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Chersino Racconta: Un Grande Amore Sbocciato A Bordeaux


Chersino

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Erano i primi mesi del 1942. Nel tardo pomeriggio di una fredda giornata invernale stavo accompagnando l’ammiraglio Polacchini ed il suo aiutante di bandiera comandante Anfossi allo Château du Mulin d’Ornon. Lungo la strada che percorrevo normalmente per andare dalla Base a Gradignan, ancora nella città di Bordeaux, giunti davanti ad uno spaccio di tabacchi, l’ammiraglio mi dice: «Fucci, fermati un momento. Mi vai a prendere una scatola di fiammiferi?» Accosto la macchina al marciapiede, entro e vedo una ragazza bellissima dietro al banco; le dico: «Mademoiselle, s’il vous plaît une boîte d’allumettes». Lei si mette a ridere, evidentemente per la mia pronuncia, poi mi dà la scatola di fiammiferi. Ci salutiamo e io fra me e me mi sono detto: «Adesso te non mi scappi più». Da quel giorno, tutte le volte che passavo da solo davanti allo spaccio entravo a salutarla e lei mi ricambiava con un bel sorriso. Erano due sorelle, Edmonde (la ragazza che mi aveva colpito per la sua bellezza) e Andrée. La mamma non le lasciava mai uscire sole; anche quando andavano a prelevare i tabacchi erano insieme. Insomma, alla fine avevo attaccato bene con Edmonde e una volta entro nello spaccio e le dico: «Senti, per l’appuntamento sai come facciamo? Io vengo a prendere una scatola di fiammiferi e tu mi dici l’orario che vieni fuori, così io ti apetto».

Ma la mamma, una specie di cerbero, non mi vedeva di buon occhio e le diceva: «Ce qu’il fait ici ce macaroni?». I Francesi, in senso dispregiativo, ci chiamavamo “macaronì”. Siccome era furba, aveva capito che saremmo usciti insieme e allora all’appuntamento Edmonde si è presentata accompagnata da Andrée che non ci lasciava mai soli neppure per un momento.

Dopo un po’ di volte ne avevo piene le scatole della sorella e allora ho pensato che avrei dovuto trovare qualcuno della Base che si mettesse con lei. Così mi sono rivolto ad un sergente radiotelegrafista di Firenze, un certo Paolo Muller. Gli dico: «Paolo, ti vorrei presentare una bella ragazza, ma non una ragazza di strada, una di buona famiglia…» e lui è venuto a conoscerla. Quel pomeriggio, quando stavamo per lasciarci al termine di una lunga passeggiata, ho chiesto ad Andrée: «Alors, comment ça va?» E lei di rimando: «Tres bien, tres bien!». Avevo finalmente risolto il mio problema! Quando uscivamo, ci davamo un appuntamento per l’ora del rientro. Poi loro andavano da una parte, noi dall’altra e tornavamo tutti insieme a casa delle ragazze.

Con il tempo ero riuscito a conquistare anche la madre: aveva capito che avevo intenzioni serie e allora non era più così ostile nei miei confronti. Anzi, spesso mi invitava a mangiare a casa loro. Erano persone che stavano molto bene: il padre aveva una fabbrica di botti in rovere per l’invecchiamento dei famosi vini di Bordeaux che dava lavoro a una trentina di operai. Abitavano in una bella casa nel centro della città e avevano anche una villa in campagna a Pessac, dove mi invitavano la domenica quando ero libero dal servizio; avevano anche una villa al mare ad Arcachon, ma ci andavano poche volte solo d’estate. Naturalmente anche a Pessac ci appiccicavano sempre dietro Andrée, ma lì non c’era l’amico Muller a farsi carico del terzo incomodo e allora dovevamo limitarci a passeggiare mano nella mano.

 

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Una foto nel giardino della villa di Pessac

 

Ma proprio a Pessac, in antitesi ai bei momenti trascorsi in compagnia di Edmonde, ebbe inizio il mio calvario di prigioniero conseguente alla mia scelta di non collaborare con i Tedeschi dopo l’8 settembre. Infatti fui internato in un campo nelle vicinanze dell’aeroporto di Merignac. Edmonde veniva tutti i giorni a portarmi il mangiare, evitandomi così di dovermi nutrire con la sbobba che passavano i Tedeschi. Però questo non era consentito dal regolamento e allora il comando del campo chiamò i vigili di Pessac e la fece arrestare. Così Edmonde fu confinata in una “casa d’attesa”, ma non le fu torto un capello; doveva semplicemente condividere le sue giornate con le altre donne che vi erano rinchiuse. L’hanno trattenuta qualche giorno, poi, quando hanno capito chi era, l’hanno lasciata andare a casa.

