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Chersino Racconta – La Prima Missione Atlantica Del Malaspina


Chersino

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Ho ricevuto la cartolina di precetto a Cherso e mi sono presentato al Deposito C.R.E.M.¹ di Pola, dove ho prestato giuramento, dopodiché ai primi di giugno ho fatto una “scappatella” a Cherso: dopo aver fatto il giuramento, con un altro mio amico che era stato richiamato siamo arrivati a Cherso e c’era il Comandante Fresa in Capitaneria, però lui non sapeva se eravamo in permesso o no; sta di fatto che il 10 giugno del ’40, mentre ci trovavamo a casa, è scoppiata la guerra e avevano interrotto la linea marittima che collegava Cherso a Porto Albona col piroscafo ORSINI; quindi non potevamo rientrare e avevamo paura di venire scoperti ed essere condannati per diserzione. Invece, fortunatamente, al pomeriggio il piroscafo è ripartito e noi alla sera siamo rientrati a Pola in Deposito. Io ero l’ordinanza del Tenente Bicchierai che mi aveva dato un permesso per andar fuori e rientrare senza limiti d’orario; quell’altro, anche lui doveva rientrare in deposito ma non fu effettuato alcun controllo, per cui quella volta era andata liscia.

Dopo qualche tempo ho avuto il trasferimento dal Deposito di Pola alla Casermetta Sommergibili di La Spezia. Nell’arsenale era in allestimento il MALASPINA² ed io venni imbarcato con la qualifica di Marò servizi vari.

Dopo alcuni giorni passati ad effettuare collaudi nello specchio di mare antistante La Spezia, il 29 luglio siamo salpati per destinazione ignota. Trascorsi un paio di giorni, stavamo ancora navigando nel Mediterraneo, il Comandante – Capitano di Fregata Mario Leoni – ci ha detto che non saremmo rientrati in Italia, ma avremmo fatto rotta su un porto estero.

Nei pressi di Gibilterra abbiamo avvistato un cacciatorpediniere che dirigeva dritto verso di noi. Il Comandante ha dato ordine di rapida immersione, perché comunque, per non essere avvistati, lo stretto di Gibilterra doveva essere attraversato in immersione.

Probabilmente il cacciatorpediniere non ci aveva scorto, perché non avvenne alcun lancio di bombe di profondità; sta di fatto sta che mentre navigavamo nel bel mezzo dello Stretto, improvvisamente il MALASPINA, forse a causa delle correnti particolarmente forti che si formano due o tre volte al mese, non rispondeva più ai comandi e cominciò ad appruarsi in una discesa inarrestabile verso il fondo. Nessuno riusciva ad intervenire, perché l’angolo di appruamento era così forte che era impossibile stare in piedi; tutto ciò che non era rizzato cadeva a pagliolo: un vero rovinio di oggetti. I macchinisti, a causa del pavimento scivoloso della sala macchine, furono i primi a perdere l’equilibrio. Il Comandante, che si era legato al cavo del periscopio, dava gli ordini, ma nessuno era in grado di eseguirli. Ci arrestammo infine alla profondità di 170 m., con i vetri dei manometri che scoppiavano per l’enorme pressione cui erano sottoposti, dal momento che il sommergibile era stato progettato per raggiungere la profondità massima di 125 m. Fu data aria ai doppi fondi e alle casse di zavorra, ma senza ottenere alcun risultato. Noi marinai, tutti al primo imbarco, eravamo impietriti, ed avevamo la certezza che avremmo fatto la fine del topo in trappola. Avevamo paura anche di restare senza energia elettrica, perché un’eventuale deformazione dello scafo avrebbe provocato l’interruzione della corrente elettrica ed immobilizzato definitivamente il MALASPINA; allora sarebbe stata davvero la fine.

Che io sappia , dopo che era stata data aria ai doppi fondi e alle casse di zavorra senza ottenere alcun risultato immediato, non fu effettuata nessun’altra manovra. Come Dio volle ad un certo momento il sommergibile si rimise in assetto, cominciò lentamente a risalire ed a rispondere ai comandi. Probabilmente anche l’intensità della corrente nello stretto era diminuita, ma per me – e credo anche per tutti gli altri – il ritorno alla navigabilità del MALASPINA resta un fatto inspiegabile. Il Comandante Leoni arrestò la risalita ad una profondità di 50 m., quindi proseguimmo la navigazione in immersione verso l’Atlantico.

