenti, chiese che fosse concesso a tutta la compagnia di fare una doccia straordinaria. «Permesso accordato» fu la risposta dell’ufficiale.

 

Ho voluto raccontare questo episodio a conferma del fatto che in Accademia esisteva una disciplina ferrea, un po’ stile Cajenna come afferma il Comandante Romano, ma anche un grande rispetto delle persone, una tradizione della Marina, come ho sempre constatato nella mia breve carriera di ufficiale.

 

Anche ai miei tempi in Accademia non giravano soldi. Eventuali consumazioni al bar venivano pagate con blocchetti di buoni rilasciati dal Capo Borsellinaio e dallo stesso addebitati sul conto dell’allievo. Ad ogni franchigia veniva distribuito il borsellino contenente 1.000 lire e, al rientro, doveva essere riconsegnato con il denaro restante. Ogni sabato ciascun allievo riceveva un estratto conto della sua “situazione finanziaria” che doveva essere restituito firmato. Le famiglie avevano il compito di alimentare il conto. Poiché le franchigie, limitate al giovedì e alla domenica salvo eventuali punizioni o insufficienze riportate in interrogazioni o compiti in classe, prevedevano la possibilità di rientrare dopo cena in tempo per l’assemblea serale prima di salire nei dormitori, era chiaro che le 1.000 lire non erano sufficienti per pagare la cena in ristorante (che doveva essere “decoroso”), il biglietto d’ingresso in uno dei cinema di via Grande, la strada principale di Livorno dove si svolgeva svolgeva lo “struscio” e il biglietto del filobus di andata e ritorno. Allora i miei genitori, come del resto quelli di molti altri allievi, lasciavano nel ristorante che avevo scelto un fondo prepagato dal quale veniva scalato l’importo dei pasti consumati. Non ricordo quale fosse il nome del ristorante, ma lo frequentai per tutto il periodo dell’Accademia insieme al mio grande amico Roberto Serra col quale ero stato compagno di banco nell’ultimo anno di frequenza dell’Istituto Nautico di Genova. Una sera in quel ristorante incontrai il Comandante Loppel, che era stato il mio primo comandante sulla Sebastiano Venier, prima che fosse sotituito dal Comandante Spina. Era un Lussiniano dai modi spicci, che dopo le prime tre parole pronunciate in italiano proseguiva il discorso nel suo dialetto, molto simile al triestino; quando mi vide abbozzò un sorriso (fatto rarissimo per lui) e mi disse: «Ostia, Brandinali, i te ga ciolto in Academia! Bon, non star far monade perché ti ga de dar el patentino. Sentite e mangia, adesso». Questa fu il massimo dell’espansività di cui fu capace il Comandante Loppel.

 

Arrivarono gli esami di fine corso, superando i quali saremmo finalmente stati nominati Aspiranti. L’unica materia che rappresentava per me un problema era la Storia Navale, insegnata dal Comandante Francardi. Si trattava in sostanza di un dettagliato resoconto delle singole battaglie sostenute dalla nostra Marina durante la 2ᵃ Guerra Mondiale. La materia mi era particolarmente ostica perché, per ogni battaglia, bisognava ricordare il nome delle navi che vi parteciparono, le modalità con cui erano venute in contatto col nemico, quali erano le navi nemiche ingaggiate, i vari cambiamenti di rotta nel corso della battaglia, il giorno e l’ora in cui era iniziato lo scontro, i danni riportati da entrambe le formazioni, particolari atti di eroismo da parte dei comandanti e degli equipaggi. Di tutto questo nella mia testa avevo una marmellata incredibile, confondendo battaglie, date, navi partecipanti e quant’altro. Durante l’anno me l’ero cavata nelle interrogazioni scritte che faceva il Comandante Francardi, scopiazzando qua e là, ma ora eravamo arrivati al “redde rationem” e pensavo che il mio sogno di diventare ufficiale che avevo coltivato in otto mesi di duro lavoro si sarebbe infranto qui. Venne finalmente il giorno dell’esame: entrai in aula con malcelata sicurezza pronto ad essere fatto fuori; gli esaminatori mi accolsero con cordialità e mi invitarono ad accomodarmi sulla sedia posta di fronte alla cattedra, poi quello seduto al centro mi chiese quali furono gli avvenimenti che posero fine alla 2ᵃ Guerra Mondiale. Credo che nei miei occhi sia apparso un lampo di gioia: durante la licenza di Pasqua avevo letto un “libro condensato” su Selezione dal Reader’s Digest, periodico al quale mio padre era abbonato, che trattava proprio questo argomento e capii che raccontandone il contenuto tenendo la parola per quanto più tempo fosse stato possibile mi avrebbe permesso di salvarmi. Trascorsero così circa 15 minuti, il tempo in cui normalmente si svolgeva l’interrogazione. L’ufficiale che mi aveva posto la domanda mi chiese dove avevo approfondito l’argomento, che avevo trattato in modo molto più ampio di quanto fosse riportato sul testo di Storia Navale in dotazione agli allievi ed io con prontezza (e una buona dose di faccia tosta) gli risposi che gli aspetti storici che avevano caratterizzato la 2ᵃ Guerra Mondiale mi avevano appassionato e proprio sfogliando i libri nella Sala di Lettura dell’Accademia avevo potuto ampliare le mie conoscenze. Il risultato fu un 20 e lode, che contribuì a farmi terminare gli esami classificandomi al secondo posto nella sezione delle Capitanerie di Porto e dandomi la possibilità di scegliere la destinazione fra quelle disponibili. Poiché il primo classificato, anche lui di Genova, avrebbe scelto Imperia (l’unica in Liguria) io scelsi la seconda più “vicina” che era Rimini.

