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TUTTO IN UN SECONDO


Secondo Marchetti

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Provvedo, come promesso a Monsieur Marat e col gradito incoraggiamento del Dir, a rispolverare questo topic di cui, fino ad ora, ignoravo persino l'esistenza :s68:

Così, mentre pubblicherò uno per volta gli episodi del mio "romanzo breve" che ho scritto finora, andrò indietro a leggermi i contributi dei miei illustri predecessori :s03: Premetto però che i primi episodi sono a contenuto navale ridotto :s06:

 

 

Torino - Taranto - Tobruk

 

 

Lei non era rivierasca e non era come le altre. Non era neppure come lui d'altronde. I loro silenzi non erano uguali, lo sentiva quando stavano assieme: quello di lei più intenso e rilassato, da maretta in Inverno, il suo fremente come quello di un cespuglio di timo che d'Estate attendesse la brezza che lo scuotesse dalla sua siccità di parole. Solo col tempo aveva imparato a non temere i silenzi che pur non cercando gustava a fondo sprofondando le sue radici nell'aria immobile fra di loro. Lei parlava con accento diverso dal suo e con lei non poteva parlare in dialetto, ma la sentiva cantare la sua lingua quasi straniera, ancora più nordica, coi suoi genitori. Nello spazio di quelle poche parole arcaiche che gli capitava di cogliere talvolta sentiva tutto il viaggio per quella piana che stava di là dei monti e che mai aveva visto, e gli angoli umidi di luci artificiali od ombre intense di quella città di cui si faceva raccontare e che disegnava nel suo immaginario, sul modello delle sue parole, in totale fantasia.

Pensava così a quelle strade che sembravano gallerie, a quel che lei chiamava galleria ma aveva volte di cristallo, a quella torre puntuta che si perdeva nella nebbia e che pareva ricoperta d'alberi e rovi. Pensava a lei che passava sotto l'ombra di quell'enorme gnomone sulla città fattasi meridiana, lei che conteneva tutte le ore del tempo, la corona del sole vista da quell'ombra sarebbe forse stata meno luminosa del loro camminare in sincronia? E la nebbia... cosa meravigliosa per lui che la vedeva solo nelle mattine precoci in bilico fra le stagioni quando l'aria ancora fredda incontrava un sole già troppo vivo e la coltre umida saliva dal mare a scontornare tutte le forme troppo note della città e del mondo, impresse nello sguardo, facendo immaginare al posto di esse tutto l'ignoto... come poteva dire che non fosse bellissima la nebbia? Glielo chiese:

-Ma come fa a non piacerti?

-Tu dici che a te non piace il sole... è che quando vedi una cosa tutti i giorni... poi è fredda.

 

Fredda, già. Come poteva lei esser più che sopravvissuta, persino cresciuta florida in quel luogo dove la neve imbiancava e ghiacciava la pietra delle strade, dove per quelle strade gridavano i tram, e la luce del sole non giungeva per intere settimane? Che si mangiava e si vestiva pesante e severo? Nessuna meraviglia che l'aria marina l'avesse portata a nuova vita. Però il grigiore dei porticati le era in qualche modo rimasto sulla pelle. La sua grande città era di là dei monti: e quando tirava tramontana era come se lui respirasse il vento che aveva spazzato vapore e fumi di carbone, lambito la guglia, fischiato fra le colonne, scarmigliato i capelli di lei. Ci sentiva in quell'aria anche profumo di fiume, d'ombra di ponte, di viaggio. Eccolo, il nastro gemello scintillante che andava lassù... Spesso lei andava e tornava con la famiglia, per le feste, per trovare i parenti a lui sconosciuti, e lui restava. Ad immaginarla in viaggio. “Che strano concerto, ora romantico, più spesso trionfale.

Al tamburo, il ritmo tribale delle ruote dei carri e dei giunti dei binari, il fantasioso scuotimento degli arti rossi della creatura sui turbamenti degli scambi. Agli archi, i pantografi della E 554 che strisciavano sulla linea trifase il cui braccio elettrico (violoncellista tedesco, si chiamava Hertz) andava e veniva sedici virgola sette volte al secondo, frequenza speciale, diversa da quella industriale e frenetica a cinquanta. Monotono? No, perché arco e filo si spostavano e riverberavano ora contro la volta delle gallerie, ora contro la volta celeste, in mezzi toni sempre diversi. Ai fiati, fischietto, fischio e tromba, più il segreto ed infernale gorgoglio dell'acqua sodata nel ventre reostatico della 554, dell'aria compressa nelle sue vene aeree. Alle voci, due grandi motori da 1200 chilowatt con chilometri di corde vocali in rame: duetto che prendeva il suo lavoro troppo sul serio, eclissando spesso gli altri componenti dell'orchestra. Cominciava a cantare con tutti i poli in serie con una sorta di ringhio basso, ma melodico, per poi aumentare di tono quando con lo shunt si passava al serie-parallelo, per arrivare alla grande apertura vocale del parallelo. Tutti gli altri motorini del complesso, le ventole ed il compressore, supportavano il duetto nelle stazioni ma scomparivano appena la musica viaggiante si lanciava sulla piena linea. Braccio alzato al semaforo, direttore d'orchestra! Fai tremare le viscere dei monti scuri, illuminane le profondità con scintille e acetilene, semina il ronzio degli archetti nel vuoto dei viadotti, affidalo alla brezza del pomeriggio che con te risale la corrente del fiume. Sì, sei tu il direttore: hai una bella uniforme elegante in lana nera a prova di fuoco che io t'invidio, e dirigi tutto il tuo complesso con quella grande maniglia d'ottone a settore dentato, che tanta delicatezza richiede, d'orecchio, di piede e di lancetta. Tu hai la tua bacchetta, ma dipendi a tua volta da altri indici tremolanti: tachimetro, termometri, manometro, voltmetro, e il grande serio quadrante importantissimo dell'ampèrometro. Non portarla mai sopra i 400 ampère la tua balzana creatura musicale, direttore! Le corde vocali non reggerebbero oltre. E mai sopra i 50 all'ora, le rosse braccia che mulinano le cinque mazze sui tamburi longilinei non terrebbero più il giusto ritmo. E' massiccia, nera, pesante, quasi brutta, anzi, molto brutta a vedersi, ma sensibile, talvolta delicata.

 

E ricordati di chi ti ascolta, direttore, ricordati dello sguardo un po perso che fai correre sulle creste, conciliale il sonno se salirai il colle con la neve, fischia ad arte per svegliarla se ti sorprenderà un sole colorante che non vorrebbe perdere. Fai cantare la tua raffica d'acciaio e benedici la montagna e la roccia che non si scuote al tuo passaggio, il piede del ponte paralizzato nel gelo del fiume che non si smuove, la spalla del muro che non rovina e ti sostiene sul baratro. Sii gentile, direttore, nel dare lo shunt e cambiare la combinazione di trazione alla tua elettrica trattrice di vento, non far scuotere la noia di colei che trasporti, non far stridere il freno, non offendere l'orecchio di lei e la pace delle valli con suoni non liturgici. Accordati alla nenia del fiume che fa eco nelle bocche spalancate degli archi che vi balzano sopra a trenta, quaranta, sessanta metri, ricordati che ogni altezza è un'ottava da aggiungere. Accordati al vento che trascini in stazione, che spingi nei trafori, che combatti e che assecondi. Porta la noia divina di colei che ormai sai al sicuro di qua e di là del valico. Regalale nuove visioni che mi racconterà. Anche la mia vita, di me che resto, è nelle tue mani, direttore in partenza, quando con te parte chi ormai tu sai.

 

-A che pensi?

-Uh... a niente, Angelina.”

 

-Secondo, ci sei? A che stai pensando?

 

Voce diversa da quella di lei: era il suo sottoposto, Tore, che lo richiamava alla realtà. Di colpo si ritrovò sul castello di prua del Fulmine, elmetto in testa, giubbotto salvagente, guanti di cuoio, odore di pece; posto di manovra per mollare gli ormeggi. Si salpava! Lui stava supervisionando una squadra di marinai che facevano il lavoro pesante e si accingevano a districare le gomene dalle bitte. Il Comandante dall'aletta di plancia sopravento teneva il megafono appoggiato al parapetto e guardava. Quindi prese l'aggeggio e ci urlò dentro, la sua voce ne uscì distorta in peggio:

-Pronti a mollare!!!

Secondo alzò il braccio in segno affermativo. Poi ai compagni:

-Come sempre, cominciamo da sottovento, quindi via prima a sinistra."

 

"Pronti a mollare? A mollare la gomena, sì. A mollare tutto il resto, faremo conto di sì. Cavo di canapaccia tagliente, pesante, puzzolente da bagnato, tu sei l'ultimo legame con la terra, ed io ti vedo scorrere via come svogliato attraverso il passacavi con una nostalgia che mai avrei pensato tributarti, come fossi il braccio d'un ultima carezza di ragazza sul panno grigio del compagno. Ecco, sento la creatura già più libera, e fluida sta su quest'acqua che di qui a Tobruk, a Tripoli o dove diavolo andremo, non ha confini, indifferente ai nostri destini.”

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Eh ......, avevo visto giusto.

Adesso qualche cavolo amaro per chi deve trovare i giri di frase giusti ci sarà.

Io una cosa mia te la dirò. Ma temo non sia spendibile in pubblico (può essere però che non ce ne sia nemmeno necessità, e che tu stia già al riparo del frangiflutti esterno).

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Caro Secondo non farti distrarre dal canto suadente di certe sirene (o forse sarebbe meglio dire di certi "sirenidi"? :s03: ). E soprattutto se il tuo obiettivo è vivere scrivendo cambia registro

 

Qua non si tratta di sirene o tritoni. Si può avere il piacere di scrivere e magari pure pubblicare facendo l'ingegnere, l'impiegato alla Rinascente, il ricercatore di Fisica o perfino l'insegnante.

Me lo sono stampato e letto con comodo.

Non sono consulente editoriale, ma se lo fossi credo che avrei solo tolto pochissime righe (che non riguardano la nautica)

E siccome appunto non ho tempo di trovare i giri di frase giusti, taccio ed ammiro.

Modificato da malaparte
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Qua non si tratta di sirene o tritoni. Si può avere il piacere di scrivere e magari pure pubblicare facendo l'ingegnere, l'impiegato alla Rinascente, il ricercatore di Fisica o perfino l'insegnante.

Me lo sono stampato e letto con comodo.

Non sono consulente editoriale, ma se lo fossi credo che avrei solo tolto pochissime righe (che non riguardano la nautica)

E siccome appunto non ho tempo di trovare i giri di frase giusti, taccio ed ammiro.

 

Comandante Malaparte non intendevo essere sgarbato nei confronti del collega Secondo, che invito a perseverare nella sua bella iniziativa, ma ritengo che il peggiore dei vizi che affligge le persone che ci stimano sia quello di tramutarsi spesso in involontari laudatores . La mia opinione personale (soggettiva e per questo criticabile) è che lo stile sia ancora un po' acerbo...Cordialmente Nicola Ragnoli alias Corto Maltese.

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Grazie a tutti per l'attenzione. In effetti i primi episodi non piacciono neppure a me, posso dire a mia difesa che per ora sto solo mettendo su un'impalcatura per dare un senso ad una storia che, al 90%, è ancora tutta da trovare. Sono spiacente ma per un pò si andrà avanti a melensaggini :s03:

Anche questa è al contempo acerba e melensa :s19: ma sarebbe scorretto da parte mia se la modificassi prima di pubblicarla.

 

Galeotto fu Dante

 

Una primavera del 1938. Una fra le tante che caddero quell'anno.

Lasciando uscendo l'ombra dell'androne per la cappa fumosa del primo pomeriggio dalla luminosità violenta e scolorita, spesso con la bella stagione la trovava seduta sull'ingresso di casa: allora dopo un saluto smozzicato e tirato per i capelli dava ad intendere di esser molto occupato, ma di fermarsi volentieri un po a parlarle; solo per farle sembrare un pregio quella conversazione che spesso dal suo nasone unto scivolava nel banale. Lei era al contempo troppo in gamba per cascarci e troppo gentile per dirgli che non si beveva le sue scuse per impreziosirsi. Eppure proprio per queste goffe messinscene lei sentiva l'impulso di ridere... e lui s'illuminava umilmente, sentendo accanto a lei un pò discosto. Pensava di poter cessare allora la recita; ma quante volte doveva dire il contrario di quel che pensava? Lei talvolta faceva discorsi difficili che lo facevano subito balzare nella trincea in previsione di un altro assalto:

-Sai, mi è capitato di ripensare a Paolo e Francesca. C'è qualcosa di meraviglioso che il professore non ci disse.

-Ah sì?

"Certo, -si diceva- non si voleva correre il rischio di infiammare le vostre fantasie di educande."

Che hai pensato?

-Credo che in loro io abbia scoperto qualcosa che somigli all'amore eterno.

Secondo a sentire quella salva di parole poetiche e pericolose pronunciate quasi sottovoce vacillò. Ma poteva resistere a ben altro ormai, e passò al fuoco di controbatteria, incurante di sé, dicendo in un tono che voleva essere vivamente curioso ma che gli riuscì di sfida:

-Spiegami, dai.

Lei, percepita quell'inflessione, elaborò che Secondo dubitasse del suo pensiero e lo fulminò un istante. Poi riprese più benigna, guardando lontano:

-Pensaci, Dino: loro son morti, ma noi li pensiamo quando leggiamo la storia. Ognuno di noi ripensa a loro, non può non farlo, ognuno se li immagina, se li sogna, ed è come se loro rivivessero nei nostri animi... ad ogni istante nell'animo di qualcuno che stia leggendo la Divina Commedia loro leggono di Lancillotto e Ginevra... è come se esistessero ancora in una catena ininterrotta di poesia, da settecento anni e finché qualcuno leggerà, parlerà di loro... continueranno ad amarsi.

 

Silenzio. Lei era ricaduta nell'affrescare sul muro scalcinato davanti ai suoi occhi la scena dei due amanti portati via dal vento. Lui, che non s'aspettava tanto -pensava piuttosto ad un sermone sulla perpetuità dell'inferno- cercava di non sudare e di non dire una qualche stupidaggine. Umiliato ed ammaliato dallo spiraglio apertogli dal suo pensiero, ora anche lui sognava di chiamarsi Paolo... ed Italo sarebbe stato Gianciotto... ecco, parlando del Quinto Canto galeotto si sarebbero avvicinati. E l'avrebbe baciata per la prima ed ultima volta, perché Italo sarebbe piombato sui colpevoli sventrandoli col suo pugnale. Ma che non vale la pena di morire così? Che non lo vorremmo, mollare la vita in un istante così che varrebbe cent'anni? No, no! Calma, che fa caldo! Idiota, perché penso a queste cose? Idiota!! Lasciala fuori dai tuoi deliri.

-Però... -aveva una voce belante che lo tradiva. Si corresse schiarendosela in un violento sussulto- Ognuno se li immagina diversi. Possiamo dire che siano proprio loro? Tu come li hai immaginati?

-Lui bruno e forte, lei piccola, bionda. Vestiti stracciati, macchiati di sangue. E tu?

 

"Io? Lui piccolo stupido e debole e col nasone unto. Tanto anche il Paolo di Dante si vede che è un pirla come me. Lei, uguale a te."

-Ma... anch'io li pensavo come te...

-E allora!

Lei si rese conto dall'attività delle mani di Secondo che qualcosa lo turbava. Era spesso così, e lui detestava che gli facessero notare che aveva la testa di vetro e che tutti potessero leggere, per segni a lui sconosciuti che dava inconsciamente a vedere, i suoi pensieri più nascosti.

-Che hai?

-Nulla... perché, te che cosa mi vedi?

Fissò lo sguardo sul volto di lei; ma siccome non riusciva a sopportare la potente spinta dei fotoni che rimbalzavano su quella pelle liscia illuminandola per venire poi a morire senza gloria nel cavo spento dei suoi nervi, non la metteva a fuoco e doveva avere un'aria strana davvero, di sorpresa e stordimento.

-Ma... sembri nervoso. E' per quello che abbiamo detto?

Non ne poteva più ed abbassò il capo con sollievo:

-Sì... sì.

"No. Non è possibile che io ti riveda in ogni libro che leggo. Ne ho fin sopra i capelli. Che diavolo devo fare per liberarmi di te? No. Che diavolo devo fare per volermi liberare di te?"

-No. Non è vero. Ho un peso qui che...

Lei gli si rivolse con una voglia sincera e benevola di sapere dei suoi mali, per sapergli dire una parola:

-Dimmi tutto.

"Col cavolo che ti dico tutto. Mai e poi mai."

-Ho deciso. Il mese prossimo vado a La Spezia a passare la visita.

-Davvero?

-Sì. Parto volontario in Marina. Scuola sottufficiali.

 

"Lo sapeva già lei dove doveva andare. Perché sottolinearlo? Secondo, imbecille, quelle parole astruse e violente non la colpiscono, è inutile che tenti di guadagnare dignità così meschinamente. Lei non si rattrista, vedi? Inutile che cerchi di competere con Italo, di lui non le piace la camicia nera ma il corpo che nasconde."

 

-E perché ti senti triste? Non era quello che volevi?

Lui cominciò a gesticolare brevemente fissando il terreno vuoto:

-Sì ma... partire e mollare tutto... la mamma la vedo triste, mio padre ancora non vuole... insomma, ho un magone che...

Ora aveva gli occhi umidi ed un bisogno di cantare. Ma lei gli pose una mano taumaturgica sull'osso della spalla, e cambiò all'ultimo la canzone a bassa voce:

 

Il sacco è preparato

sull'omero mi sta

sono uomo e son soldato

viva la libertà!

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Un mio amico sostiene di non leggere niente altro che l'Odissea perché tutto quello che doveva essere scritto é gia lì (non é vero che non legge altro, però non va oltre i classici latini, e quindi conferma l'assunto).

Io da ragazzo ho giurato che mai avrei scritto una riga in più di quelle indispensabili al lavoro (e scrivere non lo consideravo un lavoro) perché bisogna avere la certezza di poter scrivere qualcosa che non é stato mai scritto, per avere la giustificazione di farlo. Siccome ho continuato a pensarlo per (quasi) tutta la vita, evidentemente ero sulla stessa linea del mio amico. E non mi limitavo alla scrittura: dichiaravo l'inutilità di fare musica dopo Bach, e di utilizzare pennelli dopo Caravaggio.

Poi, quando la vecchiaia ha cominciato a concedere sempre più licenze alle mie sinapsi, ho cominciato a lavorare attorno a quel quasi in corsivo (ho cominciato a farlo per molti quasi). E ho trovato che Shostacovich e Paul Klee avevano fatto bene a non impiegarsi al catasto.

Ho trovato che nemmeno l'Odissea (o il terzo concerto Brandenburghese , o il Seppellimento di Santa Lucia) era una, ma tante quante i suoi lettori (e che gli ottusi si creavano la propria con la medesima legittimità dei lettori di genio).

Io non so se Secondo scrive melensaggini, e non so se il suo stile é acerbo. Ma che mi piace leggerlo, questo lo so. E che non offende il lavoro degli operai che hanno sudato per fare la carta e l'inchiostro che utilizza, questo lo so pure.

Non fare concorsi per il catasto, Secondo.

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Non fare concorsi per il catasto, Secondo.

Coi tempi che corrono, no escluderei la cosa.

Conosco un impiegato del catasto che legge Kant- non so perché, ma lo fa- e un bidello (marocchino) che mi ha spiegato, fra le altre cose, che Roland Barthes è morto investito da un fornaio (marocchino)

 

 

Si può avere il piacere di scrivere e magari pure pubblicare facendo l'ingegnere
(Gadda),
l'impiegato alla Rinascente,
(Quasimodo, Salvatore ovviamente)
il ricercatore di Fisica
(paolo Giordano, insomma La solutudine dei numeri primi - era solo un esempio-
o perfino l'insegnante
(oddio...).
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Io a dire il vero vedo schiumeggiare davanti a me le secche del concorso per diventare professore d'Italiano nella pubblica amministrazione francese, sulle quali mi accingo ad incagliarmi a tutta forza :s03:

Approfittando dell'ora tarda e della bassa affluenza pubblico il breve tassello seguente, sperando che passi inosservato :s21:

 

Il contratto

 

Dall'alto di due anni di guerra era facile ridere dei giorni della scuola sottufficiali. Eppure Secondo non dimenticava quanto allora avesse patito, quanto quel che viveva gli sembrasse la frontiera ultima, l'ultima trincea da superare, l'ultima e più grande difficoltà. Sì, sarebbero venuti altri concorsi, altri scorni: voleva fare il ferroviere, dopo il servizio in Marina: ma questa gli avrebbe fornito istruzione e forza d'animo, e tutto sarebbe stato in discesa, dopo.

Invece era venuto il 10 Giugno, a portarsi via quella certezza. Le luci della costa erano oscurate per la guerra, non c'erano più fari da seguire. Solo profili indistinti e lontani. Quale che fosse, il suo presente continuava a sembrargli il tempo più duro che avesse mai vissuto, in una marea montante di mali e di trappole.

Il primo giorno in cui aveva avuto a che fare con la Marina lo ricordava come uno dei più lunghi di sempre.

All'alba sua madre lo svegliò, gli fece trovare un poco di colazione. Lui voleva rifiutare tutto. Sentiva la gola chiusa ed il cuore fin troppo aperto ad ogni offesa.

Anche l'affetto lo feriva. Forse proprio perché era l'affetto che stava lasciando. Sedeva al freddo al tavolo sotto il cono di luce e sua madre armeggiava quieta intorno. Lui guardava in basso ed era lento a mangiare.

-Su, mangia, che fai tardi...

La frase quasi bisbigliata lo portò ad un passo dalle lacrime. Ma voleva che nessuno lo vedesse piangere, perché sarebbe stato come scrivere su un muro al sole tutto quel che si sforzava a tener dentro. Si gettò con ostinazione sui pochi biscotti che restavano, senza pensare a nulla, annullando i pensieri con furia in un'automazione del vivere che, forse, gli avrebbe risparmiato un qualche pò di male.

Sentì senza ascoltare il fiotto di raccomandazioni che sua madre gli dava mentre si preparava ad uscire, bisbigliando come tutta risposta dei sì. Si martoriava con i lacci delle scarpe e le cinghie del sacco che si mise in spalla, come se volesse allacciarsi ben stretta un'armatura. Non poté non sentire la carezza sulla spalla che gli fu lasciata prima che lui si chiudesse la porta dietro le spalle.

La doccia di Tramontana che lo investì lo liberò per un poco dell'oppressione. Era vento del gran mondo, libero e forte come la gioventù. Se ne sentì fortificato, fino a quando non passò davanti al gradino della porta di Lina. Lei dormiva tranquilla, a quell'ora, la sua casa pareva un blocco ermetico che la proteggesse dalle insidie dell'esistere, quelle in cui lui andava a cacciarsi a testa bassa. Gli pareva di sentire un calore provenire dal punto dove lei soleva sedersi quando parlavano nell'ultimo sole, aspettando cena, percepiva una traccia sul travertino insensibilmente liscio. E si fermò a guardare. Una piena di sentimenti si aprì un varco negli argini deboli, appena eretti. Si sentì vacillare. Gli sembrava di essere in un mondo parallelo dalle regole assurde, in un grande gioco folle.

Ma che diavolo stava facendo? Dove andava? Perché a quest'ora non stava dormendo placido e beato al suo fianco? Perché doveva partire per casa di dio a fare non si sapeva cosa? Perché, in fondo, la vita si prendeva gioco di lui così crudelmente, costringendolo a mollare tutti gli affetti, a viaggiare da scemo sperduto?

Una rabbia lo prese e lo scosse dal torpore. Si faceva tardi, già il cielo tendeva al violetto. Dovette affrettarsi verso la stazione e lanciarsi di viva forza nel primo vagone che trovò. Si imbucò nel primo scompartimento libero che vide, sistemò col residuo di furia il sacco, ed incollò il naso al vetro, finalmente acquietandosi. Quando la E 551 in testa al convoglio affondò le lame del reostato nell'acqua sodata dando la prima corrente agli avvolgimenti, e gli acciai si tesero violentemente nel freddo, la città appariva come una cresta nera sul fondo dell'alba. Secondo si rifiutò di languire guardando il centro del mondo. Accolse lo scossone che gli segnalava la partenza del convoglio con un sollievo di nuova nascita.

Fino a Genova c'era già arrivato, in passato: eppure il suo sguardo beveva il paesaggio che gli scorreva davanti con avidità, per non pensare troppo. A giorno fatto, mentre si filava sopra scogliere e mare lucido, passò il controllore a scuoterlo dalle amarezze, e gli mostrò il cartoncino blu con l'ancoretta che gli era stato dato come biglietto. La figura in divisa dall'aria professorale squadrò il contratto di viaggio di sola andata, e restituendolo al viaggiatore abbozzò un sorriso che sembrò amaro. Secondo gliene fu comunque grato.

A Genova dovette subire la violenza del cambio. I muscoli intorpiditi nella posizione del viaggio dovettero rimettersi in moto, e così i moti dell'animo che erano andati placandosi. Nella calca operosa della banchina, lui che non aveva nessuna fretta si sentiva davvero sperduto. Non solo perso fisicamente, perché di preciso non sapeva dove fosse da prendere il nuovo treno, ma anche fuori posto, alieno in tutto. Un bambino. Si rendeva conto, senza provarne vergogna ma solo bisogno di affetto e contatti umani, che in fondo era rimasto bambino.

Girovagando un poco cercando di non essere d'intralcio ai passanti ed ai facchini, riuscì a trovare il suo nuovo treno. Da allora in poi, tutti i posti che avrebbe visto sarebbero stati nuovi e sconosciuti. Finalmente lo prese quel po di senso dell'avventura su cui aveva sperato di poter contare fin da subito, trovò persino il coraggio di prendere nel sacco ed aprire il fazzoletto che sua madre gli aveva confezionato, con la merenda. Mangiò comunque con voracità, per non dare appigli alle sue troppe incertezze. Perse il conto delle gallerie che dovettero attraversare; le valli che vedeva portavano segni d'Alpi, colori scuri di alberi cresciuti nell'ombra, e quel che pensava percorreva altri binari, su altre linee, mezze esistenti mezze immaginarie, rivedeva trafori eroici, il silenzio delle quote conquistate solo minacciato dal luccicare dei binari.

S'immaginava "al sommo del portale della galleria una figura avvolta in bianco paludamento, sul gigantesco cornicione placidamente distesa, lo sguardo benevolo, quasi persona che riposi dopo lungo ed affannoso operare. Essa è la Morte. Ed i viaggiatori, dopo aver visto il suo volto di Medusa, d'una beltà disperata e raggelante, e fluttuare i suoi capelli nero cosmico, cessan di sentire il martellare delle ruote. Il loro essere superficiale strappatogli dallo sguardo della Dama, rimasti pura anima, sentono un bisbiglio, invece... memento nostri... memento nostri... voci dei Caduti nella battaglia fra uomo e montagna. Ma è solo un attimo. La Bella ridà loro le apparenze. Il treno riprende a tuonare sotto le cime. Essi non sentono più voci, non ricordano nulla della bianca figura dagli occhi abissali. Senton solo quanto anche le grandi imprese umane sian vane, al cospetto di Lei, che ovunque arrivino li porterà per mano dove solo Lei sa, altrove."

A Lei Secondo riusciva a dare un volto solo. Quello di colei che pure rappresentava per lui la Vita stessa, in lei gli estremi si incontravano e riunivano. Perché no? In fondo ogni nascita è una futura morte.

 

Scendere dal treno comportò per lui anche lo scendere da questi pensieri. Era arrivato alla Spezia in un primo pomeriggio assolutamente anonimo. Ma vide un pennacchio esile di fumo salire verso Sud, sopra i caseggiati che precludevano la vista del mare: fumo di caldaie di nave! Se la luce del giorno scarno lo aggrediva e lo faceva esitare, la vista di quel segnale di nave in partenza gli ridiede buona volontà, e si presentò alla caserma Duca degli Abruzzi quasi con entusiasmo. Un Sergente stava al portale con due comuni. Dopo tanto silenzio, il parlare gli restò ingarbugliato:

-Buongiorno, sarei volontario per la scuola sottufficiali, dov'è l'ufficio che devo vedere?

Il Sergente, senza aprir bocca, gli indicò una porta dall'altro lato del grande cortile dove una breve fila di civili come lui, vestiti da viaggio e valigie o sacche, attendevano di poter entrare.

 

"Vi offro il mio corpo e la mia anima. Vi prego, in cambio, di far di me un Uomo."

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Con la puntata odierna, le cose cominciano a farsi serie :s41:

 

Lettera a Lina

 

Erano riusciti a far di lui un Uomo? Da allora aveva un'uniforme, un posto definito nella società. Ma se le sue paure infantili l'avevano abbandonato, altre eran venute a prenderne il posto, se sperava di non patire più come quand'era partito, era stato deluso. Aveva la sola consolazione di sentirsi parte della Storia. Una parte infinitesima senza la quale questa raffica che li travolgeva tutti sarebbe stata impercettibilmente diversa.

Navigazione di rientro in Italia, sempre in convoglio ma a navi scariche. L'insidia nemica permaneva, lo sentivano tutti, ma in forma attenuata. Le carrette che scortavano potevano fare qualche nodo in più che all'andata, e se i sommergibili e gli aerei erano sempre là dove non li si vedeva, le navi di Malta pareva non uscissero a caccia di prede vuote. Si trovava persino il pensiero necessario per scrivere qualche lettera, specie dopo che si era passata la latitudine di quella massa di pietra che l'Aeronautica s'accaniva a demolire e che, malgrado ciò, continuava a minacciare le loro vite. Secondo aspettava il giorno in cui, con la Squadra da Battaglia ed una flotta d'invasione dietro le spalle, si sarebbero presentati davanti alla Valletta a regolare qualche conto con il tiro battente dei loro 120/50. Ma d'altronde fino ad allora non aveva fatto altro che passare da un'attesa all'altra; attendeva un grande avvenimento, questo quindi succedeva e svaniva con la consueta istantaneità; passava ad attendere il seguente.

 

Una mattina di gran calma e di cielo coperto, scuro verso prua. Il Fulmine sorvegliava cielo e mare sul lato dritto del sodalizio dei tre mercantili, guidava la formazione il Camicia Nera. Di tutte le navi risaltava la traccia bianca, perché tutto il resto era scolorito. Non fosse stato per le bandiere e il bluastro residuo del mare, si sarebbe detto una pellicola.

Secondo, che aveva fatto la guardia da mezzanotte alle quattro, si svegliò prima del solito e la strana luce di piombo che veniva dagli oblò lo incuriosì e lo mise di buonumore. Amava i giorni nuvolosi senza pioggia, in cui il mondo gli pareva più ospitale; smontò dall'amaca, la ripose, nella penombra che sentiva il russare e il tepore dei corpi si rivestì di camisaccio e scarponi per uscire in coperta.

Ora doveva aspettare l'ora di colazione, quindi l'ora in cui riprendeva la guardia. Inoltre aspettava che tornassero in porto a Taranto, ed aspettava la prossima licenza. Aspettava il suo compleanno, il momento in cui si sarebbe deciso a parlare a Lina e la fine della guerra.

Per un minuto restò dalle parti del fumaiolo, vicino alla cappa di un turboventilatore di caldaia, a godersene la lieve corrente d'aria ed il rumore costante e furioso, che lo risvegliavano appieno; i serventi della Vickers da 40, il pesante e quasi inutile monumento contraereo che ingombrava la coperta, stavano appoggiati alla parete e parlottavano; poi, sentendosi straniato, Secondo si ritrovò quasi per inerzia od abitudine a raggiungere il suo reparto a poppa.

Giuà -Giovanni per gli altri- stava sotto il casotto della diesel-dinamo, davanti all'impianto, come nelle notti invernali: non faceva freddo, ma a lungo andare il levigare dell'aria mattutina solcata dalla nave ne dava l'impressione. Fu sorpreso di veder comparire Secondo dall'aria smarrita.

-Già ora del cambio?

-No, mi son svegliato e volevo uscire. Freddo?

-Sì e nò. Stai lì fermo un minuto e mi dirai.

Secondo venne invece a sedersi con lui. La piazzola del telemetro sovrastante faceva di quell'angolo il meglio riparato in cui potessero tenersi a ridosso. Si poteva persino scrivere, quando il vento non urlava od il mare non saliva in coperta. La vibrazione familiare della turbina sottostante, che giungeva a serie di onde, più alte, più lievi, teneva compagnia a tutti. La struttura della nave era un po leggera in rapporto alla potenza installata, anche a quelle basse velocità si sentiva lo scafo che lavorava con impegno per contenere la forza del vapore e dirigerla nella giusta direzione, facendo appello ad ogni sostegno, facendo leva su ogni giuntura.

Secondo estrasse dal tascone un foglio che sembrava aver patito molto.

-Dì, ma non le manderai mica quella strassa alla Lina, nè?

-Questa è la brutta copia. Arriviamo a terra e la riscrivo come si deve. Volevi leggere no?

-Fà vé in pò!

 

Scorse un nome alieno in fondo alla pagina e disse malizioso:

- Ha-haa! Ci hai messo di nuovo la storia di Maria! Ma esiste o no alla fine?

-Maria non esiste: le ho inventato di avere una tresca con una di Taranto, così le racconto di quel che facciamo, ma in realtà le dico di quel che mi piacerebbe fare con lei. Maria è Lina.

 

"Cara Lina,

la lettera parte da Taranto, ma le parole te le ho pensate e scritte in Africa. Spero che tutto sia a posto a casa, che Italo ti abbia scritto e che stia bene. Sai che non posso dirti dove andiamo e cosa facciamo, ma ti prometto che racconto tutto quando tornerò. Sappi che ci facciamo onore, abbracciami forte i tuoi.

Ti scrivo dal porto dove ci hanno comandato di portare il convoglio. Il fronte è lontano, però arriva pure qui, tutto è fronte e si sente sempre un poco di pericolo che ci fa vivere più intensamente. La passeggiata è stata sventrata qua e là da qualche bomba corta per le nostre navi. Le facciate delle case e le palme sono tutte mitragliate di schegge, e qualcuna è anche venuta giù. Ma ormai dove non è arrivata questa grandine? Sono sereno pensando che tu ed i miei, almeno, siete al sicuro.

Qui sarebbe da restare sempre a bordo, ma il Comandante è bravo con noi e, se stiamo in banchina, ci lascia scendere a terra in franchigia, che tanto non gli possiamo sfuggire di mano qui. Gli basta che non ci facciamo sparare dalle sentinelle. Alcuni di noi sentono il mal di terra e tornano subito a bordo, certe volte possiamo scendere anche la sera e stiamo fuori fino alla guardia delle quattro, a girare, che c'è un caldo che dormire fa fatica. In una notte puoi girare a piedi tutta la città. Non c'è bisogno di luci, e stiamo sempre a guardare il cielo.

La notte qui non ci credi. Tante stelle, la via lattea, se stai in città un umido che ti entra dentro. Il mare si alza in silenzio, e quelle che vedi non sono costellazioni, è il riflesso della luna sulle onde, la via lattea è un refolino e potresti saltare dal fondo e nuotare a toccare quelle luci, come un delfino.

Di giorno un'aria blu che ti strappa l'anima, pura, scura, profonda. Vedi lo spazio dietro, se fai bene l'occhio al blu. Ti toglie i confini, ti fa sentir minuscolo. Sull'acqua invece non vedi refoli e riflessi ma macchie di nebulose e luccicar costellazioni, e guardandoci non sei più sulla terra alla linea dell'orizzonte, sei da qualche parte del cosmo. Ho Venere a prora e Marte dietro le spalle. Il Sole è in burrasca, oggi.

Penso a Maria e la vorrei su questo lungomare con me, perché ho poco spazio per queste maree d'amare e le dissolvo in questo mare, le dono al mondo.

Vorrei dirglielo attraverso la sua mano.

Questa brezza che in paziente,

incosciente silenzio setacci

a sottili respiri, non senti?

E’ trasparente, acqueo sangue

vedrai la sua ombrosa fonte:

è corrente marina, viaggiante

fitta sotto la piatta lucente

e zitta. L’aria che ci bagna,

che per tua vita inconsapevole

sorbisci, tu che mai patisci,

è la lieve linfa persa

e scorsa via, fuori dalla mia

via d’acqua ed io, illuso,

che pur mi credo integro. Sguardi

ostili, calpestatemi sempre,

e drenami ancora, vivere arido,

solo sole di solitudine:

così spargo il passato

ed il passante del mio essere.

Guarda, i cirri in cielo:

vedi solo alte nubi. No:

sono creste di frangenti…

Quest’aria, secca sembra:

illusione d’Estate sassosa:

basta poco ad immaginare

che si stia sotto il livello d’un mare.

Ed ormai i chiari abissi

più non son celati in me:

son cosparsi per l’Oceano

che non senti intorno a noi."

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Oggi c'è il tre per due :s01: tanto queste sono solo robette (tutto il resto: è noia)

 

Secche di Kerkennah

 

C'erano lunghi pomeriggi dove non c'era terra in vista, ma l'Africa già s'annunciava per qualche segno altrimenti visibile, come il mare meno nero, il sentimento di avere già un fondo sotto di sé, un solitario "Gabbiano" CANT Z 501 che, venuto da terra, circuitava ronzando pigramente sopra il convoglio, in pattugliamento antisom. Si inclinava nel suo volo lento a larghe virate che attirava gli sguardi ed il rumore del suo unico asfittico motore, in lotta per tenere in aria quell'ala lunga a parasole e la fusoliera da barcone, dava un senso di noia ed impotenza, ma anche sicurezza. Non si era più soli, ora, benché male accompagnati.

Non era la salvezza, tutto questo: ma non si sentivano più i seimila metri d'acqua divoratrice che graffiavano la carena sottile del mondo, le reti d'onde radio dei radar nemici. Secondo dava sfogo all'esasperazione accumulata in quegli stranianti tre giorni passati sotto la mano ossuta di Malta, sedendo vicino al suo impianto trinato da 21", fissando senza scopo qualcosa che attraesse la sua vista, dal Gabbiano alle teste dei rivetti annegate nella pittura che tenevano assieme la sua nave. Si abbandonava a pensieri incoerenti, senza capo né coda, legati assieme in una ricercata inutilità. L'Africa, bassa di costa, ammantata di polveri e vapori in sospensione, tardava sempre a dichiararsi. Erano ben lontani gli ultimi giorni di pace, quando Genova illuminata la si vedeva da trenta miglia fuori. La città-nebulosa s'era svelata molto dopo i lampi della lanterna, ma quella dei lampioni sotto i quali la vita si svolgeva era la sola luce che contasse per lui. L'aria alterava il flusso regolare dei ruscelli arancioni, e tutto palpitava come le stelle. Ma non era quella la sterilità infinita del cielo vuoto ed ineffabile, le distanze disumane che atterrivano: erano amori e ricchezze e miserie vere e conosciute e tanti diversi dolori quanti erano i punti di luce, che gli giungevano col vento di terra della notte.

Aldo, che dei momenti di inerzia pativa quanto lui, lo raggiungeva spesso. Il suo pragmatismo di alpigiano disincantato gli forniva un contestatore obbiettivo per smontare le sue stramberie. Era Secondo, superiore in grado, il primo ad aprir bocca. Di solito non si guardavano parlando. Le frasi erano brevi e di un tono opaco, come ostile.

 

-Che piatta. Quasi preferisco le notti dei Bengala, a questo sciattume.

-Certo, tanto noi non si ha niente da fare nemmeno quando vengon giù con gli aerei. Comoda la vita del silurista, se stai in scorta convogli!

-Magari una di queste notti tocca a noi sul serio.

-Ti piacerebbe che ci restassi, dillo.

-Sto aspettando per le prossime notti. Intanto sto seduto qua nella speranza che il serbatoio salti ed una scheggia mi spezzi la schiena.

-Che fesserie. Come fai a parlare seriamente? Se proprio vuoi crepare, fallo portandoti dietro qualche inglese.

-Ho idea che tutto avverrà troppo in fretta per reagire.

-E la Lina resterà a piangere nella sua casetta, credendoti eroe.

-Sei proprio abbelinato. Se ne stropiccia di me, lo sai.

-Ti scrive ogni tanto, e belle cose: a me scrive solo la Mara per lagnarsi.

-Vuole essere gentile. Ma ad Italo scrive ogni settimana. Vedi che non ho i numeri per dargli contro.

-Italo è il suo moroso e sta in Grecia, mica come te che fai la crociera stipendiato. Ma questo non c'entra: ti scrive, è un buon segno.

-Perché ti ci metti pure te a rompere? Come se la distanza e la guerra non me ne avessero già dato abbastanza...

-Tu sai quel che ti devo dire!

-Che le devo dir tutto appena torneremo. Ma prima voglio che la guerra finisca, e voglio tornare con una medaglia.

-Ma se prima dicevi che volevi fare la morte del fesso...

-Quando dico una cosa, può esser vero anche il contrario. Solo quando vi ordino qualcosa ho una sola parola.

-Non puoi aspettare che la guerra finisca. Son cose troppo grandi per farci dei calcoli su. Uno di voi due potrebbe morire anche domani, anche oggi.

-Se esiste un poco di giustizia a questo porco mondo, lei si salverà. Di me non m'importa, ma lei vedrà la pace.

-Giustizia non vuol dire niente. Nove su dieci dei poveri cristi che combattono e muoiono in questa guerra non hanno fatto nulla per meritarsela. Nessuno è al sicuro. Non far calcoli e diglielo subito.

-Giustizia non vuol dir niente, perché siamo sempre noi gentili che soffriamo di più di tutti. Ma lei si deve salvare. Non accetterei di vivere in un'esistenza che preveda la sua morte per un capriccio del caso.

-Ma ddaaaaii... Cerchi di trovare le regole della lotta del bene e del male, adesso?

-Forse...

-Macché bene e male. Queste categorie le trovi solo nella martellata al dito e nella cioccolata calda. Dolore e piacere fisico. Ai massimi sistemi, a chi governa la fiera, bene e male sono del tutto sconosciuti. La fisica non conosce bene o male. Gli atomi di un corpo morente non derogano alle loro leggi per prolungare una vita. Si comportano allo stesso modo, che siano in un neonato od in un morituro.

-Io non riesco a credere che non ci sia una giustizia sopra di noi. Che se crei sofferenza non sei punito, che se dai felicità non sei premiato. Io credo che in qualche modo che non conosco, tutto sia in equilibrio. Ed in giustizia.

-Tu hai sempre sofferto a vuoto, è normale che credi questo. Speri che in un modo che non sai, in un'altra dimensione, il tuo battere la testa al muro sarà ricompensato.

-Sì. Mi prendo la libertà di crederci. Così come il bene te lo paghi sempre, il male che vivi ti sarà riconosciuto.

-In che valuta ti farai pagare?

-Felicità. Ovvio.

-E se alla fine di una vita da flagellante scoprirai che sei stato fregato? Che nessun bene ti è venuto senza cercarlo?

-Ma io lo cerco, il bene, solo che lo faccio zitto zitto. E comunque chi ti dice che non ci sia un'altra esistenza diversa, dopo questa?

-Nessuno. E a te chi te l'ha detto che ce ne sia una di sicuro, preti a parte?

-Nessuno. Ma nel dubbio...

-Nel dubbio, approfitta di questi momenti. Senti la materia attorno a te: sei qui adesso, dacci dentro. Non aspettare improbabili aldilà. Quel che sei adesso è certo. Tutto il resto è incerto.

-Sarà per questo che di tutta questa materia non me ne frega molto. Non mi va di essere obbligato a fare le cose nel dubbio che questa sia la sola istanza di esistenza in un'eternità di niente.

Dopo di questa, prima di questa. Chi mi impedisce di credere che prima non fossi stato uno della gente del Re d'Italia, vedo così bene l'acqua verde dell'Adriatico su cui si stende la bandiera, abbattuta fra i pochi relitti, e i rumori della battaglia da là sotto arrivano attenuati, c'è quasi pace fra la schiuma delle eliche vorticanti delle navi che battagliano per restare sospese al cielo. I fuochi si spengono mentre il grande corpo nero assassinato precipita al fondo abbracciando ancora i suoi vivi. Resta solo un nastro di bolle d'aria. Lo vedo troppo bene per non esserci stato davvero. Anche Lei l'ho già vista.

Allora sarei stato amato da Lei, che con abito di seta e parasole posava gli stivaletti sugli stessi selciati del Cavour e del Re. Mi avrebbe gettato un mazzo di lavanda alla partenza della tradotta, che avrei portato con me là dove la corrente avrebbe disperso le sue spighe; ed un altro nel fiume in un mattino d'inverno, con le lacrime agli occhi. Si sarebbe sposata con un nobile, di nuovo felice. Mi avrebbe amato, prima, almeno.

 

A poppa, la scia di schiuma martoriata dalle eliche spingeva più lontano il mare senza fondo. Solo cento metri sotto la chiglia, ormai.

 

Mettiamo anche una foto di uno dei nostri "personaggi" :s01:

 

rnfulminecopia.jpg

 

 

W 270/533 x 7.20

 

Rientrare in porto non significava automaticamente la licenza. Agli equipaggi stremati si concedeva la caserma e una breve franchigia, ed in seguito il più delle volte si doveva restare per sbrigare le faccende di manutenzione. Dopo, se la nave andava ai lavori o se c'erano rimpiazzi disponibili, veniva concessa la licenza. Cascavano male quelli del Fulmine, sempre impegnato in scorta convogli da quando la sua velocità era scesa troppo per permettergli di accompagnare le Navi da Battaglia. Ascesa e declino d'un piccolo caccia: dieci anni prima entrava spavaldo nello squadrone dei lancieri del mare che precedevano in corsa a 35 nodi il grosso dell'Armata; ora era usurato ed asfittico, declassato a fantaccino riservista messo a guardia delle vettovaglie, a pendolare su e giù a passo d'uomo vegliando contro nemici che non si mostravano mai. D'altronde era nato gracilino, ed i 38 nodi che prometteva sulla carta non li aveva mai raggiunti, svelando inoltre tutta una serie di brutti vizi. Ma usurata, vilipendiata, condannata ad un servizio che prima o poi avrebbe falciato lei come le altre, rimaneva sempre una bella nave; Secondo non ne trovava di più belle, anche se sotto l'orgoglio non poteva non ammettere l'ammirazione per i superbi Navigatori ed i loro motti-poesie.

 

...La prora dritta a gloria e a morte!...

 

Un'amarezza cresceva sorda, nel vedere un'armata di navi tanto belle, costruite in tanti anni con tanti sacrifici, estinguersi pian piano senza l'onore della grande battaglia a fronte alta sotto il sole. Ed una presa da un siluro di sommergibile; una da una bomba d'aereo; altre in agguati notturni in cui non si faceva neppure a tempo a puntare i pezzi verso il nemico. Nel tempo di poche vampate, giorno dopo giorno, l'armata si riduceva e non si sapeva mai se il nemico patisse quanto loro.

 

Non era così che s'era immaginato la guerra quando studiava i suoi siluri. Ma era forse meglio non far caso a questa frattura fra aspettative e realtà, in cui tante volte s'era rotto il collo: solo che, per un fatto così importante, non poteva non pensarci amaramente. La sola consolazione era che loro, quelli delle scorte convogli, uscivano sempre, mentre quelli delle corazzate il nemico l'avevano visto una volta, forse due, e smaniavano per farsi trasferire ad unità che combattessero davvero. Era invidiato, o almeno si sentiva così.

Annegarsi nel lavoro era l'unica maniera per sopportare i turni di manutenzione in porto, per non farsi ferire dal riflesso del sole sull'acqua naftosa, dalle domande scomode che potevano assalire non appena il pensiero era lasciato libero di vagare sopra la concretezza meccanica dei compiti da svolgere:

"Quali saranno le assurde regole del gioco perditempo di oggi? Ah sì, ecco...

Aprire il tubo, preparare la gru, portare il siluro dal tubo alla gru, e scaricarlo sulla betta a fianco. Ripetere due volte. Andare a terra in officina per vedere cos'hanno queste bestie..."

Si dovevano rimuovere i siluri per portarli a terra e fargli la revisione periodica. Secondo stava aprendo i fondi mobili dei tubi del loro impianto; prima aveva rimosso con cautela e riposto nel loro cartocciere le cariche di lancio. I suoi sottoposti armeggiavano con la gruetta che, rimasta riposta a lungo, era incancrenita, cigolava ed era dura da muovere. Una serie dei bizzarri ed affascinanti attrezzi del silurista stava in bell'ordine presso di lui: ganci, paranchi a catena, anelli rivestiti di cuoio.

"Sì ma francamente, che diavolo ci faccio qui? Perché non me ne sto filando a casa?"

Per non pensare all'assurdità dell'operazione, lavorava con precisione ed abilità: frugò col gancio dalle parti della coda del siluro, dietro le eliche immobili, giusto il tempo di afferrare con sicurezza l'impennaggio dell'arma. I suoi avevano finito di preparare la gruetta e potevano cominciare. Puntando i piedi sull'angolo della tuga ed esercitando uno sforzo con tutto il corpo, cominciò a far scivolar fuori dal tubo il pesante corpo lucente. Aldo lo aiutava, e Tore teneva la sella sospesa alla gruetta nella giusta posizione.

"Non che quel che facciamo non abbia un senso: anzi, è tutto perfettamente codificato ed è il modo migliore e più sicuro per farlo. Ma è tutta la scena in sé che mi pare senza senso."

Ora il siluro cominciava a poggiare sulla sella. La frizione degli anelli di cuoio rendeva necessario che tutta la squadra facesse trazione. L'arma era pesante come una grossa automobile: la sola testa in guerra, era 270 chili d'esplosivo. Ma quella era forse la parte che a Secondo interessava di meno: lui si era specializzato nel comprendere il funzionamento dei sistemi di guida e del motore. Dentro il pesce d'acciaio si nascondevano i più geniali complessi meccanici che si potessero allora concepire, e che lui da solo mai sarebbe riuscito ad inventare.

Un pendolo ed un piatto idrostatico agivano, con l'aiuto di attuatori ad aria compressa, sui piani di profondità che tenevano il siluro in corsa alla giusta quota. Un giroscopio, sempre ad aria compressa, dirigeva i timoni per tenerlo sulla giusta rotta. Imperturbabile e preciso. Il motore era come una macchina a vapore alternativa a due cilindri, ma funzionava con una strana miscela di aria, petrolio ed acqua, bruciata in una camera di combustione. Poteva spingere il siluro ad una distanza di 10 chilometri dal punto di lancio in poco più di 8 minuti, più veloce di qualsiasi nave e qualsiasi animale marino. Per neutralizzare l'effetto di coppia, la potenza della macchina si scaricava su due eliche controrotanti che si bilanciavano l'un l'altra. Tutto questo complesso di ordigni era messo in moto dall'apertura di un solo, singolo rubinetto che liberava, poco per volta grazie ad una valvola di registro, la forza repressa delle 200 atmosfere trattenute nel serbatoio dell'aria. Il gas scaricato dal motore usciva dalla coda del siluro e forniva un ulteriore supplemento propulsivo.

Secondo venerava i suoi siluri, che conosceva fino all'ultimo bullone. Macchine meravigliose, costosissime, mortali anche, ma soprattutto infallibili. Questo era il pregio alla base del suo Credo di silurista. L'arma, specie se era uno dei loro rinomati Whitehead, costruiti e messi a punto con cura maniacale, non falliva mai: se un lancio andava a vuoto, ciò era sempre dovuto ad errori di puntamento. Si poteva star certi che un W. 270 sarebbe andato esattamente lungo la rotta impostata, alla velocità ed alla profondità voluta. Qui non era più questione di perder tempo, di mancanza di senso. Il siluro era manifestazione di assoluta perfezione meccanica che, forte del dominio delle leggi della fisica, sfidava l'alea della natura per ottenere un risultato prevedibile. E lui era in parte padrone di tale perfezione, perché la conosceva. Ma ciò gli dava rimpianti.

"Anche l'uomo dovrebbe essere come questi meccanismi; potessimo prevedere il funzionamento del nostro spirito come quello di un piatto idrostatico e di un giroscopio, la vita del nostro corpo come la corsa ad esaurirsi della macchina divoratrice di aria, la corsa dell'esistenza come un punto dato di qui a tanti anni: quanto tribolare mi risparmierei!

Ma tutto questo è meccanica, acciaio che non sgarra e numeri precisi, mentre l'uomo è fatto anche di nebbia. Non posso prevedere nulla a parte qualche reazione evidente, ognuno ha in sé la facoltà caotica dell'arbitrio. Fammi gli occhioni dolci e ti amerò; però io posso scegliermi di non seguire gli istinti e falserei così ogni regola prevista."

Ora l'arma, lunga 7 metri e 20, superba con la sua finitura acciaio e la testa rossa, era stata estratta interamente dal tubo e, trattenuta da più mani, veniva docilmente voltata verso il vuoto.

"Là dentro ci sono valvole e tubi che conosco mille volte meglio delle valvole e delle tubature del mio spirito. Mi son bastati due mesi per imparare com'era fatto un W. 270; sono vent'anni che cerco di capire come son fatto io, e tutto quel che ho ricavato è un pugno di regole ovvie, più qualche solido difetto. So solo che se mi lanciano verso un punto X, finirei probabilmente al punto Y."

 

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Strenna del sabato sera (è che ho fretta di arrivare ai pezzi che, per comune accordo della critica, erano i migliori :s19: )

 

Chi era Vivaldi

 

Sull'olio del Mar Piccolo, un pomeriggio di franchigia che stava per scendere a terra, Secondo vide passare un Navigatore la cui sigla, VI, gli era ancora sconosciuta. Conosceva TA, DV, US (che stava per Usodimare, non United States), DN, PI, anche altre della classe, ma VI gli era nuova, tanto che sulle prime la scambiò per il numero romano.

 

Il GM Paoli era lì e gli accadde di dire:

-Ecco il Vivaldi che esce...

Secondo ebbe un rigurgito di vecchi discorsi di cultura superficiale e cominciò a chiedersi come mai un caccia conduttore classe Navigatori, unico nella famiglia, portasse il nome di un musicista. Nella Regia Marina giravano antichi Generali, comuni Soldati e persino ben oscuri Poeti: passasse pure Carducci, ma chi diavolo fossero stati Alfieri, Gioberti ed Oriani, se lo chiedeva ancora. Credeva appunto che coi caccia dedicati ai Poeti si fosse toccato il vertice delle delicatezze, e col Vivaldi era la prima volta che vedeva una nave che onorava la memoria di un compositore.

La curiosità lo rodeva al punto che osò fare a Paoli la domanda idiota:

-Scusi Signore...

-Che c'è, Marchetti.

-Come mai quel caccia porta il nome di un musicista?

-Quale?

-Quello, Signore... il Vivaldi.

 

Paoli prese a ridacchiare:

-Marchetti, ci sei o cosa?

-Signore?

-Ma se si chiama classe Navigatori, ti pare che quel Vivaldi si riferisca al musicista? Peraltro, qual'è il suo nome completo?

-Non lo so Signore. E' la prima volta che lo vedo.

-Si chiama Ugolino Vivaldi. E il compositore come si chiamava?

-Signore... non ricordo.

-Quell'altro era Antonio. Marchetti, eppure ti credevo più colto!

-Scusi, Signore. Ma allora chi era questo Vivaldi navigatore?

-Questi, Marchetti, questi. Erano due, anche se la nave porta il nome di uno solo. Vuoi saperlo? Sei franco ora, no? Allora vai ad una biblioteca e cercati un'enciclopedia, io ho da fare: ti lascio con la curiosità.

-Sta bene, Signore...

 

"Ugolino e Vadino... ah ecco, si chiamava Vadino l'altro... che razza di nomi, poveretti... Ugolino e Vadino Vivaldi..."

