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Chersino Racconta: Non Sempre Rose E Fiori Al Servizio Del Comandante Grossi


Chersino

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Come ho già detto in passato, sono arrivato a BETASOM con il Malaspina il 4 settembre 1940, una data che resterà per sempre indelebile nella mia mente, e pochi giorni più tardi per uno strano caso del destino (il Malaspina affonderà con tutto il suo equipaggio in circostanze sconosciute un anno più tardi alla sua sesta missione) fui sbarcato e divenni l’autista del Comandante superiore della Base ammiraglio Parona, insediatosi qualche settimana prima in quella posizione.

Non ho ricordi di particolare rilievo del periodo passato al servizio dell’ammiraglio Parona: era una persona molto discreta, di poche parole e spesso impegnato in incontri con il Comandante della flotta sottomarina tedesca ammiraglio Dönitz, che era di stanza a Parigi, il quale veniva abbastanza sovente a BETASOM intrattenendosi in lunghi colloqui riservati con l’ammiraglio Parona.

Fu proprio in occasione di uno di questi incontri, mentre stavo accompagnando l’ammiraglio Parona e il Comandante Aldo Cocchia – allora Capo di stato maggiore della Base – all’aeroporto di Mérignac per ricevere Dönitz, che sentii Parona lamentarsi con Cocchia per come il capo dei sommergibili teschi tenesse in poca considerazione l’alleato italiano. Secondo lui i comandanti e gli ufficiali erano scarsamente preparati per affrontare la battaglia dell’Atlantico, gli equipaggi erano formati da “marinai raccogliticci che non avevano nessuna esperienza di sommergibili”, i nostri battelli erano inadeguati per le loro grandi dimensioni e la scarsa manovrabilità ad infilarsi in mezzo ai convogli nemici. Nessun riferimento ai tanti episodi di eroismo e di lealtà verso l’alleato tedesco in cui fin dalle prime missioni i nostri equipaggi si erano contraddistinti.

Evidentemente, quando ci fu chiesto di mandare quattro nostri sommergibili a recuperare i naufraghi dell’Atlantis l’ammiraglio Dönitz aveva cambiato parere su di noi e sui nostri battelli …

Questa fu una delle poche confidenze che ebbi modo di cogliere dall’ammiraglio Parona. D’altra parte io ero totalmente inesperto di come funzionassero le cose a BETASOM, quindi me ne stavo molto sulle mie, attento a svolgere nel modo migliore il compito cui ero stato destinato.

Nel settembre del 1941 il CV Romolo Polacchini – già presente BETASOM dal mese di aprile dello stesso anno come Capo di Stato Maggiore – promosso contrammiraglio a soli 44 anni sostituì l’ammiraglio Parona rientrato in Italia. L’ammiraglio Polacchini aveva un carattere completamente diverso da quello del suo predecessore e mi aveva preso molto presto a benvolere, dandomi consigli pratici su come muovermi a Bordeaux quando andavo in libera uscita come avrebbe fatto un padre col proprio figlio. In breve tempo conquistai la sua fiducia e mi affidò anche incarichi molto delicati che svolsi sempre con la massima dedizione, sentendomi onorato di come lui mi valutava. Tutto questo durò fino agli ultimi giorni di dicembre del 1942, quando il CV Enzo Grossi fu nominato Comandante Superiore della Base.

Peraltro l’ammiraglio Polacchini non credo che nutrisse una grossa stima per Grossi e di ciò ne ebbi conferma un giorno che accompagnai in macchina lui e il Comandante Gianfranco Gazzana Priaroggia alla Base in occasione della partenza per una nuova missione del sommergibile Leonardo da Vinci. Dai discorsi che facevano i due, seduti sul divano posteriore, capii che l’ammiraglio esprimeva seri dubbi sulla veridicità dell’avvenuto affondamento delle due corazzate americane da parte del Barbarigo comandato da Grossi. Naturalmente non rivelai mai a nessuno quanto avevo orecchiato da quella conversazione, perché la riservatezza era indispensabile per il delicato incarico che ero chiamato a svolgere.

Quando Grossi era ancora al comando del Barbarigo, era l’unico comandante di sommergibili autorizzato a vivere con la famiglia in una villetta che mi pare si trovasse nei pressi del Château de Raba. Mi aveva colpito uno strano rituale che la moglie svolgeva ogni volta che lui partiva in missione: spargeva nel giardino della loro abitazione dei sassolini e delle briciole di pane. Incuriosito, chiesi all’ammiraglio Polacchini il motivo di quei ripetuti bizzarri episodi e lui mi rispose che la signora era ebrea e quella era una loro tradizione portafortuna, ma la cosa mi lasciò piuttosto interdetto.