Il giorno 3 agosto siamo finalmente riemersi in Atlantico e abbiamo cominciato la nostra prima missione girovagando per l’oceano circa 35 giorni (adesso non ricordo esattamente dato il lunghissimo tempo trascorso). Abbiamo fermato alcune navi che risultarono tutte appartenenti a nazioni non belligeranti, però noi andavamo ugualmente a bordo per ispezionarle, in quanto avrebbero potuto trasportare armi o materiali di contrabbando per il nemico. Non trovammo mai nulla di sospetto e quindi le lasciammo andare raccomandando che non segnalassero il nostro incontro; però non potevamo sapere se avevano avvisato o no via radio, ma in effetti nessuna nave o aereo nemico ci dette mai la caccia.

Ormai pensavamo di arrivare a Bordeaux senza portare alcun risultato, invece un certo giorno (credo che fosse il 12 o il 15 agosto), mentre navigavamo a quota periscopica, abbiamo avvistato una petroliera di grosso tonnellaggio in lontananza e il Comandante accertò che batteva bandiera inglese. Fece inviare un messaggio a lampi di luce intimando di fermarsi. Dalla BRITISH FAME – questo era il nome della petroliera – ci spararono contro con il cannone di bordo. A questo punto il Comandante lanciò quattro siluri, riuscendo ad immobilizzarla ma non ad affondarla. Intanto dalla nave venivano calate le scialuppe sulle quali si erano imbarcati gli uomini dell’equipaggio (credo che tre di loro siano morti) e, non appena le lance si allontanarono dalla nave, l’affondammo a cannonate.

Prendemmo a bordo il capitano della petroliera (mi pare si chiamasse Knight) e il marconista. Durante l’interrogatorio di quest’ultimo, il Comandante Leoni gli chiese se avesse segnalato il nostro attacco. La risposta fu affermativa, anche se non era sicuro che il messaggio fosse stato ricevuto correttamente, in quanto trasmesso con la radio d’emergenza essendo andata distrutta la stazione principale. Nonostante questa incertezza, dopo aver trasferito il marconista su una scialuppa, il Comandante Leoni prese a rimorchio per un giorno e una notte le tre lance della BRITISH FAME con i superstiti; il mattino successivo, dopo essersi assicurato che i naufraghi avessero scorte sufficienti di cibo e acqua, dette ordine di mollare la cima a circa 100 miglia dalle Isole Azzorre, dove l’equipaggio della petroliera giunse sano e salvo.

Il Capitano, invece, rimase prigioniero a bordo del MALASPINA per i successivi 15 giorni, cioè fino al nostro arrivo a Bordeaux, dove lo consegnammo ai Tedeschi perché noi non avevamo campi di prigionia in Francia. Rimase però un grande amico del Comandante Leoni, arrivando a dire, dopo solo pochi giorni trascorsi sul nostro sommergibile, che l’affondamento della sua nave era servito, se non altro, a fargli conoscere che gente fossero gli uomini di mare italiani. Cessato il conflitto, i due Comandanti si scambiarono visita più volte in Inghilterra e in Italia.

Però il comportamento umanitario del Comandante Leoni non piacque ai Tedeschi, tanto che il Contrammiraglio Karl Dönitz che, da Parigi dove si trovava il Comando in capo dei sommergibili tedeschi con il compito di coordinare anche le missioni di quelli italiani, era venuto a ricevere il primo sommergibile italiano giunto a Bordeaux il 4 settembre, gli fece una dura reprimenda dicendogli che se fossero stati gli Inglesi ad avere la meglio sugli Italiani, non li avrebbero certamente rimorchiati, ma li avrebbero buttati a fondo. Tra le altre cose, Dönitz rinfacciò a Leoni che per fare un sommergibile ci vogliono sei mesi o un anno e per fare un uomo occorrono vent’anni, per cui, con il suo comportamento, aveva messo a repentaglio un capitale umano di enorme valore, oltre allo stesso battello. Al che Leoni rispose: «Signor Ammiraglio, la nostra civiltà, a differenza di altre, c’impedisce di infierire sul nemico quando è ormai indifeso».

Mi preme ricordare che allora l’Ammiraglio Dönitz era il comandante della flotta di sommergibili tedeschi che operavano in Atlantico. Fu lui ad ideare la tecnica di attacco del “branco di lupi”. In pratica ciò avveniva nel modo seguente: quando un sommergibile avvistava un convoglio, o comunque una nave nemica, mandava un messaggio cifrato al Comando di Parigi segnalando la posizione del bersaglio. A sua volta il Comando faceva confluire sul posto tutti i sommergibili che si trovavano nell’area di mare circostante, come un branco di lupi. L’attacco avveniva sempre in superficie e di notte con un lancio incrociato di siluri eludendo la difesa dei cacciatorpedinere che scortavano il convoglio. Pensi che nel 1940 gli Inglesi e gli Americani arrivarono a perdere fino a 400.000 tonnellate di naviglio al mese e infatti gli Americani si diedero a costruire ad un ritmo impressionante i famosi Liberty di cemento³.