La faccia che aveva fatto il bibliotecario della Civica, vedendo entrare un silurista in franchigia in divisa candida e con tutti i crismi in regola! Non sapeva se dare prevalenza alla sorpresa o alla commozione: il pover'uomo era ben confuso, di solito i marinai liberi dal servizio sceglievano ben altre destinazioni. Per formalità, lo informò delle regole della casa:

-E' che, capite, dovrei farvi la tessera prima di lasciarvi entrare... non si può sennò...

-Ma non si può fare finta di niente? Cerco solo una cosa e me ne vado, non tocco nulla, lascio tutto come l'ho trovato... eh?

-Se viene l'ispezione e vi trova senza, passerei dei guai io, abbiate pazienza... Ma non preoccupatevi, un dieci minuti e sistemiamo! E poi così potrete tornare quando vorrete!

 

Il vecchio funzionario ci teneva proprio ad acchiappare un burbero silurista per farlo affezionare al tesoro che custodiva: ma Secondo poteva solo pensare che la burocrazia, eterna nemica, non aveva pietà di lui nemmeno ora che per lo Stato egli metteva il sangue delle sue vene in pericolo di sgorgare.

 

-E poi -continuava il vecchio cancelleriando alacremente- potrete anche prendere a prestito dei libri! Vi terrà compagnia in navigazione!

-Come ha capito che io navigo?

-Oh, non è un'uniforme da Alpino la vostra! Ed avete la faccia cotta dal sole di quelli che vedono la luce venire dal basso del mare, come solo quelli imbarcati l'hanno. Ecco, mettetemi una firma su questa scheda, di grazia...

-Non mi prenderò dei libri da portare con me in mare, glielo dico subito. Rischierebbe di non rivederli mai più.

-Già. Ve ne innamorereste e non me li portereste più!

"No. Andrebbero a fondo con la mia nave e con me."

-Sicuro. Preferisco leggerli qui se proprio devo. Comunque ho i miei e venivo solo per l'enciclopedia.

-Capisco. Ecco fatto. Vi chiedo solo dieci centesimi per la spesa di registrazione, i militari hanno l'abbuono, gli altri pagano di più. Avete visto, che s'è fatto in fretta?

"Per quanto mi servirà... per quanto potrò tornare qui... se potrò tornare... ma mi va più di darli a te dieci centesimi che al solito locale bisunto per un bicchiere di vino... a buon rendere"

 

Ora Secondo leggeva il pesante volume all'aria gialla e carica di un tardo pomeriggio del salone deserto. Lo aveva preso dallo scaffale e sfogliato come se fosse la Sindone: non aveva mai avuto a che fare con un volume così rispettabile, un tomo della Treccani vecchio di vent'anni.

"Nell'anno milleduecentonovantuno..."

Secondo lesse la storia -quel poco che se ne sapeva almeno- dei due fratelli navigatori. Duecentoun anni prima del loro conterraneo Colombo, avevano passato le Colonne d'Ercole alla ricerca di una nuova via per le Indie.

"Ma dovevano essere pazzi: affrontare l'Atlantico con due galee..."

Prese una noticina su un foglio volante col suo mozzicone di matita, e quindi ripose il volume: chiudendolo, fu come se il brusio della Storia si spegnesse, e si riponesse il coperchio ad un avello violato. Uscì salutando con cortesia il vecchio bibliotecario, che avrebbe potuto essere stato suo nonno e che forse vedeva per l'ultima volta: e quanto a lui la storia letta, depurata dai primi facili giudizi, cominciava a parlargli. Ad ogni passo nella via, era come se ne aggiungesse un pezzetto.

Si sapeva chi fossero, quand'erano partiti, con che navi, persino chi erano i finanziatori della spedizione: ma ogni altra traccia si perdeva oltre l'ultimo luogo ove furono avvistati con certezza, Gibilterra.

Da lì in poi, le stanche note vergate dai notai e dagli storici svanivano.

Da lì in poi, anche il mondo come lo conosceva svaniva. Atlantico: qualche foto l'aveva vista, qualche parola l'aveva carpita dai discorsi degli anziani che avevano calcato quell'acqua in cui per mesi non si poteva dar fondo all'ancora: tutto lì. S'immaginava che il Mare di Alboran potesse essere ancora simile al loro, ma dopo? Cos'era, dopo?

 

Un po scherzando un po seriamente, dando il tono di scherzo per nascondere la paura di farsi arruolare sul serio, aveva chiesto al Paoli tempo prima a proposito di Betasom, il Gruppo Sommergibili Atlantici il cui nome, concentrato di potenti parole, lo attirava fatalmente:

-Ma secondo lei -chiese Secondo quasi ridendo- mi potrebbero prendere a Betasom se facessi domanda?

Il Paoli rispose senza ridere:

-Ma certamente! Sai il fatto tuo come pochi altri, hai pure la statura giusta, ti prenderebbero di sicuro! Dovresti proprio far domanda, hanno bisogno di gente come te: ti ci vedo bene nella camera lancio di un Oceanico!

 

E la cosa morì lì. Secondo non ci si vedeva molto bene, nella camera lancio di un Oceanico squarciato da una bomba di profondità, senza più luce e con l'acqua che sale mentre la bara d'acciaio scende, scende, agonizzando in cinquemila metri di fondo. Vedere l'Atlantico non valeva tanto quanto il rischio concreto di rimanerci sepolto. Ma era convinto, o era solo la sua paura della vita a fargli pensare così?

 

Tornò alla parte non scritta del fato dei Vivaldi, in cui tutto diventava possibile:

"Erano davvero scesi lungo le coste dell'Africa? Forse trovando il periodo favorevole dell'Aliseo e vedendo il mare calmo, credendolo poco ampio, avevano messo la prua a sud-ovest, e poi impossibilitati a tornare sarebbero giunti per primi in Sudamerica. Ma no, erano certo scesi lungo l'Africa e forse fin sotto l'Equatore - l'unica ipotesi dell'Enciclopedia era un naufragio alla foce del fiume Senegal- forse fino alle nuvole di Buona Speranza che ancora non si chiamava così. Senza bussola! Possono anche essersi persi nel Sud Atlantico.

Chissà quale nome avrebbero dato a Buona Speranza , probabilmente un Santo, per un loro voto che avevano certamente fatto prima di partire: forse per un giorno nella storia la Finisterre dell'Africa s'è chiamata Capo San Giorgio. Non l'avranno certo doppiato, controvento e con due navi così fragili e già malridotte: ma chi può dirlo? Per quanto ne sappiamo, la fortuna può averli portati fino in India.

E la Croce del Sud? Come l'avran chiamata? E' un nome così bello che dev'essergli sorto spontaneo anche a loro. E' il solo nome che riesca a pensare per la loro guida australe.

E dove avranno fatto naufragio? Per quanto se ne sa, avrebbero potuto essere morti in vista della Lanterna, di ritorno dall'India. Ma che risolve tutto questo? Quel che mi chiedo è: ne è valsa la pena?

Loro forse avrebbero detto di no, mentre annegavano davanti ad una costa sconosciuta o nel mezzo di un mare troppo grande perché potessero capirlo. Quasi nessuno li ricorda oggi, solo qualche originale ed i tomi immobili. Come Colombo, partirono per un'impresa folle, come lui sapevano il fatto loro, ed avevano già abbandonato la vita all'atto della partenza: ma a differenza di Colombo, essi non tornarono. Tutta qui la differenza: le loro imprese erano egualmente nobili e ardite, e basta questo dettaglio, il non ritorno, a cancellarli dalla memoria, a fare in modo che io li scambiassi per un musicista."

 

Notte di nulla sul mare di nessuno

 

L'unica percepibile fonte di luce erano i quadranti verdi dell'indice e del controindice di brandeggio dell'impianto, che aveva al fianco. Anche l'occhio più borghese e cittadino però, in quelle notti assolute, riscopriva le sue radici primitive e s'affinava a cogliere i raggi di luna sopravvissuti all'attraversamento dello strato di nubi. La spuma spazzata dallo scafo era particolarmente evidente col suo candore e barbagli bianchi comparivano e sparivano ai fianchi. Il solito fruscio di fontana copriva gli eventuali rumori.

Le mani incrociate a riposo su un mancorrente erano diventate per i sensi di Secondo una massa unica ed indistinta, una nuova forma d'arto; il sonno, in cui rischiava di sprofondare malgrado la posizione non comoda, faceva il resto per toglierlo dalla dimensione realtà, non dormiva, ma era come se sognasse intensamente, uno strattone e si sarebbe risvegliato in un altro luogo della sua vita ed indietro nel tempo.

Secondo ricevette una pacca sulla schiena che lo fece sussultare e sentì una voce da dietro:

-Dì, era da un po che non trovavamo un buio così, né?

-Aldoo0o...

-Eeeh!

-Diavu porcu, ti ho detto che non devi farmi di sti scherzi. La prossima volta fatti sentire prima. Ho già abbastanza paura senza che ti ci metti pure te.

-Paura di zio Winston?

-Paura di tutto. Sembra di essere già morti.

-Perché? Mica fa buio da morti...

-Guardati attorno, dov'è la terra, dov'è la luce, dov'è l'amore? Dove sono il mare e il cielo, non si capisce più niente, sento solo che abbiamo vuoto sotto la chiglia e vuoto sopra la testa! Io la morte me l'immagino così.

-Ti contraddici.

-Dici?

-L'altra volta mi dicevi che dopo la morte c'è il nulla come prima della vita. Ma il nulla non può avere un colore. Se è nero esiste, lo vedi. Il nulla non lo puoi vedere, dunque non ha colore. E poi il nulla non esiste.

-Appunto: non esiste.

-No, non esiste vuol proprio dire che non esiste! Non può esserci il nulla, ma solo dell'altro che non possiamo vedere.

-Senti... credo che dovremmo farci dare dei turni di guardia più corti...

-Il regolamento non si cambia. Che ora?

-Le tre e venti...

 

Poi il discorso si dissolveva, ognuno prendeva a pensare per conto suo e non parlava più, come se fosse convinto che stesse continuando a comunicare per telepatia. Come in un risveglio brusco, confusi ci si ricordava di possedere una voce.

 

-Ed ora? Che ora?

-Comprati un orologio alla prossima licenza, invece di far ubriacare la Mara! Se chiedi a Tore te ne trova uno a poco.

-Forse sì, forse nò, ma ora l'orologio non ce l'ho e voglio sapere l'ora.

-Sono pur sempre il tuo superiore, ti ordino di comprarti l'orologio.

-L'orologio porta disgrazia. Ti fa vedere il tempo che passa.

-Comunque sono le tre e novantasette.

-Ovvero le quattro e trentasette. Grazie, e non guardarlo troppo spesso. Anzi, guardalo solo quando te lo chiedo io.

 

-Che dici?

-Eh?

-Non hai detto qualcosa?

-Chi? Io? Io no.

-Eppure mi pareva...

-Sta bene, vedrò di pensare meno forte.

 

-Quella carogna di mio padre...

-Ah! Stavolta hai parlato!

-Sì. M'è uscito così, d'impulso.

-Che centra tuo padre, che ti ha fatto ora?

-Colpa sua se sono qui.

-Ma se sei venuto volontario...

-Colpa sua se sono qui in vita!

-Ah. Non hai una parola gentile per tua madre pure?

-Lei non centra nulla. Lei è la vittima: mio padre l'ha vista, desiderata, seguita, attesa al varco, sedotta, intrappolata ed infine ingravidata. Senza chiedere a me se avessi voglia di esistere o no. Lei non poteva scegliere, era l'unico senso che poteva dare alla sua vita, sposarsi e procreare. Mio padre no, lui poteva restare solo, o sposarsi senza avermi, lui mi ha voluto avendo la scelta. E a me non ci pensava.

Eccomi qui, ad aver paura di tutto, solo per colpa sua.

-Hai mai pensato che poteva essere un atto d'amore?

-Amore un b#l#no. Se era così, era cieco: non vedi in che mondo mi ha messo? Grazie mille.

-Non lo poteva prevedere, che sarebbe finita così.

-Balle, ha combattuto nella Grande Guerra, ha visto quanto in basso può scendere una vita.

-Lui magari credeva che quella fosse l'ultima delle guerre. O che tu saresti stato capace di goderti la vita come tutti, nonostante tutto.

-Bene, ha sbagliato di grosso. Secondo te dovrei essergli grato?

-Io gli sono grato; se non c'eri te, magari mi capitava un capo di quelli fetenti.

 

-Dino, voglio dire... tu puoi odiarlo, ma dovrai sempre credere che quel che ti ha fatto era a fin di bene.

-Ma io non lo odio. Dio solo sa cos'ha sofferto pure lui.

-E allora perché gli davi del bastardo?

-Perché non lo odio, ma gliene voglio lo stesso.

 

-Aldo, che cavolo, è tutto sbagliato qua! Devo rifare tutto daccapo. Appena conosciuta Lina, Italo me l'ha portata via; appena potevo trovarmi un lavoro in ferrovia, è venuta la guerra...

-Così è andata, che ci vuoi fare?

-Voglio una vita nuova senza difetti. O almeno gradirei che la vita non mi prendesse per il cu#o.

-Sei tu che ti prendi per il cu#o da solo. C'è gente che sta peggio di te ed è felice.

-No, Aldo: questa vita mi fa passare la felicità sotto il naso, mi dice "Guarda, guarda, vedi quel che devi avere?"

E poi me la strappa via. E mi ritrovo come uno schiavo sballottato a mille miglia dalla felicità a fare non so cosa per non so chi. Bella vita, eh?

-Pensa ad uno come te che però sta in fanteria a crepare di sete nel deserto o di freddo in Albania: c'è chi sta peggio.

-Bella soddisfazione. Io sono io, pensare che al male non c'è mai fine non mi fa sentire meglio, né mi darà Lina. Italo è laggiù in quel buco infernale di questo porco mondo, eppure vuoi scommettere che è più felice di me?

-Felice? A nuotare nel fango a comandare un manipolo di spazzacamini in braghe di tela? Che se alzi la testa un pelo di più ti spidocchiano a fucilate?

-Lui può pensare a Lina che lo ama, almeno. Mandami pure in Manciuria a combattere l'Armata Rossa con le unghie, con un pensiero così non avrei mai né freddo né paura. Ecco, non avrei paura se avessi lei!

-Ah, lo vedi che ragioni proprio come quella carogna di tuo padre, quando voleva avere tua madre...

-Forse...

-No no, senza forse: ragioni proprio uguale.

-E con ciò?

-Con ciò vedi che era una cosa bella e naturale, quella che ha fatto, non volergliene. E poi che credi, che la felicità si fermi lì? Ad una donna ed un mestiere? No caro mio, quando avrai avuto queste cose, avrai paura di perderle, e lotterai per mantenerle.

-Ah bene, grazie tante. Allora tanto vale. Dimmi allora dove trovare la felicità.

-La felicità dura poco, cerca la serenità che ti puoi fidare di più. Ma devi smettere di pensare, Dino. Pensare troppo fa male.

-Piazzami una scheggia di granata nel corpo od una palla in mezzo agli occhi, è il solo modo che avrai per farmi smettere di pensare.

 

-Guarda... comincia a schiarire... vedo la Sterope là a sinistra.

 

Cartolina a casa

 

Spedire la posta a casa veniva meglio se fuori pioveva: nel sottocastello non s'aveva altro da fare e si poteva scrivere con più tranquillità. Secondo aveva fama di "letterato" perché ogni tanto metteva in colonna qualche versaccio -le notizie e le voci girano in fretta su un cacciatorpediniere- e spesso qualcuno, nelle ore propizie per la posta, veniva a chiedergli consigli, anche gente che non conosceva, di altri reparti:

 

-Dino, guardami la lettera, se trovi degli errori...

-Se mi scrivi qualche parola gentile da mandare alla morosa, ti pago un bicchiere!

 

Secondo si accucciava sulla sua cassetta e, lasciando del posto a sedere per il cliente di turno, pazientemente leggeva, domandava e correggeva oppure suggeriva. Spesso le ricompense promesse non arrivavano sotto la forma prevista, ma andava bene lo stesso, perché invece che il bicchiere di vino vinceva un pò d'affetto e quella stima che non s'era conquistato altrimenti. Gli piaceva scrivere parole d'amore e d'affetto per altri: gli pareva d'amare un harem intero di donne di tutta Italia e di voler bene ad un reggimento di mamme; e dava un po di felicità in giro, qualcosa di buono gliene sarebbe senz'altro venuto.

Indi poteva tornare alla sua lettera; ma Aldo veniva a mostrargli l'ultima cartolina da mandare a Mara. La cosa prendeva spesso una piega comica per l'abilità di Aldo di scovare le cartoline più improponibili.

 

-Dino, vé, guarda questa!

 

La cartolina in questione era un pacchiano collage di due ritratti sopra una foto sbilenca di un grosso sommergibile, che Secondo stimò essere il Fieramosca. Entrambi i ritratti erano ritagliati a cuore: a sinistra un marinaio dolciastro dai tratti perfetti, tanto che pareva disegnato ed irrealistico, guardava una piccola foto su un tavolo. A destra una biondina, un po insipida, assorta nella composizione di una lettera poggiava il vertice di una matita fra le sue labbra. Il suo sguardo voleva essere intenso ma risultava beota. Ma soprattutto, la ragazza nel quadretto su cui sospirava il marinaio, lo si vedeva abbastanza chiaramente, era una bruna. Questo squalificava del tutto il fotografo che aveva ricomposto il pasticcio.

-Ma... questa?

-Non ti piace? Guarda quanto somiglia alla Mara!

-Sì ma tu mica somigli tanto al tipo! E poi guarda bene...

-Che c'è che non va?

-Non vedi il bel tomo? La foto piccola che sta guardando?

-Fa vedere...

-La ragazza della foto piccola è bruna, testa di paracarro! E' diversa dall'altra!

-Uuh vabbé, lei non ci farà caso.

-Sai che ti dico ora che la vedo bene? E' un'ottima, un'eccellente cartolina! Descrive perfettamente la regola del gioco!

-Che regola?

-Chiedo scusa, una fra le tante regole. Quella che ti impone di amare sempre quante più ragazze sia possibile, una non basta mica mai.

-Sei tu a dirmi questo? Tu che fai la remora?

-... E la povera biondina cornuta e beata che se sapesse la verità... meno male che non è il tuo caso!

-Non mi hai ancora risposto!

-Il fare la remora non mi impedisce di osservare gli altri.

-Già non capisci niente di te stesso, ora vuoi pure capire gli altri?

-Oh ma è molto semplice da capire come gira la giostra. La regola è una sola, fecondare quante più donne possibile. Si risolve tutto nel sesso.

-Tutto qui?

-Tutto qui.

-Sicuro?

-Certissimo. Prova a dimostrarmi il contrario.

-Ora non ne ho voglia. Io comunque sto solo con la Mara, se ti può bastare.

-Abitudine, cultura, sovrastruttura: ma dentro di te e di me agisce in fondo lo stesso ingranaggio primordiale.

-Beh e che c'è di male in questo?

-Vedi come sono romantici i tuoi due piccioncini?

-E che male c'è?

-C'è di male che è tutta una montatura. Tutta una falsità, un birignao, una messinscena.

-Che messinscena? L'essere romantici? Il volersi bene?

-Certo! E del matrimonio? Non parliamo del matrimonio! Se c'è una cosa porca e falsissima quella è!

-Dino tu devi farti cambiare l'olio alle rotelle. Ne devi avere una grippata, con questa storia che ti impegola.

-Macché, macché! Non ci vuole mica tanto ingegno a capire che siamo bestie come le altre che sono al mondo: ci vuole solo tanto coraggio ad ammetterlo, e tu pure mi dai del matto perché ti fa schifo l'idea che l'amore per l'essere umano funzioni così.

-E allora se va così perché le passeggiate, i bei momenti, il cinema, tutto quello che si fa assieme e che non comprende per forza il trombare come conigli? Perché ci piace tutto questo?

-Il pudore ci è stato inserito dalla natura per controbilanciare l'istinto e tenere sotto controllo le nascite: nient'altro. I bei momenti sono apprezzamento del bell'esemplare che ci sta accanto, attenzioni dovute per mantenerne il favore. Tutto qui.

-Tutto qui?

-Tutto qui...

-Tu dici questo perché ci soffri come un cane.

-Come un cane, hai detto bene. Come un cane senza cagna. Sono infelice perché non ho compagna. Natura carogna! La mia infelicità che speravo venisse da altrove, da oltre la realtà, viene solo da un fatto di quanto c'è di più basso e povero e squallido al mondo.

-E se trovi che tutto sia falso... perché tieni in piedi la messinscena?

-Per provare a me stesso che la verità non è quella che ho scoperto, perché nemmeno io voglio credere che sia tutto qui. Sto ancora cercando di essere un buon soldato.

-Soldato?

-Siamo in guerra, Aldo.

-Sì lo so ma che...

-Non la guerra mondiale, Aldo, troppo facile: la guerra per garantirci una discendenza, che è anche per me la guerra per ritrovare la purezza in mezzo allo schifo.

-Vuoi credere che le mie passeggiate con Mara siano ispirate da qualcosa di più alto che non... che hai detto?

-... Il mantenersi il favore della compagna? Sì, voglio crederci ancora, perché non voglio credere che quanto c'era di più bello e puro nella vita nascondesse ciò che c'è di più sozzo e squallido.

Voglio essere un buon soldato: voglio prendere una donna e darle felicità. Ma per questo devo essere certo che la mia causa è nobile ed alta: perché non puoi essere un buon soldato se stai combattendo una guerra marcia.

 

-Guarda quella scia, Aldo...

-Quale scia? Non vedo nulla.

-C'è una scia, dov'è passato il Lanciere.

-Andava così piano che non ha lasciato onda.

-Nono, ne ha lasciata, ma non si vede quasi.

-Bene. E con questo che mi cambia?

-Non cambia nulla, ma neppure noi cambiamo nulla. Come quella scia che c'è e non c'è. Passiamo, non lasciamo nessun segno, non ci ricorderà nessuno.

-Non è ancora detto, potremmo avere anche noi l'occasione...

-Hehe... no caro, alla buona stella del Fulmine non ci credo più. E poi non mi va di dovermi guadagnare l'immortalità crepando od uccidendo qualcuno.

 

-Dino... e gli inglesi?

-Cosa?

-Credi che siano andati tutti volontari?

-No, ci saranno anche fra di loro dei forzati come te. Della gente che non ne può niente. Che magari se tu l'avessi incontrata in tempo di pace sareste diventati amiconi. Ma questo è meglio non pensarlo neppure.

-Censura?

-No, non pensarlo, ti mancherebbe il coraggio di fare quel che dobbiamo fare. Faremmo la morte dei fessi. Perché il tuo amico immaginario, chiamiamolo Ian, biondino di Glasgow, con due fratelli, ciarliero e gran bevitore nonché ora puntatore di un cannone da centoventi di un caccia, non sapendo che tu avresti potuto volergli bene ti manderebbe all'altro mondo se tu non lo ucciderai per primo.

Aspetta che questa storia sia finita, per pensare alla fratellanza fra le genti.

 

-Si direbbe che sta guerra non l'abbia voluta nessuno in fondo.

-Anche chi la voleva non era padrone di sé, agiva per istinto o per motivi più grandi di lui, in pratica non decideva.

-E' curioso che nessuno possa farci nulla...

 

-Perché credi ancora all'idiozia dell'uomo che si crede libero e padrone di tutto, destino incluso. Persino Mussolini, potrà comandare tutti noi, ma in realtà non è libero, sottostà alle regole del gioco. In Russia nella Primavera del 1921 il bolscevico che aveva appena vinto la guerra e conquistato la "libertà" soffriva ancora per amore come sotto gli Zar, ed il profumo dei fiori sulla strada verso casa lo tormentava come a ricordargli che la guerra non sarebbe finita mai, che ricchi e poveri ci sarebbero sempre stati. Comincio a pensare che anche le rivoluzioni non risolvano nulla. Ci vorrebbe una rivoluzione dell'anima.

Ecco, vedi, io avrei voluto amarla diversamente.

Avrei voluto accontentarmi. Sarei felice ora. Invece devo possederla corpo e beni, non mi basta la vicinanza degli animi. Perché? Perché natura m'impone così. Bella libertà. Per illudermi d'essere libero, cercare di disertare o salire di grado, e dare alla vita la soddisfazione di vedermi credere nelle sue balle, preferisco rifiutare anche le libertà minime. Sono l'ultima ruota del carro, e mi sta bene così. La mia vita se le potrà anche tenere, le sue belle promesse di libertà. Io non le cedo, io non ci sto. E vorrei anche, vorrei tanto, tantissimo, farle rimangiare il bisogno che ho degli occhi neri di Lina.

Ma qui la vita mi fotte sempre. E' più forte di me, non me ne libero. Non decido nulla, su questo. Vorrei decidere di non giocare, ma non posso. Visto che è così, vorrei almeno decidere io le regole del gioco, ma non posso, vorrei al limite decidere la posta in gioco, e non posso. Posso solo decidere di perdere al gioco. Ma non è sublime poter dire in faccia alla vita che non ci stai al suo sporco gioco, anche se il prezzo è la rinuncia a tutti i piaceri? Se fossi coerente fino in fondo, diventerei più forte della mia stessa vita, la potrei guardare dall'alto in basso con superbia. Forse mi libererei persino, a lungo andare, dagli occhi neri.

 

Ma per ora sono qui, marcio di sogni, debole ed incline ai piaceri. Devo nutrirmi, riposare e possedere donne così come devo restare su questa nave a fare non so che per conto di non so chi, ad aspettare di farmi ammazzare, così come te, così come Ian che deve restare al suo cannone aspettando il momento di spararci o farsi sparare, così come l'intero fottuto mondo che prende il suo fucile in spalla e va al fronte, obbedendo a non si sa cosa per morire senza sapere perché.

Sai che il tuo amico Ian sta pensando le stesse cose, ecco quel che starà dicendo:

 

I've been starving for the most sincere love

but the rules of love I found deceived me:

they didn't come from a purity high above

far from our misery, shared by every soul:

they sat in the darkest spots of my mind,

as any instinct that is deep and foul;

searching for them has made me blind:

what was sweet is now meaningless

and now I can't enjoy no more

neither the smile of a girl nor

any promise of everlasting happiness.

I tried to be a good soldier, Sir

but I failed, I found I couldn't be

a good soldier in a rotten war.

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La prima bomba

 

Tanto rumore per nulla: il bombardamento notturno s'era risolto con danni insignificanti. Qualche bomba pareva fosse caduta in città, una meglio piazzata aveva sforacchiato un pontone ormeggiato, ma tutte erano cadute lontano dalla banchina torpediniere quindi, per Secondo, non era successo nulla e la giornata sarebbe stata ordinaria.

Avendo qualche ora libera, Secondo uscì per andare a vedere cosa fosse successo; la tranquillità per le strade gli garantiva che non ci fossero state grandi disgrazie, ed era invero una prima mattina specialmente pacifica: il cielo, dilaniato dalle centinaia di granate contraerei che gli erano state sparate nel ventre, guardava dolente e silenzioso in basso come chiedendosi perché; le poche persone in giro filavano all'ombra silenziose e salutandosi a bassa voce, come il due di Novembre. Delle scheggette di granata, strana pioggia notturna, si trovavano ancora sui marciapiedi.

Si diceva che un aereo inglese fosse caduto; le sentinelle al cancello dicevano che gli aerei abbattuti erano due; nessuno concordava sul numero degli attaccanti, chi diceva una trentina, chi una decina chi, il più vicino al vero, che l'aereo fosse stato uno solo.

Arrivando alla Piazza dove c'erano i Caffè eleganti, dal tavolino di uno dei quali quel giorno quella Tarantina superba vestita di viola l'aveva guardato con sdegno e disprezzo profondissimi, percepì qualcosa di diverso, agitazione, inquietudine; dei sampietrini sloggiati c'erano, non le scheggette.

Il fatto era che una bomba aveva preso la piazza, ed innaffiato di schegge tutto attorno, oltre ad aver aperto un cratere che non passava inosservato.

La General Purpose da 113 kg aveva messo a nudo i mattoni delle facciate, ferite di bianco gesso, polvere, un senso stridente di durezza che s'avvertiva persino fra i denti dove l'acciaio era schioccato contro il nudo calcare degli ornamenti, scheggiandolo malamente. La distribuzione delle scaglie non avveniva in modo omogeneo come si sarebbe pensato, ma casuale, alcuni punti erano quasi intatti, in altri dei densi nugoli, le cui forme facevano pensare a stormi di stornelli, avevano deturpato ampie campiture di colore.

Il locale più vicino all'esplosione aveva avuto le imposte demolite dallo spostamento d'aria ed i legnami pendevano scomposti e crivellati. Grosse punte di vetro uscivano a testimonianza della rovina della bella vetrina che stava dietro. A quell'ora in altri giorni vi sarebbe stata molta gente a far colazione.

Subito Secondo ebbe un'impressione di gelo e di pena per quella rovina. Poi avvicinandosi curiosando si ricordò che quelle che giacevano in frantumi erano le stesse vetrine in cui egli evitava accuratamente di specchiarsi, per non vedere negli unti pomeriggi caldi la sua pelle lucida e rovinata, le sue fattezze eccessive.

Quelle vetrine beffarde ora erano morte, giustiziate dalla bomba inglese. Del tempo sarebbe occorso per avere ora dei vetri di tale misura, e sarebbero stati di qualità minore, meno riflettenti; Secondo cominciò a sentire un piacere nero.

Pensava alla ragazza dal vestito viola, che sarebbe stata a casa, impaurita, o a spiare la rovina da un angolo ridossato mentre lui che aveva visto questo e ben di peggio non aveva timore di nulla e se ne rideva delle bombe e dei suoi effetti.

Ecco quindi che la Guerra veniva anche fra quelli per i quali era ancora un affare virtuale e lontano, a togliere incrostazioni ed ipocrisie, fronzoli ed apparenze. Gente ben vestita vagolava per la piazza con sguardo inquieto, senza l'andatura superba e sicura che Secondo a vederla cominciava a zoppicare quasi. Niente caffè stamane Signori, il fronte è anche qui, sotto casa vostra, a sconvolgere le vostre abitudini, ed anche voi ora soffrite almeno un poco, deprivati dei vostri cari rituali. La Guerra arriva anche qua Signori, ora sapete come sono le schegge e cosa fanno, immaginate cosa possono fare alle molli carni d'un corpo se ha fatto quello alla dura pietra, ora non sarete più beati a vederci partire per l'ignoto assiepati sugli spalti mentre passiamo nel Canale, ora saprete che ce n'è anche per voi, ora siamo tutti infine Compagni d'Arme, dividiamo gli stessi rischi, perché se là fuori c'è un siluro sempre pronto a squarciare la sottile carena della mia Nave, ora anche qua c'è una bomba sempre pronta a cadere sul vostro amato tetto, o a privarvi del caffè o del cibo. No, voi non potete andare in Guerra per età, perché servite qua o perché avete trovato il modo per restare: ma c'è giustizia perché la Guerra è venuta da voi. Non vi auguro certo di morire: morirei io per voi, per difendervi, e lo farei volentieri. Ma ora sapete. Ed ora non siamo più diversi.

Tu, ragazzetta spaurita che ieri fosti quella superba che seduta al tavolino mi guardava con disprezzo, io, marinaio fra i tanti; forse tenevi un sorriso solo per gli Ufficiali? O anche loro erano troppo comuni in questa città per valere lo sforzo di un atto benevolo, di un cenno amichevole? Tu, è forse uno sguardo grato quello che mi rivolgi da dietro le imposte gelose? E' così o sbaglio?

No, vedo quella commessa, la sartina forse, guardarmi con un accenno di vera gratitudine: tu non sai riconoscere i miei gradi, io sono silurista, non artigliere: non c'ero io, stanotte, ai pezzi, a scagliare i grossi proietti da cento sugli scivoli dei calcatoi verso la bocca fumante e spalancata, a scartare con rabbia i bossoli roventi inutili dei colpi sparati, a farmi schiaffeggiare dalla vampata del cannone; non ero io, io, che coi miei siluri non potevo difenderti dagli aerei, ero al sicuro in rifugio: eppure mi pare che tu ora mi guardi con meno indifferenza, perché ora tu credi che anch'io fossi fra i prodi che, esposti ad ogni attacco, maneggiavano granate fra l'esattezza dei congegni e l'imprevedibile paura.

Tu, vetrina perfida, tu, facciata decorata, voi siete scoperte ora: niente più riverberi malvagi a rovinarmi la giornata, niente più stucchi a coprire il fatto che si è in guerra, non si può più continuare come prima, ora è tutto a mia immagine e somiglianza. Non sono più il marinaretto sperduto fra i tanti, il fesso che va alla Guerra che non ha voluto: sono uno di tutti voi, tutti noi ora uguali di fronte a questi mattoni scoperti. Tutto è soltanto quel che è ora. E siamo in Guerra.

 

Forma Amandis

 

"Signori...

a voi che vedo riuniti qui in quest'arena mobile e provvisoria, vi chiedo...

-e a voi soli Signori, non alle poche belle dame qui presenti, che è notorio non hanno mai sofferto, non soffrono né mai soffriranno-

Qual'è, per voi, la forma dell'amare?

Oh, ha una forma, precisa e definita per me; non so se per voi sia lo stesso, quindi chiedo. Forse mi direte che per voi ha la forma del volto amato. Suvvia però, nessuno avrà amato una volta sola! Io gli ho dato, o meglio, gli eventi gli hanno dato per me, un volto non umano: un lampione ad arco.

Uno dei molti, per me riconoscibilissimo perché piantato in corrispondenza del pilone centrale del ponte che passa sul mio fiume, alla cui oscura quiete egli fa la guardia, a metà sprecando però la sua luce che va a perdersi nel bruire dell'acqua sotto.

Perché lui? Perché mi ha tenuto compagnia quando realizzavo cosa volesse dire amare. Era la luce sopra di me sopra l'acqua vera e nera e dentro un altro fiume di vento in cui mi dibattevo. Il suo sfrigolio appena percepibile mi rassicurava come un sussurro amico. E poi stava là mezzo congelato e mezzo incandescente, completamente inaccessibile. Lentamente il consumarsi del suo carbone mi entrava dentro.

Tutto aveva avuto principio tempo prima ma si risolse in qualche istante. In un solo istante. Da non crederci come la goccia di un Secondo, seppur persa ed indifferente a tutti gli altri nell'Oceano Tempo, possa per uno di noi avere l'importanza epocale di una Rivoluzione. Al principio della storia, quello stesso lampione, senz'altro, vide il treno che la portava per la prima volta nel mio paese, perché il treno veniva dal ponte appena a monte del suo, e son certo che se fossi passato per di lì in quel momento, invece di essere chiuso chissà dove a far niente, lui avrebbe bruciato più forte per avvertirmi del pericolo incombente. E sempre alla luce d'altri lampioni si consumò il fattaccio, in una notte carica d'Estate di fiati pesanti di fisarmoniche e trombe affettata dagli archetti di un violoncello. Era la sera che volevo dirglielo, a Lei. Carico come un reostato in ebollizione. Ero deciso e tesissimo come un arco elettrico, tirato a lucido, direi anzi per onestà tirato ad unto, perché rilucevo di sudore e del grasso che non se n'era andato con la strigliata che m'ero dato per sembrarle meno miserabile.

Lei quella mattina, sapendo che sarei venuto alla festa, mi aveva fatto un gran sorriso. Mi ero già mostrato amabile ed ardito, secondo i miei modesti parametri di seduzione beninteso, e tutto lasciava pensare che mi avrebbe detto di Sì. Ma non restò, la sera, a parlare a lungo con me, presa com'era fra le sue molteplici relazioni d'amicizia da manutenere, e poi la tensione che avevo dentro minacciava di disidratarmi, avevo un vuoto di parole nel pensiero, cominciai bene parlandole di quanto sembrasse speciale quella notte, poi finii sulle vere frasi di circostanza. Cominciarono a sottrarmela prima la tale comare, poi l'altra.

Poi arrivò Italo e Lei gli andò incontro gioiosa. L'orchestrina cominciava allora le danze. Lui le passò una mano attorno alla vita.

"Eddai Italo, sempre il solito... guarda che a Lei non le piacciono quelli che allungano le mani."

Bel modo di scherzare il suo, un po grossolano e pesante, ma se lo poteva permettere, era il nostro mito anche per quel suo fare spiccio che noi liceali formalmente disprezzavamo e concretamente ammiravamo ed invidiavamo.

"Italo va bene l'amicizia ma lì esageri... vuoi farti dare una mascata?"

Dato che si erano buttati nelle danze avvinghiati, pensavo che Lei subisse mansueta l'irruenza del suo modo di fare e che ne sarebbe tornata a me tanto più contenta di avere a che fare con una persona fine, che mai avrebbe osato, seppur aveva voluto, maneggiarla così.

Altroché. Non saprei dire se chi parlava in me allora fosse vera ingenuità o una mascherata per tenere in piedi il castello che rovinava. Non saprei neppure dire quanto durò la scena che più di ogni altra è impressa nella mia mente, più del primo barbaglio di luce che vidi in vita e certo la rivedrò come ultima visione chiara nelle nebbie elettrificate del mio cervello morente.

Il primo bacio non si scorda mai: specie se ti distrugge una Religione.

Mio Dio! Si erano baciati! In quel preciso momento io diventai adulto perché i mali della vita mi tramortirono con un colpo di mazza. Scopersi tutto in quell'istante. Con l'improvvisa durezza del suolo sotto i piedi mi avvidi di come il tempo non potesse tornare indietro. Con la vista dell'occhio di Lei chiuso nel bacio d'un altro trovai il crollo d'un amore che era colonna portante della mia gioiosa Religione del Vivere. Con l'improvvisa coscienza d'avere la fronte zuppa di sudore scopersi che non avevo capito nulla e che la finezza estrema di sentimenti nulla poteva contro la bellezza fisica. Le mie membra a cui fino ad allora perdonavo l'imperfezione per la straripante vitalità, mi apparvero da allora nella loro reale povertà, e se avrei sentito il bisogno di esercitarmi sarebbe stato uno sforzo furioso per distruggerle e consumarle più presto anziché per fortificarle.

La mia più grande battaglia s'era conclusa senza che io avessi sparato un solo colpo. Ci andavo nel pieno della giovinezza e della forza cantando inni di gloria e ne tornavo mutilato, ammutolito, cadavere nello spirito. Me ne andai poco dopo, appena ripresi coscienza del fatto che il mio povero sacco di carni mollicce e sudate ancora poteva ubbidire ai miei comandi. Lo diressi senza molto volerlo verso il luogo che più poteva allontanarsi da quella festa, calda ed affollata: la solitudine del ponte avvolto nella Tramontana; solo alla luce non seppi rinunciare.

Perché il lampione col suo sfrigolio pareva mi dicesse di fermarmi, che non c'era motivo, che gli raccontassi cosa fosse successo, come un vecchio amico. Le mani giunte sulla ringhiera mi ci appoggiai e cominciai a chiedere perché. Il sudore colloso che m'ero portato dietro ora esposto alla Tramontana mi gelava, ma che importava? Mi fossi buscato una bella polmonite, sarebbe stata la giusta punizione per il mio corpo imbecille che non era abbastanza perfetto per amare eppur lo pretendeva comunque.

Lei gli aveva preferito Italo per la bellezza: ed il lampione, che affondava radici di luce, acqua ed acciaio nella natura tutto intorno, mi disse semplicemente che così va il mondo ed era inutile volerne a chicchessia. Non a lei, che cedeva alla forza d'attrazione, non a lui, che faceva lo stesso. Io d'altronde vedendo lei avevo fatto lo stesso. Come accusare altri che il funzionamento dell'ordine cosmico? Protestare contro quel bacio sarebbe stato come protestare contro il moto degli astri, le leggi di Ohm e di Tesla. Non per risparmiarmi un male il cosmo avrebbe cambiato di leggi.

Non era colpa di nessuno il mio male. Colpa mia non era perché non avevo scelto io d'innamorarmi. Colpa sua non era perché i sentimenti fini sono belli e buoni ma la bellezza vera, quella che conta è una sola. Colpa di Italo? Lui ha fatto come me, solo che lui poteva, aveva la sola colpa di potere ciò che io non potevo. Nessuno aveva colpa di nulla. Come un tumore viene da un'imprevedibile ed inevitabile deperimento d'una cellula, ma senza che ci sia dietro una volontà nascosta che agisca apposta per farci del male: così il mio amore impazzito.

Ma che male lo stesso, che male. Parole, spiegazioni, cose d'aria e di pensiero: ma la realtà era dura tutto attorno a me ed era che io mai più avrei posseduto alcunché di lei.

Non più a me il suo sguardo innamorato.

Non più a me alcun suo pensiero intenso.

Non più a me le sue attenzioni.

Non più a me il suo tempo.

Non più a me le rarissime ricchezze del suo corpo.

Eppure, maledizione! Che male avevo fatto per meritarmi questo? Io che l'avrei trattata come la Regina, sono brutto e lo sapevo anche prima e per questo l'avrei tenuta stretta a me con la bontà. Io la meritavo quanto lui. Perché a lui e non a me?

Il lampione mi riprese: accusavo di nuovo il nulla. Non esistono giustizie superiori a quella umana, che sul mio caso non aveva giurisdizione. Anche lui, mi fece notare, era forse giusto che avesse la durata della sua vita quotidiana vincolata a quella della bacchetta di carbone che l'arco consumava? No, ma non era colpa di altri se non di quello che aveva progettato tutta la fiera. Se avessi creduto ancora in un dio avrei accusato lui dell'ingiustizia: ma l'ingiustizia stessa mi provava l'inesistenza di dio.

 

Ma ora, Signori, vedo che la mobile arena che vi ospita sta filando via: tornerò, tornerete ad ascoltarmi, se il caso vorrà in tal senso."

 

Passaggio nel canale navigabile di Taranto: il ponte girevole doveva per permettere il transito delle navi essere aperto e quindi la gente aspettando di poter passare si assiepava sulle balaustre curiosando l'unità che andava a rischiare la morte o ne era appena scampata. Due siepi nere, con qualche tratto chiaro che indicava le signore eleganti, osservavano in silenzio. Si poteva quasi sentire il rumore dei macchinari delle navi al minimo regime. Solo per le navi da battaglia, però, si sentiva una reverenza comune: i piccoli cacciatorpediniere, fantaccini della Guerra sul mare, che andavano e venivano ogni giorno, ormai quasi non li si sentiva più.

Secondo ci teneva ad essere nel picchetto schierato sul castello: da quella distanza la gente poteva vederlo poco e crederlo bello e fiero, della bellezza speciale che ha chi non si sa se tornerà, mentre invece alla sfida alla morte il suo nasone unto non lo mollava. E così, credendosi bello, raccontava col pensiero.

 

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Dedica speciale a tutti i francofili :s01:

Se non conoscete la canzone, vi consiglio l'interpretazione di Cora Vaucaire, a mio parere la migliore...

 

Le temps des cerises

 

Convoglio in burrasca significava che formalmente non ci si perdeva di vista, ma ognuno passava i suoi guai e la faccenda degradava all'ognuno per sé e Dio per tutti. I piroscafi non se la passavano male, nati per il carico e la lentezza non si scuotevano più di tanto nel mare formato. Solo le più piccole carrette avevano qualche vero motivo d'apprensione.

La gente della scorta, quella era un'altra danza. I vecchi e corsaioli classe Folgore, la famiglia malnata del Fulmine, ballonzolavano come turaccioli, s'inclinavano, incappellavano. Secondo soffriva il mare ed appena poteva se ne andava sotto la tuga del telemetro, prestando attenzione a non scivolare durante le rollate più violente.

Il movimento dello scafo era incessante e le strutture tutte ne soffrivano, chiglia, ordinate, bagli, fasciame, tutto compresso, tutto stirato, tutto sottoposto a torsioni, urti e risonanze. Se la rotta era stabile, la nave prendeva un suo ritmo nell'onda, che era sempre abbastanza regolare, per il suo movimento alternativo. Brevemente poteva succedere che le eliche si trovassero fuor d'acqua ed allora era il fragore degli assi scossi, la potenza scaricata mulinando in aria, le turbine che andavano fuori giri finché non ritrovavano la resistenza docile dell'acqua sotto di esse.

Incappellata-impennata-ingavonata, e via così. Giù nel cavo, su sulla cresta, in alto sulla cresta, poi la caduta nel cavo successivo, e così via finché al mare sarebbe piaciuto.

Ad ogni torsione, la nave gemeva e vibrava come se fosse in pericolo di sfasciarsi, ad un passo dalla morte eppure carica di vita come non mai, selvaggia e ribelle. L'odore dell'acqua vaporizzata, profumo di sudore, terra, polvere al sole, semenze, e mare infine, permeava tutto. Il fragore delle ondate e delle macchine in battaglia rendeva quasi impossibile il parlarsi e così si poteva starsene, fra i pochi condannati al servizio in coperta, ognuno per i fatti propri. Pensare, però, era meglio farlo sempre in silenzio.

Si potevano persino cantare le canzoni del Nemico senza timore d'essere sentiti, a voce forte nel grande anfiteatro del cavo dell'onda o sul palco della cresta.

Quand nous chanterons le temps des cerises

Et gai rossignol et merle moqueur

Seront tous en fête

Les belles auront la folie en tête

Et les amoureux du soleil au cœur

Quand nous chanterons le temps des cerises

Sifflera bien mieux le merle moqueur...

 

"Una melodia che era stata suonata sincopata dall'orchestrina in quella notte, che mi inseguì mentre me ne andavo. C'è voluto il caso perché scoprissi le parole che dovevano accompagnarla. Non c'era il merlo a fischiettare quella notte ma il vento che veniva da dove lei era venuta... Oh, ma che montagna di belinate romanticanti. Belle parole bei pensieri begli atti che a nulla servono. La sola cosa che conta è questo movimento. Italo sì che aveva capito tutto, lui era il solo coerente, altro che volgare, altro che maleducato, eravamo noi damerini, noi cicisbei, noi poeti gli ipocriti, il che è ancor più grave, perché prendevamo la strada lunga attorno a quel che giudicavamo turpe ed indecente per arrivarci comunque. Italo e quelli come lui, come Aldo, no, loro fanno quel che dicono e dicono quel che fanno. Loro hanno capito e loro hanno successo, senza vergogna né falsi moralismi. Guardate questa nave, se si vergogna di fare l'amore selvaggiamente col mare...

Se non ci fosse da piangere, si potrebbe ridere: sono diventato lo specialista assoluto, il perfezionista, il campione di un difetto che ho sempre detestato, l'ipocrisia."

 

Mais il est bien court le temps des cerises

Où l'on s'en va deux cueillir en rêvant

Des pendants d'oreilles...

Cerises d'amour aux robes vermeilles

Tombant sous la feuille en gouttes de sang...

Mais il est bien court le temps des cerises

Pendants de corail qu'on cueille en rêvant !

 

"Eppure ancora non riesco a trovare la mia colpa. L'essere imbranati è certo un difetto, ma non tale da meritare una punizione così tremenda. Ma che mi diceva il lampione? Non c'è giustizia, il male colpisce ciecamente e pazzamente. Non è stata colpa mia: è Italo che è stato troppo bravo. E chi l'avrebbe mai sospettato? Li avevo visti assieme si e no due volte alla sfuggita, prima di quella sera, e Lei non mi pareva molto per la quale. E invece... E' stata colpa dell'Estate, e di tutto quel profumo alla lavanda che Lei si dava. Rieccomi su quel ponte a sentire ancora, nonostante tutto, quella magnetica attrazione verso di lei. La speranza sola è crollata, non smisi di amarla, il bel castello delle mie illusioni non era del tutto andato, restavano in piedi pilastri ed architravi slogati e sghimbesci, orrende e grottesche architetture che non riparavano dalla pioggia. In quella notte ho cominciato ad avercela sul serio con la vita. Prima sì, me ne volevo per non essere capace di prenderla senza parlare, me ne volevo di non riuscire a sostenere il suo sguardo, me ne volevo per la mia aria da bestia che solo la nomèa di liceale sminuiva un po ai suoi occhi; dopo ce l'avevo con me stesso per tutto.

Con questa faccia pensavo di poter avere una speranza con Lei? HAH!

Ma con che faccia? Ogni tanto bisogna pure essere seri e guardarsi allo specchio.

Con che faccia pensare di amarla ancora?

Con che faccia tornare a casa e far conto che non fosse successo niente?

Con che faccia continuare le belinate ausiliarie di ogni giorno quando mi ero dimostrato inadatto allo scopo primario? HAH!"

 

Quand vous en serez au temps des cerises

Si vous avez peur des chagrins d'amour

Évitez les belles !

Moi qui ne crains pas les peines cruelles

Je ne vivrai pas sans souffrir un jour...

Quand vous en serez au temps des cerises

Vous aurez aussi des chagrins d'amour !

 

"Oh ce n'è voluto di coraggio per tornare a casa. L'atto più coraggioso dopo quello di lasciar casa per venire qui in Marina, è stato tornare a tutto ciò che mi pareva allora assolutamente insensato ed assurdo. Girare la chiave nella toppa della porta per poco non mi fece scoppiare in un riso isterico e se mio padre si fosse svegliato a rampognarmi certo sarei uscito di nuovo, urlandogli in faccia di andare a farsi friggere, lui, la sua casa, la sua eredità e la faccia da scemo che mi aveva passato.

E per fortuna che l'indomani era domenica e potei piangere a più non posso mordendo il cuscino senza che nessuno dei ficcanaso accorresse a farsi gli affari miei.

Quella è stata la prima volta che ho odiato i miei. Anche mia madre, poveretta, che col mio male non centrava nulla, che con la mia stessa vita in fondo centrava abbastanza poco. Ho odiato anche lei, ma solo per quella mattina.

Ma che importava il letto,che diavolo me ne fregava della colazione, a che pro il pranzo, che giovamento mi avrebbero dato i compiti per l'interrogazione di lunedì? Nulla, nulla nulla nulla di tutto quello mi avrebbe ridato lei o riportato indietro per rimediare. Eppure ho nascosto le macerie, dopo averle irrorate di lacrime. Ho finto magnificamente. Ho rimesso in piedi la facciata in pochissimo tempo. Già all'una del pomeriggio la rividi e la salutai come se niente fosse e senza fare allusioni. Certo non cinguettai come il giorno prima. E non l'avrei mai più fatto: chissà se lei si accorse di quel poco di cambiamento...

Studiai poi con accanimento le balle di storia e di latino forzando la mia mente deficiente ad assimilare, per punizione. Nella tempesta mnemonica mi capitò anche di non pensare più all'irrimediabile e mi sentii un po meglio, ma del sollievo dell'assassino che ha appena ucciso chi egli odiava. Un sollievo nero.

E ora che ne resta di quella notte?

Tutto quel che sono ora dipende da quell'istante in fondo. E mi resta un voto da sciogliere: quello di farla felice ogni volta che ne avrà bisogno. Ma non posso, non tocca a me, e sono a mezzo globo di distanza da lei. E poi nessuno ha fatto voto di far felice me: ma questo fa parte dell'assurdo della vita, inutile preoccuparsene, so cosa devo fare comunque sia. Di me non m'importa nulla."

 

J'aimerai toujours le temps des cerises

C'est de ce temps-là que je garde au cœur

Une plaie ouverte !

Et Dame Fortune, en m'étant offerte

Ne pourra jamais calmer ma douleur...

J'aimerai toujours le temps des cerises

Et le souvenir que je garde au cœur !

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Grazie Maestro :s01:

 

Quello che segue è il pezzo che finora è piaciuto di più alla critica femminile...

 

La lettera dal Golico

 

La licenza lunga abbastanza da poter tornare al paese era rara, ma talvolta, specie se il Fulmine proprio non ce la faceva più e si trovava immobilizzato per una settimana o più di lavori, arrivava.

A guerra inoltrata però il piacere che provava nel tornare s'affievoliva. Il viaggio era penoso, e lungo. Sua madre lo ingozzava di cibo. Non gli piaceva vedere suo padre commosso. E la parte da sostenere di fronte a Lina era sempre difficile da recitare.

Era difficile non raccontarle della Guerra, non inventare battaglie sanguinose e fantastiche fra feriti e mitraglia furente, per sembrarle valoroso. Era difficile anche solo il non farle notare che lui ora rischiava la vita, per darsi una qualche sorta d'importanza del morituro ed approfittare della sua solitudine. Ma Secondo era risoluto a non portare quella Guerra in casa di lei. Non era un affare che doveva riguardarla, parlarle dei rischi, della morte sotto l'onda o dietro le nubi sarebbe stato in qualche modo invocarla anche su di lei. Non bisognava dirle "Dalla prossima missione non tornerò, lo so" e raccontarle tutto nella speranza di rubarle il bacio, anche se la tentazione poteva essere fortissima. Perché non riscuotere da lei quello che la vita gli doveva, in fondo?

Così la visita da lei diventava un esame pesante, ma aveva bisogno di rivederla, per ritrovare la bellezza fondamentale. Ecco, sì, il solo vero buon motivo per tornare con quei viaggi massacranti: si trattava di un pellegrinaggio.

A Marzo del '41 lei gli diede il bentornato fraternamente, ma con un sorriso attenuato. Eppure Secondo era vestito in borghese, niente divisa: chiedendosi a cosa fosse dovuto quel tono di grigiore si ricordò che Italo era passato di lì poco prima, lui in licenza per la prima volta da quando era partito per la Grecia con le sue Camicie Nere. Subito le ipotesi più scure si fecero largo e perse il ghigno artefatto che significava per lui sorriso di contentezza.

"Ah! Quel gran figlio di brava donna deve averla maltrattata... se è così me ne frego, la prossima volta che lo vedo lo uccido."

 

-Dino, non so più che dirti. Vorrei dirti che sono felice che tu sia tornato: ma dovrai ripartire, e non sarò davvero contenta finché non sarà finita.

 

Secondo scosse le spalle. La Guerra era arrivata anche da lei, infine. Era la prima volta che parlava così.

 

-Sì, certo, è bello che tu sia ancora qui, ti vedo bene poi. Ma fra tre giorni te ne vai ed io sarò ancora sola, e vorrei tanto che voi poteste tornare una volta per tutte... basta con tutto questo... dimmi, in missione, hai avuto paura?

-E... eh? Eh... paura... sì. Come si fa a non averne? Eh, sai...

 

Lui, seduto, le mani avvinghiate l'un l'altra, s'era come rimpicciolito. Non era più un attore sorridente, ghignante, sebbene sentisse ancora di doversi controllare, di tener su la sceneggiata, che tutto in missione -mai dire Guerra!- era bello e chi rischiava erano solo gli inglesi che volevano fare i furbi. Ma il siluro correva sotto la superficie dell'acqua, dritto e non visto diretto e sicuro a squarciare l'invenzione.

Anche lei gli pareva, davanti a lui controluce, più naturale. E benigna: emanava la serenità materna che era l'opposto della Guerra che inutilmente aveva cercato di nascondere. Lei in un modo o nell'altro, come sentiva Secondo, aveva conosciuto quella loro Guerra, e ciò, invece di renderla più fragile, la rendeva ora ancor più donna. Cosciente del male che spazzava il mondo lontano, fuori da quella casetta linda di paese riparata dal vento in un cortile silenzioso e soleggiato. Poteva parlargliene senza fingere. La cosa nel suo insieme appariva, senza nemmeno aver molto da pensarci su, scoperta ed innocua. La pura verità, quella solo non poteva delfinare a galla.