Proprio la signora Grossi fu la protagonista di un fatto che mi ferì profondamente. Una volta, lui era già diventato il Comandante della base, ho accompagnato la signora ad un ricevimento organizzato dal Consolato italiano al quale era stata invitata. Appena arrivati, scendo, le apro la portiera e lei mi domanda: «Andrea, per caso hai uno straccio qui in macchina?» «Forse sì», ho risposto. Sono andato a cercare lo straccio e con questo nelle mani mi ripresento alla signora per sapere cosa ne doveva fare e lei: «Puliscimi le scarpe». In quel momento mi sono sentito veramente umiliato: vestivo una divisa di cui andavo fiero, mi trovavo davanti alla sede di rappresentanza della mia patria con la barriera italiana che garriva al vento sopra le nostre teste. Allora non ci ho più visto e le ho risposto: «Guardi signora, che io sono qui per fare l’autista del Comandante e non per pulire le scarpe a lei.» Mi sono girato e sono andato a rimettere lo straccio nel baule, mentre lei mi minacciava dicendo che mi avrebbe fatto trasferire in Africa. Non credo che abbia riferito quel fatto increscioso al marito, perché lui non me ne ha mai parlato.

Per la verità anche il Comandante Grossi non ha mai mostrato molto rispetto nei miei riguardi. Le racconto un episodio su tutti.

Nei primi mesi del ’43 l’ho accompagnato in missione a Biarritz per compiti d’ufficio. Avrebbe dovuto essere di ritorno a Bordeaux attorno alle quattro del pomeriggio per degli impegni che aveva preso precedentemente. Senonchè lungo la strada del rientro la macchina ha cominciato a manifestare dei problemi di alimentazione di benzina: procedeva a singhiozzo e poi si fermava. Ogni volta scendevo, spurgavo l’aria dal carburatore e ripartivo e questo si è ripetuto più volte. Grossi era molto spazientito, quasi che il problema che si era manifestato fosse dipeso da me. Arriviamo a Dax e Grossi mi ordina di andare al Comando tedesco. Lì si è fatto dare una macchina che l’ha accompagnato a Bordeaux, lasciandomi in mezzo alla strada senza dirmi nulla.

A forza di strappi e soste forzate sono arrivato e Bordeaux dove l’auto è stata riparata nell’officina della base. Nei giorni successivi, il Comandante Grossi non ha mai fatto cenno all’episodio di Dax e sono convinto che non mi abbia mai considerato una persona, ma solamente una cosa necessaria allo svolgimento della sua attività.

008_1500Ammiraglio_zpsce31ce63.jpg

La FIAT 1500 carrozzata Viotti auto di rappresentanza del Comandante superiore di BETASOM

Un fatto emblematico può raffigurare meglio il suo carattere. Il 26 luglio 1943, all’indomani della comunicazione dell’avvenuta deposizione di Mussolini e dell’assunzione dell’incarico di capo del Governo da parte del maresciallo Pietro Badoglio, tutte le foto, i quadri e le statuine del Duce che ornavano il suo studio erano sparite. Rimaneva soltanto la fotografia ufficiale del Re appesa a una parete. Peraltro il comandante Grossi che, a parte il suo comportamento dopo la deposizione di Mussolini che aveva tutta l’aria di un voltafaccia, si dichiarava un fascista convinto.

L’8 settembre 1943 i tedeschi occuparono la Base e fecero prigionieri tutti i militari e civili italiani che erano presenti, tenendoli segregati nella base in attesa del rientro a BETASOM del comandante Grossi, assente in quel momento. Trascorsero due o tre giorni e solo allora ci fu chiesto di fare una scelta: o passare con loro, o essere internati in campo di concentramento. Io ho pensato che avevo giurato fedeltà al Re, l’avevo scampata fino a quel momento e non me la sentivo di andare a combattere e forse a morire al fianco dei Tedeschi. Così scelsi di essere internato. D’altra parte vedevo che questa scelta l’avevano fatta in molti, anche degli ufficiali – ma non il comandante Grossi – e dei carabinieri ed allora non ebbi dubbi sulla validità della mia decisione.

Mi aspettavano tre lunghi anni di prigionia trascorsi in diversi campi di concentramento in Germania e in Francia, dei tentativi di fuga – uno anche riuscito – ed infine il ritorno a casa. È una storia lunga, che mi costa molta fatica ricordare per le sofferenze che ho dovuto sopportare, ma credo di avere il dovere di metterla un giorno a disposizione del nostro Forum perché anche i più giovani conoscano i travagli della prigionia che tanti militari italiani che, come me, non avevano fatto altro che il proprio dovere, dovettero subire nelle mani dei nostri ex alleati.

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grazie Chersino, testimonianza personale davvero interessante. Gli uomini del suo equipaggio che ho conosciuto (di cui uno solo ancora in vita) avevano un'opinione differente del c.te Grossi, sicuramente dovuta alla fratellanza che si crea a bordo. Però il sig. Saija mi ha anche confermato quanto racconti circa i giorni post 8 settembre e le tristi esperienze che seguirono.

 

PS: a proposito di fughe betasomiane, conosci il libro "memorie di un marinaio di betasom", vero?

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grazie Chersino, testimonianza personale davvero interessante. Gli uomini del suo equipaggio che ho conosciuto (di cui uno solo ancora in vita) avevano un'opinione differente del c.te Grossi, sicuramente dovuta alla fratellanza che si crea a bordo. Però il sig. Saija mi ha anche confermato quanto racconti circa i giorni post 8 settembre e le tristi esperienze che seguirono.