Il giorno successivo al nostro arrivo, il MALASPINA entrò in bacino di carenaggio per verificare la causa degli inconvenienti manifestatisi nello stretto di Gibilterra e, contemporaneamente,

seguendo il consiglio dell’Ammiraglio Dönitz, per ridurre le dimensioni della torretta e dei periscopi. Infatti, il 4 settembre, quando vide il battello, disse: «Questa torretta sembra un castello, è troppo visibile. Se non le rimpicciolite, ve le buttano giù come birilli, e insieme a loro anche i sommergibili!»

Al termine dei lavori, che si protrassero per tre mesi, Dönitz tornò a Betasom per vedere le modifiche che erano state apportate al MALASPINA. In sostanza, l’Ammiraglio tedesco voleva rendersi conto di persona come stavano le cose sui nostri sommergibili, perché i rapporti che riceveva dai suoi ufficiali non erano affatto rassicuranti. Era convinto che sia gli uomini che i loro equipaggiamenti mostrassero parecchie carenze. L’addestramento ricevuto dai comandanti ignorava completamente la tecnica di attacco “del branco di lupi”, cosa che lui giudicava molto criticabile e poi gli era stato riferito che il vestiario di navigazione degli equipaggi non era idoneo ad affrontare le condizioni di tempo e di mare che si riscontravano in Nord Atlantico.

Durante la visita, Dönitz chiese al Comandante Leoni come era composto l’equipaggiamento del personale. Allora Leoni fece schierare in coperta l’equipaggio con la tenuta di navigazione, che in effetti era molto simile a quella dei marò del San Marco, in panno di colore grigioverde scuro. In caso di cattivo tempo, i marinai di vedetta indossavano una specie di mantella di panno con un cappuccio molto largo. La mantella era legata in vita con un cordone, mentre il cappuccio si stringeva attorno al viso con uno spago.

La reazione di Dönitz fu piuttosto incredula e concordò con l’Ammiraglio Parona che il MALASPINA avrebbe dovuto ritardare la partenza di qualche giorno, in attesa che dalla Germania fosse inviato l’equipaggiamento idoneo ad affrontare le tempeste invernali del Nord Atlantico. Infatti, tre giorni dopo arrivò un treno carico di indumenti: stivaletti imbottiti, giacconi e pantaloni di pelle rivestiti internamente di lana, incerate e sud-ovest⁴ per gli uomini di vedetta quando c’era cattivo tempo e infine i binocoli Zeiss che davano una migliore definizione dell’immagine rispetto ai nostri Salmoiraghi.

Però, nel frattempo, io ero diventato l’autista dell’Ammiraglio, come ho già raccontato in “Ricordi di un Chersino a Betasom” inviato il 14 gennaio 2014 e così iniziò per me una nuova esaltante esperienza. Quando vidi allontanarsi il MALASPINA dalla banchina della Base fui preso da un senso di profonda tristezza, sentendomi quasi in colpa per non essere tra i miei compagni della prima avventurosa missione di questo sommergibile. Chissà se li avrei mai rivisti!

 

 

 

¹

C.R.E.M. è l’acronimo di Corpo Reali Equipaggi di Marina. Equipaggi di Marina

²

Il Regio sommergibile MALASPINA era un battello oceanico appartenente alla classe MARCONI. Fu impostato il 1° marzo 1939 nei cantieri OTO di La Spezia, varato il 18 febbraio 1940 ed entrò in servizio il 20 giugno dello stesso anno. Scomparve senza dare più notizie nel settembre 1941. Dislocava in emersione 1.191 t. e in immersione 1.489 t. Lunghezza 70,04 m. Larghezza 6,82 m. Pescaggio 4,72 m. Profondità operativa 100 m. Propulsione: 2 motori diesel CRDA, potenza complessiva 3.250 HP; 2 motori elettrici Marelli, potenza complessiva 1.500 HP. Autonomia: 10.500 miglia a 8 nodi in superficie; 110 miglia a 3 nodi in immersione. Equipaggio: 7 Ufficiali, 50 Sottufficiali e Comuni. Armamento: 1 cannone da 100/47 Mod. 1938; 4 mitragliere AA Breda Mod. 31 da 13,2 mm. (2 delle quali binate); 8 tubi lanciasiluri da 533 mm con dotazione di 16 siluri; mine.

 

³

In realtà il governo americano, a livello sperimentale, a partire dal luglio 1943 commissionò ad un cantiere di Tampa (Florida) solamente 24 Liberty di cemento armato. Esse furono inviate in Europa e utilizzate per lo sbarco in Normandia. Due di queste navi vennero autoaffondate di fronte alla costa francese per creare una sorta di barriera frangiflutti.