 

-...sai, Lina, non vediamo quasi mai gli inglesi: due aerei ogni tanto, le scie dei siluri che ci lanciano contro. Nulla di più. Le schegge delle bombe che ci cadono vicino, che fan dei buchi così nelle lamiere. Non me l'ero immaginata così la faccenda. Non corriamo molti pericoli, l'ho già detto a mamma, il Comandante è bravo, è un asso, conosce tutti i trucchi. Però il Fulmine è così piccolo, il mare tanto grande... le missioni coi convogli non finiscono mai, per giorni e giorni sempre col rischio d'essere affondati da un momento all'altro, se solo la vedetta si distraesse o l'idrofonista non ascoltasse bene allo strumento...

Certo noi non siamo i fanti. Eh, loro, poveretti, loro è un'altra vita. Non sai quante navi ne mandiamo, laggiù in Africa, non sai quanti viaggi fanno al ritorno le nostre navi ospedale.

Poi c'è stato l'affare del mitragliamento, all'andata dell'ultima missione: e queste cose non le posso dire nelle lettere. Un paio di aerei son venuti giù ad attaccarci, ed hanno spazzato il ponte con le mitragliatrici. Due morti subito, uno più tardi per le ferite, tutti artiglieri del complesso di poppa, altri vivi per miracolo, perché tutte le strutture erano un colabrodo. E' toccato anche a me redazzare, dopo.

-Redazzare?

-Sì, lavare il ponte.

"E non ti dirò che il sangue colava dalla piazzola del cannone fin sulla coperta sotto, che ne ho ancora un po sulla giubba."

Naturalmente non li abbiamo abbattuti: le quaranta si inceppano, le tredici non gli fanno niente. Siamo quasi disarmati. Gli inglesi sanno sempre dove siamo e ci vedono anche al buio. Ma finora, il Comandante ci ha sempre tirato fuori dai pasticci, non ce la siamo mai vista brutta davvero.

-E quando vengono le burrasche? Sai che da quando sei imbarcato, non dormo bene, le notti che sento che c'è mare grosso...

 

Qui Secondo si fermò un istante per levare lo sguardo e provare a guardarla negli occhi. Riprese bonario:

-Oh ma no, te l'ho detto, abbiamo la pelle dura. Il Fulmine è piccolo, ma proprio per quello le onde non le sente, diresti che ci balla sopra. E poi è costruito bene.

-Sì ma io ho paura che se qualcuno cade in mare...

-Ah, il Comandante non lascerebbe mai uno di noi disperso in mare, tornerebbe di sicuro a prenderci e non ripartirebbe finché non ci avesse ritrovato!

-Va bene... Beh, se mi dici che è così sto un po più tranquilla.

 

Lui era invaso da una felicità nuova, forse per aver saputo che lei stava inquieta anche per lui, forse per l'aver vuotato il sacco e tolto un velo d'ipocrisia alla sua immagine. Aveva un'espressione ridente e si riteneva convinto d'avere in faccia un ghigno imbecille, ma non ci poteva far nulla per toglierselo. Lei, quieta quieta, si alzò, aprì un cassetto della scrivania, ne trasse una busta che posò dolcemente, prima un lato poi sfilando le dita da sotto, davanti a Secondo. Non c'era indirizzo né affrancatura. La carta pareva aver patito molto. Lui aspettò una sua parola per allungare le mani verso l'oggetto che, evidentemente, era destinato alla sua attenzione. Lina si sedette di nuovo, un pò di traverso ed ora abbassando lo sguardo:

-Sai Dino, Italo se la passa male davvero. Questa lettera me l'ha lasciata prima di ripartire. Se ti va di leggerla... magari ti farebbe piacere sapere cosa pensa... siete tanto amici!

 

Preso ora in una questione di cui non voleva saperne nulla, stava per dirle che non era suo diritto intromettersi. Ma se era stata lei a proporglielo, doveva ubbidirle: ecco scusata la vittoria ultima della curiosità. Aperse comunque la busta con cura estrema e le falangi tremanti. Era la grossa calligrafia, un po infantile, inconfondibile di Italo, a matita. La piegatura del foglio non era regolare.

 

"Vita mia,

queste righe te le scrivo dall'Albania, ma te le lascerò dopo che andrò via, perché non posso spedirtela per la censura. Devo raccontarti come vanno le cose qui, perché non ce la faccio a tenermi dentro tutto quello che ho visto. E che ho passato pure. Tu mi capirai.

Sto dalle parti di un posto chiamato Tepeleni, vicino qui c'è la Voiussa, un fiume, e il monte Golico ce l'ho proprio davanti: son tutti posti dove s'è combattuto molto lo scorso autunno. Noi allora eravamo dalle parti della costa, persi che nemmeno sapevamo il nome di dove s'andava.

Questo fiume, questa montagna, mi ricordano i racconti di mio padre sul Grappa e l'Isonzo, i nostri della Grande Guerra. Senti dire Golico, e ti prende una cosa, e tutti parlano più piano: come se avessi nominato il San Michele, il Carso. Perché lassù dei nostri ne son morti tanti.

Il fatto è: per cosa. Vedessi questi posti: solo montagne, fango, sassi. Dietro il San Michele c'era Gorizia almeno da pigliare: a noi manca persino quella! Combattiamo per riprenderci quanto i greci ci han tolto, e pensare che eravamo noi che dovevamo invaderli. Ma mio padre sapeva per cosa combatteva, liberava l'Italia. Noi qui è questo, non sappiamo che ci stiamo a fare.

E star qui non è facile. Ora ti scrivo dalla retrovia, dove posso vedere il sole in faccia, ma sulla linea abbiamo la trincea, ed è star lì tutto il tempo chinati sotto l'orlo, piedi nel fango, per dormire un buco nella parete che pare una tomba, mangiare quando capita quel che arriva, roba calda quasi mai. Sarò stato due mesi senza lavarmi né radermi. Piove, viene vento, nevica, notte, gelo: quel che arriva ti prendi. Non abbiamo ripari, la linea poi corre in cresta, ed è andata via più gente ammalata o congelata che non ammazzata dai greci.

E poi c'è la guerra: bombe di mortaio che vengono giù ogni tanto, cecchini no ma non si sa mai. Assalto e controassalto: per fortuna ce l'hanno ordinato poche volte, ed io che sono mitragliere capoarma sto sempre nella trincea. Vedo partire gli altri però: e non sono pupazzi, quelli che vedi cadere là davanti fra i sassi, era la gente con cui avevi mangiato l'ora prima, che magari non conoscevi perché a parte gli ufficiali gli altri militi vanno e vengono, ma che avevano una faccia e dietro di quella una vita! E la mitraglia greca se li porta via, uno dopo l'altro; io ci sparo qualche caricatore per coprirli, ma non posso farci più di tanto, subito mi ordinano di non sparare, che le munizioni sono preziose.

Poi sono venuti all'attacco loro, maledizione! E lì, io te lo dico, te lo devo dire, sperando che mi perdonerai, perché io voglio il tuo perdono, mi è toccato ammazzare gente. Tanti: non li ho contati, ma tanti. Mandavo via caricatori uno dietro l'altro. Poi sparavo mirando, porco giuda! Mica sventagliate alla cieca: perché non capivo più niente, avevo solo una gran paura. E nella paura però sapevo che se non miravo giusto quelli venivano a prendere me. Dietro le vampate della canna li vedevo cadere. Uno è arrivato così vicino che ho dovuto sparargli con la pistola, perché stava per tirare una bomba. L'ho quasi visto in faccia mentre lo puntavo.

Non ce la facevano, si sono ritirati, e allora mi son ripreso, come se mi risvegliassi. Lì sì, ho sparato alto, a casaccio, giusto per farmi sentire ancora, sennò erano buoni di mettermi al muro se smettevo prima che arrivasse l'ordine, ma non ho voluto tirare nella schiena a quelli.

Dopo son rimaste solo le grida dei feriti, ci ho messo un po a sentirli, perché ero assordato. Qualcuno dei nostri, ma soprattutto i loro: ed è allora che mi son reso conto di cosa avevo fatto davvero. Volevo che smettessero, ma continuavano, i portaferiti non arrivavano mai. Uno mi pareva che chiamasse la mamma. Allora non ce l'ho fatta più, per non impazzire ho pianto, addosso alla mitraglia con cui avevo fatto tutto quel male, e le lacrime mi scendevano sul metallo rovente ed evaporavano. Dopo è passato il Capomanipolo: voleva dirmi bravo, ma quando mi son girato non ha più detto niente, mi ha dato solo una pacca per farmi coraggio.

Da quel giorno parlo poco con tutti. Prima mi chiedevo se valesse la pena: ora so che non vale la pena. Liberare la Grecia non può valere questo. Queste montagne fangose poi non possono valere il male che son stato costretto a fare, e quello che si continua a fare. Ora mentre ti scrivo sento dietro di me i cannoni che tirano verso il fronte. Io mi sento un assassino e non credo più. Mi sento un assassino anche se ho dovuto uccidere per non essere ucciso, anche se sapevo che in guerra avrei dovuto ammazzare della gente, anche se ti avevo detto che sarei tornato a te da eroe, con la medaglia.

Ben, la medaglia come hai visto me l'han data: ma non vale un accidente se penso che le urla di quei cristiani a cui avevo sparato le ho incise in testa. Non vale la vista dei muli che salgono da noi con le munizioni e il filo spinato e scendono a valle coi morti distesi sopra, per traverso.

Ti ho detto solo alcune delle pazzie che ho visto e dovuto fare. Non voglio portarti questo orrore, solo farti capire cosa sto passando, non perché penso che tu non mi capisci, ma perché io faccio parte di te, ed ora io sono anche questo, le goccette di sangue sul sentiero, la canzone proibita e triste che gli Alpini cantano nelle sere che tira vento.

Voglio dirti soprattutto che se sono ancora io, se potrò tornare a te ridendo ed amandoti, se ancora questa guerra non mi ha fatto impazzire, è solo perché so che tu mi ami. Il pensiero del tuo amore mi riscalda le notti di brina, mi protegge dagli incubi mentre dormo nella terra, mi aiuta a vedere ancora il pettirosso che si posa là dove tutto è stato bruciato dal mortaio. Il tuo pensiero caro mi rende cara la vita. E' stato lassù, su quella cresta infame, che mi son sentito ancora così attaccato all'esistenza sapendo di doverlo a te, che sei la vita stessa, ma tu la crei ed io la distruggo. Voglio il tuo perdono, vita, per quello che ho fatto. E per averti anteposto il dovere verso la patria ed il duce. Mi sento piccolo, debole ed idiota a ripensarci, mentre tu nel mio pensiero sei forte, bella ed immensa come un sole.

Ora non so quando finirà, farò il mio dovere e nulla più: voglio essere eroe nel vivere col bene che potrò farti. Voglio vivere per te.

Dall'Albania, 11 Gennaio 1941"

 

Secondo posò il foglio. Non sentiva nulla, solo una leggera meraviglia. Era come se il suo essere gli fosse stato risucchiato, aveva lo sguardo vuoto.

 

-Beh Dino, che ne dici?

-Eh...

 

Finse di ributtarsi nella lettura riprendendo il foglio; in realtà stava solo ritrovando un pensiero proprio. Disse con accento accorato ed inconfondibilmente sincero:

-Che dire... Lina, sei fortunata ad aver trovato Italo, che ti ama così, e così tanto...

 

Perché ora, lo pensava davvero.

Il resto del pomeriggio passò in chiacchiere e facezie leggerissime e piacevoli, di contenuto ben meno impegnativo. Fra una cosa e l'altra Secondo riuscì a sincerarsi che durante il periodo della sua licenza Italo non l'aveva maltrattata, anzi, era stato adorabile e sensibile come mai prima d'allora. Uscì sul far della sera col pretesto di dover fare delle commissioni per casa, mentre invece andò a passeggiare lungo il fiume, scendendo verso il mare, assorto ed ancora un po assente.

Non era più felice ora, Secondo. Lei non gli apparteneva. Ma sentiva un radicale cambiamento: ora sapeva che Italo l'amava d'un amore intenso e degno quanto il suo. Perché prima amarla sospettando che lei si facesse maltrattare dal Bruto, tale gli appariva, era doloroso, saperla sottomessa quando lui l'avrebbe ridata al pieno giorno della libertà. Ora no. Ora anzi, sentiva di dover uscire come in punta di piedi da una storia bella e giusta, come se fosse entrato per sbaglio in chiesa durante una funzione: si segnava però, uscendo piano piano, senza farsi notare né sentire. La sua sofferenza era stata vana: ma almeno, ora questa era una solida certezza, la vita non s'era presa gioco di lui.

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Questi pezzi di ottima letteratura postati da Seciondo Marchetti sono veramente belli, e danno sicuramente lustro a questa sezione del forum. :s20:

Una domanda (se non un consiglio, o un'esortazione, o una speranza...): ma perchè non pensi a mettere tutto insieme in un bel libro?

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Questi pezzi di ottima letteratura postati da Secondo Marchetti sono veramente belli, e danno sicuramente lustro a questa sezione del forum. :s20:

Una domanda (se non un consiglio, o un'esortazione, o una speranza...): ma perchè non pensi a mettere tutto insieme in un bel libro?

 

Ti ringrazio, e se il suggerimento viene da Te non posso non considerarlo con molta serietà. La strada da compiere è però ancora molto lunga, e non pochi i "problemi" da risolvere.

Il primo, come mi è stato fatto notare, e di cui mi rendo conto io stesso, è lo stile ancora da perfezionare, tanto sotto l'aspetto della retorica quanto nei dettagli (mi sono lasciato scappare uno scorretto ingavonarsi e numerosi centra invece di c'entra); questo spero di migliorarlo con la pratica, inoltre ritornerò sui miei passi per aggiungere altri episodi dei primi tempi: finora ho praticamente saltato tutto il periodo fino al 9 Novembre 1941, non conoscendo con precisione che missioni ed in che periodi furono eseguite dal Fulmine. Vorrei infatti inserire una storia d'invenzione in un contesto il più accurato possibile.

Il secondo è la difficoltà di conciliare il pessimismo e la debolezza del mio personaggio con una decorosa immagine della Marina: non vorrei infatti consolidare lo stereotipo dell'italiano mammone che va in guerra solo perché costretto. Temo che con questa storiella potrei mancare di rispetto alla Storia ed a coloro che l'hanno vissuta per davvero. Anche se dovrei fugare ogni dubbio nella parte post - 8 Settembre, il timore di fondo mi rimane.

 

Con l'episodio odierno si vive finalmente un pò d'azione :s01: (Il titolo è un prestito Buzzatiano)

 

 

Tuono dal Sud

 

La notte di Novembre in alto mare tagliava la pelle esposta e prosciugava dal calore anche quando non c'era acqua a bagnare. I piedi, stretti negli scarponi, pian piano diventavano poli d'assorbimento del pungente dolore dovuto al freddo e muovere le dita di quei pochi millimetri sarcasticamente concessi dalla calzatura, nel tentativo di riscaldarsi, faceva solo aumentare la coscienza del male. Immaginandosi i fanti morti congelati di cui Italo parlava nella sua lettera, Secondo si riteneva abbastanza fortunato. Il giubbotto poi faceva il suo dovere. Ma quanto agognava quel poco di povero calore stentato raccolto nel castello di prua dove si dormiva...

Quel convoglio che scortavano era importante, al punto che dietro di loro, a distanza, v'erano persino i Diecimila che sarebbero accorsi in caso d'attacco. Se ne percepiva la presenza lontana e minacciosa, stranamente la sentiva più minacciosa per lui che non per come dovevano percepirla gli inglesi.

Stava alle vedette sorvegliare l'orizzonte, che coi loro binocoli avidi rastrellatori di fotoni potevano vedere molto meglio che l'occhio umano nudo e ferito dall'aria; eppure Secondo, anche per vincere la noia, si sforzava a spingere lo sguardo in là, nel nero, oltre i fantasmi di spuma che danzavano ai fianchi della nave. Era un'altra di quelle notti che non si distingueva la linea dell'orizzonte, ma il freddo attivo dava un senso di vitalità perlomeno. Qualche canzonetta, solo pensata, riempiva bene quel vuoto.

"Siamo fiaccole di vita

Siamo l'eterna gioventù

Che conquista l'avvenir

Di ferro armata e di pensier!

Per le vie del nuovo Impero

Che si dilungano nel mar

Marceremo come il Duce vuole

Dove Roma già passò!"

 

Proprio mentre le sue pupille stavano dilatate al massimo verso il nero, spalancate al niente e al vento e sensibilizzate dopo lungo affanno alla ricerca di forme, un doppio bagliore proruppe a sinistra e ferì la sua vista. Erano due palle di fuoco che partirono da un punto ignoto non molto lontano con movimento lascivo per poi svanire lasciandosi dietro una sensazione di vuoto. Secondo non le vide bene, e forse non le volle vedere.

 

Un selciato di scaglie luminose si stese fino a lui e per un istante solo tutto parve bloccato nella luce di un nuovo giorno. Secondo non si mosse. Si accese un dibattito interno vivace.

 

"Un lampo. Strano, così basso sull'orizzonte, e poi non mi pareva che prevedessimo temporale. Ma sì, due lampi all'orizzonte, visto come hanno acceso le nuvole? Ci finiremo proprio dentro. Aspetta di sentire il tuono per vedere quanto sono lontani. Uno... Due..."

"No ma sei scemo o cosa? Non era un lampo quello."

"Ma sì, che vuoi che sia se nò... Tre..."

 

Un tremore sorse dalle sue viscere e si ritrovò paralizzato in un brivido. Una strana raffica pareva salisse dal mare. Spalancò ancor di più gli occhi.

 

"Non era un lampo, ti dico!"

"Quattro..."

 

E la raffica diventava più forte, con un rumore di vagone in corsa. Si fece annunciare da un tuono composto e vellutato, straordinariamente voluttuoso a sentirsi.

L'attrazione visiva seguente fu il piroscafo che stava dietro di loro a circa cinquecento metri: da esso, che si ritrovò preso da pinnacoli d'acqua in forma d'artigli a circondarlo, germogliò una palla di fuoco rossastra che s'arrampicò sulla murata per accartocciarsi in cielo. Secondo, voltatosi di scatto, fece giusto in tempo a vederla svanire. Intanto altre fiammate si accendevano verso Sud.

Ora era perfettamente sveglio, ed inorridito. Il suo inconscio lo fece urlare:

 

-NON ERA UN LAMPO!!!

 

E l'ultima sua sillaba si confuse con un grido più aereo, quello di un altro treno di passaggio; non voleva più vedere dove fosse destinato.

Qualcuno in plancia s'era voltato urlando anch'esso un ordine nella porta aperta: il clacson del posto di combattimento risuonò subito dopo. Senza sapere perché, Secondo si ritrovò seduto al suo posto sul seggiolino dell'impianto, gli occhi ben fissi sull'indice, le mani aggrappate al volantino, i denti stretti. Indossò le cuffie dell'interfono che lo collegavano alla punteria generale dei TLS, tolse il berretto e prese l'elmetto mentre Tore, della cui presenza s'era dimenticato, s'arrampicava al suo fianco sui tubi. Altre luci venivano da Sud; i primi passi di corsa trasmettevano la loro vibrazione al ponte.

 

"Non guardare, non guardare!"

"Ma che succede insomma?"

"Non lo so ma forse lo sai e non vuoi dirlo e comunque non guardare!"

 

La prima cannonata partì dal complesso di prua con una rabbiosità lacerante: il rumore di schianto gli parve dargli uno schiaffo, al suo animo congelato nei brividi, e la vampata fu come un pugno nel vuoto che gli diede un fischio alle orecchie ed una cecità temporanea; ne sentì, pochi istanti dopo, l'odore caldo di cordite. Il fumaiolo stava vomitando fumo nero, lo intuiva, segno che le caldaie ingozzate improvvisamente di nafta faticavano per andare al massimo regime. Rumori di porta sbattuta venivano da dietro, dove i vagoni arrivavano a destinazione, ed era la rovina delle lamiere dell'altra nave. Continuavano i tuoni garbati dall'altra parte.

Arrivò Aldo da dietro appena prima della seconda salva di cannone; come se fosse lui al comando, diede una pacca sulla spalla a Secondo sincerandosi che fosse al suo posto con le cuffie e che Tore avesse rimosso le sicure ai siluri: tutto era pronto per il lancio ed andò a sedersi al suo posto, quello del puntatore di riserva dall'altro lato dell'impianto.

Nessuno s'era scambiato una parola. Il mondo stava già parlando attorno a loro, e con parole ben evocative. S'attendeva l'ordine di puntare.

 

"Che strana cosa. Non ha proprio alcun senso."

 

Da non crederci, eppure era arrivato. Il momento della battaglia vera, quella contro le navi, in cui anche lui poteva fare qualcosa.

Era uno di quei momenti in cui la realtà, altrimenti sempre sdoppiata in due dimensioni, quella fisica dei fatti che parevano a tutti reali ed importanti in cui vivacchiava, quella metafisica che era la sola che contasse ed in cui sonnecchiava, non riuscendo comunque a coglierla, a leggerla, a viverla appieno per grossolanità di spirito, riacquistava unità. Ancora per tutto il giorno aveva ripensato al solito incubo -tutti i sogni in cui comparisse Lina, quindi la stragrande maggioranza, erano da lui considerati incubi- che l'aveva colto la notte prima: un pomeriggio pacifico in spiaggia, lei che esprimeva la volontà d'andare, lui che delicatamente le passava la destra attorno alle spalle e le diceva, con una naturalezza ed una dolcezza che mai in realtà avrebbe avuto:

"Te ne vuoi andare? Di già? Va bene..."

Tutto qui: abbastanza però per risentire queste parole sotto ogni stupida frase che aveva pronunciato per esigenze burocratiche di sopravvivenza o di socialità.

-Aldoo0, fra cinque minuti smontiamo ed andiamo a mangiare... "Bene, io me ne vado..." (lei)

-Qual'è quella petroliera? Là, a ore cinque... La Minatitlan o l'altra? Che poi, da dove diavolo viene quel nome? "Te ne vuoi andare? Di già? Va bene..." (lui)

 

Invece quando succedeva qualcosa di grave, la realtà diventava una sola. Imprigionato si sentiva, dalle propaggini d'acciaio dell'impianto su cui sedeva, dall'iride verde dell'indicatore da cui non poteva staccare lo sguardo, dal volante che non poteva non stringere, dal giubbotto salvagente primitivo, dal soggolo dell'elmetto che gli serrava la mascella: ecco, quella era la mano della realtà che lo prendeva al collo per strapazzarlo.

"Ma insomma, che vuoi da me? Perché mi tratti così?"

Le circostanze erano deludenti: ai tempi dell'istruzione siluristi sognava di affrontare navi da battaglia e portaerei da una piccola navicella in un uragano di colpi nemici andati a vuoto, in pieno sole; là davanti invece non c'era certo una di quelle grasse, vecchie e gloriose corazzate inglesi, che a ficcarle due siluri nella carena si poteva vincere il titolo e la fama imperitura di "Affondatore", come Rizzo nella Grande Guerra con la Szent Istvàn che noi, per dare un'aura ancor più spessa di sacralità alla faccenda, chiamavamo sempre Santo Stefano; a dire il vero non si sapeva cosa si avesse contro, ma dalla celerità del tiro dovevano essere forze leggere, caccia, incrociatori al più.

Poco importava se non si vedeva quasi nulla e s'era stati presi alla sprovvista: gli esempi del Luca Tarigo e dell'Alfieri, affondati nelle stesse circostanze, combattimenti notturni senza speranza affrontati con la rabbia e la pazzia dell'impotenza, stavano ad ammonire. Sarebbero andati a fondo anche loro, ma non senza fare la loro parte. E sul Tarigo morente, pensava Secondo, era proprio il silurista che aveva fatto la differenza, lanciando dall'ultimo impianto rimasto efficiente quei due siluri che avevano mandato all'inferno uno di quei temibili supercaccia inglesi che, intatto e tronfio di vittoria, s'avventava sulla preda per finirla.

E poi non era vero che non c'era speranza, mica s'era soli, erano in tanti a scortare quel convoglio e Trento e Trieste sarebbero sopraggiunti in poco tempo: alla carica quindi, gli altri avrebbero seguito. Davanti a loro, il vecchio Euro aveva anch'esso aperto il fuoco, lo spacco della cannonata era giunto, e per riscattare la sua vecchiaia avrebbe sicuramente guidato il Fulmine nella sua corsa per silurare. Dall'altro lato del convoglio non si vedeva più nulla ma certo gli altri caccia non avrebbero tardato a reagire.

Ecco perché il Comandante faceva mettere prua al nemico e macchine a tutta forza -che ordini sublimi a sentirsi, nella plancia illuminata dalle vampate dei cannoni nemici. Lui sapeva quel che faceva; lui aveva a perdere più di tutti, quindi era ben certo che quel suo ordine non fosse azzardato. Non disperazione, stavolta, ma lucido calcolo guerresco. Del Comandante, bisogna fidarsi.

 

Il rumore però aumentava. La vibrazione dello scafo, che gli giungeva attraverso il seggiolino, il volante di brandeggio, i poggiapiedi, si faceva più severa con lo sforzo delle turbine nell'andare al massimo regime, ingolfate di vapore frettolosamente surriscaldato. Le macchine urlavano. La nave tutta non era più un organismo, era un'antenna in risonanza con gli spaventevoli suoni degli scafi d'altre navi che in tutti gli Oceani ed in tutti i tempi sprofondavano, schiacciate dalla pressione, ritorte dai gorghi, sventrate dalla folle velocità di discesa con cui s'allontanavano dalla superficie cangiante ed umana per andare a scavarsi con la prora una tomba nel fango del fondo, dove la luce mai più, eternandosi nel silenzio.

 

Subito dopo il cambiamento di rotta, gli inglesi avvedendosi della loro manovra avevano spostato il tiro su di loro. A quella distanza non c'era possibilità di sbagliare -anche se i colpi sparati da loro per una strana maledizione andavano a vuoto- e già la prima salva era a cavallo.

 

Il sogno, il soggolo, la salva; scuotendosi di spavento vide alzarsi una fontana di un centocinquantadue a venti metri da loro, lo schiocco delle prime schegge che incontravano le lamiere. C'era tutta una concomitanza di fatti che gli dimostravano che la realtà riunita ce l'aveva con lui. Solo la banda di telaccia serrata dal gancio gli impediva di non sbattere i denti.

"Oggi non è giornata eh? Vuoi che mi levi dal soffrire? Potresti almeno farmi sparire senza terrorizzarmi?"

Tiro centrato, serrare il ritmo: la seconda salva parve arrivare dopo un tempo inquantificabilmente breve, e stavolta fu uno schianto a prua ed una fiammata coperta alla loro vista dalla massa nera della plancia, investita in pieno. Non fu lui, fu la nave a sussultare, sotto di lui. Presagì cosa doveva esser successo, là davanti.

"Addio, Comandante..."

I suoi compagni invece imprecarono. Un nugolo di schegge aveva ronzato alto nell'aria.

 

"Uno potrebbe anche chiederselo, che cosa ci sta a fare su una navicella lanciata a sessanta all'ora contro la morte. E dire che prendevo la vita così sul serio! Se avessi saputo che tutto doveva condurmi a questa carnevalata! Ah me la sarei presa molto più comoda!"

 

Gli parve di percepire un accenno di cambiamento di rotta: e non tardò a passare correndo, col volto annerito e sfigurato un ufficiale, per ordinare di mandare a posto la gente per il governo manuale, alle quattro grandi ruote del timone che stavano in coperta dietro di loro. A prua il direttore di tiro era sceso sul castello a riformare una squadra di artiglieri che rimpiazzasse quella falciata dall'esplosione per continuare a tirare. I corpi erano stati ridotti a fagotti informi bruciati sparsi sul ponte, ma le masse d'acciaio dei cannoni gemelli avevano solo qualche indentatura e potevano ancora sparare. Spezzoni di urla di incitamento giungevano fino a loro nel fumo lieve che cominciava a diffondersi.

Altri colpi a segno: Secondo era dal lato meno esposto ma sentì se non li vide, uno doveva aver sconquassato il sottocastello ed un altro aveva mandato in frantumi la motolancia prima di sventrare la base del fumaiolo. Ecco come se ne partiva, pezzo dopo pezzo, il mondo in cui viveva da quasi due anni. Ma era una grandinata che prima o poi doveva arrivare. Vi si era preparato. Certo che gli dispiaceva, che il suo diario e la foto della Lina sarebbero andati a fondo nella nave...

Questo pensava quando un colpo esplose contro la murata in corrispondenza della tuga della fotoelettrica, inondando col suo cono di schegge tutto attorno. Accecato dalla vampa, Secondo si chinò istintivamente per poi guardarsi attorno strabuzzando gli occhi. Non se ne rendeva conto, ma aveva addosso sangue e brandelli di carne. Il cadavere di Tore cadde sui tubi inondandoli. Decapitato. E Aldo non si vedeva più.

Senza pensarci due volte, senza sentire niente, balzò in piedi strappandosi furiosamente le cuffie di dosso - non aveva nemmeno pensato che ora erano inutili, dato che nessun ordine poteva più venire dalla plancia - e scavalcando il povero Tore si gettò al posto di Aldo per trovarlo riverso, i piedi ancora sul predellino. Si muoveva un poco ed apparentemente era tutto a posto. Scese giù dai tubi, si chinò a vedere, percepiva un lamento flebile. Notò un buchetto nero sotto la spalla, e gli aprì la giubba, tastò, c'era una piccola ferita, ne ritirò la mano arrossata. Non sapeva di preciso cosa dovesse fare ma un lontano ricordo dell'istruzione gli tornò in mente. Con una mano tirò fuori di tasca il fazzoletto, con l'altra prendeva la sinistra di Aldo parlandogli:

-Aldo non è niente, ci sei? Ecco, bravo, tieni premuto, anche se fa male! Premi bene!

 

Sistemò il fazzoletto sulla ferita e ci posò la sua mano sopra, quindi si sfilò la sciarpa.

Il rumore della granata contro la lamiera, come quello dello schianto di un'imposta sbattuta dal vento, si sentiva ancora verso prua. Le schegge, salando lo scafo, facevano come dei brevi applausi. Per qualche istante le mitragliere avevano coperto tutto col loro tamburo, rassicurante di cadenza e disperato nella violenza, nella debolezza delle traiettorie che rallentavano in lontananza. Non era che Secondo ci facesse molto caso, non lo sapeva nemmeno ma era concentrato su quel che gli veniva naturale fare, aiutare il compagno, né faceva caso alla posizione del nemico, né al fatto che i cannoni ora tacevano e che del vapore, uscito da chissà dove, cominciava ad inumidire l'aria.

Della sua sciarpa ne fece un bendaggio primitivo attorno al petto di Aldo. Non c'era foro d'uscita, la scheggia doveva essere ancora nel suo corpo, percepiva il suo dolore. Fu una fortuna che si fosse chinato a medicarlo perché altre schegge volarono e lo avrebbero colpito se non fosse restato basso. Avrebbe voluto fare di più. Ora agiva macchinalmente, senza alcun pensiero che non fosse immediatamente collegato alla concretezza, risalì al posto del puntatore sull'impianto, si guardò intorno straniato, notò con orrore che anche la testata esplosiva di un siluro era stata perforata. Attendeva un ordine e recuperò l'udito. Invece dell'urlo delle granate gli parve di sentire un gran silenzio, se silenzio si poteva dire un tuono continuo da Sud, un treno in corsa a Nord, le urla a bordo, degli ordini e dei sofferenti. Un incendio si dichiarò a centronave, una sagoma umana si buttò in mare, lo scafo, lo sentiva senza prenderne atto davvero, si inclinava lentamente verso prua, perdeva abbrivio. Dov'era finito, quand'era finito l'urlo delle macchine ed era cominciato quello dei feriti? Due fuochisti emergevano da un boccaporto cercando di tirar fuori un compagno ustionato.

Eppure gli inglesi dovevano essere ancora là, a Sud! Secondo voleva provarci comunque, prima che fosse troppo tardi, prima che il vapore sfuggito alle caldaie oscurasse tutto e non potesse più mirare! Elettricità non ce n'era più, cominciò a lottare col volantino del brandeggio manuale, ritmandosi con colpi di Ah! Ah! Ah!

Aveva già fatto venti gradi quando un ufficiale che aveva perduto il berretto lo redarguì:

-Che fai, sei pazzo?!? Abbandonare la nave ho detto!!!

Secondo lo guardò meravigliato, a bocca aperta. Solo allora comprese meglio cosa significasse quell'inclinazione della coperta e quel silenzio delle macchine, perché non poteva finire così il suo mondo, forse era ferito e non ci faceva caso, forse era morto già prima ma era passato in una dimensione parallela equivalente. L'ufficiale lo vide andare ad aiutare a mettere in mare un battellino di salvataggio. Si ricordò di Aldo disteso sotto, scese dall'impianto dandogli un'ultima manata di volantino, si tolse febbrilmente prima l'elmetto poi gli scarponi, fece lo stesso ad Aldo, con non poche difficoltà lo alzò e lo sostenne, per fortuna riusciva quasi a camminare ancora anche se ne teneva quasi tutto il peso. L'acqua arrivava ora già a mezzanave, a lambire l'incendio. Si guardava attorno.

-E' ferito? Portalo qui!

L'ufficiale di prima: gli indicava il battellino che era stato appena messo in mare e che stava venendo caricato coi feriti, nel punto in cui la murata s'abbassava di più. Reggendosi alle draglie avanzò penosamente fin là, con la lamiera ghiacciata sotto le calze.

-Bravo, posalo giù e dammi una mano ad imbarcarli...

Assieme ad altri si trovò a collaborare per adagiare i feriti nel battellino, li passavano in due ed altri due da sotto li prendevano. Alcuni erano ben più agitati di lui: c'era chi già si buttava in mare mentre all'opposto un Capo, artigliere dal complesso di poppa, discuteva con l'ufficiale mentre l'inclinazione cresceva e la poppa usciva dall'acqua:

-Ce ne devono essere altri di sotto, prendo due uomini e scendo a vedere!

-Non fare pazzie, è troppo tardi!

-Signore, non posso lasciarli là!

-Sacramento!! Quando dico una cosa!! Ti ordino di restare!!

 

A quel punto, il ponte andò giù rapidamente, le fiamme arrivarono a sfiorarli, senza pensarci tanto su saltarono. Un morso salì lentamente sul corpo di Secondo mentre risaliva in superficie e l'acqua gelida guadagnava la sua pelle sotto la tela pesante. Un velo di nafta gli ricoprì la testa appena fuori e ne respirò un po, mentre aprendo gli occhi li sentì bruciare, e richiudendoli la cosa non migliorò. Non poteva più vedere, ma solo sentire. Mentre istintivamente cominciava a nuotare la voce:

-Allontanatevi! Via tutti, prima che affondi!!

 

Tenendo come riferimento i rumori dello scafo in agonia, il tenue ruggire del vapore, le angosce del metallo sotto sforzo, nuotò un minuto, ingoiando acqua, impacciato dal giaccone e dal giubbotto, sempre accecato. Un ferito su un battellino si lamentava con insistenza, sentendone la voce vi si avvicinò, con la mano brancolante tastò la canapaccia del tientibene e la tela gommata con un piacere tutto nuovo. Coordinandosi con gli altri in acqua attorno a lui, tutti assieme trascinarono via il battellino dalla zona pericolosa dell'affondamento, dove tutti sapevano che il risucchio dello scafo scomparso sotto la superficie poteva trascinarli con esso.

-Ragazzi tenere duro, non staccatevi, restate uniti. Muovetevi un po ogni tanto, scaldatevi.

 

Era ancora l'ufficiale: la sua voce perentoria lo rassicurava, e lui era in acqua come tutti loro.

-Il primo che prova a salire lo affogo io stesso: è già carico di feriti, se si rovescia li uccidete tutti. Un po d'acqua fresca non vi farà male.

 

Date le raccomandazioni del caso, scese il silenzio. Ora si sentivano solo i rumori attenuati della battaglia, il gemito dei feriti. E un ruggito di lamiere distorte e stirate, altri rombi cupi che parevano venire dal basso: Secondo non lo vide, il Fulmine scomparire, la bandiera fiacca nella notte senza vento coricarsi nella nafta, l'elica dorata sparire per ultima: ma ora sapeva che era andato giù, per i suoni della sua agonia nascosta, il fasciame divelto, gli organi interni sloggiati dai basamenti con le caldaie che sfondavano le paratie od esplodevano nella vertiginosa picchiata nei cinque chilometri di fondo che avevano sotto i piedi. Anche quello, anche quel pianto di metallo a gemiti e colpi di maglio cessava. Più che ai corpi che lo scafo portava a fondo dentro di sé, Secondo pensava all'agendina che teneva nel suo stipetto, alle lettere di Lina, ai suoi ricordi che precipitavano nelle tenebre, qualcosa che era appartenuto a lei, che lei aveva pensato ora faceva quel viaggio dall'orrore disumano. Ma chissà che non fosse una dimensione piacevole: due minuti di paura talmente forte da render folli, e poi con la rinuncia al vedere la luce potevano trovare il riposo assoluto, lontano dal loro formicolare di superficie, finalmente unitari e coerenti.

 

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Io sto in ascolto se...

 

Il vecchio e fedele Euro era tornato alla base al massimo della velocità continuativa che poteva sviluppare, date le sue ferite, a sbarcare il suo dolente carico e lo smacco della beffa subita. Non uno solo dei mercantili s'era salvato. Anche per coloro i quali non fossero stati vittime di particolari manie di persecuzione da parte del destino, com'era il caso per Secondo, la vicenda dei naufraghi del Fulmine avrebbe dato da pensare.

Avevano visto ad uno ad uno andare perduti tutti i mercantili del convoglio, e battere in ritirata le altre navi della scorta, senza nemmeno sapere se sarebbero tornate a recuperarli. Gli incrociatori dell'Ammiraglio Brivonesi non s'erano visti. Per il resto della notte sarebbero stati abbandonati a loro stessi.

Un battellino che non erano dovuti riuscire a raggiungere all'abbandono della nave s'era sganciato quando questa era andata sotto ed era rimasto a galleggiare, vuoto. L'ufficiale se ne accorse e, passato il pericolo, propose che lo si andasse a prendere per sistemarcisi:

-Ragazzi c'è un battellino vuoto, mi pare che galleggi ancora, chi viene con me a vedere?

 

Secondo, che cominciava a sentirsi intorpidito ed impaurito, si offrì senza pensarci nemmeno; sarebbe andato a nuoto fino a Pantelleria, pur di non restare lì:

-Signore... vengo io, signore!

-Guarda che se lo chiedo è perché ce n'è un pezzo da fare. Chi è stanco resti qui. Te la senti?

-Gnorsì

-Via allora.

 

Si staccarono dal sostegno delle maniglie, cominciando a menar di braccia. L'ufficiale si avvide che Secondo non era molto tecnico:

-Bracciate lunghe, ritmate, sennò ti scoppi subito. Guarda me.

 

Si fermò a guardarlo per quel poco che poteva vederci e, mentre i suoi piedi puntavano al fondo, l'altro malgrado gli impedimenti del giubbotto e dei vestiti pareva scivolare, senza sforzo e senza quasi alzare acqua. Rumori lontani di incendi e di bestie affondanti arrivavano. Il battellino era solo un trattino bianco in distanza. E sentendo il richiamo del liquido sotto i piedi, Secondo trovò nella paura l'energia che gli mancò nella volontà. Poteva persino mettere la testa sotto per fare come l'altro, e poi quell'acqua calma, quasi ospitale, ancorché senza fondo e senza confini, se ci pensava bene gli piaceva. Che differenza c'era con i bagni che faceva d'estate? Avere due metri, averne ventimila, non toccava comunque. E le pazzie natatorie che faceva per impressionare Lina, da buon babbeo, le poche volte che veniva alla spiaggia!

Eppure...

Cosa avranno avuto sotto, a parte il cadavere ancora caldo del Fulmine? Colline dolci e distese di fanghiglia soffice, o crode appuntite, falesie, baratri neri nel nero? Non aveva sempre sognato di volare, come tutti i fessi della terra? E non stava volando ora, pian pianino, a colpetti d'ala, sopra un mondo sconosciuto? Da quella quota avrebbe potuto vedere tutto nel raggio di decine di chilometri, se solo avesse avuto i sensi di un capodoglio, e vedendo il fondo non avrebbe avuto paura.

La paura di che? Ora, lasciato loro un piccolo spiraglio per irrompere, si sommavano un po tutte ed erano così forti che distintamente ne poteva fare l'appello.

Dell'ignoto, del buio, della fine che avrebbe fatto il suo corpo dopo la morte: era l'idea che a duecento, trecento metri sotto di lui ci potesse essere la cima di una spaventosa montagna nera, o che a duemila s'aprisse un crepaccio sottomarino profondo fino a cinquemila, e lui che gli sarebbe bastato annegare, nulla di più facile in quel momento, per precipitare laggiù insieme alle sue povere cose che già c'erano. Tutto era smisurato e minacciosamente inerte. Quant'era piccolo in quel silenzio! Non era il marettino dello scacquettio dei bagnanti, quello era il mare spalato dagli scafi delle corazzate, corso dai sommergibili, dove le ancore non toccavano mai e le correnti scendevano giù, via, lontano. Non riusciva a smettere di nuotare malgrado l'atroce crampo alla milza che lo aveva preso quasi subito e che si acuiva sempre di più. Perdere un solo bottone della giubba, o un calzino, o una qualsiasi altra delle sue minuzie che ancora aveva addosso, sopra quel baratro, l'avrebbe rimpianto come perdere una persona cara.

Infine arrivò a toccare il battellino. Non sapeva quanto tempo c'era voluto ad arrivarci. Ansimando senza ritegno accettò la mano che l'ufficiale, issatosi a bordo prima di lui, gli offriva per salire. Il galleggiante aveva patito qualche bruciatura, doveva essere uno dei due di quelli subito a poppa del fumaiolo, però teneva.

-Bella nuotata eh? Ti scalda bene...

-Gnorsì...

 

Ecco quel che non andava. Perché l'altro riusciva a vedere in quel breve tragitto solo una semplice nuotata, un atto meccanico, mentre lui aveva compiuto un volo sopra gli inferi? Di certo l'altro non aveva sofferto altrettanto la paura. Avrebbe voluto essere quell'uomo.

Tuttavia, almeno quella soddisfazione, si intendevano bene: senza bisogno di dirsi nulla misero mano alle pagaie assicurate nel battellino e cominciarono a vogare in buona sincronia facendo il percorso a ritroso.

-Signore mi dica lei se remo giusto, io non vedo nulla, gli occhi mi bruciano troppo...

-Dritto così, tranquillo. Come ti chiami?

-Signore, Marchetti... Secondo.

-Eri silurista ai tubi di poppa, no?

-Sì, signore.

 

Forse l'ufficiale avrebbe voluto parlargli di lui o chiedergli altro, ma la cosa morì di morte naturale.

Tirarono su da bagno la decina di marinai che erano rimasti e legarono assieme i due canottini.

-Riuniamoci agli altri, sarà più facile quando ci verranno a prendere.

 

L'ufficiale pareva aver sempre il consiglio giusto da dare:

-State bassi, stringetevi, avrete meno freddo.

 

Ed era l'unico a parlare. Tutti gli altri non dicevano, i fatti erano troppo eloquenti e senza bisogno di commento. A circa un chilometro da loro una chiazza di nafta, tutto quel che restava di una delle due petroliere, teneva ancora a galla un furioso incendio. Nessun segno di altre navi. In realtà il Grecale, immobilizzato avendo ricevuto colpi a bordo e perso tutta l'acqua per caldaie, era lì presso, ma non lo notavano.

 

Fu solo all'alba, che poterono veder colorire ad ogni suo istante d'evoluzione, che videro la sagoma di un caccia venire verso di loro. Era il Libeccio, scampato quasi senza danni, tornato a riprendere i naufraghi assieme all'Euro, ferito ma salvo. In molti dovevano aver voglia d'esclamare che si sapeva che non li avrebbero abbandonati, per esorcizzare la paura che avevano avuto.

Affiancatosi al glomero di battellini, il grosso caccia cominciò a caricare gli scampati: Secondo, che era un pagliaccetto senza scarponi e con la testa nera, fu preso per le braccia e risucchiato su da due artiglieri, e fu finalmente un ponte vibrante su cui camminare, l'acqua di mare due metri sotto e non sotto i piedi. Lo accompagnarono subito nel sottocastello e di lì lo fecero scendere in sala caldaie. Sentendosi avvolto da un getto d'aria calda e dal coro dei turboventilatori stava per dire che aveva paura di andare là sotto, che ancora era troppo fresco quel Capo che parlava degli uomini intrappolati in sala macchine.

"Signore, non posso lasciarli là!"

Ma quando qualcosa di così grande succedeva, perdeva la capacità di volere e gli restava solo quella di intendere. Scese la scaletta, un fuochista allegro gli trovò un posto a sedere attaccato al cofano bollente della caldaia:

-Questo ti asciugherà, compagno. Fra un po vi diamo anche la zuppa! Quando non hai più freddo ti puoi andare a lavare via la nafta ai lavatoi. Per gli scarponi invece dovrai aspettare però. Togliti pure il giubbotto.

 

Non si fece pregare: si tolse il corpetto pesante e fradicio di dosso, lo usò come cuscino, ripeté le istruzioni agli altri che portavano dentro. Passò un cuoco con una gamella ed un cuciniere che distribuiva le tazze: ad ognuno diedero una grezza mestolata di minestra fumante. La solita, con la pastina squagliata e il retrogusto di legname, ma la bevette trovandoci un gusto ed un piacere del tutto nuovi.

Si era affezionato a quel posto e non ne sarebbe più uscito, se non si fosse ricordato che poteva lavarsi via la nafta. Andò ai lavatoi al ponte superiore in punta di piedi, come un ospite che non vuole disturbare. Con le calze, non faceva nessun rumore camminando, come un fantasma gli sembrava. Il commissario di bordo doveva aver avuto il bel pensiero di far trovare una saponetta per loro, perché di solito ogni marinaio aveva la sua e la teneva con sé. Si lavò con energia, la nafta resisteva, ancorché nei capelli, pensava, non sarebbe stata male come brillantina, gli occhi ripresero a bruciare. E fu quando stava finendo di sciacquarsi che sentì un urlo confuso ma fortissimo l'allarme suonare le macchine rimettersi pigramente in moto, quindi il ponte sotto i suoi piedi con un rumore di colpo di maglio si sollevò è lo scaraventò con la testa contro il rubinetto e quindi in terra. Si rialzò a fatica sentendo qualcosa di caldo sulla tempia.

Tutto stava andando troppo bene: salvi su di una bella nave, con un equipaggio che si faceva in quattro per loro. Non poteva mica andare tutto così liscio! Fu con furia spavalda ed ironica che Secondo si tastò il cranio, sentendo un taglio fra i capelli. "Troppo bene andava, troppo bene!" Bestemmiò fra i denti, con una voluttà che avrebbe raramente ritrovato nell'imprecazione.

Dopo essersi ricordato che non aveva fazzoletti per medicarsi, si affacciò sul corridoio e, passato un gruppo di marinai che correvano fuori, li seguì. C'era del fumo, agitazione verso poppa: e la poppa, dalla tuga del cannone in poi, non c'era più, tranciata via da un siluro.

Secondo si sistemò in un angolo dove non era d'ingombro, e si mise a pensare che forse non gli sarebbe toccato rifare il bagno, che di navi senza un pezzo se n'erano già viste, purché le paratie stagne tenessero. Ma già l'inclinazione si faceva sensibile. Il segnalatore, lo sentiva sotto gli ordini dati da qualche ufficiale dall'aletta di plancia, mandava i suoi appelli luminosi all'Euro, che gli venisse a dare assistenza, con fretta consueta e disperata.

-Puntellate... Forza elettrica ce n'è ancora? Le pompe di sentina, che diavolo... Muoversi! Ah no? Fatele ripartire!

 

L'Euro veniva vicino per prendere la nave mutilata a rimorchio. Ma la situazione doveva essere grave perché i feriti adagiati sulle barelle venivano riportati sul ponte, anche da lui che s'era offerto, e si metteva a mare la motolancia.

La prassi: sarebbe restato a bordo solo il minimo indispensabile delle persone che erano necessarie alla salvezza della nave, gli altri sarebbero stati trasbordati. Così anche lui, dopo aver contribuito a caricare un primo viaggio di feriti, quelli vecchi del Fulmine e quelli nuovi del Libeccio, si trovò sulla motolancia e poi sull'Euro. Fra i feriti che aveva maneggiato c'era anche Aldo: sveglio ancora, reagiva, ma il suo respiro si terminava ad ogni ciclo con un gorgoglio leggero.

Un ufficiale notò la maschera di sangue di Secondo e gli disse:

-Dì giuèn tu non stai bene affatto, vatti subito a far medicare!

-Signore non è niente, è solo un taglio: prima loro.

-Fa come vuoi. Ma appena possibile chiedi al medico che ti dia un'occhiata.

 

Tutti i caccia bene o male avevano la stessa geografia: su di quello, il terzo che vedeva in uno stesso giorno, non gli fu difficile trovare un cantuccio comodo dove non disturbasse.

Aspettò un'oretta seduto all'ombra della piazzola di poppa, nel frattempo si teneva la ferita premuta con la manica, quindi il medico -quello del Libeccio a cui lo stesso ufficiale di prima aveva detto di medicarlo- venne a fargli una fasciatura. Anche lui pareva amichevole e paterno:

-Per ora non posso farti di più. Ma ricordati a terra di farti vedere di nuovo. E quando rimettiamo in moto vattene al riparo, non devi più prender freddo. Capito?

-Gnorsì...

 

Strano, che fosse ancora così importante, non si sentiva degno di quelle attenzioni. Chi era lui per meritare tanto disturbo? Lui, in fondo, aveva sempre voluto non esistere, perché gli altri, sconosciuti per giunta, si preoccupavano tanto di tenere in vita quell'errore?

 

Il Libeccio, ecco chi avrebbe avuto bisogno di una bella fasciatura! Durante quel tempo l'Euro aveva manovrato con perizia sulle sue antiche macchine per portarglisi di prua e filare un cavo, cominciando poi a rimorchiarlo, ma l'altra nave perdeva vistosamente assetto ogni minuto di più, la poppa sempre più giù, sbandato a dritta, come se si contorcesse di dolore. Alla fine, avevano dovuto mollare il cavo, era chiaro che il Libeccio voleva smettere di soffiare. Recuperarono i pochi che erano rimasti a bordo, gli fecero un giro attorno mentre si coricava. Scomparve ed una voce da sopra, dalla piazzola, disse con sconforto:

-Ore undici e diciannove...

Modificato da Secondo Marchetti
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Renovatio

 

L'ospedale militare di Augusta pareva, ad esserci portati nella gran luce del primo mattino novembrino, una grande fabbrica bianca dove i corpi umani fuori servizio venivano rimessi in condizione di riprendere la lotta per la Patria. Secondo non aveva voluto andarci, avrebbe voluto rientrare a Taranto fin da subito, o farsi una licenza, ma c'era stato comandato per le sue condizioni. In una camerata al pianterreno insieme agli altri feriti più lievi ricevette un pigiama lasco, un letto e l'ordine di restarci fino a che il medico non avesse deciso diversamente. Lui si sentiva stordito, non malato. Gli fecero fare una doccia industriale e la lavanderia prese in consegna i suoi stracci naftosi. Uscito dai bagni, profumato grezzamente del prodotto che s'era dato addosso per lavarsi -un profumo che nascondeva chissà quali abominii chimici- si ritrovò nel pigiama-vela ed in pantofole nella camerata. Obbedì all'ordine. Dopo che un infermiere che non parlava era venuto a mettergli un cerotto sulla ferita, previo taglio dei capelli nella zona interessata, un medico venne a dargli un'occhiata: una brava persona pareva, calvo con baffetti ed occhialini tondi, gli posò una mano sulla fronte come faceva a casa suo padre quando aveva la febbre, per misurargliela.

-Tu che mi hai combinato? Eri del Fulmine, mi han detto.

-Signore, sono rimasto a bagno un po di tempo l'altroieri notte. La ferita me la sono fatta sul Libeccio quando ci hanno silurato.

-Va là, non hai niente. Voi ragazzi di oggi vi fanno con la ghisa. Comunque tu te ne stai qui tranquillo qualche giorno, eh? Ti teniamo così da esser sicuri che non mi fai una polmonite, intesi?

-Sì, Signore.

 

Gli venne l'istinto di tirar fuori dal saccone il libro che stava leggendo od il diario con annesso mozzicone di matita: ma quale saccone? Quello che era andato a fondo?

"Lina mi perdonerai se non ho salvato la tua foto. Però chissà cosa starai vedendo là sotto! E che silenzio maestoso!"

Anche lì nella camerata c'era un certo qual silenzio: ma era provvisorio e fortuito, non stabile. Le lenzuola erano rigide ma non ruvide, il pigiamone pulito gli metteva tenerezza, per quel suo aspetto di povera cosa statale, sformato dall'uso e destinato ad una vita rude e grigissima fatta di vestizioni di degenti e di lavaggi barbari in grandi autoclavi. Se lo lisciò addosso per provargli il suo affetto.

Certo che un libro gli mancava, peraltro era un libercolo comprato da poco quello che aveva per quel viaggio, ancora nuovo. A fondo anche un anno e più di scritture e memorie recluse nella piccola agenda nella tasca interna del saccone, a fondo i vestiti di ricambio, i soldi, i documenti, la matitina che avrebbe voluto galleggiare, essendo in legno di cedro, ma non poté, essendo intrappolata nello stipetto.

Fece l'appello di ciò che ancora possedeva; la cosa d'altronde si faceva inquietante.

Sì che doveva avere ancora una casa ed una famiglia in un paese lontano. Ma lì con lui non aveva più nulla; dei vestiti che prima aveva indosso non ne sapeva niente. Il pigiama e le pantofole erano proprietà dello Stato. Lì per lì, si ritrovò a possedere solo il suo corpo. Ciò lo lasciò basito.

Il diario che raccontava quel che era stato, la foto che disegnava colei che amava, i soldi che gli davano libertà ed autorità -i quattro soldi che amministrava distrattamente per prendere il treno e pagarsi gli svaghi poveri da franchigia beninteso, sapendo che comunque erano sempre pochi- i documenti che dicevano il suo posto nel mondo! Tutto era perso!

Appello, adunata, rapporto: gli restavano un corpo, su cui era apposto un nome ed un cognome, teoricamente un ruolo in due organizzazioni, una chiamata Regia Marina e l'altra era una certa Famiglia Marchetti, poi dei ricordi sotto forma non trasmissibile, un amico ferito ed altri malridotti.

Un amore, anche: ma difficile ripensarci. Un amore sdrucito, ecco. Che stava lì perché c'era sempre stato ma quella mattina non aveva molto senso.

Ce n'era abbastanza per stare comunque tranquilli, concluse. Purché per qualche errore burocratico la sua identità non venisse smarrita e lo cacciassero dall'ospedale o lo fucilassero come spia. Questo sarebbe stato un punto cui prestare attenzione in special modo.

Certo che, senza nemmeno un libro da leggere...

Come un neonato o poco più; al momento, non possedeva nessun bene materiale. Era anche ospite in terra sconosciuta.

La luce del sole che avanzava era venuta spostandosi fino ad inondare con il getto che entrava diretto dalla finestra il suo letto. Al tepore dei caloriferi ci si aggiunse quello della luce, più naturale, senza quel retrogusto di ferro.

"In questo bagno di luce io mi battezzo Secondo, nel nome della serenità, del silenzio e della vita nuova."

 

Il pasto che gli fu servito dall'infermiere che non parlava non era proprio gran cosa, come sempre del resto per quelle ristorazioni di massa che non avevano un'anima e se l'avevano era la fretta, la noncuranza. Però per fare il bravo bambino si sforzò a finire tutto, anche il blocco di penne al pomodoro, aiutato in questo, a onor del vero, dalla robusta fame di chi non avesse mangiato per una vita.