02_Aspiranti%20CP_zpsj2gojsfm.jpg

I neo aspiranti delle Capitanerie di Porto pronti a lasciare l’Accademia

Trascorse a casa le due settimane di licenza di fine corso, mi presentai alla Capitaneria di Rimini dove fui assegnato come sott’ordine all’Ufficiale in 2ᵃ, il quale mi inserì subito nelle sezioni Tecnica, Gente di Mare e Armamento e Spedizioni che lui seguiva interinalmente. L’addestramento fu molto rapido e presto mi lasciò ampia autonomia.

 

A fine luglio fu assegnata a Rimini la motovedetta CP 216, una delle prime in dotazione alle Capitanerie di Porto: si stavano gettando le basi della futura Guardia Costiera.

03_CP%20216_zps9mg9vwnj.jpg

La motovedetta CP216 – La mitragliera è stata aggiunta in epoca successiva

Il comandante della Capitaneria me ne assegnò il comando e, pur continuando il mio lavoro nelle Sezioni di cui ero informalmente responsabile, uscivo quasi ogni giorno per vigilanza ai natanti durante la stagione estiva e anche di notte – tutto l’anno – per vigilanza pesca lungo tutto il litorale di competenza della Capitaneria di Porto di Rimini che andava da Cesenatico a Gabicce Mare. Non essendo la motovedetta dotata di radar, d’inverno in presenza di nebbia la navigazione era piuttosto problematica: gli unici punti di riferimento erano i nautofoni disposti nei vari porti e ogni ora dovevo dare la mia posizione alla Capitaneria via radiotelefono. L’ingresso nel porto di Rimini con mare agitato era abbastanza avventuroso, perché dovevo entrare nel porto-canale a tutta forza cavalcando l’onda di risacca per evitare di traversarmi; poi giunto alla radice del molo di ponente riducevo la velocità al minimo sufficiente per governare e quindi attraccare alla banchina antistante la Capitaneria.

 

In definitiva il periodo dell’Accademia e quello del mio servizio a Rimini sono stati tra i più belli e formativi della mia vita. Mi piacerebbe che qualche socio del Forum si riconoscesse in qualcuno dei fatti che ho raccontato e mi contattasse per unire i nostri ricordi.

 

Ho letto con estremo interesse il racconto che il Comandante Salvatore Romano ha fatto con dovizia di particolari delle sue esperienze vissute nel periodo immediatamente precedente l’entrata in guerra dell’Italia e poi, durante il conflitto, la frequenza dell’Accademia Navale, in parte a Livorno, in parte a Venezia e in parte a Brindisi. Quindi, nell’immediato dopoguerra, il lungo e durissimo imbarco sulla corvetta Scimitarra. Uno spaccato di vita vissuta tra le mille difficoltà di un periodo storico che fortunatamente quasi tutti noi conosciamo solo per averne sentito parlare.

 

Mi ha particolarmente colpito la descrizione della sua esperienza di allievo del corso normale dell’Accademia e la sua lettura mi ha fatto tornare indietro di oltre 50 anni nei miei ricordi. Io ho avuto il privilegio di frequentare il corso di allievo ufficiale di complemento nel lontano anno accademico 1961-1962, quando la durata della leva in Marina era ancora di 26 mesi e gli “AUCD” e “AUCL” (rispettivamente allievi ufficiali di complemento diplomati e laureati) facevano una vita del tutto simile agli allievi della 1ᵃ classe. Mi sia consentito parlare della “nostra Accademia”, e non della “mia Accademia” come la definisce il Comandante Romano, perché sono convinto che l’averne fatto parte costituisca per tutti coloro che l’hanno frequentata un motivo d’orgoglio per la scuola di vita che essa ha rappresentato: valori che oggi sono percepiti dalle nuove generazioni in maniera molto più sfumata, quali Patria, onore, lealtà, disciplina, senso di abnegazione. Non a caso il motto “PATRIA E ONORE” campeggia sul frontone della facciata interna che domina il piazzale al quale fa da sfondo il “brigantino”.