 

PS: a proposito di fughe betasomiane, conosci il libro "memorie di un marinaio di betasom", vero?

 

Ti ringrazio per il commento che hai postato in calce al mio racconto. Non ho letto il libro di Frandi, pur sapendo della sua esistenza, perché non sono mai riuscito a venirne in possesso; sarebbe bello se si riuscisse a pubblicarlo in digitale sulla Biblioteca di Betasom. Invece mi ricordo molto bene di Mario, mio conterraneo perché è (o era?) di Pisino, un paese proprio al centro dell’Istria; Cherso si trova poche miglia a Sud-Est ed è la più settentrionale delle isole istriane.

Frandi era un sergente RT e, dopo l’8 settembre, fu internato anche lui nel campo di Pessac, vicino a Bordeaux. Eravamo in cinque nella stesso scomparto della baracca e noi due eravamo gli unici istriani, quindi eravamo ancor più affratellati avendo la stessa origine.

Tentammo la fuga, purtroppo fallita, e in seguito affrontammo insieme diverse traversie, a partire dalla fatidica data del 28 settembre quando ci caricarono su un carro bestiame per essere trasferiti in Germania. Fummo destinati ad un campo nei pressi di Francoforte sul Meno. Qualche giorno dopo ci trasferirono in un campo vicino a Colonia. Tutti noi cinque che eravamo rimasti uniti da quando ci eravamo trovati nel campo di Pessac avevamo un’idea fissa: tentare la fuga. Però Frandi non ebbe la pazienza di attendere il momento giusto per scappare e decise di andarsene da solo. Molto tempo dopo venni a sapere che era riuscito ad arrivare incolume in Spagna, ma da quella volta non ho più avuto sue notizie.

 

Questo, per sommi capi, il periodo della prigionia che ho trascorso insieme a Mario Frandi, ma spero di riuscire a raccontare prossimamente tutta la vicenda in maniera più dettagliata.

 

Ho notato, rivedendo il racconto postato ieri, che è sparita la foto della macchina del comandante della base con me al volante. Provo ad inserirla nuovamente.

 

FIAT1500ViottiAmmiraglio_zpsa702bf2c.jpg

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Ringrazio Chersino per questi bellissimi racconti, che valgono anche a zittire una volta di più taluni che accusano queste pagine di parlare sempre e solo bene di Grossi.

 

Penso che a Chersino, viste le sue origini, farà piacere se affermo che questi aneddoti - specie quelli in cui si trovava in auto ad ascoltare i dialoghi degli illustri passeggeri - mi hanno portato alla memoria una delle Maldobrìe, i racconti di fantasia in dialetto istriano-dalmato ambientati prima e durante la Grande Guerra proprio nelle isole del Quarnaro, e comunque nelle "Vecchie Provincie" sotto l'A.U.

Mi sovviene in particolare il raccontino L'ultimo Absburgo, in cui si narra di Nini Safèr (Chaffeur), giovane autista che allo scoppio della guerra fu chiamato di leva e messo a fare, appunto, l'autista dell'Arciduca Carlo sul fronte della Galizia. I suoi commilitoni, stanchi delle fatiche e dei lutti del fronte, continuavano a dirgli, visto che era tutto il giorno in auto con l'Arciduca, di chiedere a Carlo "quando che finirà 'sta maledeta guera". E Nini rispondeva che sì, avrebbe tanto voluto, ma per regolamento non poteva assolutamente rivolgere la parola all'Arciduca, se non interrogato, e l'occasione non capitava mai.

Finchè un bel giorno l'occasione venne. L'Arciduca chiese all'autista come si chiamasse:

"Nini" gli rispose lui.

E Carlo di rimando: "Nini, quando ti credi ti che finirà 'sta maledeta guera?"

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Ti ringrazio dei complimenti per i miei racconti che Massimo ha la pazienza di ascoltare e di mettere per iscritto sul Forum.

 

Da buon Istriano non potevo non avere nella mia biblioteca Le Maldobrìe (in Italiano "scherzo", "birichinata") e, sempre degli stessi autori Carpinteri e Faraguna, Prima della prima guerra, L'Austria era un paese ordinato, Noi delle vecchie province, Povero nostro Franz, Vival'A.

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........L'Arciduca chiese all'autista come si chiamasse:
"Nini" gli rispose lui.
E Carlo di rimando: "Nini, quando ti credi ti che finirà 'sta maledeta guera?" .......

 

Ovviamente tutti sui miei scaffali...Ale ale che el sol magna le ore!.....

...Parlava franco, savè, l'Arciduca Carlo per talian. Lui prima ve stava a Miramar, anca a Lussin....

Di nonni lussignani e madre triestina... non mancano di certo nemmeno nei miei !

Modificato da danilo43
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Ringrazio vivamente Chersino per i suoi racconti, visto che chi scrive di quegli anni sono quasi sempre ufficiali,è un peccato che ci siano poche testimonianze come quelle di Chersino, quelli della "bassa forza" che erano poco avvezzi a usar la penna ma in fatto di dignità e schiena dritta non ebbero nulla invidiare a molti ridondanti galloni dorati.

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