Quindi chiese all'infermiere, dopo che aveva finito di portare via tutto, a proposito di Aldo:

-Senta, scusi...

 

Quello lo guardò un po stranito, poi sorrise svelando un accento locale spiccato:

-Ma prego.

-Ecco, se ha fretta non fa niente, vada pure... E' che volevo sapere di un mio amico che è ricoverato qui ma non è con me...

 

L'infermiere si tastò il camice e ne estrasse un pezzo di carta ed una matita:

-Mi dica come si chiama, glielo cerco subito.

-Aldo... Aldo Revelli... è stato ferito, era con me sul Fulmine.

-Eeh se è ferito dovrà aspettare che si rimetta... ma ci faccio sapere subito come sta, eh?

-Grazie... se volessi uscire a fare due passi?

-Ce lo chiedo al dottore, senza il suo permesso non si può.

-Grazie ancora...

 

Ecco ancora quella gentilezza che non chiedeva e non meritava: come inizio non c'era male, ma già gli si confondevano le idee... che meriti aveva acquisito presso quell'uomo per guadagnarsi un servilismo così squisito? Forse l'esser stato fermo mente gli tagliava un bel ciuffo di capelli, forse l'aver finito tutto il pranzo. Avrebbe voluto chiedergli se ci fosse un piccolo spaccio all'ospedale, se poteva avere dei libri, una nuova agenda: poi si ricordò che non aveva soldi per comprare nulla.

L'infermiere tacito ritornò con le migliori notizie: Aldo era fuori pericolo - non era questione di andarlo a trovare perché non poteva essere disturbato - e lui poteva uscire in terrazza, ma solo fino alle tre, nelle ore più calde.

Nel suo pigiama, per uscire, ci voleva un po di faccia tosta: ma era in terra straniera e recluso in ospedale, nessuna bella ragazza da sedurre, poteva correre il rischio di rendersi ridicolo. E poi, notò, gli altri non stavano meglio.

Si sentiva debole, dolcemente debole come al ritorno da una lunga camminata: forse era la vera spossatezza dell'avventura passata, forse la suggestione del posto. Era nel posto degli ammalati: che la stanchezza avesse libero corso quindi, per conformità al luogo, per sentirsi protetto. Certo che il pomeriggio e la sera furono molto noiosi, e ci mise un'eternità ad addormentarsi in un letto non suo.

L'indomani mattina gli portarono una tenuta di servizio nuova di magazzino, perché potesse mettere qualcosa d'altro che il suo pigiama floscio. Lui era sottufficiale, se lo ricordava bene: e la tenuta era da Comune, senza l'ombra di un gallone, un distintivo di specialità, nulla. Non voleva che cominciassero a distruggere ciò che aveva ottenuto nella vita precedente: ma non volle disturbare su una questione così delicata l'infermiere tacito, che aveva già avuto il pensiero gentile di portargli quel ricambio. Sapeva di canapa ed era ruvido come pietra pomice: tutti gli indumenti da Marina d'altronde appena usciti dai magazzini erano così. Con l'uso, presto gli sarebbero sembrati comodi. Tacito aveva cominciato a dargli del tu:

-Per gli scarponi devi aspettare un po, e per i documenti, i soldi ed il resto del corredo pure. Ma tanto hai una settimana di riposo, non c'è fretta.

-Senta...

-Pronti!

-Avete una biblioteca qui?

-Sì, in fondo al corridoio, poca roba però, è piccola.

-Posso andarci?

-Ma ci mancherebbe altro!

 

Sistemato il problema della noia. Ora poteva delegarla agli autori che avrebbe letto invece che alla realtà. Passò infatti la mattina a leggere senza lasciarsene molto assorbire un romanzetto. Era solo nella sala che, da buona biblioteca benché ridotta, sapeva di vecchie carte. Ritrovò il libretto il pomeriggio. La tela asprigna della tenuta prudeva, ma le pantofole lo confortavano. Che strana abitudine da vecchietto, gli pareva ora d'essere in una casa di cura!

Tuttavia ci doveva essere un modo migliore di cominciare una vita nuova. Ci voleva un gesto propiziatorio. La gentilezza di Tacito -si chiamava Peppe, ma trovava indelicato chiedergli il nome- e del dottore gli diede la giusta ispirazione.

Non potendo confortare Aldo, che per una settimana almeno doveva stare zitto e buono, sarebbe andato a trovare la famiglia di Tore, per dir loro che gli dispiaceva, raccontargli quello che il telegramma della Marina non diceva. La sera così chiese a Tacito di chiedere al dottore se l'indomani l'avrebbe lasciato uscire. Il dottore venne a vedere con aria corrucciata e Secondo recitò al meglio per apparire in forma:

-Dottore le devo chiedere se mi può lasciar andare: devo visitare la famiglia di un amico. Sto bene ora!

-Guarda che se mi peggiori di colpo... dov'è che devi andare?

-A Catania, non è lontano! Le giuro che sto bene! Posso lasciare il posto a chi ne ha più bisogno!

-Vabbò, ormai se avessi dovuto fare un accidente, si sarebbe dichiarato: ti posso pure lasciar andare. Domani mattina però vai per prima cosa al deposito personale a firmare e a farti dare i documenti nuovi.

-Sì, signore! Grazie!

-Niente colpi di testa e mangia bene e regolarmente. Intesi?

-Gnorsì!

 

Così fu, l'indomani uscì col nuovo paio di scarponi che Tacito gli aveva fatto trovare, dopo averlo salutato con una stretta di mano. Andò al deposito personale dove però, fra il rifare i documenti e il ritirare il corredo e una parte della paga del mese, perse tutta la mattina. Uscì dal complesso della Marina vestito come Comune, con un berretto nuovo ma senza la scritta * R N * FULMINE * sulla fronte, bensì con l'anonimo * REGIA MARINA *. Per fortuna il nuovo ruolino aveva ancora il suo vecchio grado: Sergente silurista. Dentro la tasca del giaccone senza gradi stava la verità. Andò alla stazione un po incerto per gli scarponi duri, nella luce assordante non se la sentì di pranzare e fece subito il biglietto per prendere il primo treno che andasse verso Messina. Non s'era annunciato, sapeva solo l'indirizzo della famiglia, non sapeva nemmeno se sarebbe stato ricevuto, all'ignaro dei costumi di quel popolo differente; al peggio sarebbe tornato ad Augusta in serata. Era la prima volta che faceva quella linea e non se ne voleva perdere nemmeno un metro.

Anche se era un'ora scomoda per viaggiare, il vagone era tutt'altro che deserto. Trovò un posto vicino al finestrino a fianco di un anziano signore secco che preferiva l'ombra alla vista di ciò che doveva essergli scorso davanti per quasi una vita. Lo notò solo quando il treno si fu mosso, che era andato senza pensarci a sedere di fianco ad un'altra persona, superando l'antica ritrosia che prima teneva in vita per delicatezza: siccome sapeva che doveva dare un'impressione di schifo e repulsione negli altri, se non trovava un sedile libero tutto per lui preferiva restare in piedi, piuttosto che importunare qualcuno con la sua grettezza. Ora no, sebbene non fosse fresco di lavaggio ed avesse una barba di una settimana. L'anziano non gli diceva nulla, ma non pareva dare segni di fastidio. Di fronte a lui un uomo di mezza età accigliato ed al suo fianco, lato corridoio, quella che prima per gli abiti gli era sembrata una donna matura si svelò invece una ragazza che, come i loro sguardi collidero, subito sviò il suo. Ma era per timidezza, chiaramente, lo capì dal leggerissimo rossore che apparve sulla pelle visibile sotto lo scialle, non era per l'odio che le ragazze sentivano per lui prima. Prima od altrove? Da cosa dipendeva questo cambiamento, dalla vita nuova o dalla terra sconosciuta in cui si trovava a ricominciare tutto? Forse le donne di lì erano più umane che quelle di terraferma.

Il mare camminava fuori, di un azzurrino senza molta personalità, ubriacato dalla troppa luce, ed era come un telo steso su ciò che aveva lasciato là sotto. Un fedele custode dei ricordi e degli amici che c'erano rimasti, i cui corpi sarebbero subito rientrati nel ciclo, dando nutrimento all'alga fluente e al guizzo del pescecane: altro che la terra scura, il marciume, i cipressi ed il granito ammuffito dei cimiteri!

Un dubbio lo prese: a che scopo andare a trovare la famiglia di Tore? Forse la sua nuova stagione poteva avere più senso e coerenza, se avesse cominciato a sbarazzarsi dei formalismi sociali, mandato tutti a quel paese, amici e famiglia, per vivere da solo nel meccanico ripetersi dei gesti di sopravvivenza. Era l'ideale dell'apatia che tornava. Ma non dalle letture liceali stavolta tornava, da una sorta d'invidia per i morti, così unitari e tranquilli. Ed era ben vero! Tore una settimana prima era un uomo. Non proprio realizzato, certo, anzi ancora per metà da fare: ma aveva una famiglia, un'identità, un ruolo, tutto un mucchio di robe che gli davano forma imprigionandolo e costringendolo a fare questo e quest'altro, a patire. Poi ecco la scheggia che gli tranciò collo ed esistenza, scindendo corpo e quell'ammasso di preoccupazioni in attesa che accadesse qualcosa chiamato anima -ma esisteva? Mah... Finito con l'amore non corrisposto per la Mora, finito col fare il povero gallo che mette in vista la cresta per guadagnare il favore della femmina. Finito col sottostare ai suoi ordini ed al dover onorare il Padre e la Madre. Era così simpatico in vita perché era il più sprovveduto, vittima di tutti, un cartoccio preso a calci dalla realtà sulla strada polverosa del mondo, eppure sempre con un infrangibile sorriso.

Ma che ti sorridi, fesso! Sei vittima di tutto! Sorridi perché non capisci nulla, ti piace non pensare, non ti poni domande! Quant'eri babbeo in vita, caro amico! Se non avessi avuto un altro babbeo come me come superiore, che ti avrebbe strigliato per bene, avresti forse sorriso lo stesso, ma per finta. E no invece, sorridevi, noi avevamo la carogna in viso e tu venivi a dirci con la tua voce allegra ed un pò roca che tutto andava bene, che bastava mangiare due volte al dì, che il sole c'era sempre anche in guerra, anche per i poveri coatti.

Era per quello che mi parevi un pagliaccetto bonariamente ridicolo, Tore. Non senza la dignità ultima che ti dava il tuo essere onesto e leale, ma pur sempre una povera cosa, il grado più risibile dell'essere umano. Ecco, sì, la tua sola dignità, grande ma unica, era quella che ti dava l'essere un onesto semplice in guerra, che avrebbe dato la vita sorridendo per proteggere noi, che ci pensavi tuoi amici. A parte quello mi facevi sorridere di rimando, per la tua incrollabile fede nella vita. Hai visto che bel servizio che t'ha fatto? Ecco l'ultimo calcio che ti ha dato la realtà, ha rotto il pupazzetto, gli ha staccato la testa!

Ora no, Tore: ora tu hai passato la frontiera e sei tornato a far parte del tutto, ovvero il nulla. Ora tu sei il nulla, e del nulla hai tutto. Sei maestoso. Infinito. Senza tempo.

E dire che in vita eri una povera marionetta in balìa di tutto, persino di uno scracchino d'uomo come me! Persino io che non valgo molto più di nulla potevo farti ballare alla mia musica, e non per meriti particolari, tu mi dovevi obbedire solo perché io a differenza di te sapevo cose tipo che la valvola di registro della pressione ha una vitina di regolazione che deve essere girata due volte solo dopo che ha morso al filetto.

Ma quella notte hai tagliato i fili, i seicentomila fili degli istinti, della forma, delle contingenze, dei contratti che ti facevano ballonzolare scompostamente nella vita, ed hai cambiato di stato. Ora sei tu che mi sovrasti, e mi circondi e mi contagi e mi liberi dalla prigione dei sensi e del senso. Ti sento sorridere infatti.

 

Il suo corpo a quell'ora sarà già stato dissolto, e non era forse una goccia del suo sangue quella che veniva ad asciugarsi con quell'ondina che aveva visto sulla spiaggia? Sì, sì, c'era una macchiolina rossa. Oh, di certo gli altri non l'avevano vista, solo lui sapeva riconoscerla.

Lui no invece, niente dissolvimento, era preso nel tira e molla di un treno, rumore, fumo, cenere, velocità, parole vane.

Mi sa che tu sapevi, Tore. Ecco perché sorridevi sempre. Va a finire che, invece di essere il fessacchiotto del gruppo, eri quello che aveva capito più di tutti.

 

Ma il rumore del vagone trascinato sulle vecchie rotaie lo distraeva. Per ora di apatia non se ne sarebbe parlato. Doveva anzi trovare qualcosa da raccontare alla famiglia, casomai l'avessero ricevuto davvero: pensò a scene di battaglia grandiose, eroismi, Tore che seppur ferito lanciava i siluri dell'impianto e poi raggiungeva il Comandante per affondare con la nave. Almeno i suoi sarebbero stati fieri di lui.

La sua famiglia abitava, se lo ricordava molto bene, in Via della Mecca -come dimenticare un nome così?

Dalla stazione ce n'era un pezzo a piedi, e gli scarponi gli dolevano. Dovette chiedere più volte indicazioni: avrebbe tanto voluto parlare col tabaccaio e l'uomo distinto all'angolo della strada nel loro catanese, ma era anzi costretto a parlare italiano col suo proprio accento, per manifestare che non era del posto e che non poteva capire la lingua.

La casa aveva un cortile interno, come quelle da loro al Nord: ed entrarci dopo aver fatto parte integrante dell'andirivieni delle vie fu una purificazione necessaria. Ricordava che abitavano al terzo piano: per fortuna c'era la portinaia che, come vide il marinaio, capì il motivo della visita e si fece mesta e gentile, parlando a bassa voce. Gli indicò la porta che dava sul ballatoio. L'appartamento aveva le tende tirate.

Suonò alla porta e fece due passi indietro. Togliere il cappello gli dava vergogna per la spelatura che aveva sulla testa, ma era necessario per rispetto. Venne ad aprire una signora che era, inconfondibilmente, la madre di Tore.

-Sì? C'è un altro telegramma?

-Buongiorno signora... sono un amico di Salvatore, sono venuto a farvi visita, ho pensato che vi avrebbe potuto consolare un po...

-Che amico?

 

La donna anziana, sulla sessantina ma dall'aria di chi è stato lavorato da qualcosa di molto intenso, in nero vestita senza fallo, lo guardava un po sorpresa, sulla difensiva, trovandosi davanti un marinaio dopo che un altro le aveva annunciato la morte del figlio. Subito non colse il particolare annunciato dell'amicizia. Lo studiava attentamente dalla fessura delle palpebre.

-Mi chiamo Secondo Marchetti, signora. Salvatore era mio sottoposto.

-Sottoposto... Secondo... Dino!!!

 

La donna s'era illuminata pronunciando forte il suo diminutivo.

-Sei Dino!! Sei Dino, l'amico di Tore!! Entra, entra!!

 

Gli lasciò spazio invitandolo dentro a gran gesti, aveva già i lucciconi agli occhi ed intanto chiamava:

-Mario!! O Mario!! C'è Dino!! Vieni!!

 

Apparve quello che era stato il padre, un essere rispettato da Tore come la suprema autorità terrena: per questo Secondo se l'era immaginato imponente e terribile a vedersi, era in realtà un mansueto signore pelato e con due gran baffoni, ma anch'egli al contempo rimpicciolito e nobilitato da quel che aveva passato. Diede a Secondo una delle strette di mano più calorose che aveva mai ricevuto. La madre intanto continuava a fare gli onori di casa:

-Di qua, di qua, accomodati! Vieni a sederti, sarai stanco! Che bello vederti, hai avuto un pensiero così gentile! Hai già mangiato?

 

Secondo non voleva approfittare; aveva una fame nera, ma mentì:

-Sì signora, non vi disturbate, ho mangiato prima...

-Vuoi almeno il caffè? Lo stavo preparando!

-Lo accetto volentieri, sì, vi ringrazio.

 

Ma come mai tanta espansività? Tanta gentilezza? S'era immaginato che avrebbe fatto atto di presenza e sarebbe ripartito subito, invece la cosa aveva preso una piega molto più umana, tanto che si sentiva a disagio, stordito dalla novità dell'ambiente, delle conoscenze e degli affetti. Quando le frasi di cortesia furono esaurite ed il caffè servito a tutti e tre gli astanti sul tavolo buono del salotto, la madre cominciò a raccontare:

-Sai Dino, per Tore tu eri più che un fratello. Ti voleva bene, perché sapeva che tu ne volevi a lui, e quando tornava a casa ci parlava sempre tanto di te, tanto che mi pare di conoscerti di già, da sempre. Ogni volta aveva qualcosa di bello da raccontarci, e centravi sempre anche tu. Mi diceva che lo proteggevi, che non lo prendevi in giro tu, che gli spiegavi le cose con pazienza, non come gli altri che si spazientivano subito. E poi la volta che ha fatto uno sbaglio e ti sei preso la colpa per non farlo punire... E gli parlavi di belle cose, cose che non capiva o non ricordava ma che lo lasciavano meravigliato! Lui non c'è più, ma almeno tu che gli hai fatto tanto bene ti sei salvato, la Vergine ti ha protetto perché lei protegge sempre le anime buone che aiutano gli altri! Lui è in cielo ora, ma tu sei ancora qui, devi restare per aiutare chi ne ha bisogno, ed infatti sei venuto qui da noi, a consolarci.

 

Smise, la lacrima ormai solleticava la guancia e Secondo non sapeva se fosse per la felicità o per i ricordi: forse era semplicemente l'effetto combinato di vari sentimenti poco definibili e spesso contrastanti che tutti assieme facevano quel che diceva la grandezza della vita. Era la prima volta che si sentiva paragonato ad una sorta di angelo custode, protetto dalle massime autorità celesti che pure aveva così radicalmente rinnegato. Il padre, Mario, era andato a prendere una foto ed entrò nel dialogo mostrandogliela:

-Questa era una sua foto a cui teneva tanto, dei primi giorni del vostro imbarco. Te li ricordi quei giorni? Tu sei quello in piedi a destra no?

-Sì signor Mario, quello sono io. L'altro in piedi è Aldo, che è ferito ma si salverà, poi quello seduto sotto di me è Giuà, che s'è salvato ma l'ho perso di vista quando siamo sbarcati ad Augusta. Era la mia squadra questa. Tore stava guardando da tutt'altra parte, e sorrideva, come al solito!

 

In quel momento, comparve nella cornice di una porta aperta sul salotto una figura. Capelli neri corti alla spalla, occhi scuri tondi dall'aria rapita e distante, un naso un poco adunco, un vero corpo di donna nascosto sotto un abito nero largo. Solo allora Secondo si ricordò che Tore doveva avere una sorella.

 

-Rosa, cara, scusami se non ti ho chiamata ma pensavo riposassi. Questo è Dino, l'amico di Tore...

 

Secondo si alzò, tenendo il berretto nella sinistra, sognante, accennò un inchino:

-Buongiorno Rosa...

 

Lei avanzò più sicura con una benevolenza sincera proprio perché moderata, porgendogli una delicata stretta di mano di cui lui abusò appena appena.

-Avrei voluto conoscerti in altre occasioni Dino... ma è bello lo stesso averti qui, è come se una parte di mio fratello ritornasse con te.

 

Difficile dire che fosse appariscente: ma nello guardo al tempo stesso fermo ed assente c'era un mistero che percepiva senza comprendere. Le parole affettuose che Tore diceva della sorella non potevano far presagire questo suo aspetto, nel suo immaginario e per quel poco di spazio che aveva potuto ricavarsi nell'Universo Lina, l'immagine di Rosa, la sorella inesistente dell'amico, era quella di una bambolina. Ora era uno sguardo che fissava qualcosa che solo lei vedeva, senza mettere a fuoco un oggetto concreto. E fissava lui, quel marinaio spelacchiato dall'aria impacciata e dimessa.

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Il mare camminava fuori, di un azzurrino senza molta personalità, ubriacato dalla troppa luce, ed era come un telo steso su ciò che aveva lasciato là sotto. [/size][/font]

 

 

 

Da Augusta a Catania temo che di mare dal treno Secondo ne abbia visto assai poco, magari -dall'altra parte- si sarà goduta la vista del (prosciugato ormai) lago di Lentini.

E poi è sicuro che a Catania ci sia (ci fosse) una via della Mecca ?

 

(il mare che cammina senza molta personalità, però -visibile o invisibile che fosse- mi piace assai)

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Da buon silurista, Secondo aveva la vista lunga :s03:

 

Ecco, ero talmente sicuro che tutte le ferrovie italiane corrano in riva al mare, che non mi ero nemmeno premurato di verificare su Google Earth che il tracciato fra Augusta e Messina fosse quello :s68:

Sta bene, nella stesura definitiva questo tragitto si farà in... autobus :s19:

 

Grazie per aver segnalato la svista. Quanto a Via della Mecca, se non è un'invenzione di Google, dovrebbe esistere. Dovrebbe essere ad ovest del monastero di San Benedetto.

 

Ne approfitto per andare un poco avanti

 

Rosa e nero

 

-Te lo immaginerai, ma io ho dei gran sensi di colpa da quella notte.

-No, non potevo immaginarlo; perché mai?

-Perché non è giusto che io sia sopravvissuto e lui no. Lui era così attaccato alla vita. Io...

 

Il signor Mario aveva proposto a Secondo di restare loro ospite, almeno per quella sera e finché avrebbe voluto: e lui aveva accettato volentieri, perché c'era quella sorella sconosciuta da conoscere, perché non poteva avere la forza di rifiutare un invito fatto di cuore ora che si sentiva più che mai una docile fibra dell'universo. I problemi concreti viaggiavano anche sotto tanti buoni sentimenti: Rosa era stata quindi mandata a fare le compere perché la dispensa era quasi vuota, ed aveva chiesto a Secondo di accompagnarla, che gli avrebbe mostrato la città. Con una sconosciuta poteva avere più confidenza che con i suoi amici d'infanzia, ed era già arrivato alle confessioni più intime, che lei ascoltava con curiosità non sfacciata ed ardente ma comprensiva. Pareva molto più matura della sua vera età, che Secondo stimava fra i sedici e i vent'anni. Così, fra il salumiere, il pastaio e la drogheria, parlavano camminando per le vie giallastre e tiepide. Lui portava fra le braccia cartocci di mercanzie dato che aveva imposto a Rosa di servirle da camallo.

 

-Tu cosa?

-Io sono qua per sbaglio e non ci volevo restare. Credo che l'esistenza si sia presa gioco sia di lui che di me.

-Dovresti essere contento d'essere vivo... noi lo siamo per te, perché tu non lo sei per te stesso?

-Io della vita ho scoperto le regole, e non mi piace più. Vedi, potrei dirmi che se la vita non ha un senso è poco male, ma sono troppo grossolano per accettare questa mancanza. Non trovo più abbastanza ragioni per quello che faccio e che passo e quello di cui gioisco non è più sufficiente. La minima difficoltà, la minima cosa basta a farmi rimpiangere l'essere in vita.

“Così si fa... seduci con le debolezze... se ti riesce, sei un genio...”

Tuo fratello invece... lui era felice sempre, anche quando andava tutto storto, non è giusto che la sua vita sia già finita. Forse era semplicemente troppo puro e troppo felice per aver diritto a stare a questo mondo.

-Forse invece era così candido che se lo son preso in cielo prima del tempo.

 

"Oddio, se anche lei è come la madre la pianto qui e me ne torno ad Augusta seduta stante..."

 

-Però - riprese lei - che fosse così felice non direi. Forse si sforzava a sembrarlo per tenervi su di morale.

-Di cosa soffriva mai? Rideva persino del suo disastro con questa fantomatica Mora di cui ci parlava tanto!

-Ah sì! Povero Tore! Ci teneva tanto a lei, ma è andata promessa sposa al figlio del capostazione. Gli avevo detto di farsene una ragione ma lui ci pensava sempre. Forse fra qualche tempo l'avrebbe dimenticata.

 

Fecero non meno di duecento passi in silenzio dopo di ciò. Secondo guardava in terra. Tutto pareva così semplice e lineare per quell'animo che gli passava a fianco! Ricominciò lei:

-E tu non l'hai la fidanzata?

 

Secondo cominciò a ridacchiare di un riso sghimbescio. Lei contagiata gli chiese con un gran sorriso:

-Dai, perché ridi?

-Scusa eh... non si vede?

-Se te lo chiedo!

-Ti pare che con... aspetta, secondo te sono...?

-...fidanzato!

-Ma sei proprio candida quanto il tuo povero fratello, Rosa.

"Io ora non dovrei dirle di Lina, se non voglio giocarmi anche questa possibilità."

Sono solo. Lo sono sempre stato. Non ho fortuna in queste cose, e non ho più nemmeno il tempo

"e la voglia, ma farò un'eccezione per te, che pari tanto buona."

ora che siamo in guerra passo più tempo in mare che a terra, e poi il sole e il vento mi bruciano la pelle ed io vi faccio ancora più paura di prima.

-Ma no Dino, tu non mi fai mica paura!

"Sì eh? Aspetta... ma anch'io che diavolo sto facendo? Dovrei avere vergogna. Poco più di una bambina, e viviamo ai capi del porco mondo conosciuto. Non dovrei darle illusioni per poi tornare al cortile della Lina."

-Perché tu mi conosci da quel che tuo fratello diceva di me. Ti garantisco che le ragazze che mi vedono per via mi guardano male, o ridono, o cambiano lato della strada.

"Ma allora perché cerco di impietosirla? Che diavolo sto facendo? Chi è che mi porta quando parlo?"

-Tu ci giudichi troppo male a noi ragazze, è che siamo tanto timide... sul serio, non ci credo che non sei fidanzato, tu mi nascondi qualcosa!

 

E rise piano guardandolo.

-Sì Rosa, io ti ho nascosto qualcosa. Anch'io avevo la mia Mora, si chiamava Lina e non era per me. Da quando l'ho conosciuta non ho più voluto stare con nessuna, né con lei né con le altre.

"E questo può anche essere vero. Che diamine!"

-Perché mai? Se lei non è per te, passa ad altro!

-Tu la fai troppo semplice Rosa. Conoscendola ho scoperto come funzionava l'amore e mi ha deluso. Ora è una cosa troppo schifosa, ipocrita e bestiale, perché io lo possa dare a qualcuna di voi, che non meritate questo. Io vi voglio bene e non voglio farvi del male. Potrei amare solo una ragazza malvagia che meriti la punizione di stare con me.

"E tu qui mi dirai: sono una bambina malvagia anch'io, sai?"

-Che punizione?

-Quella di essere costrette a stare con un grebano come me che in più si finge persona fine.

"Grebano? E potevo dire ben di peggio di me stesso!"

-Grebano? Che vuol dire?

-Ah scusa, è una parola di dialetto: un bruttone, un grezzo, una bestia insomma.

"Questa è una buona idea: scoraggia ed impietosisci, così ottieni entrambi gli effetti che desideri allo stesso tempo, la allontani e la attiri."

-Da quanto mi raccontava Tore di te, non potresti mai essere una bestia nemmeno volendolo.

"Ma dì un po, dove vuoi arrivare? Ed io non dovrei fare l'imbecille con lei. Non si scherza su queste stupidaggini. Magari davvero mi trova bello e s'innamora di me. No no, non si scherza su questo genere di stupidate."

-Lui vedeva la superficie. Solo superficie.

"Perché pretendete tutti di capirmi? Lasciate perdere, se io stesso ho lasciato perdere! Perché vi infilate sempre nella mia esistenza al posto mio! Ci vorrebbe un po di omertà sentimentale qui!"

-No Dino; il bene che gli facevi non era superficie.

 

"Il bene, il bene... vorrei dire che non esistono bene e male se non fosse che così dicendo legittimerei tutte le porcate che l'uomo fa al prossimo suo come a sé stesso... Qual'era il bene che gli facevo? Prendermi la colpa per le belinate che faceva? Tenergli compagnia? Spiegargli le cose? Quello era solo bisogno di sentire il piacere della gratitudine di un altro, di sentirmi benvoluto, di vincolarmi qualcuno proteggendolo, un do ut des, altro che bene! Ma quale bontà d'animo, se tutto quel che faccio lo faccio per me, se mettendo la mano sul fuoco per altri ci trovo sempre il mio tornaconto! Il giorno che io farò qualcosa di vantaggioso per il mio peggior nemico, crederò di aver fatto del bene.

Perché di solito stiamo solo commerciando. Ed amando non sarebbe lo stesso? Darsi completamente all'altro perché l'altro si dia a noi completamente, nella migliore delle ipotesi, perché di solito non facciamo altro che chiedere e pretendere e subire le richieste dell'altro. Bella bontà, begli ideali! Ecco quanto di più alto abbiamo a sperare! Un baratto di piacere! Un contratto! Ma fatemi il piacere! Che imbecillità l'essere romantici, è nascondere la polvere sotto il tappeto,che poi resta a scrocchiare sotto i piedi. Ora io, Rosa, se non fossi un ipocrita incoerente ti proporrei seduta stante il baratto scoperto così com'è: baciamoci, ci scambieremo un po di piacere, senza promesse di vincoli, fidanzamenti ed altre di quelle maledette trappole che ci siamo inventati per complicarci la vita. Baciamoci ora, poi me ne vado. Io ti offro questo ma solo a condizione che non vi siano da sostenere ulteriori ingaggi. Ti va?"

 

-Vabbé, io sento che in amore sarei grossolano, inadatto. Sono figlio di mio padre dopotutto. Ma soprattutto non saprei controllare nulla. Quando amo non sento più nient'altro. Non sono più io, è un altro che fa al posto mio, che pensa al posto mio, che ama al posto mio, l'amore è troppo grande perché io possa gestirlo, possederlo, dirigerlo, e finisce che lui dirige me, che mi prende la vita e la sbatacchia dove vuole come vuole quando vuole.

E gli altri forse sono solo troppo beatamente ignari di cosa maneggiano per non farsi schiacciare dalla forza dei loro stessi sentimenti, questa è la loro benedizione mentre io...

Ma dì un po... devo smetterla di parlare sempre di me. Rosa... C'è una cosa di te che non riesco a capire. Tuo fratello è morto pochi giorni fa, ed ora sei già sorridente a parlar d'amore con uno sconosciuto... Lo trovo davvero incredibile!

 

Lei... quanto mistero in quella semplice piega delle labbra!

 

-Sai Dino... Tore si arrabbiava quando mi vedeva triste, e così ci guardavamo e finivamo sempre a ridere assieme l'uno dell'altro, come dei babbi. Sì, nei giorni scorsi ho pianto... ma poi, la vita, la gentilezza, sono le cose migliori per rendere omaggio a chi non c'è più. E poi... tu non sei mica uno sconosciuto!

 

Era quella la felicità? La testa che gli scoppiava fra il dolore della ferita ed i troppi colori ed odori di quel quartiere di Baghdad, le braccia cariche di mercanzie per preparare sconosciuti cibi arabi o greci, parlando d'amore e di morte con un'indefinibile donna, giovane e millenaria, piccola eppure mistero più grande fra le vie rese rosa dal sole calante?

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Sta bene, nella stesura definitiva questo tragitto si farà in... autobus :s19:

 

 

Bah, io ci vedo meglio il treno. Qualche scorcio di mare si intravede, sopratutto prima di entrare a Catania da sud (quantomeno prima che negli anni cinquanta modificassero il tracciato).

Se via della Mecca é dove dici tu, non sarà distante dal grande mercato della Pescheria (se ti viene la tentazione, cerca qualche immagine sulla rete e fagli fare la spesa al mercato, piuttosto che per botteghe).

A proposito, Catania può essere di qualsiasi colore ma non giallastra. Giallastra é Augusta, anzi, prima dei condomini degli anni sessanta, Augusta non poteva essere altro che giallastra, di calcare e pietra tenera che si scioglie al salmastro. Catania é ferrigna, di basolati lavici e anche di intonaci. Quando con la scuola si andava in gita a Siracusa (mai Augusta, sempre Siracusa: la cultura stava lì di casa) mi pareva di cambiare continente: era la tavolozza dei colori che si rovesciava senza titubanze dialettiche.

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Prendo nota, ringraziandoLa :s01: (però almeno sui colori potrei transigere, dato che sono visti da una mente che non capisce più niente :s03: )

 

Consiglio di Guerra

 

La famiglia Agrò, presso cui era ospite gradito, ovviamente per dargli un letto non aveva che quello ora libero dello scomparso Salvatore. Donna Adele s'era premurata di cambiare le lenzuola, forse approfittando di quell'occasione per sconsacrare e profanare con una legittima scusa quello che altrimenti sarebbe rimasto il santuario al figlio perduto, nonché, pensava Secondo, una camera inutilizzata.

Lui aveva ben spento la luce, ma non poteva proprio prendere sonno. Non erano solo le lenzuola troppo profumate di sole e troppo raffinate a cui non era abituato od il pensiero dell'amico che ci aveva dormito: era tutto un brusio che gli ritornava dai molteplici fatti della giornata appena trascorsa che ancora turbinavano chiari e confusi nello sguardo. Si interrogava in un contraddittorio senza sconti. Aveva, gli sembrava, miseramente fallito ad impressionare Rosa. Su di lei si incentravano molte considerazioni. Muoveva le labbra pensando accompagnando le parole che talvolta affioravano a bassa voce dalla bocca volta al soffitto.

 

"Hai ancora una volta mancato. Sei peggio di uno dei nostri cannoni. Spari, spari, ritmo serrato, hai bel fare a tirare lontano, a fare grandi aperture balistiche, o al contrario a scalare i millesimi, dopo esserti fatto ritubare a nuovo peraltro, non colpisci nel segno comunque. Hai la canna storta e tiri proiettili inerti.

 

Ma piantala. Tu non volevi impressionarla. Sapevi che quella povera ragazza non serviva a nulla farla innamorare. Abita qui in fondo al mondo, dal tuo paese come diavolo avresti potuto tornare a vederla, come costruirvi una vita assieme?

No, non è questo. Volevo impressionarla quel tanto che basta a strapparle un sorriso sincero, di quelli che dimostrano la buona predisposizione della femmina ad accettare il maschio, non prenderla al punto di farla innamorare. Ci dev'essere ancora una frontiera fra le due cose non credi?

Sì. Sì. Intanto frontiera o no lei non ha interesse. Sei stato il solito babbeo. Ancora una tacca da aggiungere alla lavagna dei colpi andati a vuoto. Che non s'è cancellata con lo spavento che hai preso l'altro giorno. E contale le munizioni, che un giorno dovranno ben finire con tutto questo sparacchiare al niente.

Per forza che non va, la faccia che hai è sempre la stessa, anzi, ora sei pure sporchino e spelato. Da quando in qua poi si seduce solo facendo sfoggio di debolezza? Loro vogliono maschi decisi, non budini di "forse che sì, forse che no". Se ti mostrassi uomo forse compenseresti la tua bruttezza, è così che i brutti d'altronde riescono a compensare la loro imperfezione e a perpetrare il loro crimine nel mondo. Avresti dovuto essere diretto invece di far parole. Sei un incompetente.

 

Già. Ma chi l'ha mai chiesto di essere competente?

Mi fa schifo tutto questo gioco che devi tenere in piedi. Devi piantarla di voler essere competente. Ritirati dalla competizione. Ne guadagnerai in dignità quello che perdi in speranza.

Ah no? Nooo, non si perde dignità, non hai ancora perso oggi quel poco di dignità ricuperata con la tua avventura, esponendo a quella povera creatura vita morte e miracoli... sì, te lo concedo, qualcosa non l'hai detto... ma vabbé, il fatto è che tu volevi sedurla almeno un poco. Grado minimo della seduzione, eh? Per provare che avevi acquisito la competenza, non è così? Vatti a nascondere, sul serio, parti senza salutarla perché alla minima parola sarebbe ancora lo stesso Secondo, quello che faceva il gallo, a parlarle.

Povera ragazza, perché volevi appiopparle il tuo fardello di sconfitte? Non è ancora nata quella che meriti di tirar su dal fondo un relitto come te. Ma su dai, come dicevi una volta? Che bisogna innanzitutto dare felicità? Se non ne hai nemmeno per te come diavolo pretendi di darne a chi ami? Ma sai che fai ridere anche, a volte! Nessuna ha colpe sufficienti perché tu le affidi questa punizione di rimetterti in sesto e re-insegnarti la vita. Sai che due scatole stare con te. Sei pur sempre figlio di tuo padre e fra vent'anni sarai come lui.

Povera ragazza. Perché lei? Non ti aveva fatto niente di male. Perché su di lei i tuoi sporchi esperimenti? Beh sì, su qualcuna bisognava pure fare la prova. Qualcuna sconosciuta perché le altre son già prevenute. Lei è capitata lì per caso. Se Tore non fosse morto non l'avresti mai vista, toh. Aspetta però, le avresti scaricato addosso il compito di ricostruirti se e solo se si fosse innamorata di te. Per un sorriso non volevo farle nulla di male. Non credo che tu abbia qualcosa da rimproverarti davvero. No, non le avresti fatto quel male.

Prova fallita comunque, ancora non sei competente.

E comunque poco importa perché non avevo chiesto di esserlo.

Ma aspetta, qui bisogna venire al punto. Tu avevi chiesto di esserlo. Quando poi hai visto che non riuscivi ad esserlo hai fatto del diniego una virtù. Mi sa che è così. Bella coerenza eh?

Beh sì, c'è una coerenza: ci hai provato e non ci sei riuscito. Ed il tuo diniego non è stato misogino. E' solo che hai visto che non era cosa per te, perché non tutte le ciambelle riescono col buco e c'è anche chi deve vivere senza amore. Allora hai detto basta. Da allora tutto quello che puoi addurre per sedurre è questo tuo campionario di sfiga.

D'accordo: smetterai solo di dire che non hai MAI voluto essere competente. C'è stato un tempo in cui lo volevi. Come tutti gli altri.

Però ancora non mi spiego come mai hai voluto lo stesso provarci. Ma che, credevi davvero? Che con la tua nuova vita questo potesse cambiare? Il tuo passato recente non cambia il tuo passato remoto, non potevi rifondarti maschio da competizione - che ridicolo anche solo a pensarci - tanto più se partendo da una sconfitta d'altro tipo. Vabbé, si vede che di fronte a lei non ci pensavi al fatto che non avevi possibilità alcuna. Se ci fosse stata, povera ragazza, ti avrebbe almeno dato un buon punto per ricominciare.

Bah, non ti sei impegnato a fondo comunque, le regole le conosci anche meglio degli altri dato che le hai persino catalogate dopo averle formulate, ma non le sai comunque applicare. Me l'hai detto prima che ci voleva decisione! Eh ma mica la posso inventare! M'è venuto naturale parlare della sconfitta perché quella è la mia natura, se non proprio la sconfitta almeno la strana idea di sedurre parlandone.

Che diavolo, dai, coerenza, coerenza! Tu stai solo aspettando di passare. Passare questa vita che non ti appartiene. E con le carte in regola, niente partenze premature. Per il resto chi ti rinfaccia la tua mancanza di competenza come un difetto, chi ti dà del matto per quello, a cominciare da Aldo, tanto per dirne uno, può benissimo farsene un grazioso cartoccio, delle sue critiche, e mangiarselo. Che diavolo vogliono in fondo?

La tua vita non è affar tuo, non decidi te, e a maggior ragione non è affar loro, non decideranno loro.

Resto qui solo per quelli che malgrado tutto mi amano giusto perché non è giusto aggiungere altra sofferenza in questo circo. La mia vita che concretamente appartiene al nulla appartiene formalmente a loro, quei quattro gatti che mi sono affezionati.

I miei genitori no: loro vogliono che io viva solo perché io sono il significato primo e biologico della loro, di vita. Se morissi io avrebbero vissuto invano e la cosa gli sarebbe insopportabile. Negli altri posso credere di vedere qualcosa di meno interessato, almeno. Vale di più il sorriso fattomi dallo sconosciuto per la via, che quello di mio padre, per me.

Comunque talvolta ti fanno la predica per sfogare su di te le loro frustrazioni, talvolta te la fanno in buona fede. Chiamiamola così. Non importa: tu gli altri coi loro buoni consigli non me li devi più considerare. Loro parlano così solo perché è contro natura che un maschio sano – sano... oddio - in età riproduttiva non cerchi di accoppiarsi. La cosa li disturba perché è nociva per la sopravvivenza della specie. Non vogliono eccezioni alla regola, storture nella grande ruota che gira e ci macina tutti. Ecco perché vogliono che tu sia competente. Ecco perché loro misurano il successo con la competenza. Ma glielo lascio volentieri, il loro bel successo ed i salamelecchi conseguenti. Tu non li capisci più. C'è stato un breve tempo in cui anche tu ci credevi alle promesse, prima che ti alzassero lo schermo su cui queste belle favolette venivano proiettate. Ma non è stata colpa tua, non hai voluto guardarci: l'illusione è caduta da sé, ed il meccanismo è così evidente che non poteva non saltare agli occhi nella sua elementare semplicità. Ed intanto anche oggi pomeriggio, senza rendertene conto davvero, eri di nuovo imprigionato nell'ingranaggio. Aldo oggi avrebbe ben approvato! Ed ora te ne facevi pure un problema, della competenza. Meno male che quella povera ragazza che avevi scambiato per la prossima vittima ha saputo leggere il difetto nella tua testa di vetro e non c'è stata... perché il difetto quello è, il conoscere le regole. E' una lingua quella là che come ne impari la grammatica non riesci più a parlarla. Una scienza che smette d'essere esatta appena riesci a capirla. A loro piace che tu ci creda come ad una religione. E poi vabbé, ha letto i difetti sulla pelle, lì la scienza etologica non sbaglia mai. Forza maggiore...

Ma non avevi detto che non te ne fregava più nulla di questo? E allora perché continui a dinoccolare tutto questo?

 

Non era certo la prima di seduta del Gran Consiglio che gli capitava di fare. Specie nei momenti più incerti e minacciosi della sua esistenza quella diventava una sorta d'abitudine, un appuntamento fisso con la sua coscienza. Non serviva a nulla: le risoluzioni che poteva prendere non riusciva a rispettarle; le frasi che studiava accuratamente per ridirle al momento buono non le ricordava. D'altro canto, le angosce, la rabbia ed i sensi di colpa che poteva aver sentito od evocato svanivano.

S'addormentava con l'eco di una furiosa risoluzione a risolvere un qualcosa che lo rattristava: ed al mattino dopo nulla ne restava. Sì, ricordava d'averci pensato: finito lì. Lavorare di più e meglio? Provarci con la prima che gli sarebbe capitata sotto tiro? Sì, ci aveva pensato: magari per un'altra volta.

Così fu quella mattina: la discussione della notte prima, protrattasi fin verso le due, era certo stata una delle più violente e dirette che avesse affrontato. Ma che trarne alla luce di un mattino nuovo? Seduti alla tavola di una famigliola che faceva colazione? Tutto il tragico evaporava in quel silenzio pacifico. Si sentiva persino un po fesso per aver potuto pensare tanto, e tanto intensamente e violentemente. Il leggero vapore che saliva dai liquidi caldi nelle tazze portava con sé tutto il tragico ed il folle, che veniva da chiedersi come, paragonati ad una cosa tanto semplice e bella, potessero aver avuto la forza per erompere alla superficie dei pensieri.

Non era una semplice questione di stanchezza mattutina che annullava ogni volontà: era un'assenza di motivazioni non fisiologica, che rendeva tanto più profonda e dolce la svogliatezza. La furia, le paure, le decisioni, erano cose che avevano ragione d'esistere solo al buio ed in solitudine, quando non si poteva far nulla per risolvere alcunché. L'oggetto del discorrere, quella Rosa indecifrabile, era seduta davanti a lui e sorbiva piano una tazza di caffè, eppure lui non ne aveva nessuna influenza salvo un leggero benessere vago a vederla.

La loro casa, di cui solo allora cominciava a capire la disposizione senza tuttavia voler fissare troppi dettagli, per non avere in testa un'altra planimetria di cui aver nostalgia in futuro, era modestamente arredata, ma grande ed ariosa. Donna Adele aveva servito loro del pane con una marmellata ben amara e del caffè di cicoria lungo e tiepido. Dalla finestra dai battenti ambati entrava nella cucina in cui erano installati un poco di aria fresca e la gran luce delle otto del mattino novembrino, che portava con sé un fremito stagionale di fretta e di lavoro.

Cercava di studiarla, di cogliere la sua disposizione: ma non ne ricavava nulla. La sua analisi non era approfondita perché era troppo preso dalla contingenza. A dire il vero, non riusciva a pensare. La guardava, cercando di non dare l'impressione di fissarla morbosamente. Tutto lì.

 

-Dino, vuoi altro pane? Altro caffè?

-Uh... Eh? Uh... No, grazie signora Adele, sono a posto così!

-Ma non hai preso quasi niente! Dammi la tazza dai!

-No no la ringrazio, davvero, sono sazio! Il mattino non ho mai fame...

 

Rosa, che un poco lo fissava a sua volta, gli rivolse infine la parola:

-Quanto resti ancora?

-Ma, guardate, io non voglio pesare e partirei stamane...

 

Donna Adele s'intromise:

-Ma scherzi? Pesare? Dino, tu puoi restare quanto vuoi, io ti considero di famiglia!

 

Come mai tanto attaccamento? Forse che Rosa aveva pregato la madre di lasciarlo restare quanto volesse? Sarebbe stato bello davvero.

-La ringrazio signora, io ad ogni modo fra quattro giorni ho l'obbligo di presentarmi a Taranto al mio dipartimento...

 

Sottintendeva: "Quindi se non vi dispiace resterei con voi almeno oggi e domani". Donna Adele comprese:

-Ma resta da noi allora, ci farà piacere! Chi te lo fa fare di tornare in caserma ad Augusta!

 

Rosa sorrideva appena appena con uno sguardo obliquo sul piano verticale.

 

-Va bene, non posso proprio non onorare la vostra gentilezza.

 

Lei ebbe uno scatto allegro:

-Bene, io devo andare al lavoro! Dino, mi accompagni? Così ti faccio vedere un po la città!

-Volentieri Rosa. Col suo permesso signora Adele...

 

Come in una ventata lei lo trascinò fuori e giù per le scale e via per il cortile ed i rumori dell'esterno che invitavano ad uscire. La strada si fu come spalancata fuori dal portone.

Malgrado persistesse il suo abbandono al presente, Secondo aveva comunque abbastanza materia su cui pensare per rivolgere delle domande non scontate a Rosa:

-Ma davvero lavori?

-Siamo in guerra caro mio! - E ridacchiò - Se non lo sai te! Voi uomini partite e tocca a noi mandare avanti la baracca...

-Sì ma... che lavoro fai?

-Contabile all'ufficio, ho preso il posto di uno che è stato richiamato. Sapevo far bene di conto e mi hanno presa!

 

Eccogli dunque la prova di quella viva intelligenza che lui aveva creduto cogliere in lei. La donna indipendente, che lo impauriva ed attirava, che meglio di lui sapeva contare, quindi maneggiare le unità di senso e misurazione del mondo. Contare, contare... anche i passi andavano contati... uno in meno... uno in meno...

 

-Dov'è il tuo ufficio?

-Oh non è lontano, non preoccuparti.

 

Il mattino era davvero monumentale. Aria pulita, poca gente in giro e tutti in apparenza bonari, senza fretta. Il sole scaldava proprio al punto giusto. Lei emanava un sottile profumo che in casa lui non aveva colto, e scandiva il tempo col suo bel passo regolare, di frequenza leggermente diversa da quello più corto di Secondo.

Quanto avrebbe potuto camminare così, di fianco ad una graziosa donna ben predisposta in una città straniera e del tutto sconosciuta?

Ma ecco che prendevano una svolta che li portava via dal corso che, nella prospettiva da cui erano partiti, sembrava non avere fine. Ora la strada in cui camminavano era ostruita un cento metri più in là.

 

-Scusa, so che non si fanno queste domande alle signore ma... quanti anni hai infine?

-Non si fanno queste domande? Maddai... Comunque ho diciannove anni.

 

Diciannove... che bel numero su di lei!

Camminavano sempre e lui sentiva avvicinarsi la fine del tragitto. Non sapeva dove dovessero andare, ma aveva questo presentimento.

"Trova qualcosa da dirle, dannazione!

Ma piantala, silenzio che è meglio. Stai zitto e non rischi niente. Tienila fuori da tutto."

Sentiva una mollezza di spirito che contrastava con gli schianti ritmati delle sue suole sul selciato. Sapeva che presto, prestissimo la passeggiata sarebbe finita; perché non parlarle? Era meglio di no, ecco. Era meglio godersi il momento senza complicarlo.

Ma quanto avrebbe rimpianto quei passi in futuro? Era solo un semplice tragitto senza impegno, non certo una delle sue marce verso il destino come quelle che lo avevano portato alla festa o alla caserma; completamente anodino il momento, salvo il moderato interesse che nutriva per la ragazza al suo fianco: ma una volta che quei passi sarebbero passati nel dominio dell'irrecuperabile, avrebbero preso un alone di grandezza. Presentiva che avrebbe avuto nostalgia di quell'insignificante passeggiata appena appena galante: ciò gli causava un leggero dolore che pulsava come un'ondina ad ogni battito di piede sul selciato e di fluido nelle vene che lo spingeva.

Loro avrebbero potuto fermarsi, ma il sole non li avrebbe aspettati.

 

-Scusa Dino se ti faccio correre ma fra cinque minuti devo essere in ufficio!

-No no figurati non c'è di che!

 

Ah ma sarebbe venuto il giorno che avrebbe finito di farsi trascinare dalle lancette, di preoccuparsi della posizione di quelle stupide palle bianche che giravano in cielo, di rimpiangere il passato ed il passare del presente e d'aspettare il futuro, perché tutte le dimensioni del tempo si sarebbero annullate. Allora sì che avrebbe finito di girare come una trottola togliendosi dal polso la catena dell'orologio una volta per tutte.

 

-Dino... come mai parli così poco?

-Io? Beh... perché non ho mai nulla di interessante da dire a voi ragazze... nulla di quello che so vi può interessare.

-Ma piantala, non può essere vero!

 

Lui prese la rincorsa per sommergerla e provarle che non mentiva:

-Vuoi sapere come si regola la molla di controspinta del piatto idrostatico di un siluro? Come si calcola il giusto angolo di lancio? O come si fa a cambiare la combinazione di trazione su una locomotiva trifase? O come si mette in marcia una vaporiera?

-Quando vuoi sei proprio babbo! - E rise più o meno di gusto.

 

-Dai - riprese lei - parlami ancora di te. Chi sei tu davvero?

 

Ora questa domanda congiunta al presente irrecuperabile aveva sconvolto tutti i suoi piani; partì a ruota libera, leggerissimo e senza pesare portata e conseguenza delle sue parole.

-Io? Io non so chi sono e non m'interessa. Ufficialmente sono un sottufficiale della Regia Marina e questa forma mi basta. Presso gli amici ho fama di saper scrivere. Scrivevo lettere per tutta la nave.

-Davvero?

-Sì, ma questo non vuol dire essere sensibile, non vuol dir niente, direi piuttosto esser vulnerabile, è un difetto. Non ho pregi: il saperci fare con le parole conosciute e calpestate da tutti per ricostruirle in nuove formule colorate mai viste strabilianti è proprio inutile, specie se non ti riesce nemmeno bene.

L'amore e la vita son stati un tempo la mia religione ed il nulla sarà il mio aldilà. Tutto qua. Tutto il resto lo sai già.

 

Lei annuì – faceva sul serio o era solo per lasciar passare le parole folli? -. La sua voce si abbassò di un'ottava almeno.

-Ecco qualcosa di interessante. Perché non ce lo racconti a noi ragazze?

-Perché è scorretto raccontarvelo. Mi pare sempre di volervi sedurre confessandomi a voi. Voi queste cose è meglio che non le sappiate.

E tu? Tu cosa sei?

-Una contabile!!! - si fermò ad un portone aperto sotto un portico - Io lavoro qui, ti lascio, ci ritroviamo per pranzo, buona passeggiata!!

 

Lo lasciò con un senso di risonanza e di vuoto. Che farsene ora del resto della mattinata?

 

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Io qui sono e qui sto.

Ma siccome leggere su schermo è per me improba faccenda, e dopo poche righe crollo, attendo l'auspicata (v. Alagi) stampa...

 

Può copiare e incollare quanto scritto qui su un documento Word, oppure chiedermi via e-mail l'originale, e poi stamparlo :s01:

Perché se si aspetta la stampa... mancano ancora duecento pagine, quattro anni di guerra, ecc... ecc...

 

L'episodio che segue è il mio preferito, anche se col mare non ci azzecca nulla :s03:

 

 

L'ultima delle Trifase

 

Finalmente mi è stata assegnata, dopo due anni di pratica sulle anonime Cinque-cinquantaquattro ed il difficile esame per diventare Macchinista di Prima Classe, una Quattro-trentadue della prima serie, la Zeroquindici.

Che bestia. E' un monolite color Isabella su ruote alte da vaporiera, ha gambe di ballerina eppure il suo corpo è squadrato, severo, i finestrini annegano nella cassa, come se non avesse bisogno di lasciar vedere la via al macchinista, come se fosse fatta solo per correre ciecamente. Riuscirò a domarla? Sui manuali tutto è facile, sul posto la musica cambia.

L'unica macchina che abbia tre diverse commutazioni di poli dei motori: dodici, otto e sei poli, tutte le altre hanno solo due combinazioni; la più perfezionata, la più potente, non la più veloce ma la più brutale.

La Quattro-trentuno ha una linea snella da Baronessa, ha lo stesso rodiggio e corre anch'essa a cento all'ora: ma io ho voluto te, Quattro-trentadue. Tu sei la più esigente e la più bella, perché voi locomotive non dovete essere snelle ma imponenti. L'ultima nata della tua famiglia, la massima espressione della nobiltà Trifase.

 

Mi aspetta sul binario morto, perché devo portarla a fare il rapido delle sette e ventidue. Con me ci sarà un altro macchinista di quelli esperti, per insegnarmi i trucchi. Ma io ho letto il manuale, l'ho imparato a memoria:

 

... Avviare in prima combinazione, serie a 12 o 8 poli quasi sempre; raggiungere, il più

rapidamente possibile, la prima velocità di sincronismo, 37.5 Km/h. Shuntare i campi e commutare la combinazione a serie 6 poli per raggiungere la seconda velocità di sincronismo, 50 Km/h ...

 

E non è che voglio sfigurare col collega, il Maestro. Lo faccio per Lei. Io voglio sentirla mia fin da subito. Voglio farla volare. Dominarla e farmene trasportare.

A riposo sul binario, i suoi pantografi abbassati sono fiori che attendono di sbocciare al soffio dell'aria compressa, braccia addormentate in attesa di riattaccare alle arterie aeree.

Ma è difficile pensare che stia dormendo. I ceppi dei freni serrano le ruote e tutto è silenzioso, ma non la sento dormire: riposa semmai, sentendo sopra di sé la doppia longilinea aureola a tremilaseicento Volts che promette nuova vita, grandi corse, altre avventure.

 

Il collega s'è fatto un poco attendere, gli stringo la mano senza molto calore, non lui mi interessa ma Lei. Afferro il corrimano e mi sento come sollevare mentre salgo senza sforzo sul predellino. Apro la porta della cabina, dentro è tutto nero, si vedono solo i quadrati dei finestrini, volumi appena delineati in grigio. C'è il consueto odore di corpo di locomotiva elettrica, metallo caldo e catrame: ma questa ha una nota canforata. Vado al posto del conduttore, trovo anche nella semioscurità il comando dei pantografi.