Viceversa le Liberty tradizionali in acciaio (furono le prime navi completamente saldate per velocizzarne la costruzione), rappresentano ancora oggi la più numerosa classe di navi mai costruita: tra il 1941 e il 1945 ne furono varate ben 2.710 (2.580 modello base, 24 carboniere, 8 trasporto carri armati, 62 cisterne, 36 trasporto aerei). Le Liberty venivano assemblate in 18 cantieri navali ubicati sia sulla costa atlantica degli USA che su quella del Pacifico. Una miriade di cantieri minori producevano sezioni grandi e piccole delle navi, che poi venivano mandate ai cantieri principali per il montaggio. Le sezioni relative agli alloggi, ad esempio, arrivavano già complete degli arredamenti, così pure il ponte di comando giungeva con le strumentazioni nautiche già installate.

Si trattava in definitiva di navi semplici, lunghe f.t. 134,57 m. con stazza lorda di 14.245 tons. Erano state eliminate quanto più possibile le strutture curve per semplificare le operazioni di assemblaggio e saldatura (lo scafo era in sostanza un enorme cassone con forme affusolate a prua e a poppa); la coperta, in acciaio rinforzato per sopportare carichi pesanti che non trovavano posto nelle stive, era continua e spianata, con assenza di castello di prua e cassero di poppa; era presente una sola sovrastruttura su tre livelli nella parte centrale, contenente gli alloggi molto spartani. Le stive erano 5, tre a proravia del cassero centrale e due a poppavia. La motrice era una macchina a vapore a triplice espansione da 2.500 HP, con caldaie a tubi d’acqua alimentate ad olio combustibile ed elica a 4 pale; la manutenzione della macchina e delle caldaie era molto semplice, in modo da non richiedere un’elevata specializzazione del personale. La velocità massima era di 11 nodi; alla velocità di crociera di 10 nodi l’autonomia era di 14.000 miglia. L’equipaggio era composto da circa 40 uomini della marina mercantile più una ventina di artiglieri, mitraglieri e addetti alle comunicazioni della US Navy. L’armamento era composto da un cannone da 102 mm. a poppa – ma spesso ve ne era anche uno da 152 mm a prua – e da 8 postazioni di mitragliatrici a/a da 20 mm.

La forma dello scafo, molto capiente ma assai poco marina, rendeva le Liberty particolarmente soggette al rollio anche con mare non eccessivamente agitato. La nuova tecnica di saldatura delle lamiere, anziché la classica chiodatura, creò seri problemi per le sollecitazioni cui le navi, spesso sovraccaricate, erano sottoposte durante le violente tempeste invernali del Nord Atlantico. Prima che si ponesse rimedio a questo inconveniente, ben 8 Liberty si spezzarono in due all’altezza del ponte di comando ed affondarono.

Nel corso del conflitto andarono perse circa 300 unità. Delle restanti, 835 furono vendute alle marinerie di numerosi Paesi, tra cui l’Italia che, grazie a queste navi, fu in grado di iniziare la ricostruzione della propria flotta mercantile andata pressoché totalmente distrutta a seguito degli eventi bellici. Le altre furono messe “in naftalina” dalla US Navy e di volta in volta utilizzate per i trasporti logistici durante la guerra di Corea e quella del Vietnam.

 

Il sud-ovest è un cappello impermeabile usato nelle marine mercantili e militari con una grande tesa posteriore che si sovrappone al collo dell’incerata per evitare che la pioggia o gli spruzzi di mare si insinuino al suo interno.

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All'epoca di Betasom e oggi ... Ahi l'ingiuria del tempo!

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Al C.R.E.M. di Pola poco dopo il Giuramento

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Il MALASPINA ormeggiato nel bacino a livello costante di Betasom

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Sulla banchina di Betasom lungo la Garonna - A sinistra spunta il muso della SIMCA 1100

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C.te Chersino,

mai avrei pensato di poter rileggere il racconto dell'emozionante episodio

ora scritto da chi fece parte dell'Equipaggio del Smg.Malaspina !

Leggendolo nelle pagine del libro scritto dal C.te Leoni " Il sommergibile Malaspina è rientrato a Betasom "

mi ha tenuto con il fiato sospeso ma il Suo racconto mi ha provocato una maggiore

emozione perché raccontato da chi c'era e soprattutto da chi ora posso,con vero piacere, conoscere

anche se soltanto tramite le fotografie quì inviate.

 

Grazie tante C.te Chersino !!!

 

Le porgo un saluto ed un sincero

augurio di buon proseguimento !!!

 

RED

Modificato da Red
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Grazie ai C.ti Chersino e Max42 per averci consentito di vivere episodi storici in presa diretta.

Complimenti per le belle foto in cui si vedono ragazzi giovanissimi ai quali il destino ha affidato compiti così gravosi. Grazie ancora a Chersino ed onori ai suoi eroici compagni.

 

Antonio

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