Il 20 ottobre del 1943 mi presentai nuovamente a casa di Edmonde: ero scappato dal campo di concentramento in Germania dove ero stato trasferito dopo pochi giorni di permanenza in quello di Pessac. Appena mi hanno visto, denutrito e infestato di pidocchi, sono rimasti tutti esterrefatti. Mi hanno accolto come un figlio, dandomi ospitalità e rivestendomi da capo a piedi con abiti nuovi, probabilmente del padre di Emonde. Ho passato il Natale con loro. Sopra lo spaccio tabacchi avevano due camere. In una dormiva Edmonde e nell’altra Andrée; allora i genitori hanno mandato Edmonde a dormire con la sorella e io mi sono sistemato nella sua camera. Però continuavo a far vita da prigioniero, seppure in condizioni totalmente diverse da quelle del campo di concentramento. Infatti Edmonde mi portava da mangiare a mezzogiorno e alla sera, ma non potevo uscire; unico conforto era la sua compagnia: ci volevamo molto bene, ma il nostro era un amore platonico perché, a causa del pavimento di legno, nello spaccio sottostante si sentiva ogni nostro movimento.

Ogni tanto, uscendo dalla tabaccheria con mille precauzioni, andavo a passare qualche giorno nella villa dei genitori di Edmonde a Pessac e questo era l’unico diversivo che mi era concesso, sul quale fantasticavo per giorni interi nella solitudine in cui ero costretto a vivere.

Poi, un certo giorno, mi sono consigliato con il papà di Edmonde, che era molto preoccupato per questo andirivieni di marinai italiani che erano passati con i Tedeschi e venivano lì a comprare le sigarette o a bere qualcosa, attirati anche dal fatto che dietro al banco c’erano due belle ragazze; ed io stavo nascosto di sopra. Se fossi stato scoperto , non solo io avrei passato un guaio, ma tutta la famiglia.

Convenimmo allora che sarebbe stato meglio se mi fossi spostato nella fabbrica di botti, che al momento era chiusa. Sopra la falegnameria c’era un bellissimo ufficio, che fu riadattato per ospitarmi. C’era il mio letto, in un piccolo locale c’era il bagno con il lavandino, la doccia e il water. Insomma, in quello che era l’ufficio del papà avevano ricavato un bel mini appartamento. Bisogna dire che i Francesi erano un bel po’ avanti rispetto a noi e avevano delle comodità che da noi sarebbero arrivate solo dopo la guerra. Io, approfittando del buio che già dal pomeriggio di quelle giornate invernali regnava su Bordeaux oscurata, mi spostavo in bicicletta dalla fabbrica alla casa di Edmonde ; lei tutti i giorni veniva, sempre in in bicicletta, a portarmi il pranzo, poi restava lì con me per qualche ora e abbiamo vissuto dei bellissimi momenti d’intimità.

Ma come tutte le cose belle, questa parentesi fu di breve durata, perché un giorno, mentre stavo andando alla villa di Pessac, fui notato senza che me ne accorgessi da due miei ex commilitoni passati coi Tedeschi (uno era il sergente autista Annibale Riva, al quale avevo fatto anche del bene quando facevo l’autista del comandante superiore e l’altro era l’Aiutante del Campeggio marinai, 2° capo Falasca che avrei poi ritrovato a Venezia, dopo essere stato rimpatriato, a passare con me la discriminazione, ma questo fa parte di un’altra storia) i quali mi pedinarono fino alla casa di Edmonde e due giorni dopo arrivarono con un manipolo di Tedeschi per arrestarmi. Fu quella l’ultima volta che vidi Edmonde. Mi riportarono a Bordeaux e fui rinchiuso in una cella di sicurezza; passato qualche giorno venni rispedito in Germania su un carro bestiame e ripresi la mia vita di prigioniero in un campo di concentramento.

Quando ritornai a Cherso dopo la lunga odissea della mia prigionia, cercai in tutti i modi di mettermi in contatto con Edmonde, ma purtroppo senza alcun risultato. Mi resta di lei solo un meraviglioso ricordo che ha rappresentato una luce di speranza negli anni bui della prigionia, aiutandomi a superare umiliazioni, pericoli e privazioni che caratterizzarono la mia vita in quel triste periodo. Già, solo un dolce ricordo, perché le rare fotografie di Edmonde che ero riuscito a salvare dalle grinfie dei Tedeschi nei campi di concentramento andarono distrutte quando i titini incendiarono la mia casa a seguito della mia decisione di mantenere la nazionalità italiana.

 

 

 

 

 

 

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:smiley19::rolleyes::wub: BELLA "LOVE STORY" :rolleyes::wub: !

 

Molto triste, invece, l' esser stato ricatturato dai Tedeschi per delazione di...Italiani!

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Grazie Chersino per questo bel racconto di vita, d'amore e di guerra. Chapeau alla famiglia francese che ti ha accolto come un figlio superando i pregiudizi sul nemico "macaroni" certo che paragonare il trattamento della famiglia francese a quello ricevuto da Grossi e consorte c'è ne passa.....per non parlare dei due delatori che ti hanno consegnato ai tedeschi, avranno anche denunciato la moglie ebrea del Grossi...chissà.

Saluto cordialmente e aspetto tuoi prossimi.

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