Il Maestro entra sbattendo con malgarbo la porta dietro di sé, maledicendo il freddo della mattina nuvolosa, per un attimo lo odio e mi accende la luce di cabina credendo che l'abbia dimenticata, ma non ne ho bisogno. Ho già azionato i pantografi che esitando un poco, con movimento incerto salgono come braccia di corpo appena svegliato che si stirino mollemente.

Sento un piccolo scatto metallico, e la lancetta del Voltmetro fa un balzo felino, poi si assesta dopo qualche ondeggiamento, dovuto all'umore dello strumento, sulla corretta tensione di linea.

Ora ho la mano sul relais del Generale: guardo il Maestro per chiedergli se posso attaccare, ma è solo per forma disciplinare, la Zeroquindici ha tutto a posto, invertitore in posizione neutra, reostato a zero. Il Maestro annuisce:

-Dalle corrente!

Abbasso la leva con trepidazione e voluttà. Si ode uno sparo quando il Generale attacca, la luce in cabina si intensifica, sento la vibrazione ed il ronfare scorbutico del compressore che si mette in moto. Lei vive!!!

Fingo di aspettare che il risveglio si completi, che gli ausiliarii si scaldino un po, accendo i fari, ma il Maestro mi fa cenno di mettere subito in moto: con un arabesco della mano sinistra spingo in avanti la leva smaltata del freno, con la destra afferro la grande maniglia del reostato, ancora fredda. E' enorme: la mia manaccia basta appena ad afferrarla, però mi dà una sensazione vellutata al tatto, come alcuni mani di donna che ho stretto, pur essendo di lucido metallo. I quadranti della strumentazione mi fissano chiedendomi di dargli qualcosa da indicare. Guardo il manometro del freno: con uno sbuffo prolungato lentamente la pressione delle condotte si azzera. Ora Lei è libera dalla morsa dei ceppi.

Faccio scattare la maniglia, premendo sulla sicura, di un paio di tacche. Lei ronfa, fa le fusa, si mette in moto tremolando. I campi elettromagnetici rotanti dei suoi motori me li sento sulla pelle e rabbrividisco.

L'Ampèrometro segna appena 30, tanto basta per mettere in movimento le sue quasi cento tonnellate. Un'altra tacca di reostato per arrivare almeno a 25 all'ora, per istinto mi verrebbe da cambiare la combinazione di trazione perché sulle Cinque-cinquantaquattro era questa la prima velocità di sincronismo, ma qui volgo solo uno sguardo alla doppia leva della commutazione, perché non c'è spazio per reazioni istintive. Io sono come Lei. Per vivere in armonia con essa, io devo farmi macchina come Lei. Le macchine non conoscono l'errore.

Dopo lo scambio del binario a cui dobbiamo andare per agganciare il convoglio, tolgo corrente e freno.

-Di là - fa il Maestro, che apre la porticina che dà sul corridoio per andare alla cabina posteriore per l'inversione di marcia, lanciandosi dentro il grembo vibrante della locomotiva.

Il corridoio è illuminato solo da una lampadinetta da qualche Watt - bizzarra povertà degli ausiliarii, malgrado tutta la potenza che gira per l'organismo - e dal finestrino centrale: nella penombra vedo le armature sotto tensione, i contattori, i dadi dei morsetti che serrano le trecce di rame, gli isolatori di ceramica. Basterebbe allungare una mano. Ma il flusso caldo, alternato a sinusoide in curva armonica, della vita che scorre pulsante nei suoi nervi sarebbe orrenda morte per me. Basterebbe toccare.

Poi devo strusciarmi contro i cofani degli enormi motori, i più grandi e potenti che siano stati installati su una Trifase: per le loro dimensioni s'intromettono prepotenti nel corridoio, mi paiono grandi come alternatori di centrale, come volte di cattedrali, manufatti cilindrici lucidi con delle griglie da cui esce il tenue profumo delle spire scaldate dove i campi si intrecciano in fantasiose eppur perfette geometrie di potenza. E sopra di loro i ventilatori si affannano nel loro ancillare compito con asfissia patetica, spingendo aria fredda nei recessi dei cuori gemelli ora a riposo.

Usciamo alla luce nuova della cabina posteriore, che ha gli stessi comandi dell'altra. Il Maestro mi fa cenno di chiedere la via.

Prendo la cordellina del fischio e le faccio lanciare tre brevi acuti. Ha una vocetta chiara, ma questa non è la sua lingua madre: quella, la sentiremo in Linea dopo, quando manderemo a zero la resistenza del reostato.

Mi danno la via libera e porto l'invertitore sulla marcia indietro. Lei reagisce con lo scatto in due tempi di un contattore. Quindi le ridò un poco di corrente; è un momento difficile, è quello in cui un macchinista deve davvero mostrare quanto vale, quello dell'aggancio: difatti il Maestro mi pare provi una sottile soddisfazione sadica, come se mi dicesse: “Finora te la sei cavata; ma ora vedremo se hai davvero il manico...”

Confido su di Lei, che reagisce docile alla mia manaccia. Ho la sinistra sul freno e la destra sul reostato. Tolgo corrente andando avanti ad abbrivio. Freno un poco. Non vedo quasi nulla dalla finestrella che ho davanti, l'avancorpo mi toglie molta visibilità. Il Maestro ha aperto la porta e guarda fuori da quella. Freno ancora un poco, mi avvicino a passo d'uomo: Lei è molto delicata in frenatura. Mi fermo forse un po corto: il Maestro mi dice d'avanzare ancora. Do il minimo possibile di corrente. Ora i respingenti cozzano contro quelli del vagone di testa. E' il momento peggiore: dopo aver verificato che il convoglio è frenato, devo far spingere la macchina contro il vagone per comprimere i respingenti. Lei si blocca e la corrente continua ad affluire negli avvolgimenti. Il Maestro mi incita:

-Falla spingere!!

 

E do tre tacche di reostato, poi quattro: lei si ribella, trema, l'Ampèrometro sale, le bielle vanno in tensione al massimo, i cuori mandano un rumore indefinibile, un ronzio basso ed atroce. Devo guardare in contemporanea la testa del vagone, gli strumenti, il Maestro che mi fa segno. Non ho sensi abbastanza per questa manovra. Sento Lei che soffre, in pericolosa aritmia che volge al surriscaldamento, la potenza delle onde non potendosi liberare in movimento si sfoga in resistenza negli avvolgimenti che scaldano. Sento il Maestro che finalmente mi urla di fermare:

-Aalt!!

 

In un lampo più rapido che un periodo di corrente, tiro a fondo la leva del freno, uno sbuffo che ha come un suono di sputo, poi rimetto a zero il reostato e le fibre dei muscoli cessano di soffrire. Da quando ho toccato i respingenti del vagone non saranno passati più di cinque secondi, e mi sono sembrati cinque giorni.

E' stato doloroso ma necessario, sono i momenti peggiori per le locomotive ed il buon macchinista deve ridurre al minimo la loro sofferenza. I manovratori intanto scompaiono sotto ad agganciare, sento il rumore dei ferri. Il Maestro mi fa un poco di sorriso che per lui dev'essere il massimo dell'espressione di stima. Ho conquistato la sua fiducia: di solito i novellini in aggancio massacrano le macchine dando tanta potenza che le ruote slittano. Io mi sono dimostrato sensibile ed accorto: sarebbe forse deluso dal sapere che non per lui l'ho fatto, ma per riguardo a Lei.

 

Ora me ne sto tranquillo e relativamente beato al posto del conduttore: la macchina è agganciata e gli ausiliarii si stanno scaldando a dovere. Siamo pronti a partire ma abbiamo dell'anticipo, com'è d'uso. Guardo fuori dal finestrino i viaggiatori salire, chi di corsa, chi con flemma. Ho rimesso il mio bel berretto da macchinista e non nascondo che mi piace farmi ammirare in alto sulla macchina, direttore dei flussi d'elettroni sconosciuti ai più, conoscitore delle recondite regole del traffico, l'unico che possa vedere la Linea a venire. E' uno dei piaceri che Lei mi dà per ricompensarmi della mia dedizione: ché non avrei il coraggio di farmi vedere ardito dalla cabina, se fossi un mediocre conduttore. Ma io la conosco bene, ho avuto ottimi voti all'esame teorico. Io posso ostentare il mio grado, appena appena inferiore a quello del Capostazione. E tutto questo lo devo a Lei che mi ha dato la motivazione per studiare i corsi grigi durante i lunghi tiepidi pomeriggi del Maggio quando fuori chiama la vita e la gioventù. Io l'ho voluta sin dalla prima volta che l'ho vista, ed ho speso con piacere una parte dei miei anni migliori per poter avere il privilegio di guardare la folla dei viaggiatori dal finestrino del suo posto di guida, e per essere quello che la lancerà sulla Linea.

 

Il Maestro, che era sceso a fumare - per rispetto alla macchina, nonostante non ne faccia ostentazione, fuma sul marciapiede - vede il capostazione arrivare con la sua paletta: per orgoglio mi dice ben forte, che tutti lo sentano, con inflessione drammatica, quasi teatrale:

-Tutto a posto?!?

 

Io faccio di sì con la mano, lui rampa sulla scaletta agile malgrado i suoi cinquanta - sessant'anni mentre le porte dei vagoni vengono chiuse in una successione talvolta ritmica, talvolta disordinata di scatti e tonfi. Guardo dietro, le mani sui comandi. Ci siamo.

Fischia due volte, mi mostra ben alta la paletta verde. Controllo anch'io a vista che le porte siano tutte chiuse, il Maestro rientra. Mollo il freno.

Anche la partenza, benché meno sofferta dell'aggancio, è un momento delicato per la locomotiva, chiamata a sviluppare la massima potenza, a portare i singoli filamenti del suo sistema nervoso al carico più alto che possano sopportare. Guardo fisso avanti e mostro un'espressione concentrata. Vedo con la coda dell'occhio che il Maestro mi guarda; non viene a vedere gli strumenti, lui sente con la sensibilità acquisita cogli anni quanta corrente stia passando per i motori, come se i campi magnetici rotanti gli danzassero attorno alle vertebre, mentre io posso solo sentirmeli empiricamente sulla pelle, senza avere l'idea esatta della loro intensità, senza poter fare a meno delle lancette esili. Gli invidio questa sua intesa perfetta e naturale con Lei. Metto in moto con decisione. Non posso non condividere l'angoscia dell'Ampèrometro che sale a valori che, sulle macchine che portavo fino ad allora, avrebbero fatto fondere tutto in una furia autodistruttrice.

Lei si muove, il convoglio è relativamente leggero. Bisogna arrivare il prima possibile ai trentasetteemezzo all'ora, tenere la locomotiva sotto sforzo a bassa velocità non si deve, ... pena la rovina del reostato. Mi sembra quasi di sentire il bollore dell'acqua sodata quando le lamine vi affondano dentro al mio comando aumentando sempre di più il flusso di corrente. Ma sono solo io a soffrire: Lei nella sua potenza non sente nulla a questi livelli, potrebbe fare una livelletta al ventotto per mille con un treno pesante il doppio.

Arrivo a trentasetteemezzo cento metri dopo la partenza, la stanghetta metallica nera sul tachimetro corrisponde con la prima tacca rossa: e di nuovo il Maestro mi guarda curioso e un po sfottente, aspettandosi un mio errore o quantomeno un'esitazione. Una commutazione troppo lenta farebbe scendere di velocità la macchina, facendo perdere la giusta velocità di sincronia ai motori, il che darebbe un bello strappo quando riattaccherei la corrente. Premo il pulsante per dare lo shunt ai motori, indebolendo i loro campi: con l'altra mano passo la leva del commutatore sul sei poli; rilascio lo shunt, i motori riprendono la piena potenza. Senza strappare.

La sento decollare. E' stata magnifica, mi ha agevolato, anche se ero in leggera salita non ha perso velocità, s'è sottomessa docilmente allo shunt ed i contattori della commutazione hanno scattato pronti come saette. L'Ampèrometro si abbassa e poi riprende a salire nel naturale alternarsi dell'umore dei cuori in rotazione. Il Maestro capisce che con me non ci sarà da brontolare e guarda avanti quasi soddisfatto. Posso arrivare anche ai settantacinque prima della prossima stazione, mi dice. Anche la seconda commutazione ai cinquanta va liscia che neppure la sentiamo. Mi sento completo e sazio. Mi sembra l'inizio di un nuovo meraviglioso rapporto con una macchina straordinaria, potente eppure paziente, bellissima ma umile, non esigente come la credevo.

 

E' in piena Linea dopo Oneglia che sento qualcosa che non va, dopo una prima ora di dolcissime e pronte frenate e riprese senza strappi. Filo a ottanta all'ora e non posso portarla a cento solo per il limite che in quel tratto c'è sulla Linea. I muri lampeggiano a lato della cabina con rapidità prodigiosa, fra i raggi delle ruote turbina aria resinosa di pino e salata di mare.

Eppure ad un certo punto mi pare di sentire un rumore. Solo una mia impressione: un rumore anormale. Non saprei proprio dire da dove provenga. Subito penso ad un cuscinetto lasco, ad una bronzina surriscaldata, ma il loro rumore lo conosco per esperienze pregresse e non è lo stesso.

E' un rumore senza natura in effetti: non è né meccanico né elettrico. Forse un'unione dei due. Qualcosa comunque non va più bene come prima, anche se Lei non mi dà veri e tangibili segni di malore.

Per scrupolo chiedo al Maestro il suo parere, dobbiamo urlare per sentirci nel canto dei campi rotanti e del rodiggio su cui ciononostante percepisco quel rumorino; comincio ad essere seriamente inquieto, proprio perché quel rumore lo sento e lui sembra di no, né la macchina, ma per me significa qualcosa di anomalo, di malvagio:

-Maestro!!!

-Linea sgombra dalla mia parte, tira avanti!!

-Non è per la linea, Maestro!! Non sente nulla?

-Nulla cosa?!?

-Un rumore... mi sembra!!!

-Non sento niente!!! Falla correre!!

 

La marcia in effetti continua scorrevolissima ma ho una netta sensazione di pericolo incombente. O nemmeno, non proprio di pericolo, fuori la giornata è troppo bella perché io possa sentire davvero un pericolo: ma è un qualcosa di male, e fa tanto più male in quanto non riesco a capire da dove venga. I colori che vedo sembrano scurirsi. Ripasso febbrilmente lo sguardo su tutti gli strumenti, anche quelli che non possono dirmi nulla di utile, e non c'è nulla di anomalo infatti: non credo che la Zeroquindici sia mai stata così a posto prima, fila con un filo di corrente. Non posso fare nulla di nulla a parte vegliare con tutta la concentrazione di cui sono capace. Ed intanto il rumore continua.

Solo dopo un po che mi sono fatto entrare quel suono nelle ossa ne comprendo l'origine. Mi sento debole, come se una vibrazione tenace ed estranea, malefica, non come quelle rilassanti della locomotiva, corrodesse i legami fra gli atomi del mio corpo, allontanandoli l'uno dall'altro.

Una goccia del profumo di Lina: ecco dove tutto era cominciato.

Una goccia del suo profumo che lei aveva ancora indosso quando l'Estate scorsa, quel pomeriggio di Luglio, era venuta a fare il bagno in mare con noi.

Quella goccia s'è dissolta nell'acqua di mare. Ha viaggiato con la corrente del fiume al largo, al largo, dove non si vede più la terra. Col calore d'Agosto è evaporata ed è entrata a far parte di un'armata di nubi. M'è passata sopra la testa senza che ci facessi molto caso, salvo sentire una leggera distrazione senza scopo. In una notte fredda è piovuta in montagna fra fulmini e grandine. In un mattino limpido è scivolata in un lago, e s'è sublimata in silenzio nel buio, nella solitudine perfetta dei cento metri d'acqua purissimamente nera. Pochi minuti fa, dopo mesi di stasi, è stata aspirata dalla condotta forzata della centrale che attinge a quel lago. Ha passato la sua essenza alla cinetica di una turbina e da quella all'ondeggiare dell'alternatore. Tremilaseicento Volts a sedici punto sette Hertz, con una nota nera che non ne cambia i valori principali che posso vedere sui miei strumenti. E da lì alla linea elettrica. E dalla linea è passata alla catenaria e quindi alla locomotiva. La locomotiva a queste cose ci fa caso, specie se le arrivano attraverso la corrente che beve, Lei sente la presenza di un'altra. Non trema di gelosia, ma mi mette in musica molecolare quell'essenza di cui sento la frequenza corrosiva sotto la potenza dell'acqua che precipita dalle montagne. Tutti i suoi nervi fanno quel rumore indecifrabile di cui però ora so la provenienza.

Perché lei fra due giorni si sposerà. Non con me. La goccia era diventata amara.

La maniglia del reostato che stringo ancora con la destra mi pare viscida, unta. Il pannello nero degli strumenti mi fa quasi paura, non sopporto l'Ampèrometro con la sua lancetta che nel bianco del quadrante è come se fosse confitta nel mio midollo. Sento che potrei sbagliarmi a cambiare commutazione, ci sono troppe combinazioni di poli e di serie/parallelo, quasi rimpiango la semplicità delle Cinque-cinquantaquattro. Siamo solo a ottanta all'ora, eppure mi sento come un capogiro per la velocità, per quel poco o niente che vedo fuori a lato dell'avancorpo di questa cassa da morto con le ruote. Mi sento un principio di mal di testa per la poca colazione che ho fatto, il rumore e lo sporco di questa cabina. Non vedo l'ora di arrivare a Genova e farmi dare il cambio."

 

-Bah, Que serà serà...

 

Secondo dopo aver lasciato Rosa al suo ufficio era tornato sui suoi passi per riprendere quel corso che pareva senza fine e vedere dove sbucasse. S'era trovato sul lungomare: di lì aveva scovato una panchina e, senza quasi rendersene conto, s'era proiettato nel suo futuro, come lo immaginava. Si rialzò indebolito per tornare a casa Agrò per il pranzo, con la solita fame nera.

 

Que serà serà... che ci posso fare io, del resto?

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Può copiare e incollare quanto scritto qui su un documento Word, oppure chiedermi via e-mail l'originale, e poi stamparlo :s01:

Perché se si aspetta la stampa... mancano ancora duecento pagine, quattro anni di guerra, ecc... ecc...

Ennò, chiariamo,

duecento pagine in Word "normale" (corpo , diciamo, 12) più quello già esposto in Betasom, fanno circa 400 pagine stampate, più o meno, a occhio.

 

Orbene, a caso:

Tutte le opere di Ugo Foscolo, ed. Bietti, 367 pag.

e. Lee Masters, Spoon River Antology, Einaudi, 505 p. (ma è nei Millenni,!!! 1955)

Dante

 

Voglio solo dire che è più conveniente la stampa editoriale che quella "amatoriale". Non a caso spesso gli editori propongono "assaggi" on- line

Ripeto: provaci! Al massimo ti dicono di no...

Ma a costo di farmi venire gli "occhi a palla", leggendo sullo schermo, non stampo 200 e più pagine...però mi spiace..ma tanto questo autunno FORSE mi faccio fare l'intervento agli occhi....

Kiss

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Il mio zibaldone, iniziato 7 anni fa, è arrivato a pagina 569 :s03:

Comunque per ora siamo solo a 95 pagine di questo racconto :s01:

 

Catania Centrale

 

Se n'era andato o era fuggito, piuttosto? La Rosa ci aveva tenuto ad accompagnarlo fino alla stazione, anche se questo le avrebbe fatto percorrere un buon chilometro in più per andare al lavoro; l'aveva lasciato marchiandogli un bacetto sulla guancia che ora, esposto all'aria della banchina, bruciava. E lui ora stava in piedi guardando dal lato opposto a quello da cui doveva arrivare il suo treno, perché da quel lato, da Sud, se n'era andata anche lei e non ci voleva più guardare; il treno, l'avrebbe sentito e via. Stava in piedi anche se c'erano panchine libere, stava a gambe leggermente divaricate, con le mani dietro la schiena e sotto il sacco che s'ostinava a tenere sulle spalle, per punirsi, benché contenendo solo un ricambio fosse assai più leggero che l'altro. Le gambe le teneva come quando sulla nave il mare faceva ondeggiare il ponte sotto i piedi. Ora era la terra a beccheggiare; doveva stare ben saldo per non cadere. Dalla velocità del vento relativo stimò che si stessero spostando ad almeno ventidue nodi. Rotta Nord-Nord Est.

La sua nave era andata a fondo. Il suo posto nella Regia Marina si trovava, di conseguenza, a rischio: che mansione, che destinazione gli avrebbero dato quando si sarebbe ripresentato a Taranto? Rosa lo aveva confuso, non era riuscito a dare una forma al loro rapporto. Bah, che importa, tanto non l'avrebbe mai più rivista. E no: lei gli aveva promesso che gli avrebbe scritto. A che pro? A chi avrebbe giovato? Lina restava nella distanza e nel mondo come il tono di blu scuro ancora non scacciato dal sole in quella mattina. Sarebbe stata una lunga giornata di viaggio.

Non poteva andare che così.

Subìto l'inganno del caso che l'aveva graziato per ben due volte, la cosa non poteva che riprendere la stessa piega. E dire che sarebbe bastato così poco! Un colpo fra le centinaia che gli avevano tirato addosso, una scheggia fra le centomila che avevano bucato il corpo dell'aria quella notte, il siluro del sommergibile la mattina preso a centronave dove si trovava lui, anziché a poppa... Ecco quel che poteva andare diversamente.

Si ricordò anzi di quella scheggia che durante la battaglia aveva perforato l'esplosivo di uno dei suoi siluri senza tuttavia – mistero davvero – farlo detonare.

Lì sì che non si trattava di puro caso ma di qualcosa che andava oltre, una mano invisibile che aveva agito.

Un miracolo! Sì, ma un miracolo malvagio, che andava contro il suo volere. Se quella scheggia avesse fatto il suo dovere, l'esplosione conseguente sarebbe stata così potente che lui ne sarebbe stato vaporizzato, non si sarebbe accorto di nulla, non avrebbe sofferto nulla. Non avendo trovato il suo corpo, gli altri l'avrebbero dato per disperso ed i suoi avrebbero potuto continuare a vivere nella speranza disperatamente ostinata, praticamente una Fede, che lui non fosse stato ucciso, che magari era solo caduto in mare e che gli inglesi l'avevano preso e lo tenevano prigioniero; e non lo si trovava nelle liste perché c'era un errore di burocrazia, oppure non lo lasciavano rientrare perché non collaborava, od era rimasto a vivere là in Inghilterra dopo che l'avevano liberato.

Un caso come quello avrebbe arrangiato davvero tutto.

Eppure sul momento, ricordava bene, aveva guardato stupito e orrificato quel buco fumante nella lamiera rossa della testata del siluro, perché era l'occhiolino che la morte gli aveva fatto. Ma nel momento della battaglia e del pericolo concreto di morire, che ora chiamava opportunità, egli era ridisceso ad un grado inferiore della consapevolezza, allo strato vitale primario che inconsciamente gli diceva ben forte, ben chiaro, che doveva restare. Altrimenti si sarebbe offerto volontario per la folle impresa proposta da quel Capo che, traumatizzato dalla battaglia e fuori di melone come doveva essere, voleva scendere sottocoperta a recuperare altri feriti proprio mentre la nave stava per andar giù, col rischio, anzi, con la certezza, che si sarebbe rimasti intrappolati sotto. E l'ufficiale disperato per l'impotenza di dovergli ordinare di lasciarli morire se non voleva perdere un uomo valido. Quelle frasi erano state composte con comunissimi verbi e sostantivi: “Signore”, “Ti ordino di”, “Non posso”, “Altri là sotto”, “Troppo tardi”, “Due uomini e scendo”; elementi comunicativi che in altre occasioni sarebbero subito svaniti senz'altra traccia se non l'eco delle cose che, appena dette, si fanno ondina e scia in dissolvenza del tempo passato; per il tono delle loro voci e la sensibilizzazione estrema delle sue impressioni, gli erano invece rimasti incisi sulla parete di granito su cui si istoriavano con disumana precisione i ricordi peggiori. Stavano poco oltre la prima ed unica strigliata coi fiocchi che s'era preso dal Guardiamarina ed in mezzo ad alcune parole di Lina. Credeva di averne già sognato due notti prima, non era sicuro: dava il benvenuto a quella scena d'orrore, almeno gli avrebbe offerto una diversione notturna rispetto al solito stupido incubo.

Ma diavolo, se ora la banchina del Binario Tre di Catania Centrale fosse stata il ponte del Fulmine che sprofondava, se ci fosse stato col suo attuale stato d'animo, si sarebbe senza esitare ficcato giù per uno di quei passaggi da cui uscivano urla raggelanti e vapore, per andare a morire da eroe. Ora, perché non la notte del Nove Novembre contava, già andata ormai, ma l'ora, era vivo da fesso. Sotto il berretto celava una tosatura squilibrata ed un labbro disgustoso di ferita e né il freddo né la nafta né la gran paura né il sapone corrosivo dell'ospedale né il sole di quella terra né l'equivoco Rosa erano bastati a purificare la sua pelle chiazzata ed unta od a rettificare le sue fattezze disarmoniche. Si trovava proprio come prima ed anche un po peggio. La rinascita non era servita a nulla. Una vampata di calore lo prese, di quelle che lo facevano sudare per un nonnulla ungendogli la faccia, ora la banchina s'inclinava davvero. Verso destra, verso il binario. Basta, quella insensata fiammata grassa era la goccia, l'ultimo affronto. Una forza lo attirava là sotto. Non era solo la forza di gravità, era il richiamo dei sassi scuri aguzzi e della doppia lingua di acciaio lucente, così liscia e perfetta. Un respiro ansante gli stava dietro. Le rotaie cominciarono a tintinnare, col cinguettio che facevano quando propagavano le vibrazioni ed annunciavano il sopraggiungente cataclisma nero. Pareva che lo chiamassero ad un futuro di letizia lieve come il loro stirarsi ghiacciato e che gli suggerissero la forza giusta che avrebbe dovuto applicare all'ultimo ordine da dare alle gambe di modo che il suo collo andasse a trovarsi esattamente sulla rotaia. Il respiro diventava sempre più forte rallentando i periodi ed una voce stridula, che trapanava i timpani, urlava senza ritegno l'angoscia degli attriti.

 

-Bah, non servirebbe a nulla...

 

Dopo aver detto questo nel vuoto si mosse, ma verso quella che chiunque altro fuorché lui stesso avrebbe detto la sua salvezza, fece un passo per allontanarsi dal binario.

“Non servirebbe a nulla: sono quasi alla fine della banchina, il treno arrivando qui dove sto io sarebbe già quasi fermo... Basterebbe un colpetto di rapida per fermarlo in tempo...”

Si scostò in reverenza per veder passare una Nove-quaranta condotta da un macchinista corrucciato ma dall'aria di brava persona, che ispirava simpatia. Fu contento di non aver saltato: gli avrebbe certo rovinato la giornata e forse pure la carriera.

Comunque seguì il treno nella sua frenatura quasi conclusa dopo aver visto che la carrozza di testa era una terza classe, che quindi poteva prendervi posto: la prima carrozza era infatti assieme all'ultima la più pericolosa in caso d'incidente. Quello sarebbe stato un modo pienamente legittimo seppur non molto eroico di levarsi dai piedi.

Salito che fu si ritrovò col bagaglio, quasi vuoto, fra le braccia, e si ricordò che dentro c'erano due libri che la Rosa aveva voluto a tutti i costi lasciargli, per il viaggio: li aveva artigliati sulla sua libreria senza nemmeno guardare e li aveva ficcati di viva forza nel suo sacco.

-Così non ti annoi, eh? Il viaggio sarà lungo! - aveva detto lei. Gli venne da sorridere a pensare che stava per trascinarli sotto la locomotiva! Altro che noia era il problema! Altro che libri da leggere ci sarebbero voluti per risolverlo!

Erano due libercoli, novelle da donna. Ebbe un presentimento; sistemò il sacco sulla mensola, tenne i due libri e cominciò a leggere, per vedere se aveva pensato giusto, quello con in copertina un disegno di aereo e due volti, una donna rigorosamente bionda e bellissima – non poteva essere altrimenti - ed un ufficiale quadrato e berrettato a dovere – e come se no? -. Intanto la Nove-quaranta si rimetteva in marcia, poca gente insignificante era salita.

I libri per lui andavano letti aprendo una pagina a caso e cominciando di là. Capitò male: un abbondante spezzonamento di sdolcinatezze e romanticismi usurati. Trattenendo il conato di far volare il libro fuori dal finestrino, continuò stoicamente a leggere malgrado i dialoghi d'amore, di cui poteva persino prevedere agilmente l'evoluzione tanto erano scontati, gli dessero una smania talvolta intollerabile, acuita dall'uso improprio di stilemi ed allegorie arcadiche. Rideva appena appena sibilando fra il biondo color del grano, l'anelito dei cuori ed il profumo delle rose.

Poi dopo gli addii carichi di fatalità promesse sogni speranze certezze eccetera eccetera la lettura divenne un po più tollerabile, cominciando a narrare delle cose che contano e che esistono, tipo la Guerra. Il protagonista si rivelò essere uno dei bellimbusti della Regia Aeronautica; non un Asso della caccia come il modulo di romanzo per donnicciole avrebbe lasciato pensare, bensì un pilota di bombardieri impegnato a combattere gli inglesi nel Mediterraneo; uno di quei bei tipi insomma per colpa dei quali le navi italiane dovevano girare coi ponti di prua dipinti con quelle allucinanti bande diagonali bianche e rosse, per farsi riconoscere da quegli asini volanti che non potevano sforzarsi a studiare i profili delle navi proprie e nemiche come facevano loro della Marina, eh no troppa fatica, son solo i fessi che passano i pomeriggi a studiare, vuoi mettere i signorini, hanno persino gli avieri a fare manutenzione alle loro carrette eppure non trovano il tempo di ripassare un po qualche disegnino, che solo i disegni capirebbero, che a Punta Stilo il Luglio scorso, e meno male che avevamo la coperta imbiancata con la calce per farci riconoscere, hanno bombardato le nostre stesse navi e per fortuna non le hanno colpite e noi in compenso abbiamo dovuto sparargli addosso con la contraerea, almeno per fare sbarramento e non farli mirare, e ne abbiamo persino tirato giù uno, ben gli sta ma come si fa?

Il racconto diventava interessante quando il bel tomo veniva a trovarsi col suo trabiccolo in mezzo ad uno sciame di “Spitfire” sopra Malta; naturalmente Secondo tifava per la caccia inglese, che però lo deluse: il Fiat italiano subiva sì danni inverosimili, ma riusciva a rientrare al suo aeroporto in Sicilia grazie all'autore, fermamente convinto che un aereo come quello, che nella realtà già faceva fatica a staccarsi da terra, potesse sostentarsi senza un motore e praticamente senza piani di coda. Doveva essere tenuto in volo senz'altro dalla pura determinazione e dagli sforzi sovrumani del protagonista. Pensare che, oltre che amante appassionato, uomo completo e pilota provetto – se era così bravo perché non passava alla caccia? - egli era persino un tiratore dall'occhio d'aquila che lasciava al fido copilota i comandi per impugnare la mitragliera dorsale sostituendo l'armiere ferito ed abbattendo con la manciata di colpi restanti uno dei persecutori. D'altronde mancava ancora un bel malloppo di pagine e la storia non poteva finire subito, si poteva facilmente prevedere, ancor prima di cacciarsi nel furore della battaglia, che gli inglesi avrebbero fallito.

Secondo aveva in faccia un ghigno d'ironia scettica, come quando gli raccontavano una panzana iperbolica, di quelle che non fingevano nemmeno per darsi un'aria di veridicità; mise il biglietto a mò di segnalibro e si fermò: cominciava a dubitare dell'intelligenza di Rosa, che leggeva delle baggianate di tale calibro. Forse l'aveva sopravvalutata.

 

O forse era lui che aveva perso qualcosa. Neppure l'eroismo dunque esisteva più? Lei non gli avrebbe dato quel libro se avesse pensato che fosse una ciofeca, pur se l'aveva preso quasi senza guardare dal suo scaffale. No, non poteva essere colpa della cecità di Rosa. In fondo, cinque o sei anni prima una storia del genere, con tutte le sue fontane di miele e di sangue che mescolate davano una melassa rossastra, a lui sarebbe persino piaciuta. Poteva ammetterlo senza arrossire che, prima di farsi spoetizzare, avrebbe apprezzato una favoletta così ingenua. Di tanto poco si accontentano i semplici.

Forse, ne concluse, era a lui che mancava qualcosa che pure aveva avuto. Un qualcosa che gli avrebbe permesso di nuotare beato nel trogolo di romanticismi facili ed eroismi ultraterreni di quel libercolo, come Rosa doveva aver fatto. Non sapendo come definire ciò che aveva perduto, l'avrebbe chiesto a lei. E per il momento, si rimise a leggere con una vena polemica un poco attenuata.

 

Piazza d'armi

 

“O che porcheria di mattinata freddina e piovigginosa! Non poteva accogliermi qualcosa d'altro, in questa Taranto che è stata più grigia di così ben poche volte? Ora che vengo a reclamare un nuovo posto nella grande famiglia della Regia Marina per servire ancora sotto gli occhietti porcini di un ritratto del Re? La lettera che mi diedero ad Augusta era chiara e perentoria come ogni scrittura militare:

 

Presentatevi a MARIDEPO Taranto entro e non oltre il giorno 20 c.m.

 

Bene, oggi è il 19. Non avranno da reclamare. Se solo non ci fosse quest'acqua fina fina a pungermi la faccia... spero che almeno non bagni i due libri che mi ha dato Rosa! Sarà meglio correre?

Dalla stazione al cancello di solito mi ci volevano 17 minuti contati. Oggi voglio vedere se ce la faccio in 13.”

 

Ed allungò il passo al limite della corsa. La pioggerella lo picchiettava sulla pelle e la ferita in testa, tirata ad ogni passo, gli doleva testardamente, con un accanimento tutto nuovo e speciale, come se il cranio dovesse scoppiargli. Alla divisa nuova – fortuna che di lì a poco ne avrebbe reclamata un'altra ancora più nuova e del tessuto migliore che spettava al suo grado di sottufficiale – non ci si era ancora abituato e prudeva, grattava via pelle dalle giunture e dalla schiena. Fino ad allora il tessuto teneva e l'acqua piovana non gli arrivava a bagnare le spalle, ma presto sarebbe stato lo sfacelo. Poi pensò che se correva poteva avere un'aria sospetta e coi suoi documenti provvisori era meglio non farsi fermare, avrebbero potuto prenderlo per una spia. Morire sì, ma non davanti ad un plotone d'esecuzione, di spalle, come i traditori. Oh, ma che paure assurde: sarebbe bastata una telefonata ad Augusta od a quelli che lo aspettavano per confermare la sua identità, semmai l'avessero fermato. Forse. Intanto era meglio non sfidare così apertamente la malasorte. Ci mise così 18 minuti per arrivare a MARIDEPO. A metà strada aveva smesso di piovere, però la gente si guardava bene dal riappropriarsi delle strade fradice.

Il luogo dove l'avevano comandato era il complesso di caserme dove la maggior parte del personale non qualificato veniva smistata, istruita, alloggiata. I marinai delle navi avevano casa sulle loro unità, i sommergibilisti nelle navi caserma, ma le reclute e quelli destinati ai servizi locali stavano in quell'anonimo complesso.

Come tutti i casamenti costruiti dall'edilizia militare da fine Ottocento, quella grande caserma era prevedibile e stereotipata, assomigliava anzi singolarmente nei dettagli architettonici alla Duca degli Abruzzi dove aveva iniziato tutto. Era solo più bassa e sparsa negli edifici, per la maggiore disponibilità di spazio. Prima di passare sotto l'arcata del cancello d'ingresso, dove la brava ed inutile sentinella con tanto di baionetta innestata sul fucile Mod 91 stava nella sua garitta a pied'arm ed i suoi occhi chiedevano che cosa ci stesse a fare, Secondo si assicurò che il berretto stesse ben sbilenco sulle ventitré, privilegio riservato ai veterani. Solo chi avesse concluso qualcosa in Marina poteva permettersi il lusso di portare il berretto storto, teorica infrazione al regolamento, e se una recluta veniva trovata così, erano guai seri.

Entrò, svicolò di lato lungo il muro di cinta, si sedette ad una panchina. Aveva male al capo ed era molto stanco, ad ogni modo non aveva fretta. Si guardò attorno.

Nella piazza d'armi stava una sorta di monumento la cui ragione d'essere era quella di servire da pedana per le cerimonie e da basamento per l'asta della bandiera: tutt'attorno a questa isoletta marmorea, un oceano di asfalto scolorito. Alberi un poco incerti, forse platani, di quelli che di sicuro davano un sacco di foglie e di altre rumente da spazzare alle reclute, stavano in fila al perimetro del piazzale.

Quella pavimentazione recava su di sé le tracce di un'intensa usura: già nata disgraziata per l'economia che tendeva a contraddistinguere l'edilizia militare, era stata infinite volte calpestata dagli scarponi dei plotoni di reclute che venivano fatti marciare in circolo. Anche allora c'era un drappello che marciava al passo calcando bene le scarpacce sul suolo abrasivo, come se per ripicca volessero consumare più presto le suole. Così si andavano abituando gli spiriti pacifici a quella vita nuova: non per i corpi si facevano esercizi, che certo in quelle poche settimane di alimentazione industriale non avrebbero potuto riprendere le forze non prese in un'infanzia di stenti; si girava in tondo senza scopo per abituarsi all'assenza di scopo. Perché marciare là dentro invece di andare da qualche parte? Perché fare ginnastica a vuoto invece, che so, d'andare ad aiutare i lavori nei campi? Gli Alpini, ad esempio, facevano così. Ma gli Alpini non sono la Marina. Gli Alpini non avrebbero mai conosciuto, se non ai massimi livelli, le mancanze di senso. Avrebbero sempre avuto un posto dove andare, una cima da pigliare: obbiettivi visibili e comprensibili. In Marina si combatte altrimenti. Ad un uomo in guerra si può dire: assalta quella cima. Come dirgli invece: resta qui a guardare uno strumento otto ore di fila, senza mai vedere il cielo? Qui puoi sì servire da puntatore ad una mitragliera e fare la guerra come gli altri, mirando e sparando al tuo nemico, ammesso che tu lo veda. Ma è uno su cento a dover combattere così. Quelle reclute non lo sanno, se ancora non sono state assegnate ai loro reparti, che la maggioranza di loro farà la guerra accudendo una macchina o comportandosi da burattino.

Toh, prendiamo quello là coi baffetti: bello quadrato, verrà messo probabilmente a fare il servente al pezzo, artigliere, e la sua sola ragione d'essere sarà il maneggiare barattoloni d'ottone pesanti trenta chili e farciti di cordite, bossoli di cannone da centoventi, portandoli dalla noria al banco d'attesa, e poi ad afferrare al volo il bossolo vuoto e rovente sputato fuori dal meccanismo d'espulsione, per gettarlo di lato dove non ingombrerà il passo, senza curarsi se cadendo pesante scheggerà la vernice del ponte – tanto starà a lui riverniciare dopo - . Il suo compare, più mingherlino? Addetto alla chiusura dell'otturatore, servirà a maneggiare un maniglione, a gridare “Là!!” quando avrà chiuso, a scostarsi di colpo all'ordine del fuoco, a riaprire l'otturatore quando il pezzo sarà tornato in batteria.

E chissà che non abbia un che di esaltante questo affannoso macchinarsi: prendere il calcatoio e dare una gran spinta puntandosi sul ponte coi piedi al fondello del proiettile e dunque a quello del bossolo, senza esitazioni, coordinandosi con gli altri, garantendo tutti assieme l'esatta massima cadenza di tiro di una salva ogni dieci secondi.

Li ricordava alle esercitazioni di tiro, rare ma sentite, a cui aveva assistito da bordo del Fulmine: il centoventi poppiero era proprio dietro il suo impianto e, quand'erano passati a tirare a ore sette, aveva potuto ben vedere la complessa e perfetta coreografia dei serventi. I primi colpi erano stati un po lenti ed il capopezzo aveva avuto bisogno di lanciare qualche urlo d'incitamento e direttivo per correggere movimenti maldestri; ma in breve, dopo la quarta salva, il gruppo era andato a regime, da quindici secondi erano scesi a dieci, e nessuno urlava più a parte i potenti e talvolta quasi isterici “Là!!!” che, con la chiusura degli otturatori, segnalavano che i pezzi erano pronti al tiro, che quindi coloro i quali si trovavano sulla traiettoria del blocco di culatta si spostassero, ma non ce n'era bisogno perché tutti erano già a posto ed immediatamente dopo, ancora nell'eco del grido, lampeggiava il globo infuocato esasperato del colpo, e la botta gli percuoteva i polmoni, riverberava nel suo corpo tutto. Quindi la campana sbilenca dei bossoli sbattuti sulle lamiere veniva ad annunciare la ripresa del ciclo. Ma...

Sogni di gloria! Questi magari pensano che l'artigliere sia solo il puntatore, quello che sta dietro il cannocchiale di puntamento e vede il nemico! Sogneranno tutti di piazzare un colpo nel fianco di una nave inglese, di vedere la fiammata rossastra? Non sanno che i due puntatori, uno in sito ed uno in elevazione, comunque obbediscono sempre alle lancette dell'indice, non puntano da soli se non in casi eccezionali, quando non arrivano più indicazioni dalla direzione tiro. Anche loro che potrebbero vedere oltre lo scudo del cannone devono guardare altrove, fissare due miseri quadranti quando là fuori è battaglia, ed ubbidire ad altri. E per ogni due puntatori c'è una squadra di otto artiglieri che, ciechi a tutto ma ben esposti a schegge e colpi di mare, si arrabattano per caricare i cannoni.

Fra quelli là, ce ne sarà uno dagli occhi buoni, sveglio? Imparerà a passare delle mezze giornate seduto al posto di vedetta dietro un “Astramar” ad ingrandimenti multipli che durante la sua istruzione gli insegneranno a considerare come una parte, una protesi del suo corpo. Uno senza particolari qualità fisiche? Di sotto, fuochista, coi guanti d'amianto su un rubinetto rovente e lo sguardo fisso sulla lancetta dei Kg/cm². Meglio cominciare subito a non farsi domande: le macchine che servirete non se ne fanno, non dovete farvene neppure voi se volete fare il vostro dovere. Voi diventerete macchine, perché nulla meglio di un meccanismo può interagire con un altro meccanismo. Se verrete destinati ad animare una torre di nave da battaglia, imparerete a scandire gesti precisi al millimetro ed al secondo, per garantire la massima cadenza di tiro. Vincolati a due leve, ad un verricello, al saliscendi degli elevatori, voi stessi macchine, ingranaggi di carne del grande ordigno d'acciaio. Non sentirete mancanza di senso, perché le macchine trovano il senso in quell'unica cosa che possono fare. Voi potrete sì pensare: ma solo quando sarete talmente integrati con le macchine da poter assicurare al grande congegno la vostra parte di moto senza bisogno di speciale concentrazione. Strana guerra, vero? Voi non sparerete mai a nessuno, non ucciderete nessuno di vostra mano, semmai contribuirete a farlo. Vi sono risparmiate le baionettate, le mine antiuomo, i cecchini, il filo spinato, le bocche di lupo, le infamie di chi combatte in terra. Non conoscerete il fango, le pulci, i congelamenti, le malattie più orrende dell'uomo rigettato in pasto alla natura, abbandonato a sé stesso, alle sue deboli difese contro il mondo avido di riappropriarsi della sua energia vitale. Il prezzo per questo privilegio? Caro, e c'è da pagarlo in molte valute diverse. Ma ora quella che interessa a voi è: rinunciare ai perché. Non chiedetevi il vero perché del fatto che state marciando in tondo senza scopo, accontentatevi di pensare che state imparando a marciare da militari, che state facendo esercizio di stile. E non prendetevela troppo, non scaricate il peso della vostra ribellione sulle suole delle vostre scarpe: se rovinate anzitempo quelle della vostra spettanza, non ve ne daranno altre e dovrete arrangiarvi per farvele riparare.

 

L'asfalto, già grigio chiaro e malaticcio di suo, ad essere così martellato perdeva coesione, il pietrisco saltava e si creava una presenza di ghiaino libero che la ramazza quotidiana un po spostava, un po asportava. Ne restava una superficie tristemente aguzza, che segnava le mani quando ci si stendeva sopra per fare le flessioni e dava i brividi, almeno a Secondo, anche solo a camminarci sopra, all'idea di cadere. Da una grondaia scassata, gocce d'acqua tardive andavano a picchiare sul limitare del porticato. E sotto, il battere cadenzato della marcia.

 

Magari voi vorrete andare tutti sulle navi da battaglia, sui bastioni di acciaio al nichelcromo per dominare il mare: illusi. Le navi da battaglia sono al completo ed imbarcano gente nuova solo se qualcuno si ammala od è destinato altrove. Voi sarete tutti destinati alle scorte, alle navette che uno schiocco di dita di Poseidone basterà a sfracellare, che vanno e che vengono, che per una cannonata andranno perdute. Sempre che veniate imbarcati su un qualcosa di combattente: potreste anche ritrovarvi su una nave ausiliaria, magari una petroliera: nessuna gloria, nessuna citazione nel Bollettino, ma in compenso il rischio concreto e costante di andare a fuoco. Magari sarete ritenuti non idonei all'imbarco e trattenuti a terra, a veder partire gli altri mentre voi smistate cartacce, sentendovi messi in disparte, impotenti. Ma sì, quanti di voi l'hanno voluta questa guerra? Da come marciate senza garbo, dovete essere un plotone di coscritti. Magari davvero non sognate glorie e cannonate e coreografie sotto una pioggia di raffiche di mitragliera ma un posto in ufficio, possibilmente vicino al rifugio antiaereo. Come darvi torto del resto? A me i platani con la loro puzza d'ammoniaca mi hanno sempre rimesso addosso la paura di morire...

 

Quando infine si decise ad andare in cerca dell'ufficio, era quasi mezzogiorno. Alla palazzina dell'amministrazione, un bussolotto quadrato dove i corridoi erano lucidati a specchio, forse più dai piedi delle file di coscritti che vi avevano aspettato di saper la loro sorte che dalle ramazze, chiese al piantone dove si trovasse la riassegnazione o qualcosa del genere.

-Che riassegnazione?

 

Quel tipo era di una bruttezza singolare: di mezz'età, magro, tirato, pareva un vecchio, gli occhi come lucidi di febbre. Era sempre una consolazione per Secondo pensare che comunque ce n'erano al mondo di più brutti di lui, sebbene quella fosse una bruttezza buona, non spaventevole, mite, mentre la sua doveva esprimere violenza e cattiveria, almeno così pensava, sempre così. Forse quella specie di vecchietto, fuori dai cancelli, rintanata in una di quelle case giallastre e basse, avrebbe persino avuto il relitto di una donna ad aspettarlo per la cena, una che conquistò anni prima col luccicore del suo sguardo.

Secondo tirò fuori il foglio e intanto spiegava:

-La mia nave è affondata, dovranno riassegnarmi un altro incarico, poi non so... io con la burocrazia...

-Vedo - gli restituì il foglio senza averlo letto. Pareva volesse rimproverarlo -. Al primo piano, terzultima porta a sinistra. Però ormai è tardi, avranno già chiuso.

-Vado a vedere lo stesso, grazie comunque...

“Beh ecco, so che ce l'hai con me se mi vedi qui dopo che la mia nave è affondata e tanti dei miei sono andati giù con lei, ed io no. So che avrei dovuto seguirli per essere con la coscienza a posto. Però è andata così. Che ci posso fare?”

-Ma le pare...

 

Infatti i corridoi erano praticamente vuoti, animati solo dai rumori che provenivano da qualche porta socchiusa: cigolii di sedie, mitragliamenti di macchine da scrivere, parole a mezza voce su toni monocorde. La porta del suo ufficio, su cui c'era scritto Indirizzamento personale imbarcato, era chiusa: bussò timidamente, ma niente. Era l'ora del pranzo del resto.

Detestava quand'era così. Non sapeva più cosa fare, si sentiva un idiota a dover aspettare senza sapere dove poter andare a passare del tempo. In altre situazioni sarebbe rimasto senza mangiare per il nervoso e lo scoramento, per punirsi di dover essere il fesso che aspetta anche, ma in quel caso non mangiava da un giorno intero. Scendendo come un cane bastonato, disse al vecchietto:

-Avevi ragione, è chiuso - l'altro lo guardò scontento, dicendogli con gli occhi lucidi: “E se non lo sapevo io che era chiuso, io che qui ci ho passato degli anni!” -. Senti, credi mica che, se vado in mensa, potranno darmi qualcosa da mangiare?

-Oh sì, sicuramente. Anche alle reclute appena arrivate che sono ancora in borghese gli diamo il pranzo, basta che abbiano il foglio con loro che dimostra che son stati chiamati. E sennò tutti entrerebbero a mangiare! Lei il documento ce l'ha no? E allora può andare.

-Bene... Bene, a che ora riapre qui?

-Fra due ore, non prima...

 

In tutte le brevi attese che precedevano qualcosa di poco conosciuto si potevano infilare maligne le incertezze e tutti quei pensieri che danno il prurito e bastano da soli a guastare una giornata. Per questo Secondo si concentrava sulla punta dei suoi scarponi, ma il sentore d'ammoniaca di quei pestilenziali platani fradici per la recente pioggia era troppo forte. Il potenziale chimico di quell'odore di morte, aumentato dall'aria fredda e fumosa, gli corrodeva quel poco di serenità che aveva ripescato da chissà dove. Su quali navi andare a cercare ancora di vedersela brutta? Magari una di quelle detestabili torpediniere, che dentro ci si stava pigiati e si era sempre spazzati dalle onde? Era seccante non sapere a che unità sarebbe stato riassegnato, e poi siluristi non ne servivano più, servivano mitraglieri e torpedinieri piuttosto, era tutta una questione di contraerea e bombe di profondità ormai. Forse l'avrebbero lasciato a terra, era insopportabile il dover aspettare quelle due ore per sapere. Però se l'era voluta, se invece di rimanere a poltrire in piazza si fosse mosso, a quell'ora sarebbe già stato sistemato. Pensando questo si calmò un poco e la luce elettrica che passava per l'aria ferrigna della mensa lo rimise quasi di buon umore: quell'odore che i primi tempi era stomachevole, che qualsiasi cosa cucinassero in quell'antro non voleva saperne di andarsene, era uno di quelli che gli tornavano familiari, che gli dicevano che aveva pur sempre un diritto di residenza in quell'angolo estraneo di mondo, a mille miglia da casa, che cosa strana il poter entrare in un edificio quasi qualsiasi sapendo che in fondo anche quella è casa!

Ma un maresciallo scuro stava a controllare la fila dei coscritti in uniforme che si mettevano in riga per prendere il rancio e quando arrivò lui gli si piantò davanti con un parlare strozzato:

-E tu dove credi di andare conciato così?

 

Non aveva voglia di discutere ancora di quel che gli era successo, per di più con un energumeno del genere. Riprese il suo pezzo di carta e glielo presentò. Quello non parve convinto, d'altronde non lo lesse nemmeno:

-E con questo?

-Con questo vuol dire che è una settimana che giro con solo la roba che ho indosso e senza vedere un rasoio... se mi fa la cortesia di chiudere un occhio...

-Potevi anche andare da un barbiere.

 

Oh l'astio che quelli che fanno servizio a terra hanno per gli imbarcati! Evidentemente quel maresciallo, che vigilava sulla regolarità della posizione di chi accedeva alla mensa, nonché alla loro tenuta, non gradiva la barba, il camisaccio sformato ed il berretto in bilico. Ma non esisteva che non gli avrebbero dato da mangiare, lo sapeva, quello voleva solo tenerlo un po lì in piedi per vedere se ci credeva, per la soddisfazione di far arrovellare un po uno di quei bei tomi che solo perché avevano una branda su una nave si credevano che tutto gli fosse dovuto. Imbecille: Secondo rispettava l'uniforme come un paramento sacro, se c'era uno che proprio non si poteva riprendere sulle questioni formali era lui, ma in quel caso proprio non poteva far meglio di così e cominciava a spazientirsi.

-Coi quattro soldi che mi han dato ad Augusta, Signore, ho appena avuto di che mangiare durante il viaggio. Posso andare?

-E vai, va... Per stavolta...

 

Il sangue ormai gli era tornato tutto in fiele. Mentre prendeva la gamella di lamiera stampata in cui gli avrebbero messo la sua mestolata di mangime, l'avrebbe spezzata sulla sua gamba, tanto era nero. Era per degli imbecilli del genere che aveva rischiato la pelle? Proprio a lui, lo venivano a rispiegare il regolamento? E poi: torna uno da casa di dio, che ha pure rischiato la ghirba, e perché ha la barba lunga non gli vorresti dar da mangiare? Ma scherziamo? Regolamento, sì sì. Il regolamento nei luoghi e nei tempi più opportuni. Perché intanto là fuori c'era una guerra vera e mentre lì in quel capannone basso e fetente scorreva la sciacquatura di piatti, fuori scorreva il sangue, ma là dentro dei tipi così credevano di poter fare come se niente fosse. Gli veniva voglia di sperare d'essere assegnato ad un'unità insulsa, dove avrebbe potuto fare una morte da fesso, totalmente inutile, tanto! Se la Marina teneva ancora in forza delle capre come quelle, non valeva nemmeno la pena della soddisfazione di far qualcosa di Grande.

Così rimuginando, era arrivato alla fine della coda ed era talmente preso nella sua rabbia che si era appena appena accorto di stare in piedi con una gamella in mano cercando un posto guardando sopra un mare di gente seduta. Gli era sempre stato ingrato mangiare da solo non tanto per la solitudine che da tempo non lo disturbava più, ma perché gli girava l'anima a dover chiedere posti qua e là ed a doversi aggregare a gruppi di gente che non conosceva né teneva in particolar modo a conoscere. Per non stare lì a fare storie si piazzò al primo posto libero che vide davanti a sé, con i coscritti che erano già a metà pasto e quindi era improbabile aspettassero ancora uno del gruppo. Quelli videro il berretto sulle ventitré e, seppure non paressero particolarmente contenti dell'intrusione, fecero finta di niente, continuando a lavorare di cucchiaio, al limite guardandolo di sottecchi. Era perché Secondo non aveva i galloni sulle maniche: sennò forse l'avrebbero accettato meglio. Gli veniva voglia, che assurda concessione alla vanità, di farsi dare un paio di quegli smisurati, quasi ridicoli galloni che avevano gli Sciumbasci, i sottufficiali del Corpo degli Ascari.

Attaccò la zuppa, intanto si guardava intorno con la curiosità di un nuovo venuto al mondo, che restasse deluso da ciò che vedeva. Che imbarcata di scafessi! Ovunque vedeva facce anonime, deperite, grigie come i vassoi, giallicce ed insipide come la sbobba. Sotto le maniche senza galloni, sospettava braccia deboli. Le spalline disadorne coprivano schiene ossute. Ecco le nuove coorti di Roma, ecco il popolo eletto destinato a rinnovare i fasti di Caio Duilio...

Forza l'Italia, in marcia le sue schiere

e lo straniero scaccia dal suo mar,

coi gagliardetti al vento e le bandiere,

tutto il suo popolo esultando va...