 

Ero appena sbarcato dopo oltre un anno di navigazione come allievo ufficiale di coperta dalla Sebastiano Venier della SIDARMA di Venezia (a proposito, qualcuno del Forum vi è mai stato imbarcato? Era la classica carrettaccia che andava “alla busca” pendolando fra Nord/Sud America e Nord Europa. Nella sua vita precedente, con il nome di Illiria, era una petroliera entrata in servizio pochissimo tempo prima della fine della guerra ed era stata impiegata forse in uno o due convogli prima che fosse autoaffondata a Trieste l’8 settembre 1943. Fu recuperata e, dopo alterne vicende, trasformata nel 1955 in nave da carico secco con stiva e corridoio. Senonchè, l’affondamento aveva provocato una lieve deformazione al calcagnolo che nei numerosi lavori di carenaggio non si riuscì mai a riparare, per cui quando si navigava in tratti di mare soggetti a particolari correnti, il timone si bloccava 5° a dritta e per recuperarne la funzionalità occorreva fermare la macchina e perdere l’abbrivio; per questo motivo quando navigavamo nella Manica e nelle quattro volte che passammo lo stretto di Gibilterra la velocità veniva ridotta a 8 nodi (sic!), con i palloni di non governo già inferiti alla sagola pronti per essere issati a riva…). Sommando il periodo di imbarco sulla Sebastiano Venier a quello dei viaggi estivi che avevo fatto da allievo nautico (ossia da studente) avevo maturato i 18 mesi di navigazione necessari per dare l’esame di “patentino” che mi avrebbe abilitato al comando di guardia in plancia. Ma nel frattempo mi era stata inviata la cartolina di precetto, alla quale non avevo risposto perché imbarcato, quindi mi recai subito alla Capitaneria di Porto di Genova dove fui sottoposto alla visita medica e dichiarato abile. Sarei dovuto partire col contingente del gennaio successivo per una delle due scuole CEMM: Taranto o La Spezia. Però l’ufficiale capo della Sezione Leva della Capitaneria mi consigliò di fare domanda per essere ammesso al prossimo corso di allievi ufficiali di complemento il cui bando sarebbe scaduto di lì a pochi giorni. Mi candidai senza troppa convinzione, ben sapendo quanto era difficile essere ammessi all’Accademia.

 

A settembre del 1961 venni convocato a Livorno per la visita medica e, in caso di esito positivo, per i test attitudinali. Quando mi resi conto dell’enorme numero di candidati a fronte di 326 posti disponibili, dei quali solo 122 tra Stato Maggiore e Capitanerie di Porto sarebbero stati alla mia portata in base al mio titolo di studio, mi resi conto che forse stavo perdendo del tempo. Sorprendentemente mi trovai tra coloro che “sopravvissero” alla visita medica e quindi affrontai i test attitudinali durati un paio di giorni. Al termine fummo mandati tutti a casa con l’intesa che, se fossimo stati accettati avremmo ricevuto un telegramma di convocazione.

 

Ebbene, in maniera del tutto inaspettata verso metà ottobre ricevetti il telegramma ed entro pochissimi giorni avrei dovuto presentarmi in Accademia. Così ebbe inizio la mia indimenticabile esperienza di scuola di vita, oltre che professionale.

 

Il Comandante dell’Accademia era allora il contrammiraglio Giuseppe Roselli Lorenzini, il valoroso comandante di sommergibili che operarono sia in Mediterraneo che in Atlantico dalla base di Betasom. Fu Capo di Stato Maggiore della Marina dal 1970 al 1973.

 

fa370872-5f54-4fd2-b6ba-50d591d08292_zps

L’Ammiraglio Roselli Lorenzini alla cerimonia del giuramento degli allievi dell’Accademia Navale il 4 dicembre 1961

 

Ben poco era cambiato da quando 20 anni prima ne aveva varcato la soglia il Comandante Romano. Una delle poche varianti era costituita dalla sveglia che avveniva alle 06.30, ma il tempo per le pratiche mattinali e la piegatura (doveva essere perfetta) di lenzuola, coperte e pigiama che venivano poi racchiusi nel materasso piegato a metà, era lo stesso: mezz’ora e tutto ciò avveniva sotto lo sguardo vigile dell’aspirante della 4ᵃ Classe di turno quel giorno al nostro dormitorio. Il dormitorio, che noi delle Capitanerie di Porto condividevamo con i Commissari, era all’ultimo piano del fabbricato centrale, proprio sotto il torrino dell’orologio. Alle 07.00 tutti di corsa in piazzale per la ginnastica sotto la guida di Capo Gasparini o di Capo Passi e alle 07.30, inquadrati e di corsa, una Sezione dopo l’altra, in sala mensa per la colazione. Correre era una delle regole principali dell’Accademia: tutti gli spostamenti di gruppo dovevano essere effettuati di corsa.