 

Che ne restava delle belle classi prebelliche, come la sua dei volontari del '20, bando del '38, in quel groviglio di forzati? Ma per forza, loro del '20 avevano fatto l'istruzione nei tempi in cui solo qualche cirro troppo alto e troppo bianco veniva ad oscurare il sole, talvolta. Erano, loro dei volontari del '20, orgogliosi, sicuri di sé, felici – felici... sereni, via... - perché malgrado ci fosse la Guerra di Spagna non avevano la certezza che avrebbero combattuto, solo quella di star per fare qualcosa di onorevole ed utile, servire la Marina, che avrebbe aperto a sicuri avvenire. Solo i più pessimisti ed informati sentivano i tuoni del temporale lontano che sarebbe venuto dal Nord. Questi invece, si vedeva che erano infradiciati da un anno e mezzo di Guerra che non avevano ancora conosciuto, ma avevano certo temuto. Il rumore pieno della sala, le mille voci sovrapposte, pareva una sola parola non articolata che chiedesse: “Vivrò o sarò ucciso?”

Mandatela giù bene la sbobba, anche se non è certo buona come quella di casa, ve ne servirà ogni singola caloria se vi troverete a passare una dozzina di giorni su un battellino alla deriva. Fate conto che lo stufato che mangiate sia stato cotto in una piccola pentola solo per voi, come al ristorante: forse non vi farebbe piacere, vi farebbe anzi un po schifo vedere come è stato preparato, blocchi di carne gettati interi a bollire in autoclavi da cinquecento litri e passa, come anche la minestra del resto, parrebbe un angolo d'inferno la cucina, tanto il rumore, il calore ed il vapore che aleggia, e gli sguatteri che ci lavorano non sputano sulla roba che cucinano solo perché poi la devono mangiare anche loro. Meglio che voi non guardiate di là di quel muro. Potreste mettervi a pensare che anche voi state per essere squartati in pezzature adeguate e, previa aggiunta degli ingredienti opportuni, gettati nell'autoclave che è diventato il nostro mondo, vi chiuderanno il coperchio in testa e vedremo poi chi e come ne uscirà, dopo la stufatura e il maciullamento. Ma poi chi lo sa, può anche darsi che saremo tutti persone migliori quando sarà finita.

 

Si mise a sentire cosa dicevano i suoi vicini di tavolata. Commenti scontati e dolenti sugli esercizi e la disciplina, ma a parte quello dovevano essercene tre o quattro che erano molto amici fra di loro. Paesani, di sicuro, perché parlavano un dialetto stretto. Chissà se, finito l'inquadramento, sarebbero riusciti a restare assieme... Senza nessun riguardo per questi solidi sentimenti nati da ciò che di più vincolante può intercorrere fra le persone, il reciproco supporto, e con la gentilezza metafisica di una lettera: ecco come le vostre esistenze potranno essere divise. La violenza che spezzerà il vostro legame sarà pari a quella di una valanga: la forma, perfettamente civile. Non farà nessun suono, non avrà aspetto di persona da odiare, di malattia da combattere, verrete separati per una semplice, incontrastabile ed informe forza maggiore. Altri verranno a sostituire quelli che ora sono vostri amici; e vi scoprirete fratelli dopo che la mitraglia avrà spazzato i ponti della vostra nave mancandovi di un pelo e falciando tutti gli altri, dopo che la bomba avrà percosso il cilindro del vostro sommergibile portandolo al limite del collasso, quando vi rialzerete scossi in mezzo ai caduti e vi guarderete attorno cercando due occhi ancora aperti, poco importa se sgranati per il terrore, cercherete nel nuovo silenzio e sotto le urla dei feriti una voce ancora umana, i primi occhi che incontrerete, le prime parole che sentirete, quello sarà un legame che durerà quanto le vostre vite. Ne avete idea? Ne avete idea, che può finire così? I giornali vi ci fanno pensare, con le loro cronachette stracche? Il birignao secco di Appelius alla radio al notiziario delle tredici vi può trasmettere qualcosa del tamburo battente delle mitragliere? Forse il cinegiornale Luce va già un po meglio; ma anche vedere non rende l'idea del proiettile che morde le carni. Già, preferite rimuovere il pensiero. Chi avrà i suoi arti tranciati dal ferro sarà solo quello della tavolata a fianco, sì quello là, che ha la faccia che non sa di niente, chi morirà intrappolato in uno scafo che affonda sarà quell'altro là, non voi. Ma io, noi, voi: che barriere? Non ci saranno più barriere, quando sarete là fuori. La morte sarà un fatto che riguarderà tutti voi, tutti noi anzi, che noi la si dispensi o la si riceva, ci toccherà tutti. Ci tocca già tutti: le bombe che cadono talvolta in città? Che civili, che ospedali, che vecchidonneebambini? Per quelli che vengono a bombardare, la notte al buio totale, non ci sono differenze. Centrare un ospizio, centrare una corazzata, gliene importa quasi uguale. Alla mano del vento che sparge il tappeto delle bombe, all'istinto che agisce nelle menti dei puntatori, che gli fa pensare “Wait... Hold... Bombs away!”, ritardando di quel tanto che basta a far la differenza fra il centrare una piazza vuota oppure una casa gremita... a loro non importa che la vostra ragazza sia una creatura adorabile, troppo perfetta per non avere il diritto di vivere. Troppo perfetta per dover sopravvivere a tutto questo. Non interessa che vostra madre sia l'unica creatura venuta al mondo senza peccato originale. D'altronde è giusto così: perché noi, solo in virtù dei galloni rossi e delle stellette al bavero, dovremmo essere i prediletti della morte, piuttosto che gli altri?

 

D'improvviso, il clamore della sala, come riprendendolo dopo lungo torpore, gli diede una sorta di nausea. Sbaraccò in tutta fretta, ripose la gamella al bancone apposito ed uscì all'aria aperta. Siccome era un abitudinario, marciò un po fino alla stessa panchina del mattino. Mancava ancora quaranta alla riapertura dell'ufficio. Non gli restava che proseguire la lettura del polpettone di Rosa. Lo prese, lo aperse, ma era forse solo per darsi un tono di fronte ai rari passanti, perché lo sguardo correva sulle righe senza suggerne alcun senso. Gli pareva di ricordare che per convenzione, anche se formalmente avrebbe dovuto essere assegnato d'ufficio ad una nuova destinazione, senza avere possibilità di scelta, almeno ai veterani di qualche azione particolarmente drammatica si lasciava un certo margine, perlomeno di decidere se imbarcarsi ancora o farsi riassegnare a servizi meno rischiosi. La cosa era una pura questione di delicatezza formale, perché di solito tutti sceglievano se possibile un nuovo imbarco su unità combattente.

Ma lui non ne era così sicuro, che volesse imbarcarsi di nuovo. Era la paura che non voleva ammettere, era un senso di stanchezza, di profonda inutilità. C'era sorda battaglia in lui, fra il bisogno intenso di stare ancora sul castello di prua di un caccia a farsi ammirare morituro dalle genti civili, e una mollezza che lo circondava come un'afa estiva dicendo che no, non era più cosa, a che scopo... mollezza forte abbastanza da coprire il richiamo delle note orgogliose de La Ritirata che ancora suonavano distanti. Uno di quei casi insomma in cui per non sentirsi in colpa la cosa migliore da fare era affidare la scelta al caso. Ancora un quarto alla riapertura dell'ufficio; anche se l'anticipo era mostruoso – non gli ci sarebbero voluti più di tre minuti ad arrivare alla palazzina – decise lo stesso di smuoversi.

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S.t.v. Minosse

 

Il vecchietto di trent'anni ora aveva un'aria sonnolenta. Non che Secondo avesse particolare piacere a trattare con lui, ma gli uscì spontaneo rivolgergli una domanda tanto inutile quanto ingarbugliata; si rese conto nel momento stesso della scemenza che stava pronunciando:

-Scusa, l'ufficio riassegnazione avevi detto terzultima porta a destra no?

-Eh? Che riassegnazione?

-Sì, quello per farsi dare un nuovo imbarco, quella storia lì... io non so...

-Uff...ficio indirizzamento personale imbarcato: primo piano, terzultima porta a sinistra.

-Ah ecco... grazie.

-E auguri!

 

Lo guardò meglio. Non c'erano nei suoi occhi lucidi invidia o malignità. Era che... chissà quanta gente aveva indirizzato verso quell'ufficio, che smistava i destini... lui ne era corresponsabile ed il suo augurio era fatto di cuore.

 

Mancavano sette minuti all'apertura. Secondo si piantò a fissare la porta grigia. Sotto il nome dell'ufficio c'era fra due trattini il grado ed il nome del responsabile: - S.t.v. Attilio Minasso - . Senza nemmeno pensarci in aperta coscienza, reminiscenze liceali vennero a galla:

 

Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia.

 

Con qualche voluta di penna – più elegante certo che l'attorcigliarsi di una coda – costui avrebbe deciso a che girone sarebbe stato assegnato, forse quella consuetudine di lasciar la scelta non esisteva. Sarebbe stato lui a dire stavolta...

 

Vuolsi così colà dove si puote ... ciò che si vuole, e più non dimandare ...

 

Le due e tre. Le due e cinque. Non si faceva vivo nessuno e cominciava ad avere male ai piedi. Le due ed undici: finalmente arrivò da dietro di lui un uomo in divisa da Sottotenente di vascello accompagnato da un Capo di prima classe. Gli girò attorno ed andò ad aprire la porta chiusa a chiave guardandolo. Era un ometto poco più basso di lui, con un pizzo brizzolato, la pelle di cuoio, uno sguardo sfottente. Secondo salutò, non riusciva a farsi alcuna idea della faccia con cui lui stava ricambiando lo sguardo ma abbassò quasi subito i suoi occhi alle stellette sul bavero. La serratura sparava ad ogni giro della chiave.

Quello aprì e si ficcò dentro senza chiudere seguito dal Capo insignificante e silenzioso. Secondo restò un poco impalato, poi si decise a guardare dentro. Il Sottotenente di vascello appendeva la sua giacca ad un attaccapanni dietro la sua scrivania, il Capo s'era inabissato nel suo angolo. L'ufficiale si sedette, poi alzò lo sguardo e dovette vedere la capoccia di Secondo dato che lo invitò ad entrare col gesto. Si tolse il berretto.

-Permesso?

-Vieni, vieni. Che vuoi?

-Le spiego... ecco...

 

O tu che vieni al doloroso ospizio, disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio, guarda com'entri e di cui tu ti fide; non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!

 

Pian piano allungò la mano a dare il foglio al Sottotenente. La carta tremolava. Quello lo abbrancò.

-Siedi – disse spiccio fissando la sua spelatura in testa.

 

E si abbassò su una di quelle sedie a braccioli semicircolari. Prendeva in faccia il pieno sole, ma di lato, così riusciva a vedere abbastanza bene che quello leggeva il suo foglio con attenzione.

Passarono forse tre, forse cinque minuti senza che volasse una mosca. La sedia del Sottotenente cigolava appena appena e il Capo da dietro faceva grattare una penna.

-Visto – fece infine – così eri del Fulmine... avevo ricevuto la lista dei sopravvissuti da ricollocare... mi pare che ci fosse anche una decorazione per te... Santini!! - disse alzando lo sguardo verso il Capo – vedi un po se ritrovi la lista della gente del Fulmine!

 

Decorazione? Per cosa mai? Se non aveva combattuto se non cercando inutilmente di puntare i suoi siluri verso il nulla...

-Dì un po, - la sua voce ispirava confidenza e fiducia, come se si fosse rivolto ad una vecchia conoscenza – racconta... Se ti va eh... Com'è stato? Noi qui non si sapeva praticamente niente.

 

Dico che quando l'anima mal nata... li vien dinanzi, tutta si confessa; e Capo Santini faceva rumore aprendo cassetti e perquisendo l'archivio.

 

-Ecco... guardi, io ho potuto vedere ben poco... ho perso un uomo della mia squadra ed un altro è stato ferito... poi... non so quanti fossero gli inglesi, ho visto solo le vampate, ho provato a puntare il mio impianto col manuale ma non vedevo nulla di nulla, poi mi hanno ordinato di mollare tutto che la nave già andava giù... siamo arrivati persino a tiro delle mitragliere, ma giusto in tempo per mettere il castello sott'acqua... non so, io ero a poppa un po a ridosso, per quello me la son cavata ma non ho visto quasi nulla...

 

Lo prese una vampata di calore; pose gli avambracci sul bordo della scrivania per alleviare il peso che schiacciava le sue vertebre ed il senso di soffocamento. La magrezza delle sue braccia gli apparve in tutta la sua eccessività.

 

-E... il Comandante?

-Ah... Lui... Una delle prime salve ci ha colpito in pieno sulla plancia... un ufficiale era venuto a poppa ed era tutto in sangue...

 

Il Sottotenente chinò il capo. Secondo che fissava le proprie mani intrecciate non se ne avvide e continuava a gruppi di parole:

-... Una delle prime cose, è che hanno ordinato di passare al governo manuale... quindi... so che il Direttore poi era sceso sul castello per far ricominciare a sparare... quindi là avanti non doveva...

-L'avevo conosciuto, il tuo comandante.

-... Mi scusi, non potevo sapere... non... - disse levando lo sguardo lucido verso di lui.

-No, io lo sapevo già che era successo, e te l'ho chiesto io. Volevo sapere com'era stato.

 

Calò un silenzio che per Secondo era imbarazzato, per Attilio – ora lo chiamava così – non si sarebbe potuto definire. Capo Santini aveva finito di rovistare fra le cartelle e venne a presentargliene una, risvegliandolo:

-Ecco qua...

-Ah, grazie Santini... Dunque, Marchetti... eccoti qua.

Sì, ecco. Il Guardiamarina Lanzi ti ha menzionato nel suo rapporto, dice che hai dato una mano per soccorrere i feriti e che ti sei proposto per andare con lui a recuperare un battellino... bravo... e poi anche sul Libeccio... sta tutto scritto qui. C'è la medaglia.

 

“Medaglia? Bravo? Non ho alcun merito per tutto ciò. Nessuno è così bestia da starsene con le mani in mano quando un altro cristiano ha bisogno d'aiuto. Anche l'essere più spregevole al mondo avrebbe fatto lo stesso al posto mio. Avrei dovuto piuttosto lanciare, e bene, i miei siluri, era l'unica ragione per la quale mi trovavo a bordo, per la quale sono stato nutrito, istruito, vestito, protetto, pagato dalla Marina da tre anni a questa parte. In sostanza ho fallito. Ho fallito, Attilio!”

 

-Così ti chiami Secondo... che nome curioso... Vabbò, veniamo al dunque. La patacca te la daranno a un altro ufficio... Tu sei venuto qui per essere riassegnato ad una nuova destinazione...

 

e quel conoscitor de le peccata... vede qual loco d'inferno è da essa;

 

Si girò con la sua sedia; un quarto di giro; pareva riflessivo e teneva sempre in mano la sua scheda.

-Vedi, il problema è che al momento non ci sono posti da silurista per nuovi imbarchi su delle navi... quelle sono a posto... però gente in gamba come te, ne serve sempre, ed ora tanto di più... quindi non ti possiamo congedare...

...guarda, i casi sono due: se vuoi tornare subito all'imbarco ho dei sommergibili che hanno bisogno di siluristi... ma lì ci vai solo volontario...

 

Sommergibili! Dunque era all'Inferno sul serio che lo mandavano!

vanno a vicenda ciascuna al giudizio, dicono e odono e poi son giù volte.

 

No, no: Attilio gli ricordava che i sommergibilisti erano tutti volontari. Lo aveva sentito bene. Non era una condanna ma una proposta. Continuava:

 

-Se vuoi restare alle unità di superficie... potremmo mandarti in licenza finché non mi si libera una nave, non ci vorrà molto dopotutto, però... avrei un posto vacante da istruttore silurista alla Scuola C.R.E.M. della Spezia... visto il tuo stato di servizio, direi che potresti andarci senza problemi...

Ho pensato di proporti per quel posto anche perché ci saresti comodo... Poi siamo tutti d'accordo che è meglio tenere qualcuno con esperienza alla scuola, piuttosto che reimbarcarlo subito... almeno gli insegnerai dei trucchi che sui manuali non ci sono.

 

Per quale ragione? Per quale ragione lui sembrava volerlo proteggere, pure lui insomma? Perché aveva servito lealmente sotto il suo conoscente, il Comandante Milano? Per quel suo aspetto di povera cosa strapazzata? Ad ogni modo Attilio sembrava aver già scelto per lui. Non più imbarchi, non sui sommergibili almeno. Tenendo presente che voleva lasciar scegliere il caso, o gli altri sotto forma di caso, non aveva più scelta:

-Guardi... in effetti la Scuola ci andrei più volentieri...

-Sicuro?

-Certamente.

-Non vuoi pensarci un po su?

-Mi prenda per codardo, Signore; eh, altro che medaglia! I sommergibili, non ci resisterei dentro, però non voglio restare a far niente. Grazie per avermi dato questa possibilità.

 

Attilio si rigirò verso la scrivania, prese con calma un formulario, cominciò a riempirlo con metodo. Fuori nel corridoio non c'era nessuno ad aspettare e la fretta non si imponeva. Santini non si sentiva più, d'altronde Secondo era come in una bolla, la testa gonfia e l'udito attenuato.

-Mettimi una firma qui sotto ed è fatta.

-Potrò riprendere imbarco quando vorrò, comunque, no?

-Va da sé, basterà che lo richiedi.

 

La penna che gli passò era tiepida e liscia. Scrisse fluida come mai nessuna penna che aveva usato fino ad allora.

 

Vuolsi così colà dove si puote ... ciò che si vuole, e più non dimandare ...

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Arrivederci Taranto

 

Era rivestito con un'altra uniforme invernale nuova – sempre nuova di magazzino beninteso, quindi che sapeva di chiuso, di canapa, di tintura, ed era ruvida come uno zerbino – che teneva ancora le pieghe come se fosse inamidata, coi giusti attributi del Sergente silurista; solo, aveva voluto tenere il cappello che gli avevano dato ad Augusta, poteva far finta di averlo perso e chiederne uno nuovo, ma trovava che fosse uno spreco: ad ogni modo, anche con un cappello nuovo, sul nastro non ci sarebbe stato scritto il nome di una Regia Nave, ma solo il solito anonimo * Regia Marina * fra le stellette. O non era piuttosto che con quel cappello aveva passeggiato con Rosa, che lo teneva fra le mani quando la vide per la prima volta, dunque aveva in qualche modo assorbito qualcosa di lei, onde che dai suoi occhi erano state assorbite dalla fodera nera, profumi entrati fra le fibre quando lei ci giocherellò, forse anche un suo capello rimasto impigliato dentro quando lei lo indossò, calcandoselo tutto storto, per scherzare? Certo, comunque non era bello come quello perso in mare, di fattura prebellica, più pregiato, e gli mancava la scritta * R. N... Ma che importava? Il cappello benedetto da Rosa, lo voleva proprio tenere per reliquia.

Riavere il corredo completo con i gradi corretti, i due silurotti incrociati sui galloni, era una certa soddisfazione, forse più che la medaglia che gli avevano dato e che non voleva attaccare alla giubba, per meglio conservarla nella sua scatoletta finto-lusso. Così Secondo s'apprestava a lasciare Taranto per tornare al Nord. Erano comunque due anni pieni e rifiniti che bazzicava per quella città: un lungo legame considerando quanta poca simpatia si sforzasse di nutrire per quel luogo. Pensava che in fondo gli aveva dato solo piattezza e nessun vero momento di felicità od esaltazione; pensava così per pararsi da nostalgie premature. Non ci si era mai considerato “a casa”, partire per andarci fu la fonte di angosce fra le più formidabili che avesse avuto a sentire in vita sua; nelle sue caserme in cui aveva saltuariamente dovuto dormire non ricevette mai due volte la stessa branda, e anche quella notte, l'avevano mandato in una camerata diversa da quella della volta prima, in un'ala esposta ad Est; non vi aveva mai trovato un locale in cui amasse andare più che in altri, tutti lo lasciavano abbastanza indifferente, sebbene conoscesse di vista ormai alcuni osti che lo accoglievano con un mezzo sorriso. La piattezza della terra lo spaesava quanto i colori delle case, l'acqua torpida ed immobile del Mar Piccolo, i venti che non avevano la stessa rosa e le stesse abitudini che su da lui. Quando stava a Taranto, non che ci stesse male, questo in tutta onestà proprio non poteva dirlo: ma non capiva, e se non capiva non poteva neppure star davvero bene. Stradine secondarie, simili ai suoi carruggi dopotutto, sempre troppe, che lo chiamavano con le loro ombre ed i loro odori non sempre immacolati, si dipartivano sempre dai viali principali che si era addestrato a percorrere. Abitudinario nel profondo, dovendo compiere qualche volta soltanto un dato percorso, seguiva sempre lo stesso tracciato, avendo bisogno di riconoscere i punti di riferimento per sentirsi in qualche modo conoscitore e fruitore a pieno titolo di un luogo. E al tempo stesso sapeva che non avrebbe potuto sentirsi davvero in un luogo della sua vita finché non avesse avuto il coraggio di esplorarlo in lungo e in largo. Per forza: il Fulmine più che Taranto era la sua casa, lo stipetto fisso con la targhetta in cartoncino col suo nome sopra, i ganci per l'amaca al baglio dell'ordinata 78 lato sinistro, la porticina dei servizi che chiude male e bisogna tirarla; quanto tempo però, per abituarsi a dormire supino là sopra, mentre a terra era sempre rimasto carponi nel sonno, e quante nottatacce...

La sera in cui partiva era particolarmente docile malgrado la stagione; per la via in senso contrario al suo passava un gruppo di uomini del Folgore in franchigia che, già belli allegri in vista della notte che li attendeva, cantavano la loro canzone:

 

Piccole bambine innamorate

voi la Guerra non la fate

non la fan neppure le corazzate

ma la fanno i fessi dei CT!!!

 

Passarono senza neppure fargli il saluto, e non sapeva se prendersela od invidiarli. Ehi ma anche sua era stata quella canzone, non solo loro! Anche lui l'aveva cantata quand'era in franchigia, assieme agli altri, perché ne avevano diritto. E la cosa per poco non finiva a pugni con un gruppo di franchi della Littorio che, piccati sull'onore sentendosi dire che la Guerra non la facevano, avevano rimarcato ben forte che erano d'accordo, che quelli dei CT erano proprio fessi... Aldo – già, chissà lui che fine aveva fatto - voleva darci dentro, Tore pure, altri del Fulmine erano lì che fremevano per l'affronto, e per qualche istante tutti sentirono la potente spinta degli istinti gioiosamente primordiali della lotta, solo la straripante ragione sua poté evitare che si venisse alle mani. Non avrebbe proprio gradito passare la notte agli arresti; eppure sotto sotto gli era costato caro quel trattenersi, e si sentiva dopotutto inferiore agli altri, dovendo celare il segreto di non aver mai fatto a botte con nessuno. Non era solo l'enfasi che veniva posta sulla forza della gioventù che si doveva manifestare nella violenza: e se quello era, se era una disposizione del Regime, pure affondava radici profonde nei bisogni di ogni uomo. Quella notte in cui a causa di quella canzone aveva dovuto trattenere sé stesso e gli altri dal fare a botte, la rimpiangeva come una grande occasione mancata, come se una bellissima – dicesi bellissima – giovane gli si fosse proposta ardente e lui l'avesse rifiutata con faccia grigia e disarticolando moine svogliate, e tale giovane era una vita più vera e sincera. Quella sì, sarebbe stata una carta valida da giocare, con le ragazze! Altro che la gentilezza, la cultura e la sovrastruttura: saper menare un montante sinistro, conoscere la liturgia della sopraffazione dell'altro valeva certo ben di più, in termini seduttorî, che il conoscere a memoria tutti i Canzonieri della storia. La seduzione stessa d'altronde, Secondo ci arrivò con semplice percorso filologico, era fondamentalmente sopraffazione dell'altro, Guerra di Von Klausewitz, l'imposizione del proprio volere alla parte avversa, la continuazione della politica con altri mezzi. Se avesse fatto a botte, anche se le avesse prese avrebbe forse imparato a sedurre. Ma il prezzo da pagare del possibile dolore fisico e della sicura notte agli arresti lo aveva trattenuto. Perdona, e continua a sperare - ad illuderti – che tutto, dai diverbi all'amore, si possa risolvere civilmente. Forse che avevi paura di rovinarti il tuo bel faccino così perfettamente equilibrato? Ah, inutile rimpiangere, tanto ormai...

Eppure aveva fatto di peggio che fare a botte: aveva rischiato la ghirba. Non aveva potuto contare né vedere tutte le schegge che l'avevano mancato di un pelo così, e quella che si era ficcata nel tritolo, che avrebbe potuto vaporizzarlo? E tutte le cose che potevano andare altrimenti? Era vivo per miracolo, ma non riusciva a sentirlo. Credeva che rischiare la vita l'avrebbe liberato: ma già durante il primo attacco aereo a cui aveva assistito s'era reso conto che il vedere la morte da vicino non lo avrebbe cambiato; forse non l'aveva però vista abbastanza da vicino: fosse rimasto ferito più seriamente, come Aldo – tutte le fortune aveva, quello – forse avrebbe cambiato idea.

All'angolo della via svoltando verso Ovest il sole calante, sempre lui, maledetto, lo investì in pieno e pareva volerlo rallentare accecandolo. Ci doveva pur essere qualcosa che lo trattenesse dall'andare dove doveva... meglio non fare mente locale? Eppure nulla lo vincolava a Taranto. Rosa non stava neppure lì! Già, ma... stando alla Spezia si poteva pure sognare di tornare fino in Sicilia a vederla!

Realizzò questo con un buon senso indolore, quasi con ironia, come se di lei non gli importasse più che del trasandato e sconosciuto uomo di mezza età che camminava avanti a lui per la via. Sì, sì, non me ne importa molto di più. Facciamo conto che sia così. E se non è così, va bene lo stesso.

No. Non va bene lo stesso. Sulle spalle mi pesano anche i suoi due libercoli; il berretto che porto ha ancora sue tracce che non definisco ma sento; sto camminando nella sua direzione; è la prima donna che mi dimostri un interesse gioioso e disinteressato; forte abbastanza da sembrarmi davvero di buonumore, se non proprio per pensare all'amore, pochi giorni dopo aver perso un fratello. Mai vista una tempra così, Lina al posto suo ne sarebbe stata ridotta a una larva da un colpo del genere. Oh sì, bella finché vuoi e non solo, ma volubile, suscettibile e vulnerabilissima. Trattare con lei era come maneggiare un giroscopio: che meccanismo, che equilibrio perfetto! E se però non facevo attenzione, bastava un colpetto, un quarto di giro di vite in più e tutto era perduto. Rosa mi faceva respirare, era quasi più lei a scherzare. A dire il vero non mi pare proprio possibile, ripensandoci. Che dopotutto fosse solo un bisogno violento di lasciarsi alle spalle il lutto lanciandosi in un nuovo gioco che palesemente non poteva che durare poco, né avere sbocchi? Sarà il caso di scriverle, anche solo per l'addio.

 

Aveva tre giorni di tempo per recarsi alla Spezia. Per tanta parte, il suo destino ed i conseguenti doveri erano stati scritti. Fini e fetenti come la sabbia fra i lucidi sampietrini del marciapiede, umida, scura, ricettacolo di tutte le porcherie che il calpestio incessante spazzava dalla superficie delle pietre, incertezze ed indecisioni e rimpianti e rimorsi rigavano il campo di porfido delle sue risoluzioni. Sempre così.

 

Forse avrebbe dovuto accettare la proposta di andare sui sommergibili: con tutta probabilità sarebbe rimasto a Taranto, forse sarebbe persino andato a Messina o ad Augusta, ancora più vicino a lei. Ma i sommergibili no, troppo pericolosi, e quella sensazione tremenda di affondare, di sentirsi mancare il ponte sotto i piedi, quando si va in immersione, che immaginava non avrebbe mai potuto sopportare... l'aria pesante, le luci basse, l'umidità del grembo della bestia, carica di fetori delle macchine e dei corpi... No, no, lui aveva già dato, e poi se cercava una fine decente, non certo in un cilindro di ferro a duecento metri sott'acqua l'avrebbe trovata. Che poi magari Rosa si smentiva, si tirava indietro, tanto andava sempre così, e lui sarebbe rimasto senza amore ma con un imbarco su una di quelle trappole, oltre al danno la beffa... Non poteva decidere di una cosa del genere sulle poche ore del loro ambiguo frequentarsi. Va bene così: si va alla Spezia, come mi hanno ordinato, e non ci si pensa più. In marcia! Tanto ormai è tardi per ricredersi.

 

Per andare alla stazione era necessario passare sul ponte girevole. Era aperto al traffico, non passavano navi. Sopra i tralicci che incrociavano braccia nere d'acciaio nella sera sopra le acque perennemente placide si intrecciavano mani, come se la precarietà del ritrovo rendesse più intensi e godibili gli incontri. Quand'era così, lui abbassava la testa e tirava dritto senza guardare, come un cavallo da tiro coi paraocchi. Una cosa però sperava. Che la vibrazione impressa al piano asfaltato del ponte dal suo passo sgraziato e pesante facesse venire... non sapeva cosa, un dubbio, un accenno di brivido, un vago presentimento, un leggerissimo disagio, leggero quanto quell'ondulazione scura, al più felice della più felice coppia di quelle che bighellonavano dolcemente su quei tralicci. E che allora, voltandosi verso l'amato bene, vi scoprisse un difetto che prima non aveva mai notato; una rughetta, un granello di forfora, un accenno di cerume nelle orecchie. Già la sua felicità ne sarebbe stata macchiata. Presto la campanella che annunciava la prossima chiusura del ponte per il sopraggiungere di una nave avrebbe suonato: e l'altro avrebbe sfogato, tirando un po troppo sulla mano che stringeva, il lampo di delusione per il doversi allontanare da quel posto che a quell'ora era semplicemente perfetto, come il loro amore... sicuri? La forfora e lo strattone avrebbero incrinato la perfezione... da tanto poco partono poi le rovine...

 

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Bene Comandanti, ilnostro Secondo ha ben messo in evidenza le sue doti, tanto da meritarsi una discussione tutta per se!

personalmente la lascerei cosi com'è, con i nostri commenti se qualcuno pensa altrimenti... beh, si faccia avanti che ci ragioniamo!

 

per ora: Vai Luciano!

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Vi ringrazio tutti: il Dir per aver pensato ad un topic apposito, i fedeli lettori per il sostegno e l'attenzione :s55:

 

Tutti i binari portano a Termini

 

Data la censura di guerra, la notizia della completa distruzione del convoglio Duisburg non poteva trapelare né sui giornali né alla radio; loro stessi, i sopravvissuti, avevano la consegna di non parlarne; quindi nessuno fuorché i suoi compagni di sventura poteva aver avuto notizia di quel che era successo davvero la notte del Nove. I tarantini forse si sarebbero chiesti perché il caccia che portava la FL al mascone non fosse più rientrato: ma essi sapevano anche che spesso le navi venivano cambiate di base a seconda del caso, quindi nessuno, a parte la bassa forza ed i gallonati di Supermarina, poteva sapere con certezza che il Fulmine non era più. Secondo rifletteva sulla questione per decidersi se fosse o meno il caso di scrivere a casa per far sapere che era ancora in vita. Era praticamente impossibile che i suoi fossero venuti a sapere della sciagura; se gli avesse raccontato di quel che gli era successo – impossibile per lettera peraltro, data la censura – non avrebbero più avuto requie né gliene avrebbero lasciato. Era senz'altro meglio fare come se nulla fosse successo. Mà, sai, mi son fatto trasferire alla scuola alla Spezia. Sei contenta? No, basta navi. Il Fulmine? Non so, ormai sono sbarcato. Eh? Questa ferita? Una cosa da stupidi. Ho battuto la testa contro un baglio.

 

E se per qualche strana combinazione del caso lo avessero saputo lo stesso, che la sua nave aveva vissuto? Beh in tal caso gli sarebbe andato bene, il tenerli un po sulle spine. Si faceva un'idea vaga delle atroci angosce che i suoi dovevano sentire quando lui stava in Guerra: ma se l'erano cercate. L'avevano messo al mondo: e nulla avevano fatto perché quel mondo non finisse in Guerra. Due peccati gravi abbastanza per meritare la tortura dell'avere un soffio al cuore e sentire il baratro aprirsi ogni volta che qualcuno bussava civilmente alla porta di casa. No, non è il postino che vi porta il telegramma della Marina che vi annuncia la mia morte, tranquilli. Per fortuna sono abbastanza imperfetto da avere pieno diritto a restare in questo mondo, e c'è qualcosa che mi protegge e mi ci fa rimanere.

 

Scrivere dunque a chi? Non ai suoi. Ancora 27 ore di viaggio per mettere assieme una lettera.

A Lina? Era ormai da un pezzo che non le scriveva, dal 13 Ottobre l'ultima volta. Ma sì, che stesse un po anche lei sulle sue, non era mica il suo cane... Quando sarebbe tornato a vederla le avrebbe raccontato tutto a voce. Con calma.

Che diavolo, ora che lo scampato pericolo lo faceva guardare con meno dolcezza ai fatti della sua vita, non poteva non rendersi conto del fatto di aver lasciato, col monticello di lettere a Lina che aveva accumulato sin dai tempi in cui andò alla Scuola C.R.E.M. da allievo – erano comunque tre anni: non una vita, ma già una bella girandola di stagioni, con una media di una lettera al mese – una lunga scia lucida di bava, come le lumache. Ora basta.

 

Aldo? Vai a sapere dove sarebbe stato trasferito... magari era pure stato congedato... magari si era aggravato ed ora già dormiva sotto un metro di terra nera nella sua nebbia, in un campetto vicino a casa sua, da dove si vedevano il lago e le crode dietro quando faceva bello. E poi, scrivergli cosa? Se era ancora vivo, lo sapeva già che gli augurava una pronta guarigione – ma anche no: fosse rimasto invalido permanente, si sarebbe evitato di tornare a combattere - . Non c'era nulla di originale da dirgli, nulla che valesse la pena di leccare il francobollo, a meno che non volesse augurargli davvero di andare a farsi solleticare dalle radici del cipresso. Quel poco di affetto che lo legava a lui, gliel'aveva già dimostrato la notte del Nove fasciandogli la ferita e trascinandolo fino al battellino; su questo, non c'era bisogno di aggiungere parole.

Anche Giuà, che durante la battaglia era andato e rimasto fino alla fine alle ruote del timone per il governo manuale, non s'era più visto dopo Augusta. Ma con lui non aveva altra comunanza se non il dialetto, quindi neppure lui valeva la pena di cercare la sua destinazione e scrivergli delle insulsaggini sullo scampato pericolo eccetera. La violenza della battaglia, eccetera. Il mare che era rimasto salato come prima, l'Armata d'Africa che ancora combatteva malgrado i rifornimenti del convoglio Duisburg fossero stati sparati in cielo o mandati a fondo, insomma la somma inutilità di tutti quei dolori, fra i quali rimaneva vivo in special modo quel fuochista ustionato, dalla pelle gonfia rossa e deforme, che pareva sudare sangue, tratto di peso fuori dalla sala caldaie invasa dal fuoco e dal vapore. Eccetera. A chi raccontarlo? A che scopo?

Ma l'orrore poteva trovare l'ansa ombrosa di un fiume in cui giacere, invece di passare d'animo in animo fino a tornare nel mare mondo da cui era sorto? Lui teneva quell'orrore dentro. A nessuno ne aveva parlato né scritto. Il Sottotenente di Vascello Attilio non aveva saputo che i dettagli cinematici dell'azione, non della vista del collo di Tore malamente sezionato che perdeva vita sul grigio dei tubi lanciasiluri.

Certo a qualcuno doveva pur raccontarlo se non voleva finire per urlare anch'esso di dolore come i feriti che negli sprazzi del ricordo ancora agitavano nel buio lembi di materia insanguinata; carni o vestiti o parti di nave? La distruzione eliminava le frontiere ordinate fra la materia. Ma non avrebbe esorcizzato queste visioni assieme ad un altro reduce.

Per Giuà, la sua faccia larga ed il tradimento che gli aveva fatto di sembrargli dapprima suo sensibile simile e rivelarsi in seguito un concentrato di piattume, non aveva più simpatia, ma non gli voleva nemmeno male, proprio perché era un pesce lesso. Giacché anche gli uomini banali, malgrado quell'aria da ruminanti che pare proteggerli da ogni tempesta dell'animo, non sono dispensati da atroci ed elaborate sofferenze, non si sarebbe confessato a lui, per non affilare le grida che dovevano esser rimaste impresse anche nelle sue notti. Ecco, proprio in quei postumi imparava a vederlo con più benevolenza, sapendo che forse Giuà ancor più di lui ne soffriva, lui che poi aveva dovuto davvero sentire la nave morirgli fra le mani, con lo sforzo necessario a girare le ruote del timone che diventava sempre di meno, sempre di meno... E quello dietro di lui cadeva ucciso, e gli altri mollavano le ruote ora inutili e si mettevano a ridosso, eppure lui da solo poteva riuscire a governare... Pensare che alla stazione di governo manuale dovevano andare otto uomini, perché si doveva agire con pura forza bruta sul timone, col solo ausilio di una vite senza fine, ma alla fine, a nave ferma e senza più la pressione delle acque turbinanti sul timone, lui da solo poteva far girare le ruote, ed avrà guardato gli altri suoi compagni, quelli che le schegge non avevano ancora falciato, cercando di non mettere i piedi sul corpo caduto, di non scivolare sulla chiazza di sangue, chiedendo a tutti con lo sguardo: che ci faccio qui allora? Dunque è finita? Perché noi no e loro sì?

No, se ci fosse stata al mondo un po di giustizia un semplice come Giuà non avrebbe dovuto sentire il graffio rabbioso della morte sfiorarlo. Era ingiusto, era un'altra inutile crudeltà del caso, una sevizia gratuita. Quello era come Tore: un babbeo, o quantomeno fingeva di esserlo, ma a differenza del piccolo catanese non aveva quella carica inesauribile d'ottimismo vero o presunto, né la sua maldestra buona volontà: Giuà vegetava, parlava poco e a bassa voce, dove lo mettevi stava, quel che gli dicevi di fare faceva e nulla più, certo più per timore delle punizioni che per sincero senso del dovere che senz'altro possedeva in scarsa misura. Ma non aveva mai fatto del male ad una mosca, ed amava la sua donnetta d'un amore tanto più vero di molti altri in quanto lei era scipita ed i sentimenti di lui elementari ed intensi. Un buon diavolo senza peccato, a ripensarci gli voleva bene.

Ed ora anche nella sua mente, anche nelle sue notti i gabbiani sopra un mare lucido ed immenso s'avventavano miagolando oscenamente sui cadaveri ancora a galla dopo la battaglia, e la grande FL vermiglia ancora intatta veniva illuminata dai globi luminosi dei mostri abissali.

Ebbene sì, Giuà, anche tu. E a te, che a queste visioni non ci sei abituato, ti farà ancor più male. Sconti così l'aver galleggiato placidamente sulla vita fino alla notte del Nove. Anche tu dovevi conoscere di cosa fosse fatto il mondo.

Il treno intanto continuava la sua corsa in un mattino ventoso e senza sole.

Il vagone era praticamente vuoto, ed accogliente, tiepido e pulito; Secondo si sentiva a suo agio, preso ora da una contentezza indefinibile si alzò e se ne andò nel corridoio, aprendo un finestrino per affacciarsi; ma, quando il treno arrivò a passare sopra un grande fiume, una folata d'aria formidabile minacciò di scaraventarlo a terra, facendogli sentire un'orrida sensazione di vuoto dietro di sé. Il cielo s'era aperto ed una striscia di luce rischiarava le acque e, in fondo, il mare. Il vento fortissimo faceva fumare la superficie del fiume... quando n'apparve una montagna, bruna

per la distanza, e parvemi alta tanto

quanto veduta non avea alcuna. Sul mare, una sagoma opaca...

Chiuso a fatica il finestrino, con l'aria che ruggiva cercando come di sfondare i vetri e di rallentare la corsa del treno – ed effettivamente il convoglio stava rallentando, ma sotto l'azione dei suoi propri freni – Secondo sgranò gli occhi e cercò di guardare meglio. Doveva essere un'isola, ma sembrava una montagna, con pinnacoli innevati e torrioni calcarei ed alberi scarni sulle pendici. Un pennacchio bianco, cristalli di ghiaccio strappati al versante esposto alla bufera, la coronava, ed ai suoi piedi si frangeva l'onda lunga contro le falesie.

Invece era una nave da battaglia. Ora che gli occhi erano guariti dallo schiaffo della folata, vedeva garrire la sua grande bandiera; le guglie di roccia ridiventavano torrioni e fumaioli, le striature di neve i paragambe di tela, gli alberi sbilenchi una selva di cannoni, la falesia la murata che parava l'assalto delle ondate, la nuvola leggera fumo di caldaie. Essa era ferma, forse all'àncora, era il mare di quel giorno burrascoso ad andarle incontro, ma sarebbe certo salpata di lì a poco, glielo diceva un'impressione. Quel triangolo cupo sull'orizzonte lo attirava magneticamente. Senza sapere perché, sentiva che quella era la figura del suo destino.

Intanto, sotto, il fiume ribolliva e lottava contro un Oceano d'aria in corsa, facendosi strappare brandelli d'acqua; il cielo andava schiarendosi ma le nubi erano anch'esse straziate, volavano basse e veloci perdendo frattaglie di vapore nero. Gli alberi sugli argini si piegavano, perdevano foglie e rami. I campi color rame attorno erano come appiattiti. Tornava a chiudersi l'orizzonte.

Quindi il treno, con grande lentezza, entrava in una città senza colori, dove il binario stava intrappolato fra due alte rive di caseggiati dalle finestre debolmente illuminate che lo serravano come se volessero fagocitarlo; nelle vie strette perpendicolari, che il convoglio sorvolava su ponti, il vento ululava e spazzava fogli, polvere, detriti. Non c'era un'anima in giro.

La luce veniva meno. Infine la vista si allargò ad una faraonica galleria di vetri affumicati dal carbone, una stazione, in cui era come notte, si passava in rassegna un plotone di lampade. Con l'ultimo lamento dei freni il treno si arrestò; Secondo non aveva visto il cartello col nome della città, ma sapeva di essere arrivato, e prese su il saccone nuovo.

Aprì con cautela la porta, di vento però ce n'era poco là sotto, solo qualche raffica poco molesta ed un rumore... più di caverna sottomarina che di grande stazione: certo il fragore dell'aria sulla cresta di vetro ed acciaio, in alto. Saltò giù sulla banchina, poca gente attendeva non si sapeva cosa. Passò accanto ad un drappello di donne mestamente vestite che stava sotto il cono luminoso d'un lampione. Fra di queste c'era pure Lei.

Si arrestò come folgorato da una fucilata. Lei, nell'acme della sua bellezza, che a capelli sciolti portava una veste viola mentre le sue simili erano rigorosamente in nero, gli voltava le spalle. Voleva dire qualcosa, salutare, fare un cenno cretino di gioia: si ritrovò la gola in ammutinamento, afono, le braccia di gesso. Ma anche Lei doveva aver percepito la sua presenza, perché si voltò, però guardando lontano, non lui. Il suo profilo gli lasciò vedere un occhio socchiuso, distante, che coglieva luci di dimensioni altre che la sua. La coda dello sguardo di lei si fissò su di lui, che capì che era inutile salutare, chiedere, parlare. Le parlava col pensiero e con lo stesso suo sguardo che fissava stancamente altrove. Ma dove vai? Che ci fai qui? Il treno è al capolinea, non sai? Ah sì, ripartirà fra poco. Però dove vai? Ah già, da dove son venuto io. No, non andare. Ascoltami, non andare. Non è giorno da mettersi in viaggio.

Ma il nero della coda del suo occhio, le mani tese delle sue ciglia gli dicevano che non poteva non partire. Lui d'altronde era in ritardo, qualcosa lo richiamava fuori di là, per la città urlante e deserta e poi per quel mare...

Non si sarebbero mai più rivisti. Lui, non potendo fare altro, scosse le spalle e partì, prima che la Medusa finisse di pietrificarlo.

La sua strada, dal ventre nero dell'atrio di quella stazione, scendeva fino al mare. E laggiù, su una porzione di orizzonte fra due schiere di cemento, un cielo di piombo e l'asfalto, un raggio di sole illuminava il triangolo della sua Nave, gran pavese a riva ed un color d'argento. Ora il vento lo spingeva: eppure, sentiva un vuoto dietro di sé. Voleva voltarsi, come se avesse dimenticato o non detto qualcosa. E non poteva: una necessità lo muoveva, la stessa che portava Lei a partire; lui, la sua Nave lo attendeva, che già le ondate tentavano l'attacco finale alle murate ed il nemico stava all'agguato là fuori, nel gran mondo feroce.

Un treno, nella stazione alle sue spalle, partì emettendo un lunghissimo strido. Addio dunque.

 

-Wagliò!! Roma Termini, sisscende tutti, è il capolinea!!

 

La voce pastosa del capotreno e la sua manaccia grande come una pala, scuotendo la spalla e l'udito di Secondo, lo riportarono fra i vivi.

-Eh? Ah... Termini, eh? Grazie...

 

Secondo scese dal vagone nell'alba sotto la pensilina in cui vagavano raffichette d'aria gelida che zigzagavano fra i pilastri in attesa della buona occasione per pugnalare i viaggiatori. Ma lui si sentiva, fra il drenaggio d'energie causatogli dal viaggio e l'eco ancora intensa della visione, già dissanguato. Si avviò verso l'atrio immenso, per cercare la sua coincidenza e la salvezza in una tazzina di caffè.

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Lili Marleen non aspetta te

 

Uscire da solo per scopi ricreativi gli era sempre stato al limite dell'insopportabile, ma Secondo avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non rimanere a bighellonare al buio nel cortile della San Bartolomeo a dar calci ai sassolini con le mani in tasca. Così, forte dei suoi galloni da Sergente, dato che gli avevano inflitto subito la libera uscita decise che sarebbe andato anche lui per osterie, come la gran massa della gioventù in armi che orbitava attorno alle grandi caserme. Forse le reclute vedendolo arrivare da solo con i gradi l'avrebbero preso per sbirro, ma almeno nessuno avrebbe attaccato briga o bottone con lui. Non aveva neppure voglia, d'altronde, di fare conoscenze affrettate giusto per riempire i vuoti. Per quel giorno, conoscendo il superiore a cui doveva rispondere, l'ufficiale direttore della sezione siluristi della Scuola, ne aveva avuto abbastanza.

Non un tipo malvagio: ma certo un po fuori dalla scala gerarchica e dalle categorie che i gradi portavano con sé, sembrava più un imprenditore che un ufficiale. Lo sguardo sfuggente a cercare le ombre che svicolavano, il naso mobile come se fiutasse pericoli ed opportunità, gli aveva dedicato solo pochi istanti.

-Sei quello nuovo? Già qui? Bene, ho letto la tua cartella, almeno ora avrò qualcuno che sa il mestiere vero. Ma il difficile è il materiale: ad insegnare quelle quattro minchiate sulla pressione e i giroscopi sarebbe buono anche mio nonno, io voglio che tu mi metta un po di vita in queste salme. Sono tutti forzati questi, non hanno voglia di fare niente. Me li devi caricare, te. Ricevuto? Vai ora, per sistemarti chiedi al piantone, a Luigi.

 

Non un tipo malvagio: quella sua sbrigatività con cui l'aveva istruito sui suoi doveri e quindi congedato forse l'aveva ferito, lasciandolo con un senso di non finito, e come se lui non valesse che quarantacinque secondi d'attenzione. Aveva già dimenticato che gli ufficiali sono un'altra categoria d'uomini. Ma nelle consegne ricevute sentiva l'umanità del tipo: questo lo confortava e, negli effetti, era davvero riuscito a convincerlo a fare un buon lavoro.

Cercò un locale molto frequentato dove, nella moltitudine, avrebbe avuto meno possibilità di farsi notare. Non aveva proprio voglia di servire da spalla su cui piangere al solito marò avvinazzato che annegava i propri dispiaceri. Un assembramento di solini che si prolungava persino sul marciapiede fuori della porta chiusa gli disse che quello era il posto giusto; entrò, dentro c'era poca luce azzurra: anche se i vetri erano oscurati a dovere, il padrone non voleva grane e teneva bassa l'illuminazione. In penombra c'era fumo di farinata e d'aliti pesanti, si fece largo nella calca senza chiedere permesso a nessuno, raggiunse il bancone e porse una presa di spiccioli all'oste ordinando un quartino di bianco. Bere, fissando la brocca e il bicchiere, sentire le parole vuote e vane attorno a sé: era pur sempre un modo non illecito di passare il tempo, e ne sarebbe uscito con quella lieve ebbrezza che tanto spesso cercava, i soli momenti davvero felici a cui poteva accedere, non l'ubriacatura completa che si procuravano le altre bestie, a rischio di farsi punire severamente, ma il principio di capogiro, quando si è ancora coscienti ma la coscienza di fatto non c'è, tutto sembra più facile, leggero, vedi quella ragazza? Ora vado e le dico una parola gentile, magari ci sta.

Era divertente anche captare le parole, così vuote, ma così vuote, volare in mezzo al baccano. Richiami animali, soprannomi di compagni e nomignoli esotici di ragazze più o meno vereconde, le solite geremiadi sul regolamento di disciplina, questo o quell'ufficialotto che rompeva, che aveva letto uno straccione di vita per una belinata, e soprattutto moltissime bestemmie d'ordinanza – di quelle che, senza, il discorso non scorrerebbe – ed anche qualcuna mistica, più sentita. Ne arrivavano a scrosci da un tavolo dove si giocava a carte, evidentemente a soldi veri.

Ma non era forse quel parolaio vano, con la grande virtù d'essere effimero, più vero di molti altri che, per la cura con cui erano stati pensati e composti, erano sopravvissuti millenni? Quel muggito punteggiato di sacrilegi in fondo diceva la stessa cosa di qualsiasi carme: la vita, la vita! E quella era vita vera di gente che ci dava dentro senza far questioni. In qualsiasi osteria del mondo in quello stesso momento, a parte le italianissime bestemmie, si stavano certo dicendo le stesse identiche cose, seppur in lingue diverse il succo vitale non cambiava. Ecco forse il vero motivo per il quale, inconsciamente, aveva cercato l'immersione in quel bestiame. Bestiame... come se lui fosse la crema poi, se lo ripeteva ogni qualvolta gli venivano istinti snobistici. Una radio messa in un angolo su un tavolino basso gracidava, in competizione vana col baccano. Un marinaio vi restava di guardia, ad ascoltare cosa passasse per l'etere. La sua voce potente, che non si sospettava davvero in quel corpicino, alle ventuno e cinquantotto si impose sulle onde disordinate:

-Fijoï! Żiti tüti ch'à l'è l'oua!!!

 

Seppur col doveroso ausilio di molti sibili e di qualche insulto smozzicato, il silenzio fu presto ottenuto, giusto in tempo per sentire alla radio una tromba querula attaccare un ben conosciuto motivetto.

-È Lillì Marlene!

 

Vor der Kaserne,

Vor dem großen Tor,

Stand eine Laterne

Und steht sie noch davor.

So wollen wir uns da wiedersehen,

Bei der Laterne wollen wir stehen,

Wie einst, Lili Marleen.

 

Si urlavano insulti e bestemmie ed ogni genere di bassezze in quel locale come in altri: ma quando alle ventuno e cinquantanove Radio Belgrado chiudeva le trasmissioni mandando in onda Lili Marleen, tutti zitti, e giù il cappello. Perché si è pur sempre uomini, anche se si va all'osteria per ritornare ad essere bestie, e si asciuga la bava delle grasse risate in onore delle virtù di tale baldracca sulla manica blu senza fregi. E quando una voce del genere canta da Belgrado, passa sopra i Balcani oscuri ed ondeggiando arriva fino alla luna ed oltre, salvo farsi captare da un'antennina di una vecchia “R.A.M.” relegata nell'angolo d'un locale di città vecchia, tutti si fermano per quanto bestie siano, ed ascoltano, in silenzio e con uno sguardo sempre luminoso.

 

Unsere beiden Schatten

Sahen wie einer aus,

Dass wir so lieb uns hatten,

Dass sah man gleich daraus.

Und alle Leute sollen es sehen,

Wenn wir bei der Laterne stehen,

Wie einst, Lili Marleen.

 

Era come quando al crepuscolo, sulle navi, veniva recitata la Preghiera del Marinaio; era una preghiera più intima, sincera e forse più gradita, che faceva piacere sentirla non perché era la tradizione ma per il regolamento interno di ogni uomo, il più tirannico di tutti eppure il meno contestato: giù il cappello quindi, e si ascolta zitti Lili Marleen – tutti credevano fosse lei in persona a cantare, non sapevano che chi cantava si chiamava Lale Andersen – anche se nelle parole non ci si capisce niente di niente, cantasse in arabo sarebbe lo stesso. Perché quella tromba fa capire che di guerra si tratta, e se canta una donna c'è amore, se c'è una rima una poesia. L'essenziale lo si è colto. Guerra, donna e amore uguale lontananza, nostalgia. Ognuno quindi traduceva a modo suo quelle parole, e le strofe sconosciute a tutti, a tutti parlavano di persona.

 

Schon rief der Posten:

Sie blasen Zapfenstreich,

Es kann drei Tage kosten!

Kamerad, ich komm' ja gleich.

Da sagten wir Auf wiedersehen.

Wie gerne wollt' ich mit dir gehen,

Mit dir, Lili Marleen!

 

Durante quei tre minuti, Lili Marleen diventava la voce di tutte le fidanzate d'Europa. Nessuno tentava di tradurre, andava benissimo così. Nessuno lì lo sapeva, ma anche i soldati inglesi, quei tagliagole, a quell'ora si riunivano attorno alle radio, anche in mezzo al deserto, per ascoltare quella voce che era tedesca, ma nemica solo nell'apparenza, la più riuscita guerra lampo che sfondava tutte le barricate ideologiche e le indifferenze per andare a toccare qualcosa di profondo in ognuno.

 

Deine Schritte kennt sie,

Deinen schönen Gang.

Alle Abend brennt sie,

Da mich vergaß sie lang.

Und sollte mir ein Leid geschehen,

Wer wird bei der Laterne stehen,

Mit dir, Lili Marleen!

 

Secondo fingeva di non ascoltare. Amori e lontananze non avevano corso nel suo sistema, erano elementi sovversivi da sopprimere. Di sicuro la bella Lili, biondona tedesca folgorante di salute ed amore, eppure tanto tenera di voce nella sua vita straripante, non cantava per quelli come lui. Il soldato partito lontano al fronte in Russia, Norvegia od Africa che faceva struggere Lili non era certo basso, nero e cattivo. Oh no, no di certo. Sarà stato di certo un biondo di due metri e dieci, ufficiale pilota della Luftwaffe, un colonnello della Wehrmacht, un granatiere delle SS, uno dei campioni della nuova umanità che s'andava forgiando nella fucina infiammata della lotta fra tutte le nazioni del pianeta. Quindi a lui quella voce tenue che veniva di là dei Balcani non diceva proprio nulla. Gli dava quasi fastidio anzi, dato che ogni volta gli ricordava che l'amore esisteva, imperava nel mondo e lui non l'aveva. Una beffa, come ogni canzone d'amore che sentiva. Eppure...

 

Aus dem stillen Raume,

Aus der Erde Grund,

Hebt mich wie im Träume

Dein verliebter Mund.

Wenn sich die späten Nebel drehen,

Werde dich bei der Laterne stehen

Wie eins, Lili Marleen!

Quando arrivava l'ultima strofa e la voce di Lili/Lale diventava ancora più dolce, anche lui in fondo si fermava ad ascoltare senza capire. Riusciva a cogliere le parole nebel e laterne, ce n'era abbastanza. E allora Lili diventava per lui Lina che in quella sua città, fuori dalla caserma della Cernaia, il fiume nero della Crimea, attendeva l'amore nella nebbia corrosiva e luminosa. No, l'amore diceva, non lui. Lui si sarebbe limitato a guardarne il profilo sfuocato sotto il lampione – sempre sti lampioni a mezzo... - . Forse, per qualche altra strada più nebbiosa e meno illuminata, ad un angolo d'un portico di fine ottocento, una piccola figura scura aspettava lui. Era destino: per quanto vuoto il suo mare era e sarebbe stato, prima o poi una naufraga, vittima della stessa tempesta che aveva disalberato lui, l'avrebbe trovata sul suo cammino. Si conosceva e sapeva che per pietà l'avrebbe soccorsa. Per sola pietà, così come lei si sarebbe aggrappata a lui per sola disperazione. Non per amore. Lei avrebbe avuto tutte le doti fuorché la bellezza. Lui... se in vent'anni nessuna s'era innamorata di lui, pur avendolo conosciuto in tante, non sarebbe certo successo nei vent'anni a venire. Se non era successo nell'epoca in cui la tempesta prendeva tutti e tutti vivevano solo per essa, non sarebbe successo certo quando le brezze fredde e costanti della vita oltre venivano a calmare le acque e i desiderî di cacciarsi in altre burrasche. Non sarebbe stato amore. Forse lei per lui, se avesse avuto fortuna, ma certo non viceversa. Assieme avrebbero messo al mondo altri infelici, con la pelle unta di lui e le fattezze disarmoniche di lei, destinati a subire la stessa tempesta, a venirne quasi uccisi, a trovare un relitto loro pari sulla loro incerta rotta. E così via, nell'eterna infrangibile suddivisione fra caste che il peggiore dei totalitarismi, l'amore, a confronto del quale il fascismo era libertà totale, aveva decretato suddividesse gli umani in ricchi d'amore e poveri d'amore. Quello era là, nella luce soffusa del lampione, nell'ultimo abbraccio alle undici meno cinque, ma non all'angolo del portico di fine ottocento. Se quella piccola creatura dell'ombra avesse poi anche tremato d'amore per lui, lui non avrebbe potuto che sentire per lei della commiserazione. L'amore di lui se lo portava via Lina del lampione. E la nebbia che gli nascondeva l'amore che lei sentiva per un altro. Così da Belgrado arrivava in lingua nordica la profezia di solitudine subito prima del silenzio delle trasmissioni.

Dopo, la gente riprendeva le occupazioni precedenti, nel poco tempo che restava prima della chiusura. Però non si urlava più, la voce della bella era giunta a placare il branco di lupi, ne restava un vociare garbato ed anche le facce erano cambiate. Ma tanto, a che serve questo rispetto? Lili Marleen non canta per me. E nemmeno per voi.

 

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Quella del vociare garbato dei lupi devo trovare il modo di rivendermela.

 

Vi lascio libertà di saccheggio :s01:

 

Alzabandiera!

 

Cerimonia dell'alzabandiera nel piazzale della caserma. Tutti sono intabarrati nei cappotti per l'aggressività delle ultime ore di un'alba di fine Dicembre, eppure non sono goffi ed insaccati. Sarà che stanno tutti allineati e, anche se han comandato il riposo, nessuno osa aprirsi più di tanto: le braccia irrigidite lungo i fianchi sgonfiano il tessuto di troppo. Nuvolette di fiato stanno salendo dalle file schierate. C'è ombra nel cortile, un'ombra umida e spessa che è l'ultimo rifugio della notte, ma già in alto, sul rettangolo di cielo aperto a tutto, si annuncia una giornata radiosa, magari con un filo di vento data la forma strascicata delle poche scie di cristalli di ghiaccio che volano lassù. Un giovane ufficiale, di solito un Guardiamarina, è incaricato di portare la bandiera al picco: lo fa avanzando passo-passo, portando per rispetto il salsicciotto di tessuto arrotolato sulle braccia come si porterebbe un cadavere. Tutto questo è fissato dal cerimoniale, ma una cosa riesce sempre diversa: quando il marinaio al picco deve assicurare la bandiera alla drizza coi gancetti, le sue mani non possono seguire esattamente gli stessi movimenti ogni volta. Indi la drizza è assicurata: il Capitano, che sente il microscopico rumore del gancetto di bronzo che va a posto, ordina “Alzabandiera!”

Nell'aria rarefatta dal freddo, nel grande antro del cortile, questo comando mai urlato se ne va lasciando uno strascico dell'ultima vocale come la sirena antiaerea, che si spegne pian piano. Ma appena il marinaio comincia a tirare con lentezza infinita sulla drizza, la tromba attacca e la sua prima nota viene coperta dallo scroscio dell'attenti. A mano a mano dalle braccia del Guardiamarina atterrito il salsicciotto colorato si solleva a triangolo e comincia a mostrare la propria vera natura di bandiera. Tutti i coinvolti nella manovra hanno il terrore di fare qualche movimento che non piaccia agli dei; il Guardiamarina non deve muovere nulla, ma al tempo stesso vegliare che la bandiera non vada a toccare in terra; il più sotto tensione è il marinaio alla drizza, che deve tirare la cordicella ad una velocità ben precisa e molto bassa, per dare il tempo al trombettiere di suonare tutto il suo pezzo: così fissa in concentrazione estrema il palo davanti a sé, calcolando i gesti ed accordandoli alla musica. Gli ufficiali presenti sul podio stanno in sorveglianza ma qualcuno talvolta sembra quasi umano: guardando bene negli occhi giusti – Secondo ci riesce perché schierato nel gruppo dei sottufficiali, che è quello più vicino al podio – si può persino notare del sonno, della commozione, dell'orgoglio.

Prima si dipana il verde, che cambia colore ogni stagione, d'Inverno appare blu; indi comincia a sorgere il bianco con quella roba in mezzo, con lo scudo e la corona. Lo scudo è sabaudo e, quasi a ricordare a tutti chi è che ha sempre comandato davvero, porta una croce. Ultimo tramonta il rosso. Il colore più facile da dare e mantenere, presente su quasi tutti i vessilli: quando sbiadisce, è facile rinfrescarlo.

La sommità del picco è già immersa nel sole; lassù c'è anche un filo d'aria e la bandiera, che era salita a singulti appesa alla drizza, si rianima quando arriva a segno. Gli sguardi l'hanno seguita per tutta la sua lenta, strascicata progressione. Il trombettiere tace, il Comandante, se non ha nulla da dire e dopo aver atteso qualche istante, per non dare l'impressione di voler affrettare la cerimonia, ordina il “Rompete le righe!”

Secondo, come tutti gli altri, saprebbe esattamente cosa deve fare per la giornata, è il bello della vita di caserma che non lascia spazio ad incertezze sull'impiego del tempo, quelle incertezze in cui vanno ad attenderci le negatività per assalirci. Così almeno credeva quando nell'Estate del '38 partì volontario per frequentare da allievo quella stessa Scuola, per scoprire poi che sì, in buona sostanza la vita militare lo proteggeva da sé stesso, ma bastava molto, molto meno di un'ora di ozio perché quelle incertezze lo assalissero. Bastava l'attesa di cinque minuti prima della lezione, bastava il percorso dalle camerate al piazzale, bastava ampiamente l'ora di riposo, o tutto il tempo che i pensieri rubavano al sonno, dopo che era stato suonato il “silenzio”. L'inconscio di ubbidire al “silenzio” non ne voleva sapere.

Ed ora aveva passato un anno di apprendistato, due anni di servizio imbarcato, dei quali un anno e mezzo di missioni su acque di guerra, un naufragio, la morte di persone a cui malgrado tutto teneva. Avrebbe dovuto sentirsi finalmente secco di sentimenti, dopo questo lungo martellamento. Sperava di finire come quelle persone che le grandi catastrofi, dopo aver estratto da loro fino all'ultima goccia di dolore, lasciano come vuote ed incapaci di gioire come di soffrire. Giacché la malerba dei sentimenti ricresce sempre, non importa quanto a fondo sia andata la roncola con cui ci siamo accaniti su di lei, quanto gravi e profonde le ferite sul fusto da cui la linfa scorre via veloce e copiosa: ma le grandi bufere della vita possono forse sradicarla definitivamente, e farla seccare. Dovendo proprio vivere, almeno uscire finalmente dal bilancio del dare ed avere di bene e di male, mai arrivato nel miglior dei casi a quarantanove contro cinquantuno.

La scorsa Guerra, la Grande Guerra, ne aveva lasciate di persone così: ricordava la vecchia signora Gianna, che veniva ogni tanto in bottega a far compere da pochi spiccioli, o mandava a far commissioni; si diceva fosse fuggita dal suo paese distrutto in Veneto, e che la Guerra le avesse anche portato via tutta la famiglia. A lui da bambino gli faceva paura: e quando chiese a sua madre come mai quella signora fosse sempre così taciturna, dimessa – non cattiva né trascurata, ma con un perenne senso di secchezza, come un ceppo d'albero esasperato da un Inverno infinito - , lei gliene aveva parlato a bassa voce e con mezze parole, come se non stesse bene far conoscere a un bambino quanto male poteva circolare nel mondo; perlomeno non aveva fatto come molti, che inventano pietose bugie.

Ma aveva visto bene? Ricordava anche che un giorno, vincendo la sua paura di quelle orbite spente con la paura più grande degli scapaccioni di suo padre se non avesse fatto la commissione, era andato a recapitarle una pezza di stoffa a casa, e quella gli aveva dato una carezza affettuosa e qualche soldino per le ciappellette. Era stato per gentilezza? Per affetto per quel bimbetto così educato? Il piccolo Secondo, quando faceva le commissioni per suo padre, filava dritto come un soldatino: si saluta educatamente, gli aveva detto, poi si sta lì finché non ti hanno dato i soldi, dai il buongiorno e te ne vai, e dì esattamente il prezzo che ti dico io, guai a te – guai, mi senti? - se ci aggiungi qualche centesimo. La mancia se te la danno bene, sennò non si chiede, e se non te la danno non guardare storto. Non chiedere nulla, non si mendica. E non fare la faccia da morto di fame per farti dare qualche dolcetto. Dritto con la schiena e non fare l'invadente.

Subito a quella carezza e quei quattro spiccioli non ci aveva dato molto peso, era troppo ingenuo per ragionare, aveva solo imparato a guardare quella figura grigia senza timore; quando però aveva cominciato a pensare all'apatia, subito l'esempio di quella donna che pareva priva di ogni sentimento, spenta alla vita, e che invece poteva conservare un briciolo di qualcosa nel suo animo, veniva a dimostrargli che il vivere sopra i pensieri era solo un mito dell'antichità. Lei se la cavava facendo lavoretti, da centrini e ricami elaborati fino a rammendare calzini, e di tanto in tanto mandava a comprare da loro quelle poche semplici cose che le servivano al mestiere. E a forza di recapitarle rocchetti di filo, aghi, pezze di tessuti, lei l'aveva visto crescere ed ogni tanto si arrischiava persino a scambiare con lui qualche parola. Pareva vecchissima, non doveva avere invece che cinquant'anni. I suoi ricami multicolori andavano ad adornare i vestiti da festa delle più belle ragazze della città, e quelle non erano solo opere da macchina che agisce senza pensare, era lei a crearle, conservava quindi dell'arte nascosta, non solo dell'affetto che raramente affiorava. Erano fiori inesistenti e fantastici i cui steli si intrecciavano in greche spinose, erano astri, corpi celesti, strani simboli noti solo a lei e a pochi altri iniziati, persino paesaggi, e tutto questo accompagnava a meraviglia i tratti delle belle fatti per ispirare beatitudine e tragedia – non a caso il lavoro non le mancava mai e riusciva a viverci degnamente - . Una donna che creava in tal modo non poteva non avere ancora ben vivi dentro sé, nel profondo, fosse anche nel fondo del fondo del nulla che la Guerra e le sofferenze le avevano scavato dentro, i ricordi di altre mattine soleggiate, di campagne verdissime, di canti e di amori. Neppure lei, quindi, conosceva l'apatia.

Ne ebbe conferma il giorno che finalmente lei gli confessò come mai per lui riuscisse ad avere quel po d'affetto che le faceva elargire sempre la mancia e, cosa riservata solo a lui e a qualche altro che più di lui le era vicino, un sorriso. Mesto, sì, amaro, e fatto con lo sguardo basso: ma pur sempre un sorriso. Era l'epoca in cui Lina era appena arrivata in città, piombandogli fra capo e collo nel suo cortile, a mostrargli che cos'era la donna e cosa l'amore; e fra quello e il Ginnasio che, per la distrazione causatagli dall'amore, non andava proprio a gonfie vele, si sentiva svagato e sperduto, perennemente carico di una collera senza oggetto e sempre pronta ad esplodere, in ribellione aperta contro la propria vita che per la prima volta gli appariva, in virtù di queste grandi seccature della scuola e dell'amore, crudele ed insensata. Non si apprezzava più, diventava verbalmente violento e spaccone, avrebbe fatto qualsiasi bravata per spregio alla propria inesistenza. Alla G.I.L. seppure non avesse ancora manifestato apertamente la sua insofferenza cominciava a passare per testa calda, ma in senso negativo, ed i superiori lo tenevano d'occhio. Italo lo prendeva in simpatia proprio per quella sua nuova ribellione – credeva che finalmente anche lui stesse diventando uomo - e nel contempo badava che non facesse delle stupidaggini.

Poi un pomeriggio doveva portare alla signora Gianna un rocchetto di filo rosso porpora che lei gli aveva chiesto. Non gli faceva più ordini da un paio di mesi ormai. Vedendolo apparire sull'ultima rampa delle scale lei gli disse:

-Eh ma stai crescendo a vista d'occhio! Sei più alto di un palmo dell'ultima volta!

A Secondo questa parve la solita osservazione banale da vecchia zia rincitrullita. Gli davano sui nervi quelle frasi, fatte solo per generica voglia di far piacere a qualcuno sembravano un concentrato di vacuità che contrastava col suo principio che le persone intelligenti, se non hanno qualcosa di intelligente da dire, è meglio tacciano. Annuì senza darle corda, ma intanto vedeva sul suo volto una nota aggiuntiva ed indefinita fra felicità e dolore.

Lei prese il rocchetto e quindi i soldi dal portamonete con la mano un po' tremante. Indi si lasciò scappare una frase che mai fino ad allora aveva avuto il coraggio di dire:

-Sai, mi ricordi tanto il mio Carletto! Aveva lo stesso tuo sguardo!

Lì Secondo ci restò. Lei gli prese la mano e ci ficcò dentro gli spiccioli.

-Ero venuta qui per dimenticare... ma tutto mi ricorda lo stesso quello che la guerra mi ha portato via...

Lui doveva aver preso un'espressione penosa, quindi lei si corresse subito:

-Oh no, non per colpa tua... Anzi, mi fa tanto piacere vederti!

Di lì in poi tornarono a conversare del più e del meno. Secondo le era grato per avergli fatto quella rivelazione che doveva far parte dei suoi segreti, ma al tempo stesso si sentiva, sotto sotto, turbato, per una miriade di implicazioni che quelle semplici frasi si tiravano dietro. L'effetto più benefico fu che rifece pace con la sua vita, anche se la tregua non doveva durare a lungo.

Ma dunque neppure lei riusciva a disfarsi di sentimenti e ricordi, ora lo sapeva per certo. Lei provava affetto, si ricordava dello sguardo dei propri cari, e certo i suoi ricami erano ispirati quanto il suo riserbo. Era il bisogno di sentirsi ancora segreta ispiratrice di gioia ed amore, che cantava tessendo su gonne, veli e corsetti le ricchezze di un mondo mai esistito, perché le belle fossero ancora più belle; come il poeta deforme che scrive veri versi d'amore che amanti più belli di lui useranno per perpetrare il gioco da cui lui è escluso; ma, ispirando amore, è come se in quel gioco ci entrasse lo stesso, e da demiurgo, da supremo padrone. Era forse un rispetto per gli affetti perduti, per la cara ed amara memoria, che le faceva mantenere quel silenzio sulla vita passata. Nulla a che vedere con la ricerca del silenzio interiore.

Ma appunto, lei non l'aveva cercato: quasi certamente aveva anzi lottato perché l'albero dei suoi sentimenti, troncato di netto da una granata, rifiorisse. Lui voleva fare e già stava facendo l'opposto: abbandonarsi alla corrente ghiacciata che lo investiva e che avrebbe distrutto il suo albero, accanircisi contro se fosse stato necessario, ed uscire dalla Guerra – se il caso avrebbe voluto che lui ne uscisse – purificato ed univoco.

Se proprio era dovere il vivere, uscire dalla truffa del bene e del male era doveroso, e la Guerra era venuta a dargliene l'occasione, così come a tutti i forti dava l'occasione di manifestarsi per quel che erano ed elevarsi sulla piattezza civile. Anche Lina era un'occasione: era l'amare fortemente e a vuoto, il sublime esperimento, il percorso di fede che avrebbe preso tutto il suo amore per dissiparlo, di modo che non avesse mai più a soffrire per una cosa tanto piccola ed insignificante come la perpetuazione della specie. La sua uniforme coi galloni da Sergente era il sigillo della sua incrollabile volontà – tale almeno la percepiva quando si sentiva nel pieno delle forze - . Sì, di giorno quand'era in uniforme si sentiva quasi uomo vero perché riusciva, se lo voleva, a non sentire nulla, a non pensare nulla: era da quand'era imbarcato che aveva sviluppato questa facoltà, forse per difendersi dalle eterne ore di guardia, con la sola compagnia dell'assenza di terra in vista, del mare che sotto di loro attendeva il momento buono per inghiottirli. Era quindi di notte che il suo nemico l'assaliva a tradimento, facendogli sognare cose che non voleva e che portavano sventura. Avrebbe sempre ricordato, da allora in poi, il raffinato seppur breve sogno che aveva fatto la notte precedente a quella del Nove. E pure quella notte aveva fatto uno stupido e meraviglioso sogno. Ma ora non c'era tempo per ripensarci: era l'ora della prima lezione.

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Grazie Sandro :s55:

 

Lectio magistralis

 

Una porta grigia chiusa, dalla quale provenivano schizzi di brusio allegro: questo l'ostacolo da superare per il momento. Secondo non ci si sentiva poi specialmente tagliato per fare l'insegnante, ma quella era la consegna e non vi avrebbe trasgredito. Aveva preparato con grande cura le lezioni. Aprì pensando forse qualcosa del genere “Costi quel che costi!” e si trovò in una grande sala piena di gioventù coi solini puliti ed il camisaccio a posto, che faceva capannello sui banchi. Subito scese il silenzio e gli allievi tornarono a posto, si udiva solo il raschio delle sedie: senza rendersene conto, Secondo aveva preso un'espressione foriera di rabbia, anche se lui pensava semplicemente di essere concentrato. E comunque fosse, i suoi galloni rossi sulla manica, la riga di nastrini sul petto, la medaglia al valore, a quella marmaglia già mezza istruita alla disciplina militare, incutevano il rispetto che il suo aspetto dimesso non poteva assicurargli.

-Signori buongiorno...

Aveva deciso che avrebbe salutato così: ma che Signori? Il più vecchio doveva avere diciassette anni! Non s'era accorto dell'estrema giovinezza dei frequentatori del suo corso, prima, perché non aveva saputo distinguerli dalla massa degli istruendi e perché il cappotto invernale invecchia. In realtà, non lo sapeva, erano già quasi tutti maggiorenni. Secondo raggiunse la sua cattedra, ma non si sedette e vagò con lo sguardo sui suoi allievi. Si ricordò infine di avere una parola decisa, perché aveva una sorta di fretta inquieta da celare, e gli venne di farlo con la violenza. Era come se sentisse di avere una forza da domare che, alla minima incertezza, l'avrebbe sopraffatto.

- ... siete qui per seguire il corso base di istruzione siluristi. Io sono il Sergente Marchetti e sarò il vostro istruttore per l'intera durata del corso.

Ci tengo a mettere subito in chiaro una cosa: io non so da dove voi veniate e che scuole abbiate frequentato, ma voglio che sappiate che ciò che dovete imparare qui è molto più importante di qualsiasi cosa con cui finora abbiate avuto a che fare. Vi troverete a maneggiare quantità di esplosivo sufficienti a cancellare una nave dalla faccia della terra, serbatoi d'aria compressa a duecento atmosfere che se saltassero avrebbero lo stesso effetto, e dall'efficienza delle vostre armi potrebbe dipendere la sorte vostra, della vostra nave e dei vostri compagni.

Qui Secondo diede il tempo alle sue frasi di sortire il loro effetto, intanto guardava negli occhi gli elementi che, a naso, gli parevano più scalmanati, per vagliare l'efficacia della sua introduzione. Se le sue mani non le avesse tenute schiacciate a pugno chiuso contro il piano della cattedra, avrebbero tremato visibilmente.

- Ragion per cui esigo il massimo impegno da parte vostra e non mi farò alcuno scrupolo a farvi rapporto se me ne darete l'occasione. Inoltre non crediate che, solo perché questo è un corso accelerato, la selezione sarà meno rigorosa: i siluristi hanno grandi responsabilità e non ci possiamo permettere di far passare elementi poco affidabili o poco preparati. Quindi, se non volete ritrovarvi a fare i fanti o gli sguatteri, avete tutto l'interesse a fare del vostro manuale, per le sei settimane a venire, il centro della vostra vita ed il vostro migliore amico. Spero di essere stato chiaro.

Li guardava ora uno ad uno, mentre scandiva le parole con una voce metallica che mai aveva sospettato di possedere. Erano tutti più giovanili di lui anche se solo tre, quattro anni li separavano. Erano solari nonostante la preoccupazione che riusciva a far affiorare sui loro volti. Per ognuno di loro ci doveva esser rimasta una fidanzata ad aspettarli. Li odiava per tutto quello. Il più grezzo e ignorante di loro era pur sempre più sapiente di lui, perché certo più istruito sui fatti della vita. Si guardò i pugni contratti. Ebbe pietà del suo corpo e di quella tortura a cui stava sottoponendo le sue carni e quei ragazzini; cambiò pensiero: che colpa ne avevano, loro, se erano così?

Era il momento di addolcire la medicina:

- Comunque, anche se col manuale ci andrete perfino a letto, dato che questo è un corso accelerato, vi saranno risparmiati gli studi approfonditi come quelli che ho dovuto fare io. Ma proprio per questo, pretenderò che quelle quattro cose che dovete sapere le sappiate a menadito. Quelli fra di voi che passeranno questo corso andranno in guerra e, con le competenze che avranno accumulato, potranno trovare da congedati un utile impiego da menatubi...

Qualcuno si azzardò a ridacchiare. Anche Secondo sorrise.

- Cominceremo oggi vedendo il metodo di classificazione dei siluri attualmente in vigore, ed i principi di funzionamento. Aprite il manuale a pagina otto: ci troverete la tabella con tutti i tipi di siluro che sono nell'inventario della Marina.

Scandì due passi verso la lavagna, prese un gessetto. Sentì l'impulso di spezzarlo. Mentre già faceva pressione sul fragile bastoncino minerale, che avrebbe risuonato come una fucilata in quel silenzio di frusciare di pagine, pensava che non voleva abusare del suo potere, dopotutto. Ma fu agghiacciante e non voluto lo stridore della punta sulla lavagna quando cominciò a scriverci “S.I. 270/533 x 7.20”. Tirò avanti, ciononostante.

-Come potete vedere sulla vostra tabella, i siluri si distinguono con le loro sigle, che seguono lo stesso sistema per tutti i modelli entrati in servizio negli ultimi vent'anni. Prima – puntava il gesso contro le parti della sua scritta, che era venuta fuori con la sua sgraziata calligrafia - vengono le lettere identificative dello stabilimento che li ha costruiti: S.I. sta per Silurificio Italiano di Baia, a Napoli; W è la Whitehead, di Fiume. Quindi viene una frazione: al numeratore il peso della carica di scoppio in chili, al denominatore il diametro del corpo in millimetri. Infine dopo il segno 'per' viene la lunghezza in metri, arma spolettata e pronta al lancio. Grazie a questo sistema nella sigla identificativa di un siluro avete già tutti i suoi dati essenziali. Vi dirò che per brevità nella parlata di noialtri si usa solo il fabbricante e il diametro, o anche solo il diametro, ma fino ai vostri esami fra di noi, e per tutta la vita parlando coi superiori, per voi esisterà solo il sistema ufficiale a denominazione completa.

Vedete che esistono solo due diametri principali, il cinque tre tre e il quattro e cinquanta. Vi chiederete il perché di un diametro non decimale come il cinque tre tre: è la stessa ragione per cui i vostri colleghi artiglieri, da noi detti anche 'Mira a Ponente – spara a Levante', hanno cannoni da centocinquanta e due, duecento e tre, trecentottanta ed uno: in Marina la maggior parte delle misure si fanno in pollici e cinque tre tre corrisponde a ventun pollici. I francesi, che a ragione di roba inglese non ne vogliono sentir parlare, usano il cinque e cinquanta.

Alcuni di loro restavano, per paura di perdersi qualche parola, concentrati con una fissità da sfinge che dava loro delle espressioni allibite, ed allibiti dovevano essere davvero per quell'alternanza di durezza e familiarità nelle parole dell'istruttore; ma la maggioranza sembrava fiduciosa ed intelligentemente attenta, arrischiandosi persino a ridere di tanto in tanto. Illusione: quella calma era solo l'eco delle parole severe con cui s'era presentato. Anche al ginnasio succedeva così e per la prima settimana si sarebbe potuto sentir camminare le formiche, a fare astrazione della voce unica del professore. Poi la maschera cadeva, affiorava l'uomo, e i giovani avanguardisti che la scuola educava all'obbedienza ed il doposcuola alla sopraffazione e all'ardimento, gli salivano sui piedi, se quello non manteneva la disciplina ponendo in essere le sue minacce.

Secondo temeva che sarebbe finita così anche lì: che presto i semi della sedizione avrebbero attecchito nella noia, che avrebbe dovuto fare rapporto a quelli che non conoscevano l'autodisciplina. Temeva quel momento perché avrebbe sancito il suo fallimento, dovendo ricorrere ad un potere superiore al suo per controllare i suoi allievi, cosa che automaticamente avrebbe definito i poveri e ristretti contorni della sua autorità. Non esiterò a farvi rapporto, aveva detto: e sì che avrebbe esitato invece (pur se nessuna esitazione doveva trasparire parlando con il nemico). Gli sarebbe parsa una faccenda insopportabilmente puerile, come il bambino che va dalla maestra a piagnucolare perché il cattivo gli fa i dispetti. Mai, se aveva ancora un briciolo di dignità non avrebbe mai dovuto abbassarsi al rapporto. Il difficile sarebbe stato non arrivare a quel punto: forse aveva sbagliato ad allentare di quel poco la tensione.

Turbatosi con questa constatazione, Secondo ebbe qualche difficoltà in più a spiegare i principi di funzionamento dei siluri: una ridda di esempi, accorgimenti e precisazioni gli veniva in mente sovrapponendosi al discorso semplice e lineare che aveva preparato. Allo sforzo di seguire il sentiero prefissato si aggiungevano quelli di scacciare le deviazioni importune e di capire da dove venisse questa fastidiosa disorganizzazione mentale. Forse era solo un'alluvione di esempi della sua esperienza, della sua erudizione in materia, che gli premeva di mostrare subito ai suoi allievi, per conquistarsi il loro rispetto. Forse era davvero disorganizzazione mentale, l'incapacità di stendere sul momento un pensiero chiaro, dopo anni di riflessioni illogiche per trovare... cosa? La crepa, la stortura, la faglia, il punto debole del sistema del buonsenso che stabiliva che l'amore fosse per l'uomo cosa buona e giusta ed indispensabile. Almeno la prerogativa dell'indispensabilità voleva negargliela: i più scoscesi ed impraticabili sentieri del pensiero era andato tracciando per quello, ed ora a dover spiegare il funzionamento di una “semplice” macchina, si trovava in difficoltà.

Ma finalmente riuscì ad arrivare al momento in cui poté liberarsi da quell'oppressione e scaricarla sui suoi sottoposti dicendo loro:

- Io... ho finito. Ora potete rivolgermi le vostre domande su quanto abbiamo visto.

Li fissava sempre, con la vergogna di non aver saputo dar loro la spiegazione perfettamente lineare che aveva immaginato, e una gran sete di capire come fossero fatti dentro, quelli là che gli stavano davanti.

- Una cosa che non vi avevo detto prima: potete interrompermi appena avete un dubbio anche mentre spiego, è importante che capiate tutto quello che vi dico e non dovete avere incertezze. Allora... possibile che tutto quello che abbiamo visto sui siluri vi sia perfettamente chiaro?

Alcuni si guardavano fra di loro, perplessi. Ci volle qualche lungo istante di silenzio, quindi una mano si levò esitando, dalle ultime file.

- Scusate... non ho ben chiaro come faccia la pressione ad agire sul motore... avete detto che è un motore a pistoni, no?

- Sì, beh questo sarà l'argomento delle prossime lezioni... comunque possiamo cominciare a vedere il principio... funziona esattamente come un motore a vapore a singola espansione, solo che invece del vapore usa aria compressa riscaldata. Per ora questo è tutto quello che vi serve di sapere.

Nessuno vi impedisce di leggervi il manuale in anticipo sul corso, ovviamente: ma preferirei che vi concentriate su quello che vediamo ogni giorno.

Due della quarta fila si spingevano al punto di bisbigliare qualcosa fra di loro, con un'espressione maliziosa. Forse era solo una battuta sconcia sui pistoni, forse una considerazione irriverente su colui che aveva posto la domanda o quello che vi aveva risposto: di certo erano quelli, i primi accenni della sedizione. Bisognava stroncare subito. Secondo raccolse e richiuse in quadrato la sua ira prendendo di nuovo il tono perentorio che aveva all'inizio:

- Voi due!! – li indicò – Le domande, dispostissimo, ma i commenti non li tollero e li farete fuori di qui.

Questo vale per tutti e spero di non doverlo ripetere ogni volta.

Valeva per tutti? Certo: ma solo due avevano meritato quell'accenno di arronzata. Ora nel silenzio ristabilito si sentiva un po ingiusto: forse la maggioranza di loro non meritava quel clima oppressivo. Guardò coloro che gli parevano più miti: ma loro avevano la coscienza a posto e non parevano turbati dalla minaccia.

- Se non avete altre domande, significa che avete capito davvero tutto... quindi posso farvela io, qualche domanda... Voi!

Indicò un poveretto con occhi sgranati della terza fila a destra, che fino ad allora non aveva quasi osato respirare; a disagio nell'uniforme, il solino gli si ribellava e, sollevandosi dal colletto, pareva che gli facesse una gobba. Gli ricordava il sé stesso di tre anni prima, forse era proprio per quello che l'aveva preso di mira.

- Ditemi un po... qual'è la normale pressione di carica del serbatoio di un siluro, e che gas si usa...

L'interrogato sentì volgere a sé tutte le orecchie degli astanti. Doveva essere una sensazione disgustosa, se si ricordava bene di cosa aveva sentito lui il mattino che il Capo che gli faceva da istruttore gli aveva fatto la stessa precisa domanda. Il poveretto aprì bocca ma per qualche istante non uscì alcun suono:

- Pressione di carica... duecento... aria... compressa! Signore...

- Duecento cosa? Libbre per pollice quadrato? Chilogrammi per centimetro quadrato? Millimetri di mercurio? Atmosfere?

- Atmosfere Signore!

- Sta bene, ma imparate subito ad essere preciso. Specificate sempre le unità di misura.

Uno dei due bisbigliatori ora pareva ridesse sotto i baffi per la gaffe del suo collega. Secondo lo vide e lo fulminò:

- Voi... Se vi potete permettere di divertirvi tanto dev'essere perché avete una perfetta conoscenza della materia. Fateci un favore: sono certo che molti qui non hanno ben capito la combustione: ricordateci dunque qual'è, in questa reazione e nel caso dei nostri siluri, il combustibile e quale il comburente...

L'interrogato ricambiò l'attenzione con un'espressione carica di fiele. Però se lo poteva permettere perché rispose senza esitazioni:

- Il combustibile è il petrolio, il comburente l'aria. Nella camera si vaporizza dell'acqua per aumentare la quantità d'ossigeno ed agevolare la combustione, Signore.

Secondo era stato giocato, gli aveva ripetuto le sue stesse parole: avrebbe potuto demolirlo con una domanda più specifica, ma in tal caso sarebbe stato palese a tutti che stava cercando di imporsi, e che giocava sporco con la sua superiorità nella materia. Bisognava dunque fare buon viso a cattivo gioco:

- Bene... Gradirei comunque un po più di serietà anche negli atteggiamenti, oltre che nell'apprendimento. Ricordatevi sempre dell'importanza di quello che dovete imparare. Non è un corso di storia questo, non si tratta di Giulio Cesare bulicio o della vacca di Giove, qui: da ciò che studiate dipenderà la vostra vita. Non scordatevelo mai.

Bene, sono le tre meno cinque, vi aspettano per l'istruzione fisica giù in piazza d'armi... vi lascio andare subito così avrete più tempo per mettervi a posto. Ci rivedremo domani qui, stessa ora, stesse condizioni, e se possibile un po più di serietà. Intesi? Potete andare.

In meno di un minuto di rumore la classe s'era svuotata, l'ultimo allievo uscì chiudendo la porta. La solitudine ed il silenzio – giungeva solo l'eco di qualche richiamo scherzoso nel corridoio – gli davano un senso di vuoto inerte. Dovette restare dieci minuti buoni a fissare il niente prima di ricordarsi che la sua scrivania davanti alla finestra era comunque più gradevole di quella camerata in cui la sobrietà smaccata del mobilio gli dava un senso di povertà affamata e polverosa. E forse era proprio quello che stava fissando, il niente, sì, ma il niente lasciato da tutta quell'umanità che poco prima popolava in ansiosa tensione o strafottente sicurezza quello spazio.

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Quello di oggi è l'ultimo brano che avevo già scritto, quindi d'ora in poi non riuscirò più a pubblicarne uno ogni giorno e dovrete aspettare di più :s06:

Un accenno di noir militare, per stavolta :s41:

 

Lettera a Rosa - I tentativo

 

La lezione del giorno dopo era rivista e preparata; uniformi ed alloggio erano a posto; in questi casi, per far venire l'ora della cena l'unica era leggere o scrivere. Da quando era arrivato alla Spezia non aveva ancora scritto a nessuno; per ricordarsi di cosa dovesse fare aveva lasciato sulla scrivania un libro da leggere ed una esigua risma di carta. La Marina gli forniva tutto, finanche il pennino ed un bell'inchiostro blu nerastro – ferrogallico, si precisava sul calamaio - . Avevano anche avuto il buon gusto di sistemare la scrivania proprio sotto l'unica finestra della stanza, il che dava voglia di lavorare più che di dormire, dato che il letto era rifilato nell'angolo più negletto dell'esiguo spazio. Non aveva idee precise su cosa avrebbe scritto, e non sapeva nemmeno da chi cominciare. Decise quindi di lasciar scegliere al caso ed il primo corrispondente che gli venne in mente fu Rosa.

 

Carissima Rosa,

perdonami innanzitutto per questo mio lungo silenzio. Come potrai immaginare, da quando ho lasciato la tua Catania non ho avuto un attimo di respiro ed il viaggio che mi ha portato qui da dove ti scrivo ora è stato il più tormentoso che possa ricordare. Non devo dimenticare che ora tu non sai neppure cosa mi ritrovi a fare: ebbene, il destino ha deciso per me un curioso contrappasso, ho accettato un posto da Istruttore silurista alla Scuola C.R.E.M. Di San Bartolomeo, alla Spezia. Proprio dove qualche anno fa mi son trovato ad iniziare questo capitolo della mia esistenza. Fa uno strano effetto ritrovarsi dalla parte giusta della cattedra, dopo tante angosce da dietro un banchetto. Ora sono quindi al sicuro: avrei forse accettato un altro imbarco se me l'avessero proposto, ma a Taranto mi hanno detto che posto su altre siluranti non ce n'era, ed eccomi qui. Niente più glorie e niente più pericoli: e mi sento già un po pensionato. Mi rammarico di esser finito così lontano da te, seppure sia ad una mezza giornata di treno dal mio paese, ma ti prometto in forma ufficiale che alla prossima licenza farò qualche sorta di miracolo per tornare a trovarti.

Or ora mi torna in mente una storia che volevo da tempo raccontare a qualcuno, perché mi è stata detta a parole da Tito, un anziano del mio paese, e dev'essere scritta per non andar perduta. Una storia della scorsa Guerra.

Devi sapere che Tito era solo un soprannome. Lui però preferiva chiamarsi così, e come tale è sempre stato conosciuto, dato che ad ognuno di noi in paese viene affidato un soprannome che diventa poi l'unico appellativo; il mio era così grazioso quand'era pronunciato da te! Prima di allora l'avevo sempre trovato un po insulso.

Tito per me era una sorta di zio, anche se non avevamo parentele: un individuo strano per l'estrema rettitudine in cui viveva. Tutti da noi hanno qualche panno sporco nascosto da qualche parte: di lui invece nessuno avrebbe potuto dire nulla di male. Ufficiale in congedo, decorato, onestissimo sul lavoro, puntuale come un orologio, non contraeva debiti, non aveva vizi, d'una gentilezza misurata che lo faceva ben volere da tutti. Diceva che non voleva una moglie perché non voleva correre il rischio di far soffrire una donna: scusa ben strana dato che era un uomo integerrimo. Faceva il turno di notte in ferrovia e nei suoi lunghi pomeriggi di noia gli tenevo compagnia; i miei genitori apprezzavano che lo frequentassi perché pensavano che mi avrebbe trasmesso le sue virtù. Lui mi raccontava le storie della Guerra che aveva fatto, che io preferivo molto al ruzzare nella polvere con gli scalmanati del mio quartiere. Il suo repertorio, a dire il vero, si esaurì abbastanza presto, ma anche se le storie si ripetevano, era tale la carica che avevano, che a me non importavano le ripetizioni. Ero anzi io a chiedergli spesso 'Raccontami ancora quella del diciannove Maggio', 'Raccontami di nuovo di quando avete sabotato la batteria', e così via, e lui paziente raccontava, ma sempre con la stessa emozione. Anche da mio padre mi facevo raccontare di quella Guerra, ma lui lo faceva con pena e le sue storie non erano intense come quelle di Tito. Solo quando mi avviai a crescere, la frequentazione divenne meno assidua, potendo io cominciare a dedicarmi a diversi passatempi; devo anzi dire che mi accingevo a diventare un piccolo furfante e la sua compagnia mi tornava talvolta noiosa, tuttavia il nostro affetto reciproco non venne mai meno.

Un giorno che pioveva dopo aver finito i compiti andai da lui; la giornata era particolarmente lugubre e pensavo che un po di compagnia gli avrebbe fatto molto piacere. Difatti fu così, ma aveva qualcosa di scuro in volto. Mi disse:

- Hai fatto bene a venire, non mi andava di star solo. Oggi è proprio come quel giorno... stessa pioggia... stessa luce...

Per scacciare la poca luce dell'esterno infatti aveva acceso tutto in casa, ogni lampadina. Ma l'acqua scrosciava lo stesso sui vetri alle finestre, si precipitava gorgogliando giù per le grondaie, e se ne sentiva il rumore e l'incessante lavorio erosivo.

- Che giorno? – chiesi io innocente – La volta del venti d'Agosto? O la ritirata? O il Piave?

- No, no. Una volta che non te l'ho mai raccontata. Ma ora ti stai facendo uomo.

Tito nella scorsa Guerra era Tenente d'artiglieria al comando di una batteria di cannoni da campagna da settantacinque, assegnata al supporto della Brigata Campobasso sul settore del Monte Santo. Un ottimo artigliere peraltro: abile nel proteggere i suoi pezzi dall'insidia del nemico, infallibile al tiro, attento ai suoi uomini; fino a Caporetto aveva perso solo due pezzi e pochissimi soldati, mentre per altre batterie era la norma l'esser state ricostituite per intero più volte. Non a caso è stato decorato. Dimenticavo finora di dirtelo date che le cose per noi ovvie, lampanti nel nostro pensiero, inconsciamente crediamo che lo siano anche per i nostri interlocutori; questo di certo è vero per gli egoisti come me. Tito aveva in quella Brigata un amico del suo paese: Gustavo, sottotenente di fanteria. Spesso appariva negli episodi più lieti della sua vicenda, mi raccontava che facevano praticamente tutto assieme. S'erano conosciuti nelle retrovie per un caso fortuito e la loro amicizia, forte di natura perché nata nel comune pericolo, era stata definitivamente cementata dopo il famoso episodio del dieci di Ottobre quando, in seguito ad un attacco fallito dei nostri, Tito con una manciata di colpi dei suoi quattro pezzi polverizzò un nido di mitragliatrici austriache che stava tenendo sotto tiro il plotone di Gustavo, permettendogli di svignarsela nella trincea appena in tempo. Quella sera Gustavo andò ad abbracciare Tito e questo, anima buona e semplice, si sentì da quel momento vincolato a quell'uomo da un legame fraterno. Ed insieme combattevano, insieme si divertivano, insieme andavano in licenza dato che avevano gli stessi turni di servizio. Insieme andavano a donne. Tito in questo non aveva mai avuto molto successo, proprio perché era buono e semplice. Gustavo allora gli passava gli avanzi delle sue facili conquiste, e a Tito andava benissimo così.

Fin qui conoscevo già la loro storia: ma nel 1917 le tracce dell'esistenza di Gustavo si perdevano a mano a mano nei racconti, e quando gli chiedevo che fine avesse fatto, mi dava risposte evasive, il che era strano dato che erano stati così legati. Forse era emigrato, forse era tornato al Sud, non si sapeva quando fosse stato congedato né quando Tito l'avesse visto per l'ultima volta. Quel giorno che pioveva e che, lui diceva, c'era lo stesso tempo ed esattamente la stessa luce, si decise a svelarmi il tassello mancante.

Questa parte della storia ebbe inizio durante la penultima licenza che fecero assieme, in un café chantant dov'erano andati per la solita baldoria, per mostrarsi alle signorine con l'uniforme buona, gli stivali lucidi ed i nastrini sul petto. La cosa che ora che stavo diventando uomo potevo capire, che prima non c'era, era la donna. Non un avanzo di sciacquetta sguaiata e di dubbia virtù di quelle che Gustavo gli 'conquistava' per lui, ma una donna vera. A dire il vero non si capiva nemmeno cosa potesse fare una donna come lei in un locale come quello. Sembrava che portasse il lutto ma il velo del cappello non poteva nascondere lunghi capelli neri.

- Guarda quella! - disse Tito al compagno, indicandogliela - .

- Buongustaio! - rispose quello con un sorriso d'intesa – Vai te o vado io?

Ed è strano come una risposta scontata, data quasi senza pensarci, frutto dell'esitazione di un istante, di un'umana debolezza, possa condizionare tanto le esistenze di tre persone. Se solo avesse saputo quanto sarebbe dipeso da quello! Solo il nero di velo e capelli poteva forse farglielo presagire, lo stesso nero che, mentre per vergogna abbassava lo sguardo che cadeva sui suoi stivali, gli parve prenderlo per le gambe.

- Vai te dai. Io farei solo pasticci. La farei scappare.

- Come sempre eh?

- Presentamela, mi raccomando!

Ma Gustavo non dovette sentire l'ultima frase perché era già balzato fulmineo sulla preda. Ci sapeva fare eccome: non aveva forse mai preso una postazione austriaca senza i 'settantacinque' di Tito, ma in fatto di donne... Tito restò a lungo a vederli: prima lui disse qualche parola introduttiva – proprio quelle che lui non sapeva mai dire – che gli guadagnò il privilegio di poter sedere al suo tavolo; poi parlarono amabilmente e per un tempo inquantificabile. Sotto il velo gli sembrava che lei sorridesse, non vedeva i suoi occhi ma li immaginava ridenti, le sue – anzi, le loro, perché anche lui le muoveva con maestria – mani esprimevano gioia e piacere. Finalmente Gustavo fece un cenno verso di lui e subito dopo gli fece segno di venire a stare al loro tavolo. Non ci credeva che una donna come quella potesse tollerare la sua presenza.

- Mademoiselle Dora – attaccò Gustavo –, le presento il mio inseparabile amico Tenente Tito, il leone del Monte Santo, il massacratore dei mitraglieri austriaci, colui che coi suoi tiri infallibili mi ha tratto d'impaccio più di una volta!

La presentazione era iperbolica e, come certa propaganda, suonava falsa, come per volerlo mettere in ridicolo perché mentre Gustavo ne tesseva le lodi sperticate, Tito guardava basso, dondolava e torturava il berretto fra le mani sudate. Lui di lei vedeva solo la gonna abbandonata sulla poltrona, un rivolo rosso.

- Onoratissima! - e una mano fine fine avanzò nel vuoto per offrirsi a lui. Tito asciugò il palmo della sua sulla tasca della giubba, prima di stringerla pian piano, come se temesse di romperla.

Infine anche lui poté sedersi, ma non capiva bene cosa ci stesse a fare dato che il dialogo filava solo fra gli altri due. Interpellato su futilissime questioni, Tito riusciva solo a rispondere a monosillabi, né d'altronde voleva inserirsi nello scambio, temendo di disturbare il lavoro paziente e metodico dell'amico, che credeva ancora lavorare per lui. Infine, quando ormai cominciava a sentire una fastidiosa sensazione di estraneità, lei si alzò avocando un impegno e congedandosi con molta grazia.

- È fatta! È andata! - fece Gustavo dando un colpetto di gomito all'amico - . Mi ha lasciato nome e indirizzo! La rivedo martedì!

- Sì, ho sentito...

Anche Tito aveva sentito quali fossero i suoi recapiti. Aveva già capito tutto, con un senso di dolorosa delusione: che stavolta l'amico non gli avrebbe lasciato gli avanzi, ma avrebbe divorato la preda per intera. Doveva quindi fare pur sempre un tentativo; in virtù della sua riservatezza non aveva mai amato fare il primo passo con le donne, ma quel fiume rosso che scendeva dal divano, quella cascata di capelli neri, doveva pur tentare. Si sarebbe presentato a lei com'era davvero, ed avrebbe lasciato a lei la scelta. Lasciò comunque all'amico la prima mossa: una donna col velo al cappello, con mani così fini, non doveva apprezzare se non superficialmente la faciloneria, la sicurezza di sé che aveva Gustavo. Forse era davvero una vedova, forse era uscita da una storia intensa ed oscura. Aveva certo più bisogno della sua delicatezza piuttosto che delle attenzioni non sempre oneste dell'amico.

Così mercoledì, ovviamente senza dir nulla a Gustavo, da cui si era allontanato con un pretesto da poco conto, Tito andò a trovarla facendosi precedere da un bigliettino che andò a lasciare all'alba nella sua cassetta postale. Una cosa raffinata: le chiedeva, se era disposta ad accettare un invito al caffè con lui, di lasciare lo stesso biglietto nella cassetta. Tornò alle cinque, vestito in borghese, dignitosamente ma senza sfoggio d'eleganza: il biglietto c'era. Similmente si presentò lei, quando gli andò incontro al locale. Ora a capo scoperto, aveva la bellezza che Tito aveva sempre immaginato perfetta per lui, dolce, non vistosa, materna. Capì vedendola passare oltre il vetro della porta che stava facendo il secondo errore. Ma che meraviglioso errore! Aveva già voluto bene davvero ad una donna che poi la violenza della vita gli aveva strappato, conosceva le sofferenze di quel genere. Ma vedendola sorridergli appena appena, con uno sguardo basso come il suo, pensò che un momento come quello, e forse anche altri a venire, potevano valere qualsiasi tortura.

- Sono molto lieto che abbia accettato il mio invito, Dora.

- Diamoci pure del tu...

- Preferisco darle del lei... misura di rispetto. Lei se vuole mi può dare del tu!

Anche se Dora ne sorrise, non era certo quello il modo migliore per cominciare una nuova conoscenza ma... Tito era stato educato così. Quello non importava: fu comunque, me lo confessò, senz'altro fra i momenti più felici della sua vita. Quella creatura era allora tutta per lui, lo ascoltava, gli chiedeva cosa facesse e cosa pensasse, esisteva, e per lui! Ma fuori dai vetri del locale il cielo scuriva. Lui sentiva accompagnato a quella grande leggerezza un dolore: quello di sapersi incapace di dirle subito, all'istante, che l'amava. Sentiva che se non avesse parlato l'avrebbe persa. Ma ancora un momento... glielo dirò dopo, alla fine... E intanto s'era fatta sera. Avrebbe voluto anche offrirle la cena, lei declinò gentilmente. Forse già sentiva che lasciandola andare con quel 'Buona serata, ed arrivederci' le diceva addio, diceva addio ad una loro futura felicità. La debolezza del momento, il pudore, erano però più forti di una vita migliore in lui.

Alla fine di quella licenza, ritrovandosi sulla banchina della stazione per ripartire con la tradotta verso il loro Monte Santo, Gustavo venne fresco come una rosa ad annunciare trionfante a Tito che era fatta, che lui e Dora si erano fidanzati. Ed un po era davvero contento per l'amico: un buon diavolo, almeno lei sarebbe stata in buone mani. Lui non era riuscito a dichiararsi quando tutto gli era favorevole, voleva dire che non era destino. Meglio con Gustavo che con chissà chi altri: tanto, finita quella Guerra, sarebbe tornato alla vita tranquilla e presto l'avrebbe dimenticata. Ma i turni di guardia sono lunghi, e danno troppo tempo per pensare. Seduto nel suo osservatorio, un monticello di pietre con un telo sbattuto dal vento a mò di tetto ed un telefono da campo che non suonava quasi mai, Tito non poteva non tornare col ricordo a quella sera in cui lei era stata tutta per lui. Guardava lontano col binocolo, verso le linee austriache. Il Carso appariva allora nero, una distesa mortale e morbida di neri capelli. Prendeva la cornetta del telefono per comunicare con la batteria, e nella voce del soldato assonnato che gli rispondeva dall'altra parte gli pareva di intendere quella di lei. Col fiuto sempre all'erta per i gas, gli sembrava di cogliere, invece che il fiato del cloro, lontanissimi profumi, che avevano viaggiato chissà quanto dopo esser usciti da quel caffè quella loro sera. Ogni notte situazioni assurde nei suoi sogni, che cominciava a detestare. Cambiò turno di guardia per non dormire più all'alba, quando gli capitava di sognare più spesso.

Ma non solo: diventava duro, intollerante. I suoi soldati, dei quali aveva conquistato la stima e l'obbedienza con la sua umanità, ora li redarguiva sempre più spesso, per cose da niente su cui fino ad allora aveva lasciato correre. Un mattino la controbatteria austriaca li aveva inquadrati, ed un artigliere era rimasto ferito mortalmente. Arrivò che due compagni stavano cercando inutilmente di soccorrerlo: il pieno sole pallido come la sua pelle illuminava il sangue che colava dall'angolo della bocca. Era Bigoni, un povero diavolo di contadinotto bergamasco, semianalfabeta ma con un cuore grande come le sue manacce, che gli volevano bene un po tutti. Tito si ritrovò congelato a vederlo, incapace di muoversi. Un compagno sollevò il capo al ferito, forse voleva dire qualcosa: attraverso le palpebre contratte nel dolore e con la vista che andava offuscandosi, riuscì comunque a riconoscere il suo superiore in piedi di fronte a lui. Pronunciò con accento di supplica:

- Signor tenente...

Forse voleva un'ultima parola, una benedizione, una carezza, un cenno da quello che lui considerava un secondo padre. Fosse stato il Tito di un mese prima, gli avrebbe preso la mano, rassicurandolo. Ma ora era paralizzato da un qualcosa più forte di lui. Bigoni appoggiò tutto il peso del suo capo sulla mano del compagno senza che il suo tenente avesse mosso un muscolo o pronunciato una sillaba. Una cosa gli era venuta da pensare: che almeno lui, s'era levato dal soffrire. I suoi uomini lo guardavano e non lo riconoscevano.

- Su, portatelo via...

Perdendo l'amore per la propria vita, perdeva anche il rispetto per quella degli altri. Se ne tornò al suo osservatorio, furibondo più che dispiaciuto. Sentiva che non poteva più provare pietà per nessuno, eppure non poteva odiare l'unica persona che era responsabile di questo. Ogni pietra del Carso era un granello di sale sparso sul dorso di quella mano fine, fine. Lei non era più – se lo era mai stata nel suo pensiero – un'umile comune ragazza, era la dea che stava dietro quella Guerra, che muoveva il mondo, che nutriva il candore della sua pelle ed il nero dei suoi capelli con le vite che a migliaia si spegnevano ogni giorno.

Una sera che s'erano ritrovati ai baraccamenti, Gustavo gli mostrò una lettera in cui lei diceva di accettare la sua proposta di matrimonio: si sarebbero sposati alla prossima licenza! Tito arrivò allora a desiderare una cosa abominevole: che Gustavo ci lasciasse le penne. Si informava spesso della sua salute, ma col fine inverso che aveva avuto fino ad allora. Lo guardava con occhi strani, gli parlava molto meno. Non avrebbe mai potuto vivere senza Dora, se ne rendeva conto vedendo che stava vivendo e combattendo sul dorso della sua mano, su un fascio dei suoi capelli, su una piega del suo vestito. Ogni colpo di fucile che sentiva, sperava che fosse quello buono.

Poi venne il giorno che Cadorna ordinò un'altra spallata, quella che sarebbe passata alla storia come la Decima Battaglia dell'Isonzo. Anche la Brigata Campobasso doveva partecipare all'offensiva, con l'obbiettivo di prendere finalmente quel Monte Santo che finora avevano inutilmente tentato di pigliare per più di un anno. Tito ebbe un bel daffare, due giorni ininterrotti di fuoco di preparazione, quello me l'aveva già raccontato: due giorni quasi senza dormire, a sorvegliare il tiro, curare l'approvvigionamento delle munizioni, persino raffreddare con stracci bagnati le canne dei pezzi surriscaldati dai continui spari. Quello che mi aveva fino ad allora nascosto, era il giorno dell'offensiva. All'alba del 12 Maggio, il giorno che le fanterie dovevano partire all'assalto, lui era usurato come i suoi cannoni. Con lui c'era il sergente che gli serviva da telefonista, così avrebbe potuto concentrarsi meglio sulla sorveglianza senza curarsi delle comunicazioni. Pioveva, c'era una luce sepolcrale. Credeva di avere le allucinazioni: ora il crinale del Monte Santo davanti a lui era davvero nero, e continuava a vederlo così anche se il giorno saliva. Stava pronto a dirigere il tiro della batteria sui centri di resistenza che si sarebbero svelati al momento dell'assalto, guardando col binocolo quella piega di gonna nera. Per un tempo interminabile regnò il più completo silenzio, accompagnato solo dallo scroscio della pioggia. Finalmente il momento: sentì l'urlo che annunciava l'attacco persino dal suo osservatorio, che non era però tanto lontano dalla terra di nessuno da non permettergli di riconoscere i soldati che si lanciavano fuori. Savoiaaaaaa!!!!! Una mitragliatrice si dichiarò in alto:

- Fuoco a settanta metri sotto la cima, cinquanta a destra!

Ma i cannoni, logorati dai tiri intensi dei giorni precedenti, sparavano a schiovere, sparpagliando colpi qua e là e rischiando di colpire anche i soldati italiani allo scoperto.

- Allunga venti!!