 

Dopo la colazione avevamo mezz’ora di libertà, nella quale dovevamo andare a studio per recuperare nel nostro banchino i libri necessari per seguire le lezioni della giornata, dare un eventuale veloce ripasso, se necessario fermarci da un “rappezzino” e recarci infine nell’aula dove alle 08.30 si sarebbe tenuta la prima ora (anche per noi di 55 minuti) di lezione con relative interrogazioni o compiti in classe. Alle 10, un quarto d’ora di pausa per il “panino” e poi si riprendevano le lezioni fino alle 12.15. La piscina era prevista una volta la settimana, a noi capitava sempre l’ultima ora prima dell’assemblea, alla quale partecipavamo accaldati dalla doccia fatta prima di rivestirci e con i capelli bagnati (ovviamente non era previsto l’asciugacapelli), nel piazzale sferzato dal libeccio o dalla tramontana che d’inverno soffiano quasi permanentemente su Livorno; ma nessuno si ammalava! Proprio la piscina merita un discorso particolare: l’acqua era gelida anche ai miei tempi, ma non lo pareva poi così tanto perché dovevamo restare inquadrati a bordo piscina bagnati per la preventiva doccia fredda, finchè Capo Pucci non ci faceva scendere in acqua quattro alla volta per impartirci lezioni di nuoto e salvamento. Poi c’erano il trampolino di 3 metri e la piattaforma di 5 metri. Venivamo istruiti su come tuffarci di testa senza dare delle pericolose spanciate in acqua: tutto bene finchè i tuffi avvenivano dal trampolino, ma dalla piattaforma le cose si complicavano un po’, perché l’acqua sembrava molto più distante di quanto lo fosse in realtà e alcuni non riuscivano a vincere la paura derivante dal’istinto di conservazione; ma presto le cose cambiarono, quando fu comunicato che chi non se la sentiva di tuffarsi, così come chi non riusciva a fare il percorso di agilità a stadio entro il tempo previsto, non sarebbe andato in licenza per Natale.

 

Dopo il termine delle lezioni avevamo un quarto d’ora per riportare libri e quaderni nei nostri banchini dell’aula di studio e poi schierarci con la 1ᵃ e la 2ᵃ classe per l’assemblea nel piazzale presieduta dal Comandante in 3ᵃ C.V. Carlo Ernesto Balbo Bertone di Sambuy per la lettura dei “compensi e dei castighi”. Un vezzo dell’arcigno Comandante Sambuy era di proclamare “LETTURA DEI CASTIGHI”, omettendo volutamente la parola “compensi” dei quali veniva data comunque lettura.

 

Terminata l’assemblea, una Sezione alla volta lasciava il piazzale di corsa per salire (correndo anche sulle scale) alla mensa, dove ciascuno aspettava in piedi dietro alla propria sedia che tutti fossero entrati e venisse dato l’ordine di sedersi. Anche lo svolgimento dei pasti aveva un suo rituale: un aspirante della terza classe assegnato ad ogni Sezione che raggruppava circa 20 allievi suddivisi per Corpo di appartenenza, ci insegnava il bon ton che un ufficiale di marina doveva tenere a tavola, a partire dalla posizione in cui lasciare le posate sul piatto, fino a come sbucciare la frutta con forchetta e coltello: particolarmente difficoltose le arance che minacciavano di schizzare da un momento all’altro fuori dal piatto … e allora sarebbero stati giri di corsa del piazzale nel primo mese del corso, o giri di barra in quelli successivi.

 

Vale la pena di soffermarsi un momento sulle punizioni più comuni che erano i giri di corsa o i giri di barra, che venivano comminati dopo che ci eravamo impratichiti grazie alle ripetute esercitazioni sul brigantino. Bastava un nonnulla per “beccarsi” cinque giri. Il momento più critico era al pomeriggio, dopo le attività sportive e la merenda, quando tutti gli allievi di complemento si trovavano riuniti a studio. Eravamo quasi a fine giornata e la stanchezza cominciava a farsi sentire, tanto più che dopo pranzo, fatta una breve ricreazione, andavamo a stadio per l’attività sportiva, tra cui il famigerato percorso di agilità controllato, cronometro alla mano, dall’inflessibile Capo Passi. L’atmosfera ovattata dello studio, dove non si sentiva volare una mosca, complice l’aria viziata dal respiro di 300 persone, dopo qualche tempo induceva fatalmente ad addormentarsi sia pure per brevi momenti, perché il subconscio ordinava al cervello che dovevamo restare svegli. Era molto probabile che in uno di questi momenti di “abbiocco” ci si sentisse battere con due dita sulla spalla: aperti gli occhi, la figura di uno degli aspiranti della 4ᵃ classe addetti alla sorveglianza incombeva sul malcapitato di turno; un sorriso beffardo era stampato sul suo viso e la mano aperta a ventaglio significava alzarsi e andarsi a fare cinque giri di barra. L’aria fredda del piazzale e il vento che soffiava tra le sartie man mano che ci si arrampicava avevano già provveduto al totale risveglio … e meno male, perché in prossimità della coffa o della barra le sartie si restringevano come il vertice di un triangolo e allora non c’era più spazio per far appoggiare entrambe le scarpe sulle griselle all’interno delle sartie. Proprio per questo le ultime griselle sporgevano all’esterno del lato sinistro della sartia per una decina di centimetri in modo da consentire l’appoggio alla scarpa sinistra; ma non bastava ancora, perché le infinite salite e discese da parte degli allievi l’avevano parzialmente consumata conferendole una forma inclinata verso l’esterno, sdrucciolevole a contatto con la suola di cuoio delle scarpe, in particolare quando pioveva. Naturalmente era vietatissimo passare dal “buco del gatto”, ma bisognava arrampicarsi praticamente a forza di braccia su una specie di rete (di cui non ricordo il nome) posta tra il bordo esterno della coffa o della barra e la parte terminale della sartia. Giunti sulla barra arrampicandosi dal lato sinistro dell’albero di trinchetto, si scendeva dal lato di dritta e così via per cinque volte. Ritornati a studio, ci si presentava all’aspirante pronunciando la frase “punizione eseguita”.

 

Una delle punizioni “storiche” del mio corso fu data alla compagnia del complemento, della quale io facevo parte, che avrebbe dovuto sfilare a Firenze in occasione della festa del 2 giugno 1962. Al comando di uno dei tre ufficiali sottordine al complemento, il famigerato Signor Fantin (capitano del Genio Navale) marciavamo tutte le mattine per le vie dell’Ardenza preceduti dalla fanfara dell’Accademia per allenarci alla fatidica sfilata. Pochi giorni dopo l’inizio di questa prassi, uscì sul Telegrafo – il giornale di Livorno – un articolo di fuoco contro questa nuova iniziativa dell’Accademia che provocava il risveglio anticipato di molti Livornesi con le note dell’inno della Marina Militare. A partire dal giorno successivo la banda fu sostituita dalla grancassa che serviva a dare il tempo. Una mattina, secondo il Signor Fantin che marciava in testa alla compagnia con tanto di sciabola, la risposta al comando di “attenti a…” e di “cadenza” non era battuta all’unisono da noi allievi, risultando al suo orecchio un po’strascicata. Allora ci comminò seduta astante 10 giri di corsa del piazzale da farsi al rientro in Accademia subito dopo la colazione. Le lezioni in aula erano ormai terminate e trascorrevamo normalmente la mattinata e il tardo pomeriggio a studio per ripassare le materie d’esame. E infatti dopo colazione, tutta la compagnia cominciò a correre perfettamente inquadrata e mantenendo il passo lungo il perimetro del piazzale. Eravamo quasi tutti giovanissimi e animati da spirito goliardico, che sarebbe poi esploso in occasione della festa del Mac π 100. Fui io a lanciare l’idea, dopo pochi giri, di sfottere in qualche modo il Signor Fantin che ci osservava imperturbabile al centro del piazzale, ossia di compiere un giro a velocità sostenuta e quello successivo molto più lentamente strascinando i piedi allo scopo di creare un insopportabile rumore di fondo che rimbombava per tutto il piazzale. L’idea fu immediatamente condivisa dalla maggioranza e iniziammo la nostra protesta. Il Signor Fantin dopo pochi istanti si rese conto dello sfottò che avevamo messo in atto e, rosso dalla collera, ci urlò che avremmo corso a tempo indeterminato. La nostra preparazione atletica, eravamo ormai al termine del corso, aveva raggiunto un livello invidiabile e non ci mancava sicuramente il fiato. Andammo avanti così fino alle 11, saltando anche il “panino”, finchè il nostro Cerbero ci ordinò di fermarci. A questo punto, il capocorso uscì dalle righe e, correndo, si presentò davanti al Signor Fantin; dopo un impeccabile saluto, rimanendo sull’attenti, chiese che fosse concesso a tutta la compagnia di fare una doccia straordinaria. «Permesso accordato» fu la risposta dell’ufficiale.

 

Ho voluto raccontare questo episodio a conferma del fatto che in Accademia esisteva una disciplina ferrea, un po’ stile Cajenna come afferma il Comandante Romano, ma anche un grande rispetto delle persone, una tradizione della Marina, come ho sempre constatato nella mia breve carriera di ufficiale.

 

Anche ai miei tempi in Accademia non giravano soldi. Eventuali consumazioni al bar venivano pagate con blocchetti di buoni rilasciati dal Capo Borsellinaio e dallo stesso addebitati sul conto dell’allievo. Ad ogni franchigia veniva distribuito il borsellino contenente 1.000 lire e, al rientro, doveva essere riconsegnato con il denaro restante. Ogni sabato ciascun allievo riceveva un estratto conto della sua “situazione finanziaria” che doveva essere restituito firmato. Le famiglie avevano il compito di alimentare il conto. Poiché le franchigie, limitate al giovedì e alla domenica salvo eventuali punizioni o insufficienze riportate in interrogazioni o compiti in classe, prevedevano la possibilità di rientrare dopo cena in tempo per l’assemblea serale prima di salire nei dormitori, era chiaro che le 1.000 lire non erano sufficienti per pagare la cena in ristorante (che doveva essere “decoroso”), il biglietto d’ingresso in uno dei cinema di via Grande, la strada principale di Livorno dove si svolgeva svolgeva lo “struscio” e il biglietto del filobus di andata e ritorno. Allora i miei genitori, come del resto quelli di molti altri allievi, lasciavano nel ristorante che avevo scelto un fondo prepagato dal quale veniva scalato l’importo dei pasti consumati. Non ricordo quale fosse il nome del ristorante, ma lo frequentai per tutto il periodo dell’Accademia insieme al mio grande amico Roberto Serra col quale ero stato compagno di banco nell’ultimo anno di frequenza dell’Istituto Nautico di Genova. Una sera in quel ristorante incontrai il Comandante Loppel, che era stato il mio primo comandante sulla Sebastiano Venier, prima che fosse sotituito dal Comandante Spina. Era un Lussiniano dai modi spicci, che dopo le prime tre parole pronunciate in italiano proseguiva il discorso nel suo dialetto, molto simile al triestino; quando mi vide abbozzò un sorriso (fatto rarissimo per lui) e mi disse: «Ostia, Brandinali, i te ga ciolto in Academia! Bon, non star far monade perché ti ga de dar el patentino. Sentite e mangia, adesso». Questa fu il massimo dell’espansività di cui fu capace il Comandante Loppel.

 

Arrivarono gli esami di fine corso, superando i quali saremmo finalmente stati nominati Aspiranti. L’unica materia che rappresentava per me un problema era la Storia Navale, insegnata dal Comandante Francardi. Si trattava in sostanza di un dettagliato resoconto delle singole battaglie sostenute dalla nostra Marina durante la 2ᵃ Guerra Mondiale. La materia mi era particolarmente ostica perché, per ogni battaglia, bisognava ricordare il nome delle navi che vi parteciparono, le modalità con cui erano venute in contatto col nemico, quali erano le navi nemiche ingaggiate, i vari cambiamenti di rotta nel corso della battaglia, il giorno e l’ora in cui era iniziato lo scontro, i danni riportati da entrambe le formazioni, particolari atti di eroismo da parte dei comandanti e degli equipaggi. Di tutto questo nella mia testa avevo una marmellata incredibile, confondendo battaglie, date, navi partecipanti e quant’altro. Durante l’anno me l’ero cavata nelle interrogazioni scritte che faceva il Comandante Francardi, scopiazzando qua e là, ma ora eravamo arrivati al “redde rationem” e pensavo che il mio sogno di diventare ufficiale che avevo coltivato in otto mesi di duro lavoro si sarebbe infranto qui. Venne finalmente il giorno dell’esame: entrai in aula con malcelata sicurezza pronto ad essere fatto fuori; gli esaminatori mi accolsero con cordialità e mi invitarono ad accomodarmi sulla sedia posta di fronte alla cattedra, poi quello seduto al centro mi chiese quali furono gli avvenimenti che posero fine alla 2ᵃ Guerra Mondiale. Credo che nei miei occhi sia apparso un lampo di gioia: durante la licenza di Pasqua avevo letto un “libro condensato” su Selezione dal Reader’s Digest, periodico al quale mio padre era abbonato, che trattava proprio questo argomento e capii che raccontandone il contenuto tenendo la parola per quanto più tempo fosse stato possibile mi avrebbe permesso di salvarmi. Trascorsero così circa 15 minuti, il tempo in cui normalmente si svolgeva l’interrogazione. L’ufficiale che mi aveva posto la domanda mi chiese dove avevo approfondito l’argomento, che avevo trattato in modo molto più ampio di quanto fosse riportato sul testo di Storia Navale in dotazione agli allievi ed io con prontezza (e una buona dose di faccia tosta) gli risposi che gli aspetti storici che avevano caratterizzato la 2ᵃ Guerra Mondiale mi avevano appassionato e proprio sfogliando i libri nella Sala di Lettura dell’Accademia avevo potuto ampliare le mie conoscenze. Il risultato fu un 20 e lode, che contribuì a farmi terminare gli esami classificandomi al secondo posto nella sezione delle Capitanerie di Porto e dandomi la possibilità di scegliere la destinazione fra quelle disponibili. Poiché il primo classificato, anche lui di Genova, avrebbe scelto Imperia (l’unica in Liguria) io scelsi la seconda più “vicina” che era Rimini.

02_Aspiranti%20CP_zpsj2gojsfm.jpg

I neo aspiranti delle Capitanerie di Porto pronti a lasciare l’Accademia

Trascorse a casa le due settimane di licenza di fine corso, mi presentai alla Capitaneria di Rimini dove fui assegnato come sott’ordine all’Ufficiale in 2ᵃ, il quale mi inserì subito nelle sezioni Tecnica, Gente di Mare e Armamento e Spedizioni che lui seguiva interinalmente. L’addestramento fu molto rapido e presto mi lasciò ampia autonomia.

 

A fine luglio fu assegnata a Rimini la motovedetta CP 216, una delle prime in dotazione alle Capitanerie di Porto: si stavano gettando le basi della futura Guardia Costiera.

03_CP%20216_zps9mg9vwnj.jpg

La motovedetta CP216 – La mitragliera è stata aggiunta in epoca successiva

Il comandante della Capitaneria me ne assegnò il comando e, pur continuando il mio lavoro nelle Sezioni di cui ero informalmente responsabile, uscivo quasi ogni giorno per vigilanza ai natanti durante la stagione estiva e anche di notte – tutto l’anno – per vigilanza pesca lungo tutto il litorale di competenza della Capitaneria di Porto di Rimini che andava da Cesenatico a Gabicce Mare. Non essendo la motovedetta dotata di radar, d’inverno in presenza di nebbia la navigazione era piuttosto problematica: gli unici punti di riferimento erano i nautofoni disposti nei vari porti e ogni ora dovevo dare la mia posizione alla Capitaneria via radiotelefono. L’ingresso nel porto di Rimini con mare agitato era abbastanza avventuroso, perché dovevo entrare nel porto-canale a tutta forza cavalcando l’onda di risacca per evitare di traversarmi; poi giunto alla radice del molo di ponente riducevo la velocità al minimo sufficiente per governare e quindi attraccare alla banchina antistante la Capitaneria.

 

In definitiva il periodo dell’Accademia e quello del mio servizio a Rimini sono stati tra i più belli e formativi della mia vita. Mi piacerebbe che qualche socio del Forum si riconoscesse in qualcuno dei fatti che ho raccontato e mi contattasse per unire i nostri ricordi.

 

Anche se 25 anni dopo, anche io ho fatto la tua stessa esperienza (Aucdcp). Sicuramente meno dura (solo 3 mesi e mezzo) ma in linea di massima le stesse cose. Avendo tentato anche i ruoli normali qualche mese prima dell'Auc, avevo passato 25 giorni come concorrente ruoli normali, decisamente più "duro" del complemento e così se non una passeggiata, il periodo da "baule" è stato meno traumatico di tanti colleghi. Ho un bel ricordo dell'Accademia e dei 42 mesi trascorsi come Ufficiale delle Capitanerie di Porto......

Link al commento
Condividi su altri siti

Ho letto con estremo interesse il racconto che il Comandante Salvatore Romano ha fatto con dovizia di particolari delle sue esperienze vissute nel periodo immediatamente precedente l’entrata in guerra dell’Italia e poi, durante il conflitto, la frequenza dell’Accademia Navale, in parte a Livorno, in parte a Venezia e in parte a Brindisi. Quindi, nell’immediato dopoguerra, il lungo e durissimo imbarco sulla corvetta Scimitarra. Uno spaccato di vita vissuta tra le mille difficoltà di un periodo storico che fortunatamente quasi tutti noi conosciamo solo per averne sentito parlare.

 

Grazie infinite Max42 per la tua bellissima testimonianza ! :smile:

Con il mio post ho dato la stura ad una montagna di ricordi indelebili che testimoniano quanto la pur dura vita d'Accademia sia rimasta nei cuori di chi l'ha frequentata. :wink:

 

Mi piacerebbe leggere altre belle testimonianze di chi è stato a Livorno, anche in periodi più recenti, iper rendermi bene conto - al di là dei racconti di mio padre - di che cosa mi sono perso..... :rolleyes:

Modificato da Marpola
Link al commento
Condividi su altri siti

Ho letto con attenzione (e scaricata) la lunga intervista di Salvatore Romano, e mi piace aggiungere un ricordo personale, alla luce di ciò che ho letto qui sopra.
Intanto mio fratello era allievo al Collegio Navale di Brindisi fra il 1941 ed il 1844 e quindi è certo che ha conosciuto e frequentato Romano, condividendone la vita in quegli anni di guerra. Lui non andò con gli altri allievi a Venezia ed a Livorno perchè quando fu deciso il trasferimento era ammalato e questo gli salvò la pelle, perchè i suoi compagni di corso morirono quasi tutti.
E poi mio padre, come suo padre, era stato nell'allora Reggimento San Marco ma durante la Prima guerra mondiale, nel plotone arditi.
Io invece il 2 giugno 1962 ho sfilato inquadrato nel plotone allievi ufficiali, ma dell'Aeronautica Militare...Nella foto sono quel ragazzo smilzo a destra del sottotenente in prima fila.
10mkje8.jpg

Qui sotto nel commento Romano parla della corvetta Scimitarra e della raccolta di medaglie della R.Marina avuta in eredità da mio padre che la passò a mio fratello e alla sua morte a me, e che custodisco religiosamente. Ne ho scritto in altri commenti su Betasom. Ma il Com.te Romano è ancora vivo e vegeto? spero di si.

Gentilissimo Signor Galasso,
il mio amico Cristiano d'Adamo mi ha "girato" il suo e-mail con l'allegata serie di medaglie. Ho appena avuto il tempo di scorrerle rapidamente ed ho subito visto che si tratta di materiale interessantissimo.
Prima di poterle esaminare con calma, le anticipo che quella dello Scimitarra è stata disegnata nel 1944 (forse giugno) dall'allora S.T.V. Giorgio Bertini, all'epoca Direttore del Tiro sullo Scimitarra, di due Corsi prima del mio, di cui sono stato sott'ordine e che poi, diventò Ufficiale in seconda ed io lo sostituii come D.T. Era un abile disegnatore ed incisore (ho ancora un timbro con il simbolo dello Scimitarra inciso da lui su linoleum) oltre che caricaturista.

Partecipai anche io con i miei commenti (e Cristiano d'Adamo dei miei commenti ne sa qualcosa e ne è attualmente vittima !) al disegno di questa medaglia e discutemmo molto sulla sua idea di farla come se fosse un bollo di ceralacca, con il bordo frastagliato, invece del classico tondo di tutte le medaglie delle navi. Il primo cliché fu fatto a Taranto, non ricordo dove, dato che il classico coniatore delle medaglie delle navi, Picchiani & Barlacchi era a Firenze e non era raggiungibile perché "dall'altra parte del fronte". Non ne furono fatti molti esemplari perché avevamo poco denaro ed il conio costava caro. Furono fatte soltanto medaglie in argento ed i bronzo. Dopo la fine della guerra (ma io non ero più a bordo) furono fatte nuove tirature da Picchiani & Barlacchi eliminando la "R" di Regia. Quando poi sono tornato sullo Scimitarra come Comandante, allo sbarco, mi è stata regalata dagli Ufficiali la medaglietta in oro e la classica cornice d'argento con foto e dedica. PER FORTUNA all'epoca ancora non esistevano i CREST che sono diventati invasivi come l'edera e che, secondo me, hanno fatto perdere valore alla medagliette.
Circa il motto "Fendendo Difendo" le posso dire poco perché a gennaio del '44, quando imbarcai sullo Scimitarra già esisteva. Le posso dire che fu scherzosamente modificato da equipaggi di altre corvette, ma taccio sul perché e come fu modificato.
Invece è stata a carico mio la ri-fusione della campana di bordo con il bronzo di quella originale ove figura la "R" di Regia. Purtroppo non sono riuscito ad averla come ricordo, ma ne ho una bella fotografia. Ma questo non le interessa. Mi scusi. Il fatto è che quando mi tornano alla mente quei tempi, mi lascio trasportare dalla commozione e ... mi dilungo troppo.
Mi farò sentire non appena avrò esminato le altre fotografie, ma non tanto presto perchè il tempo per ora mi è tiranno.
Cordiali saluti.
Salvatore ROMANO.
Link al commento
Condividi su altri siti

Join the conversation

You can post now and register later. If you have an account, sign in now to post with your account.

Visitatore
Rispondi a questa discussione...

×   Hai incollato il contenuto con la formattazione.   Rimuovi formattazione

  Sono ammessi al massimo solo 75 emoticon.

×   Il tuo link è stato automaticamente aggiunto.   Mostrare solo il link di collegamento?

×   Il tuo precedente contenuto è stato ripristinato.   Pulisci l'editor

×   Non è possibile incollare direttamente le immagini. Caricare o inserire immagini da URL.

Caricamento...
  • Statistiche forum

    • Discussioni Totali
      45k
    • Messaggi Totali
      521,7k
×
×
  • Crea Nuovo...