Fece allungare il tiro per prudenza mentre sorvegliava la situazione: tutti i suoi tiri, che faticava a seguire tanto erano dispersi, cadevano lontani dalle posizioni nemiche, e sentiva un rabbioso senso di impotenza; ora anche l'artiglieria austriaca si aggiungeva al concerto: Tito vedeva scoppi di colpi che senz'altro non erano suoi che salivano in mezzo ai soldati. La gente là nella terra di nessuno cadeva falciata. L'assalto, lo capiva già, era destinato a fallire. Vagando col binocolo sulle mille vite che si spegnevano là davanti, mentre già i plotoni più avanzati cominciavano ad indietreggiare, gli parve di scorgere Gustavo, con alcuni dei suoi soldati, riparato dietro una grossa pietra. E, subito dopo, l'occasione che forse inconsciamente stava aspettando: gli austriaci, parato l'assalto, venivano fuori dalla loro trincea per provarci. Guardò meglio, era senz'altro lui. Loro e Gustavo assieme nella terra di nessuno.

Veramente non ci pensò neppure, fu quasi una fatalità, un automatismo del pensiero. Non pensava davvero ad altro se non alla tecnica omicida che gli avevano insegnato alla scuola d'artiglieria, in quel momento:

- Vengono al contrassalto!! Accorcia cento, venti a destra, tiro a shrapnel!!!

Il sergente non passò subito la comunicazione, stavolta: guardò Tito come a pregarlo di non farlo ed osò dirgli:

- Ma, signor tenente, rischiamo di sparare addosso ai nostri così!

- Trasmetti l'ordine! Esegui!!!

Il sergente, non volendo grane, recepito il tono perentorio e spiritato del superiore, eseguì. Tito teneva lo sguardo fisso sul riparo di Gustavo; lo vide scomparire cancellato da una granata. E forse fu solo allora che, dopo un mese che non era più in sé, tornò ad essere quello che era prima. Staccò gli occhi dal binocolo. I sassi tornarono ad essere sassi, il Monte Santo solo una gobba di durissimo calcare, la morte riprese a parlargli, ogni colpo di cannone una frase della sua lingua, ogni fucilata una sillaba. Fu come se si fosse svegliato dopo un lungo sogno, con una implacabile, irreparabile realtà ad accoglierlo. Diede un altro ordine, ma stavolta quasi a bassa voce:

- Passare al fuoco di sbarramento... sempre tiro a shrapnel...

 

Tito a questo punto smise di raccontare. Ne seguì un lungo silenzio: ormai s'era fatto buio e la pioggia, senza che ce ne fossimo resi conto, era cessata. La sua mano stava inerte sul tavolo, e la fissava.

- Forse – dissi io convinto – non sei stato tu: avrebbe benissimo potuto essere una granata austriaca!

 

- Forse... mille volte avrò scavato nel ricordo cercando di contare il tempo esatto che passò dal momento in cui mi parve di sentire i miei pezzi sparare, a quello in cui scoppiò il proiettile che uccise Gustavo, per sapere se ero stato io, ma potrei aver confuso le cannonate della mia batteria con i colpi degli austriaci, tanto era il rumore... il suo corpo poi non l'hanno recuperato.

Altro silenzio. Ripresi ancora io la parola:

- E... Dora?

- Ah... Dora... già, Dora... fui io a portarle la notizia della morte di Gustavo. E fu anche l'ultima volta che la vidi.

- Ma... perché?

Ora Tito era davvero assente. Prima che rispondesse guardava a lungo un punto preciso del vuoto. Non volle però darmi l'ultima risposta:

- Ah... lasciamo perdere, Dino. È tardi, i tuoi ti staranno aspettando per la cena. Ti ringrazio per avermi ascoltato: però promettimi, che questa storia resterà fra di noi...

- Glielo prometto, signor Tito...

E me ne andai, portando con me la storia, che forse era ancora troppo grande per i sedici anni che avevo. Alcune cose le ho capite solo più tardi, altre non le capirò mai. Tito è morto a Maggio di quest'anno, preso da un male silenzioso. Il perché non abbia più voluto tornare da Dora è il mistero che ha voluto tenere per sé.

 

Secondo diede un'occhiata all'orologio: quasi ora di cena. Era tanto preso dal suo compito che non s'era reso conto del tempo passato. Un'occhiata ai fogli che aveva riempito fino ad allora: li guardò scettico.

- Naaaah, ma a chi voglio darla a bere...

Prese le carte imbrattate, le mise in bell'ordine picchiettandole sul piano della scrivania. Le piegò con cura, e poi le cacciò via facendole planare nel cestino della carta straccia. Indi, mettendo in ordine la giubba ed il solino, si avviò fuori dalla stanza, alla mensa sottufficiali.

Modificato da Secondo Marchetti
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  • 2 weeks later...

Ora che per questa stagione ho finito con l'università, non riesco più a scrivere con la produttività che avevo prima, portate pazienza se vi faccio attendere tanto. Per farmi perdonare vi metto anche un'illustrazione :s01:

 

Compiti a casa

 

A Secondo, un moto di ribellione contro l'esistere l'aveva preso proprio dopo il momento del più grande pericolo che avesse vissuto fino ad allora: e non lo sapeva ma questa smania in realtà non era altro che la forza della sua stessa vita che, rimessa a nudo dal pericolo corso, e passata attraverso le tubolature sghembe del suo animo, si rivoltava contro sé stessa, con forza tanto maggiore quanto più si sentiva vivo. Per quello i rimpianti di non esserci rimasto ed il nuovo disprezzo formale per tutte le relazioni umane da cui si sentiva incatenato. L'amicizia ad esempio, a che serviva? A farsi da stampella l'un l'altro per le geremiadi quotidiane? A farsi andare il cervello in pappa mentre si dicevano stupidaggini sotto il sole, e per inerzia si continuavano a dire cretinate sempre più palesi, e tale era l'ipnosi e la mancanza di qualsiasi voglia che la mente non trovava il coraggio di ribellarsi all'idiozia dilagante: ecco a cosa serviva. E si incaponiva a pensare così.

In realtà in caserma gli amici e le loro stupidaggini servivano eccome. Non solo a non fare la figura del verme solitario che se ne sta sperduto a ciondolare in giro, mentre in gruppo ci si dava un tono ed una ragione d'essere: le chiacchiere vuote, ma tanto vuote, servivano a non sentire altri vuoti ben peggiori, come quelli che s'aprivano in quei maledetti momenti di breve attesa: quando l'effetto congiunto del freddo e dei sassolini sotto la suola delle scarpe, giù in cortile, veniva di colpo a strapparlo dalla sua sicurezza e a ridargli coscienza della malvagità e della grandezza del mondo. E poi in mensa, tante parole dette che lo spazio è saturato da un rombo come di cascata, eppure nessuna che venga detta a lui; e se per caso il caffè sa un po' di muffa, o il pane è appena rinsecchito, viene solo da prendersi la testa fra le mani, in preda alla minuta violenza di tutto ciò che è circostante. Con gli amici invece, le stupidaggini che si dicevano davano forza. Se in un momento che stava con la guardia abbassata lo prendeva l'angoscia per la tortura dei filamenti delle lampadine arsi sopra la sua testa, bastava buttarsi su Aldo con una domanda inutile, o un commento superfluo, o una verità lapalissiana, e passava tutto.

Ma ora gli amici non ci sono e bisogna imparare a far senza. Ho sempre il mio passato, ed anche lui può essere un ottimo amico, se serve. Ed ora mi viene in mente che fra un'ora verificherò gli esercizi fatti dai miei allievi, proprio come facevo con quelli di Lina e il suo latino che non le entrava in testa.

Sono andato da lei ad aiutarla, come mi aveva chiesto quando rientrammo dal Ginnasio, ma prima ho pranzato e dormito una mezz'oretta e poi dovevo fare una commissione per mio padre, e son dovuto andare dall'altra parte della città, dove le vie diventano delle canalette prese fra due alti muri d'orto, e quasi scende il silenzio.

 

crem.jpg

 

Qui il suo pensiero, prima quasi cosciente, ripartì per suo conto senza più bisogno di dirigerlo. Era per metà ricordo vero, per metà libera creazione.

Erano di quei giorni di primavera inoltrata, gli unici sopportabili di tutta la maledetta stagione: quando le masse di aria umida e già calda salgono a fine mattinata su per le Alpi, e trovando strati ancora ben freddi condensano in grandi castelli di vapore cangiante. Il cielo, normalmente piatto, ridiventa allora profondo decine di chilometri, il sereno una cosa meno scontata, perché lassù, a Nord, ci si immagina il temporale. Le giornate senza una nuvola, o con solo qualche nuvoletta indifferente, erano insulse: il cielo era solo un cartone ceruleo appiccicato alla volta notturna, il sole non ci si faceva nemmeno caso: ma se il lembo più avanzato della fortezza bianca si spinge fino alle ultime montagnole sgarbate in riva al mare, e mette in ombra i paesini nella valle, la luce che c'è ancora in costa la si gode, perché la minaccia incombe e si vede pure, se ci si trova a passare sul fiume, che in alto sui passi è già grandine.

Quella era appunto una giornata così: la polvere per la viuzza, gli odori delle campagne assetate, di terra sabbiosa e di steli recisi, tutto prendeva un altro tono, più vero proprio perché effimero. Si mise persino a cantare, al ritorno. Le parole se le era rimaneggiate lui sull'aria di una ben nota canzone:

 

Di là del gran mare

stai tu, bimba bionda,

e attendi gioconda

qualcuno da amare:

se quello son io,

puoi già dirmi addio,

ché mai quel gran mare

passare potrò:

 

Già, l'amore no,

l'amore mio non può

trovarsi il suo cammino in questo mondo...

Tanto è forte che mai lo vivrò:

lo celerò...

 

Io lo sprecherò,

io lo sperpererò

in ventimila giorni di illusioni:

mai una volta lo confesserò,

amaro amerò...

Per uno strano giro del suo stato d'animo, del tutto contrario a ciò che lui stesso si sarebbe aspettato, il buonumore gli svanì non appena si trovò a varcare la soglia del portone di Lina. Da qualche mese aveva guadagnato l'ambìto privilegio di poter entrare in casa sua, per aiutarla coi compiti; lui non osava profanare il sacrario, il bussolotto a due piani in cui lei viveva, e doveva sempre invitarcelo lei. In realtà s'aiutavano a vicenda perché lei era deboluccia in latino, lui in matematica; lui il latino, come ogni altra materia, se lo faceva ficcare nel cranio più che impararlo di buona volontà, ma da quando Lina aveva bisogno d'aiuto, se lo studiava ferocemente per non avere dubbi di fronte a lei. In compenso continuava a non capire molto più di nulla in matematica e lì la brillantezza di Lina, che sgranava cifre e segni maledetti sui fogli come se stesse disegnando, al tempo stesso con scioltezza e accanimento, lo aiutava. Per quello lui non capiva come diavolo lei potesse avere difficoltà in latino, giacché era più facile della matematica e lei era certo più intelligente di lui: era dunque giunto a pensare che lei non aveva semplicemente abbastanza forza d'animo per affrontare il libro di grammatica con la dovuta serietà. Lei era innamorata! E la grammatica dopo esser stata aperta era presto richiusa, mentre lo sguardo si perdeva per qualche fantasia e la mano restava a tenere l'inutile segno fra le pagine. Così stava a lui farle le traduzioni, perché sempre così finiva: si proponeva di aiutarla e basta, continuando a ripeterle che doveva portarla ad arrivarci da sé: ma lei sorrideva, diceva che gli piaceva sentirlo parlare, dunque lui per galanteria cominciava col farsi carico della parte peggiore, la ricerca dei termini sul vocabolario, poi suggeriva una regola, poi sbloccava un passaggio difficile, insomma per far prima e meglio finiva per tradurre tutto guardandola benevolmente e ponendole solo domande saltuarie e scontate.

Quindi veniva il momento di fare la sua matematica: lei prendeva il foglio su cui Secondo aveva timidamente intestato l'esercizio, diceva 'Ah sì....', cominciava a scrivere come un telegrafo, poi glielo restituiva. Lui lo guardava annuendo, lei chiedeva se fosse tutto chiaro: lui non voleva apparirle stupido od annoiarla con inutili ripetizioni e confermava, anche se non era chiara una cippa. Così, in pratica, nessuno dei due faceva reali e duraturi progressi nelle materie in cui erano deficitari, e questi pomeriggi di studio si risolvevano in una bella perdita di tempo.

Forse Secondo s'era ricordato del cinque in matematica che s'era preso giovedì, per quello s'era improvvisamente rabbuiato. O forse era solo un senso d'irritazione che gli dava quella casa intoccabile, così anonima fuori e consacrata all'interno, coi pavimenti di mattonelle rosse esagonali, ma incerati. Fatto sta che quel giorno si presentò proprio nero al tavolo della cucina. Di nuovo il sole, dopo l'ombra delle scale ed il buio dell'ingresso: gli dolevano gli occhi. Vide il vocabolario chiuso e lei tranquillissima, con solo un quadernetto facile aperto davanti: la ribellione affiorò nelle sue parole:

-Voglio proprio sperare... che tu abbia almeno cominciato a cercare le parole nel dizionario!

-Sì sì tranquillo, anzi, ho quasi finito tutto...

Come no. Quello significava che avrebbe dovuto comunque rivedere tutte le traduzioni alla ricerca di nominativi neutri scambiati per accusativi e deponenti presi per passivi, e così via; la cosa non era semplicissima perché le sue traduzioni sbagliate avevano sempre e comunque un senso compiuto. Sapendo che non era stupida, Secondo poteva solo pensare che o lei sapeva che sarebbe venuto ad aiutarla e dunque non traduceva con la dovuta attenzione, oppure stava con la testa fra le nuvole per qualche cosa che Italo le aveva detto o fatto o promesso. In entrambi i casi, le dava sui nervi.

- Guarda un po... ho una frase da tradurre, ma non sono sicura.

- Vediamo

 

Imperare sibi maximum imperium (Seneca)

 

Questa? Ah sì... beh, che c'è che non capisci?

-Non vedo il verbo...

-Il verbo è sottinteso.

Lei aveva espresso la sua difficoltà con un candore che non poteva non risultargli detestabile, perché sapeva che non era sprovveduta e gli pareva giocasse alla bimbetta sperduta per operare una captatio benevolentiæ. Dentro di lui s'accese la filippica, guardava il foglio degli esercizi con occhi amari per fingere di leggerlo con attenzione e pensava violentemente: “Sottinteso come il significato, non mi stupisce che tu non riesca a capirla. Hai mai avuto bisogno di applicarlo, questo insegnamento? Hai mai avuto uno solo dei nostri mali, di noialtre persone comuni, un male abbastanza grande dentro di te, che tu volevi fare una cosa e la necessità ti imponeva di fare tutto l'opposto, e torcendoti le budella hai comunque obbedito alla necessità? Ah, non credo proprio. Tu hai sempre avuto tutto in discesa. Dalla tua topaia di città nebbiosa e cadaverica dove si respira nafta e pulviscolo di carbone e le strade senza alberi hanno nomi di massacri, sei venuta a stare qui nel sole; la scuola, a parte queste bagatelle di latino, te la stai cavando meglio di me; l'amore, l'hai avuto subito e col più bello di tutti noi. I tuoi genitori ti adorano. Fra due anni sarai maggiorenne, andrai sposa, forse non ti toccherà neppure lavorare. Che te ne può fregare a te del fatto che comandare a sé stessi sia il massimo dei comandi? Hai mai dovuto combattere contro una voglia insistente che come un succhiello ti scava fra nervo e midollo, giorno e notte, giorno e notte, hai mai lottato per metterla a tacere? Hah! Non credo proprio sai!

E non mi stupisce che tu la grammatica non riesca a studiarla: le regole sono noia. Impegno, costanza, cose così estranee al tuo mondo. Tu avrai sempre tutto servito, perché la tua bellezza farà in modo che siano gli altri a soffrire per te. Ed infatti io sono qui a farmi mangiare il b#l#no dalle mosche ed a cercarti le parole sul vocabolario, perché la futura sposa di Italo non abbia macchie sul suo diploma dell'esame di Stato, e solo perché lei è bella, anche se a me non ne verrà nulla di nulla in tasca da tutto questo tempo perso.

C'è un solo verbo che può essere sottinteso, cara Lina: il verbo essere. Essere è ovvio. Talmente ovvio che ne perdiamo il valore, e i latini lo eliminavano dalle frasi. Essere è sottinteso e così evidente che posso permettermi di buttare via il mio tempo facendo traduzioni per te. Ma del resto, se non fossi qui, sarei a perder tempo altrove. Uno spreco vale l'altro...”

-Dino me la spieghi questa cosa del verbo sottinteso? Non l'avevo mica mai visto...

-È che in latino il verbo essere, se è est, la terza persona singolare dell'indicativo presente, puoi non scriverlo. Quando in una massima hai una difficoltà, è probabile che ci sia un verbo essere sottinteso, come anche in questo caso.

La domanda dopotutto era pertinente, il resto delle frasi era ben tradotto: la sua debolezza d'animo gli fece sentire d'esser stato forse un po' troppo duro nel giudicarla, e la sua rivolta interiore si dissolse veloce com'era sorta.

Dopotutto chi sono io per parlare? Io poi non so niente di te. Ci conosciamo da poco più di un anno, e non mi racconti gran che della tua vita precedente. Che ne so di quel che hai fatto, che ne so di quel che sei stata, di quel che hai passato e forse sofferto... ne so già così poco di me... il mio passato va cancellandosi a mano a mano che avanza il presente e solo i momenti tremendi rimangono, ma quel che siamo si forma tanto nella noia di tutti i giorni quanto negli istanti che ci restano incisi a futura memoria. Non conosco quel che ho passato io, come posso saperne di te? Tu sei anche e soprattutto quel che sei stata quando ancora non ti conoscevo. E cosa sei stata? Qual'è la traccia che hai lasciato sul tempo? E lo sai che cos'è questa traccia, o la lasci senza rendertene conto, così come fai soffrire senza volerlo né saperlo?

Il tempo lascia una traccia su di noi, ma anche noi lasciamo una traccia sul tempo: questa traccia è quello che percepiamo quando vediamo una nostra fotografia. Non una di quelle di momenti felici o solenni: in quelle, la nostra traccia sul tempo è coperta dal ricordo del sentimento che ci dominava. Nelle foto dei momenti qualsiasi. Lì ne vedo una incorniciata del giorno della tua prima comunione, stai sorridendo troppo e non va bene. In quel cassetto della credenza però, che vi sta sotto e non ti ho mai visto aprire, fra le carte sottili, le gomme a metà e qualche mozzicone di matita ci sarà pure una tua foto d'un momento comune, non particolarmente felice, di cui non hai conservato altro ricordo. Che so, una gita in campagna da quei tuoi parenti del Monferrato. Quella foto che non ho mai visto: eccoti là, nell'aia della cascina, sorridente e piccina, fra tuo zio e tuo padre, le braccia dietro la schiena ed un sorrisetto di una chi se l'è spassata tutta la giornata. Hai le calze un po' sporche e qualche macchia sul vestito bianco a righe. Riprendi quella foto e guardala: forse non ricorderai quasi nulla di quella lunga e serena giornata, non il lavoro nella vigna né la passeggiata nel bosco, umido d'Autunno e così silenzioso... non ricorderai nulla, ma vederla ti darà un indefinibile e delicato piacere, che per alcuni – per me, ad esempio – si accompagna sempre ad un altrettanto sottile dolore; è quella, è la traccia che abbiamo lasciato sul tempo. Ma non solo sul tempo lasciamo un segno, anche sui luoghi.

Torna nella tua città: di certo i portici scuri di quello strano posto dove vivevi portano ancora le tue orme, quella guglia strana fischia nel vento un'aria che ha imparato da te, che ti ha sentito canticchiare mentre sotto di lei aspettavi qualcuno per andare a prendere il gelato nella sera d'Agosto. Un parente, un amico, un amico fra virgolette? Questo non lo so. Di certo ci sarà che gli alberi di quel parco di cui mi parli avranno negli anelli del loro tronco un po' del profumo che vi lasciasti anni fa e che tentano di imitare invano nei loro fiori ad ogni Maggio. Le pietre dei palazzi, sensibilizzate dalla luce riflessa da te nel mattino di Marzo, vogliono imitarti e dunque non parlano, ma conservano dentro di loro tutti i suoni che hanno assorbito dalla strada. Quelle dei selciati, svegliate dal tuo passo, hanno continuato a farsi impermeabili alle piogge, ma hanno assorbito le lacrime.

Tutto questo è certo e se ora tornassi in quei luoghi del tuo passato ogni albero, ogni pietra mi parlerebbe e mi chiederebbe qualcosa di te, che fine hai fatto, la guglia si piegherebbe verso di me per sentire, semmai riuscisse a captarmi qualche parola, o per dirmi che vorrebbe che tu tornassi per insegnarle altri motivetti da fischiare, che si annoia a ripetere sempre lo stesso.

Ma tu, invece, cosa hai preso da quei luoghi e quei tempi del tuo passato? Di questo nulla è certo. Di certo, tu non sei solo gioia sguaiata e sono certo che tu hai anche a che fare con la caligine delle sere di Novembre, quando le montagne ed il loro puro tramonto sono più lontane, nascoste dietro il fiato industriale di centomila vite di lavoro che dalle periferie percorre le vie anonime e finisce a brunire i travertini del centro, a lasciare una notte ancora più spessa. Tu c'entri anche con le vivide macchie di licheni sul terrazzo del palazzo Liberty mezzo abbandonato; con i nomi allucinanti delle strade che evocano battaglie ed immani sofferenze; con i coppi scassati sui tetti che perdono, con la neve a Gennaio che cade bianca, silenziosa e rassegnata sui marciapiedi, sapendo che sarà insozzata dal grigio che sale dal fondo della città. Con i gorghi perplessi di quel pigro fiume che non si sa mai come guardare. Con tutti gli angoli scalcinati e dimenticati dalla felicità, con i cortili carichi d'ombra e di umidità equivoche dove il sole non è mai entrato, con le scale che sanno di miseria. Perché?

Io non so nulla di cosa tu abbia fatto laggiù, posso solo supporre: che tu sia andata a scuola, che le estati te ne andassi in campagna. Ma tutto quello che sta in mezzo? Tu mi hai detto che preferisci star qui: potrebbe essere vero, ma io penso che sia una scappatoia per tagliar corto e non raccontarmi altro, cose che fanno male a ripensarci. Forse laggiù ti piaceva di più ed hai davvero dovuto fare uno sforzo per partire. Sì, so che ti hanno portata qui i tuoi, tuo padre quando ha avuto il posto qui per la precisione, e quindi non avevi scelta, ma quanto ci avrai sofferto? Anche senza considerare le strade e i palazzi che ti erano amici: avrai ben avuto qualche amico che hai dovuto lasciare. E se all'amico, uno solo in particolare, ci mettessimo pure qualche virgoletta? Mi racconterai un giorno, se era così e quanto ti ha fatto male lasciarlo? Se è a lui che scrivi le tue lettere? Sì, forse ha perso le virgolette ora, e lo consideri solo un amico. Sicura? Il tuo amico di lassù sarà stato meno bello del nostro campione di qui, il Marcantonio abbronzato, immagino: un po' per la nebbia, per l'oscurità prolungata, il freddo. Ma forse era più fine, più sensibile, per quanto lo si possa essere a quindici anni. Forse era di buona famiglia. Forse il fatto stesso di camminare fra quelle mura amiche e vive, giocando in centro a fare i gran signori, dava al vostro frequentarvi un carattere unico ed irrecuperabile.

Per quello che, la sera che sei partita, succedevano cose strane alla tua stazione: la Gr. 470 al binario due in attesa di partire con l'omnibus per il Frejus faticava a stare in pressione, come se fosse angosciata o delusa; che soddisfazione c'era a lanciarsi sulle rampe del passo, se tu non avresti più potuto ricompensarla guardandola partire ed arrivare dal tuo balconcino? A che pro profondersi in tutta quella esuberante svaporata? E ancora, la Regina stessa, la Gr. 690 in testa al tuo diretto, si degnò regalarti qualche secondo di ritardo, partendo con tutta calma e minacciando il macchinista di mettersi a slittare se solo lui avesse provato a farle fare di più: così potesti guardare bene, col tempo dovuto, le tue vie, e rivederle una per una, salutare i singoli ricordi che stavano impressi in ogni dato luogo. Ma come l'ago di una bussola il tuo secondo sguardo, quello che non ha bisogno di occhi, fissava un punto preciso della grande città e lo seguiva mentre ti spostavi rispetto a lui. La guglia allungava un poco il suo già lunghissimo collo sottile per vederti. Se non la sapessi capace di simili delicatezze, la sua sagoma nera e puntuta mi farebbe proprio paura, a me.

Il macchinista davanti aveva quasi allungato la mano verso il rubinetto delle sabbiere: non capiva il perché la Regina quella sera fosse così imbolsita, le rotaie erano asciutte e la pressione c'era, ed avrebbe voluto provare a forzarla, in un attimo d'ira. Poi rimise la mano a posto sul regolatore, e si rassegnò ad attendere, tanto ritardo vero non ce n'era. Forse perché sentiva precaria l'aderenza, forse perché in fondo non aveva animo di dar dentro con la sabbia e maltrattare la macchina. Forse, perché davvero quella sera qualcosa nell'aria, pure ostile e profondamente carica di luce riflessa dalla caligine, induceva alla calma, al lasciarsi trasportare. Tanto, in piena linea avrebbero rifatto pace, le avrebbe fatto tirare i centodieci come sempre, la Regina non mancava mai di difendere il proprio titolo nobiliare e manteneva la parola data: bisognava solo tollerare e perdonare quei suoi momenti di pigrizia, le bizze momentanee, normali in un'artista conscia del proprio ineguagliabile valore. Passato il fiume, tu pensasti che non era il caso di torturarsi oltre. La Regina ti sentì, ed il convoglio cominciò ad accelerare rapidamente, per portarti via il prima possibile da quella nebulosa di ricordi che bruciava troppo e ti accecava.

Forse è per questo che tu c'entri anche con tutte le più profonde oscurità di quella città, perché hai pure tu il tuo bel bagaglio di dolci momenti fatti amari da un contorto scherzo del destino, di lacrime non piante ma trattenute, che ti sono rimaste lì. Forse fra di noi sei tu quella che ha sofferto di più, ma non ce lo vuoi dire, perché del tuo male vuoi farne inviolabile segreto oppure non vuoi rattristarci.

Io ti accusavo di non poter aver bisogno di stoicismo, perché sono grossolano e quindi ragiono per grossolane approssimazioni, una delle quali mi dice che le belle ragazze non soffrono mai. Non potevo accusarti perché non so nulla di te, sono stato cretino e arrogante. Ti aspettavi qualcosa di diverso da me? Umiliami, massacrami pure con la tua matematica, fammi sentire una nullità assoluta,me lo sono meritato.

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  • 7 months later...

Non so come mai, m'ero scordato di proseguire la pubblicazione anche qui :s68: Meno male che Corto me l'ha ricordato

 

NB: è importante che, se notate una qualche incongruenza o errore, anche dettagli, me lo facciate notare: la storia è d'invenzione, ma cerco per l'ambientazione il massimo realismo

 

Disciplina

 

Un'operosa mattinata alla San Bartolomeo, una come tante, anzi, come tutte: e Secondo ci stava proprio come un verme nella mela. Era nell'aula, quasi ben riposato e passabilmente pulito, con una bella uniforme invernale ordinaria, forse temuto no, ma certo rispettato, con un'importante mansione da svolgere: si sentiva qualcuno, insomma. Accettando quella destinazione aveva già fatto atto di rassegnazione all'idea che, stando a fare il maestrino a scuola, avrebbe perso ogni merito ed ogni bellezza del fare la Guerra. Mai più avrebbe potuto scendere dalla passerella del Fulmine, dopo lunga e difficoltosa missione di scorta, sporco e selvaggio, ma nobilitato da quanto aveva fatto e vissuto, sentendosi – proprio lui, la nullità più assoluta – nella condizione di guardare con una punta di commiserazione e sfottimento gli imboscati che facevano servizio fisso a terra o sulle navette d'uso locale che mai mettevano il naso fuori dal Mar Grande, per non dire dei civili oltre la cancellata, che facevano finta di passare nell'indifferenza più totale, che a loro la Guerra non li riguardava, ma in realtà si sentiva benissimo che ammiravano ed un po' invidiavano i combattenti...

Quello mai più. Ma non tutto era perduto, certo la gloria, però non la bellezza della vita militare. Grazie a quel che preparava da dire ai suoi allievi, imparava lui stesso cose nuove, che sempre aveva inconsciamente sentito ma mai aveva razionalmente elaborato, e prendeva una nuova sensibilità per fatti che, fino ad allora, aveva sopportato più che vissuto.

 

Nei buchi fra due lezioni Secondo preferiva ora restare nell'aula piuttosto che vagare in giro per il quartiere. Si sedeva su uno dei banchi delle prime file, lato finestre, padrone assoluto del vasto ambiente che i pochi termosifoni rinunciavano per principio a riscaldare a dovere, si sarebbe detto che erano stati installati per dare supporto morale. Si distraeva, guardava fuori, dove nella piazza d'armi le reclute usuravano la loro giovinezza facendo esercizi apparentemente inutili.

“Dura quella vita, eh? Vi starete chiedendo a cosa serve tutto quell'affannarsi in geometrie che hanno il solo scopo di spalare dell'aria. E a che pro fare tutto nell'ordine più assoluto? Dura da accettare, la vita militare, lo so, dura da mandar giù, per voi pappemolle ancora troppo civili. Vi piacerà l'idea di non dover andare in fanteria, però che strazio, lo studio, le marce, le formazioni da mantenere... Forse a voi, Signori, la disciplina parrà una lagna da vecchietti, voi immaginerete che tutte queste regole debba averle inventate un generale da scrivania, con la barba lunga e bianca, pesanti frustrazioni personali da sfogare sul prossimo ed uno sguardo severo e spento al tempo stesso. E soprattutto quello che vi rende insopportabile la disciplina sarà il non trovarne il senso, il non vedere il perché si debbano osservare tutte queste regole così contrarie all'istinto e a ciò che pare più logico e naturale. Ancora ancora al capire perché al mattino si debba rifare la branda, o perché si debba salutare con deferenza il superiore, ci arrivate, sono regole mutuate dal vivere civile. Però la maggioranza del regolamento non trova, secondo le vostre logiche elementari di causa-effetto concreto, una razionale giustificazione. Vi pare che tutto sia fine a sé stesso, senza scopo ulteriore.

Se questo trattamento vi parrà disumano, vorrà dire che state cominciando a capire. Sì, lo possiamo ammettere: dobbiamo fare di voi dei non-umani. Dobbiamo eliminare dalle vostre persone quanto più sia possibile di tutto ciò che risale ai sentimenti ed alle passioni. L'abitudine, la noia, il regolamento, la ripetizione incessante, tutto quanto fa parte della me-ra-vi-glio-sa iniziazione che portiamo avanti in questo santuario dedicato alla Guerra, e tutto questo vi disumanizza.

Questo lo facciamo, noi, se non con gioia almeno con un certo interesse: è perché siamo malvagi, perversi? No Signori, sono molti e validissimi i motivi per cui vi sottoponiamo a questo processo, e se lo facciamo è sia per amor di Patria che, paradossalmente, per amore verso di voi. Saremmo gioiosi se avessimo a che fare con dei volontari veri, decisi ad affidarsi alle nostre iniziazioni, invece voi siete delle amebe che oppongono sempre e comunque resistenza al nostro intento, perché voi non capite. Come potreste capire, del resto? Io ho capito da poco, e solo dopo l'esser stato in Guerra, dopo che una grossa scheggia, passata a pochi centimetri dalla mia vita per caso fortuito, mi ha aperto gli occhi, i soli occhi che contino.

Voi diffidate sempre di noi, eppure noi, malgrado quel che pensate, non siamo qui per calpestare le vostre gioventù e gettarle, una volta annichilite, nel calderone della Guerra Mondiale. La disciplina che vi imponiamo è un metodo, prima per sopravvivere e quindi per vivere. Non so se ci arriverete, certo la maggioranza di voi non capirà. Ma quelli che capiranno ci saranno immensamente grati per averli salvati. E gli altri resteranno invece invischiati nelle paludi dei loro inutili sentimenti che non avranno voluto abbandonare. Peggio per loro.

Per compiere il percorso dovete trascurare la vostra natura umana, e noi siamo qui per insegnarvelo. Voi, acquisita la disciplina, non avrete più sentimenti e l'errore peggiore che possiate fare è l'ostinarvi a portarvi dietro tutto il ciarpame affettivo che vi tirate addosso da quando entrate in questo mondo. Vi vedo, vi vedo benissimo voi file di reclute che arrivate dal deposito del personale, vestiti anonimi e schiene dinoccolate, piegate dalla tristezza, con addosso una patina di marcio, di putredini come una donna amata ed un caro pensiero di madre; ma la prima doccia violenta, lo schiaffo del sapone da orsi che usiamo qui, cominceranno a guarirvi da queste cancrene, anche se opporrete la resistenza più fiera. Poi saranno le mura grigie, il cibo scadente e sempre insufficiente a placare la vostra fame, a farvi penetrare nell'animo quel gelo che pian piano bonificherà le vostre paludi interiori. La carezza del padre? Il tessuto ispido del vostro completo ve la farà presto dimenticare! La bontà infinita di vostra madre? Al Maresciallo, ci penserà lui con le sue arronzate senza pietà! Tutte le dolcezze della vostra vita passata vi parranno via via sempre più virtuali e svaniranno, per quanto furiosamente voi vi concentriate per ravvivarle nel ricordo, unico spazio in cui esse avranno la disgrazia di poter sopravvivere. Una cosa sola vi ostacolerà ostinatamente: l'amore, che voi l'abbiate o no. Quello non lo cancellerà nulla, purtroppo, ve lo trascinerete sempre dietro. In questo, siamo navi che tentano di prendere il largo senza poter salpare le ancore. Ma pian piano, giorno dopo giorno, faticosamente allontanandovi da terra, verrà il momento in cui le grappe dell'amore perderanno la presa nel fango fetido del fondo della vita, che vi scapperà da sotto la chiglia. E sarete più liberi, anche se sempre zavorrati da un rosario rugginoso di giorni persi che sostiene una mostruosità uncinata, lo scheletro d'un sentimento che fu, che si trascina sibilando dove non c'è luce, attendendo un altro fondo fangoso in cui far salda presa. Saremo sempre, anche i più liberi fra di noi, come navi che si tirano innanzi un'ancora con tutta la sua catena.

La disciplina da sola non basta a disfarvi dell'amore; essa può solo indirizzarvi nella direzione giusta, ma sarete voi a dover lucidamente pervenire alla conclusione del discorso. Per questo vi ci vorranno le lunghe ore di vuoto lavoro che si possono trascorrere solo andando all'imbarco, perché non sentirete ciò che fa intendere certe verità finché, per la prima volta, la passerella che vi collega al molo non verrà ritirata facendovi sentire davvero in trappola ed isolati dal vostro mondo passato. Vi dico di come ci sono arrivato io?

 

Una giornata di pace – era la seconda settimana dal mio imbarco – che eravamo fermi in rada dopo aver navigato i giorni precedenti, ho voluto dedicarmi per la prima volta alle incombenze della manutenzione straordinaria; ho chiamato i miei tre sottoposti ed ho posto nelle loro mani uno scalpello consunto, un martello ed una spazzola metallica per ciascuno. Quindi, così armati ed in tenuta di fatica, abbiamo attaccato i piccoli bubboni rugginosi che cominciavano a vedersi qua e là sulle superfici metalliche nelle vicinanze del nostro impianto. Tutte le navi sono verniciate con grande generosità, ma la corrosione è così maledettamente attiva e pruriginosa che spesso anni di mani di pittura sovrapposte non bastano a salvare l'acciaio dalla sua malattia congenita. Io mi scelsi una bolla di ruggine piuttosto evidente sull'angolo della tuga e cominciai a menare di scalpello, non senza fatica, facendo saltar via scaglie di vernice secca e piccole briciole di ferro malato. Poi passavo la spazzola, e per quanto strofinassi non mi sembrava di vedere alcun effetto concreto, l'eczema rossastro non scompariva. Il sole picchiava forte e si sudava, nelle tenute sudicie. Pian piano riuscivo a far scoprire il metallo lucente sotto la ruggine, ma mi resi anche conto che se avessi dovuto curare da solo tutte le chiazze che vedevo, senza la collaborazione più o meno entusiasta dei miei tre compagni, mi ci sarebbe voluta tutta la giornata per venirne a capo. Arrestai un attimo il mio lavorio, preso da un improvviso sconforto. Tore, vedendo che mi fermavo, smise a sua volta e mi guardò, dunque dovetti rianimarlo dicendogli di andare avanti, che altrimenti ci avremmo fatto notte, e intanto leggevo nel suo sguardo e nella sua posa lo stesso mio scoramento. Alla fine, dovetti accettare un compromesso poco onorevole: lasciai la ruggine nelle rugosità dell'acciaio altrove lucido, non potendo raggiungerle né con la spazzola né con la punta dello scalpello. Così, di lì a due mesi si sarebbe stati daccapo, a togliere scaglie di acciaio morto, contaminato dai germi lasciati nella ferita. Coprii l'affare con una speranzosa mano di minio, cui il giorno dopo avrei fatto seguire la tinta regolamentare in grigio cenerino chiaro. Quella sera, constatavo che avevamo perso un bel po' di tempo per solo quattro macchiette di ruggine, e che ogni volta che si faceva quel lavoro si sottraeva spessore alla lastra d'acciaio, che veniva quindi di volta in volta indebolita. Allora, ripensando all'esperienza nel dormiveglia, quando fatti banali dell'esistenza prendono importanze ed estensioni spaventose, realizzai che una parte non trascurabile della nostra esistenza sarà occupata a rimediare al disfacimento continuo cui tendono tutte le cose, il nostro corpo, la nostra mente, i nostri oggetti. E ad ogni passaggio, sotto l'aspetto pulito della cosa sottratta al disordine, si celerà un indebolimento progressivo. L'oggetto riparato dopo il danneggiamento non farà che avvicinarsi alla perfezione originaria. Ma quale perfezione? Le navi spesso nascono da lamiere che hanno già una patina di ruggine addosso, che vengono indebolite dalle piegature, dalle chiodature o dalle saldature: e come loro, anche noi ci portiamo dentro la nostra morte; mentre il nostro corpo cresce e si fortifica, al tempo stesso si usura e si consuma. Così gli animi, aperti alle minime offese. Noi non nasciamo perfetti e lottiamo per tutta l'esistenza contro l'imperfezione, il normale decadimento delle cose: invano. Eppure questa lotta vana è forse l'essenza stessa dell'esistenza, stato anomalo in cui si combatte continuamente contro il disfacimento del tutto. Noi siam qui per raschiare via la ruggine: e finiremo il giorno che, a forza di raschiare, sebbene saremo diventati bravissimi a farlo, la lamiera troppo assottigliata cederà.

 

Ed il bello sarà che voi col vostro incessante tribolare crederete di costruirvi una vita più felice e più completa, mentre in realtà non starete facendo altro che tenere a galla la baracca, rimediare al disfacimento di tutto ciò che dovete tenere assieme. A questo ci ho pensato un altro giorno, un noioso e snervante addestramento divenuto tale perché ormai era da qualche mese che stavo all'imbarco e mancava la novità, la voglia di mettersi in luce era stata scalzata dal semplice bisogno di non fare stupidaggini. Ero appollaiato sul seggiolino del mio impianto da qualche ora, in attesa che andassimo sul poligono e che venisse il nostro turno di lanciare. Faceva, anche quella mattina, un gran caldo fetido e l'acqua pareva un lago di olio ripugnante. Le membra mi dolevano, incombeva un mal di testa, tutte le cinghie degli arnesi che avevo indosso mi rigavano, le orecchie pressate dentro le cuffie erano propaggini unte e doloranti, in breve mi sentivo al fondo della miseria come poche altre volte lo ero stato. Ero tanto preso dal notare quanto stavo da schifo e dal calcare sulla mia infelicità che mi resi conto, per l'appunto, che da un'ora almeno non facevo che incarognirmi da solo e che questo ostinato ribollire di odio contro la mia condizione e le circostanze che l'avevano prodotte, non avrebbe condotto certo ad un facile ed immediato sollievo. Andarmene da lì non potevo, cambiare qualcosa nemmeno, tanto valeva far buon viso a cattivo gioco: usare la pazienza che mi avevano insegnato durante la mia istruzione per meglio galleggiare su quella poco invidiabile situazione. Mi rassegnai, smisi di elencarmi tutti i mali, mi piegai a farmi metallo come l'acciaio su cui sedevo, senza pensieri ma solo un vibrare microscopico di elettroni che non sentono mai fatica né dolore. E dopo, quando il sole smise di picchiare con tutta la forza di cui era capace, riconcedendomi una minima facoltà di pensiero mi chiesi perché avevo sprecato tanta energia nel protestare sordamente contro quelle avversità. La solita solfa, la solita maledetta zuppa rancida era, quella che ci scodelliamo per tutta l'esistenza, la ricerca della felicità.

Pervenni così, dopo un'esperienza tanto banale, alla sintesi della regola su cui da quel giorno si fonda il mio pensiero: la ricerca della felicità è la prima fonte dei nostri mali.

Fatalmente voi, assolvendo i vostri compiti, perverrete a questa verità, la potrete negare o negoziare. La gente fuori di qui decide di ignorare il conto ed il bilancio e cercando la felicità si avvelena il sangue; ma noi, no: la disciplina ci offre un'altra via, un modo per scappare a questo sporco ricatto che l'esistenza ci impone. Noi possiamo trovare nella disciplina stessa un altro bilancio senza bene né male, un altro scopo che non sia la felicità. Non chiedersi mai cosa riserva il domani. Non chiedersi mai il perché si sta facendo una cosa, ma farla per il gusto dell'azione fine a sé stessa; non tenere il conto del bene e del male, non calibrare ogni mattina la lamiera che si assottiglia, non lesinare in energie: per questo troverete che la disciplina che vi hanno impartito serve, e che non potreste proprio far senza. Così, potrete trovare il modo di galleggiare sull'esistenza nell'ingenuità divina di coloro che non cercano risposte, non cercano le cause, ma si concentrano sull'atto. Questo è il nostro fine ultimo e l'esistenza, privata di gran parte del suo peso, vi parrà molto meno seria e molto più fruibile delle vite che avete vissuto fino ad allora.

 

Voi, ancora inesperti come siete, credete che noi si sia qui per estirpare da voi la felicità: sì, è vero. Guardate questi muri grigi, pitturati con colori morti, quegli alberi marcescenti, le mura che vi lasciano del cielo solo un vuoto quadrato pallido, il mare che non è più fonte prima della vita, luogo dei vostri giochi amorosi, ma è metri di profondità eguale chili di pressione per centimetro quadrato, gradi bussola e velocità del vento, deriva e punto nave stimato. Tutto è fatto per cancellare da voi la felicità. Così l'animo sarà più puro e libero per ospitare la serenità altra che troverete al termine del vostro percorso, se ci avrete seguito per la via. C'è chi la chiama soddisfazione professionale, chi senso del dovere, chi, più pratico, gusto del lavoro ben fatto: ma sono molti nomi fuorvianti per qualcosa che tutti noi uomini in armi sentiamo e che ancora non ha ricevuto un nome. Noi vi strappiamo la felicità per darvi un bene più delicato e duraturo, leggero e solidissimo; leggero perché impalpabile, quasi indefinibile, solidissimo perché vi accompagnerà per tutta la vostra nuova esistenza e non sarà disturbato da tutti i piccoli accidenti delle vite comuni, quali gli amori od i lutti, che solgono fare il bello e il brutto tempo nei vostri animi. Si tratta in fondo di quel che mi fa preferire quest'aula fredda ed un poco puzzolente, dove fanno eco gli ordini impartiti giù nel piazzale, al cortile soleggiato e silenzioso di casa mia. Laggiù perdevo tempo indefinitamente aspettando improbabili futuri ed impossibili amori, qui perdo un po' di tempo in attesa della lezione delle dieci e mezza e non subisco attentati alla mia dignità. La mia serenità non ha un nome, ma ha come simbolo il paio di stellette che ho sul solino e che tutti noi portiamo. Capite, ora, da dove viene il nostro interesse nell'agire da dispersori per la vostra felicità? Noi vogliamo portarvi altrove, ad una fonte di bene meno illusoria che le povere droghe del popolino. Ora sta a voi seguirci. Ehi tu, il terzo da sinistra della seconda fila! Piegati di più, non fare finta! E vedi di dimenticare quella sciacquetta isterica della “tua” ragazza, altrimenti qui non farai molta strada. Fra qualche anno, ci ringrazierai per questo.

 

Il fatto è che al CAR dovrebbero essere più chiari, sennò questi mantengono le loro illusioni. Ci vorrebbe una bella scritta al portale:

Depositate qui fuori i vostri bagagli

inclusi amori, rimorsi e altri sbagli;

a tutti i presenti è fatto divieto

col vostro ricordo di tornare indietro:

ciò va a detrimento del vostro morale.

E invece là che c'è scritto? Vincere e vinceremo, o Credere, Obbedire, Combattere... Credere sì, il resto non serve a niente, ché del credere è la logica conseguenza. Quelle scritte non vi parlano ed andate mosci in fila, la schiena curva, lo sguardo basso, un amore dietro ed un sassolino nella scarpa ben fitto. Sentite gente, che di un'altra lettura avrete bisogno! Di quei begli occhi, del tepore della pelle e del profumo, dovrete imparare a far senza. Per 'sta roba vi è concesso solo il sogno, se avrete tempo per sognare prima che suoni la sveglia in camerata...

Appena intravista, ed è già bell'e andata!

Lambiva un bruire rosa nell'ora la spiaggia

che sopra il bordo del mondo il sole viaggia

verso orizzonti che non ha e chiara la sabbia

faceva culla: lei bella vicina quieta si trastulla,

fra le mani ha un rametto pescato chissà dove;

e tu hai un affanno zitto, da dir non trovi nulla,

e tutto dovresti dire, ora, tutto! E ti fa rabbia.

Ma l'ombra prima digita già sulle sue ciglia

un dettato che sente da quel po' di maestrale,

se volti lo sguardo quel suo che di vaniglia

ti sussurra alle nari: sei ancora un mortale...

A che serve spiegarsi, a che pro la parola,

se sta tutto il creato in una sillaba sola,

e la vita è qui ora, non ieri, né altrove.

Ma guarda il mare da scuro farsi bianco,

vedi un vento venire con stridore di tromba,

d'improvviso ti senti in pericolo e stanco

da non poterti muovere, e par che soccomba

il tuo corpo e quel che vedi, sotto gran peso.

Cadi: un grigio negli occhi feriti e sei preso

in un letto di caserma dalla grama coperta,

la raffica della “Sveglia” dalla porta aperta.

È questo il vero: e ti picchia, questo vero,

lo svegliarsi quando fuori è ancora nero,

il vestirsi nella frigida, urlante camerata

e scarponi duri ai piedi, per durissima giornata.

È questo il vero: non il sogno, ne l'amore...

Quella sera in spiaggia: non è mai esistita!

E così marcia la contabilità della tua vita

spietata: tanti più sogni, quanto più dolore.

Date retta quindi a questa scritta ininterrotta, lasciatavi da chi trecentottantasette volte – almeno – s'è alzato prima di voi in quella stessa branda rotta, e cento volte almeno cadendo di testa da un sogno ben sereno. Ascoltate la scia di parole che qui comincia e fila poi nel mare mondo, che qui è su un muro e là fuori ovunque vi sia un berretto che una mano ondeggia salutando da un treno, ed ovunque una Nave abbia fatto l'ultimo e più grande suo volo verso il fondo...

Le piastrelle che calcate son scavate da generazioni di piedi strascicati, i muri che vi opprimono cerosi ed ingialliti da ettolitri di passati fiati sudati, come di bestiame condannato che senza più acqua né fieno né strame se ne va spinto a farsi aprir le vene. Tutti l'abbiam pensato e quel mesto e vellutato strascicar di scarpe suona, a pensarci bene, come sbatter di catene. Ma se ascolterete il pavimento stanco e scolorito – quel sospiro che fa sotto i vostri arti nel tempo è rimasto uguale ed ha sempre quel suo che di Cattedrale – entrerete nel discorso mai finito di chi giù per lo Ionio va a parlarne col Grecale.

Questo pavimento, vedete, è solido e consumato: ma presto ben altro sentimento avrete, quello di un ponte lucido e piombato che ad ogni momento potrebbe saltare nello spasimo di dolore di un siluro. E non ci si fa il callo, sapete, all'attesa del momento morituro, né al gemito pietoso del metallo, la tortura dello scafo che vi regge, quando l'onda affamata schianta al mascone, in quei giorni che è il mare solo a far la legge. E nessuno fa eccezione: tutti prima o poi han fissato il rivetto,il più lasco della fila, che se l'onda sommerge la prua e la paratia va in tensione, muove un poco e fa passare un rivoletto, che scivola e defila; e resta una sfilacciatura, rossa di corrosione e d'umido scura, per quando in porto la paura s'asciuga alla brezzolina che entra dall'oblò aperto, per ricordarvi di quando ciò che ora è solido era allora incerto.

Anche il fuochista più usato ed esperto,

da due lustri a custodire una caldaia,

che sa le bizze del fuoco e del vapore,

non si disfa mai del suo acqueo timore

come di passero in bilico alla grondaia

che sa ben volare, ma poi, si sa mai?

Come un aviatore che voli sul deserto:

per ora si tiene, ma poi, che ne sai?

A ventitré chili per centimetro quadrato

nella vena d'acciaio è compressa la morte

e ruggisce la fiamma, per la nave la vita:

l'uomo comanda, ma sa che la sua sorte

dal bullone dipende che secco s'avvita

e serra nella ferita del ferro filettato.

E il Comandante, alto, lontano da tutto?

Niente accrocchi né tubi in pressione,

per lui, sempre al sicuro, su all'asciutto:

esentato – lo credono – dall'apprensione.

Falso: è proprio lui che di tutti il peso

sostiene, e cara e rara gli è la pace.

Dalla guardia tesa smonta il sottoposto:

il compagno subentra e nel castello scuro

sicuro riposa, ché il Comandante veglia.

Questo smonta: gli subentra il Secondo.

Il miglior giaciglio è suo, eppure tenace

un amo lo ripesca al sonno fondo.

Amo è il dubbio: il nuovo, sarà capace?

E quel che dissi al tale, l'avrà compreso?

Sento mare: i ragazzi, saranno a posto?

E speriamo non torni di nebbia quel muro,

che quella turbodinamo zoppa tenga duro,

che nessuno venga a darmi la sveglia,

che la guardia stia all'erta, le armi pronte,

che il nemico se ne resti sotto l'orizzonte.

Duecentoottanta vite ho al mio comando:

duecentoottanta fuochi, deboli fari,

che nel vento spegnerei, sbagliando

io, che sovrasto questi mondi solitari

nella taciuta solitudine delle paure,

io, che pago il prestigio e la mia paga

servendo da Atlante a duecentoottanta

mondi che s'intrecciano per l'insicure

orbite di questo cosmo con chi vaga

in cerca dell'armonia dolce ondivaga

detta amare. Mare, le tue ondate dure

di spume non si curano mai di quanta

pena cresca dentro me ad ogni volta

che la prora cala nel cavo e la cresta

mi copre il sole alla vista e poi resta

sospesa sopra noi, poi rovina e tolta

al cielo crolla a coprirci d'un mantello

d'acqua rabbiosa e questo a molti bello

pare, ma non a me, padre di troppi figli

che devo salvare da fin troppi artigli.

 

Voi comuni, liberi ci vedete,

bei gradi sulla bella uniforme,

noi imperanti, voi stando in riga,

muti ci invidiate alla rassegna:

ma chi di voi di noi vuol seguir l'orme

sappia che noi si può anche aver sete

di quando d'obbedire alla consegna

altro pensiero non si ha, né briga;

sappiate, comuni, che i fregi dorati

dal mal di vita non sono esentati...

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Licenza poetica: una lettera di lunghezza inverosimile per quei tempi di buste fragili e di carta razionata

 

Lettera a Rosa, II e III tentativo

 

“Cara Rosa,

Perdonami innanzitutto se per così tanto tempo non mi sono fatto vivo. Il fatto è che decidere di scrivere questa lettera non è stato facile per me, essendo la prima d'amore che mi trovo a scrivere. Sì, hai letto bene, questa mia è una lettera d'amore. È nata nelle profondità del tempo, quando come per scarico di coscienza sono venuto a far visita alla tua famiglia dopo la sciagura del 9 Novembre. Ero venuto con l'animo grave e ne son ripartito come rinato. E sei tu che mi hai fatto rinascere.

Venivo ad annunciarti la morte di tuo fratello. Venivo, insomma, a farti del male. Me ne volevo. Avrei potuto lasciar perdere e regalarvi quel dubbio che a volte può supplire alla presenza...”

 

Qui Secondo si fermò. Posò la stilografica unta e gravida d'inchiostro e pensò a voce alta:

 

- Sergente silurista Secondo Giovanni Maria Marchetti, distaccato presso la Scuola San Bartolomeo, distretto navale di La Spezia, in qualità di istruttore... Si tratta di lei? Sicuro? Bene, perché ce l'ho proprio con lei: se questo è il meglio che può fare, le consiglio di prendere una cima robusta, di quelle da ventidue, a tre legnoli, quindi di lubrificarla con un poco di sapone e di andare ad impiccarsi al lampione più vicino. Se abbiamo appena appurato che proprio non sa più scrivere una lettera, non ho dubbi sul fatto che, perlomeno, ricorderà come annodare un cappio.

 

Si rendeva conto sin dalla fine del primo periodo che aveva buttato giù delle banali fesserie, eppure aveva continuato a scrivere sovrappensiero. Era la sera di una bella giornata, proficua e serena, ed a cena gli era venuto da ripensare ad un paio di timidi complimenti che Rosa gli aveva fatto a proposito delle sue dita e dello sguardo; forse seria ed invitante, ma forse anche solo trascinata dal momento e dal bisogno di dimenticare, calandosi in una parte, quella della giovane scherzosa, che era tutto l'opposto di quanto le prescriveva il suo recentissimo lutto.

 

Nel dubbio, comunque fosse, non valeva la pena scriverle due righe appassionate? Nel dubbio, sì! Male non le avrebbe fatto, al peggio l'avrebbe lusingata. Ma non andava proprio, nel modo in cui aveva cominciato. Ripose dunque il foglio, ne prese un altro dalla risma magra, con tutto che era diventato difficile procurarsi della carta decente ed era allora più che mai un abominio sprecarla. Sbuffò e si rimbrottò a denti stretti:

- Prova a pensare prima di scrivere, questa volta, abbelinato.

 

“Cara Rosa,

Troverai forse che è da molto tempo che non Ti do mie notizie: ma per me, come Ti dissi, il tempo ha durate del tutto relative e le mie settimane corrispondono ai giorni degli altri, e mi parve di capire che lo stesso valeva per Te. Ora, se questo mio silenzio non Ti ha offesa, ti dirò le cose che a parole, con le povere parole buttate per l'aria allo sbaraglio nella frenesia del conversare, non potevo proprio dirTi. Di stupidaggini, Te ne ho dette per sempre: ma quel che Ti scriverò, in Tua presenza non potevo proprio cavarmelo di bocca. Forse, mi vien da pensare, se lo avessi fatto Ti avrei mancato di rispetto.

Io a parole non son stato sincero ed ho mentito per omissione. Ti ho detto qualcosa del mio passato, e molto ho taciuto per convenienza, perché non volevo rompere quella Tua serenità che mi pareva tanto più fragile ed incredibile in quanto viveva malgrado quelle circostanze, e perché mi facevi paura. Sono un vile, e solo ora che non ci sei posso aggiungere le parole che avevo lasciato in sospeso.

Una cosa che Ti devo raccontare meglio è quel che ho passato la notte del Nove Novembre, della quale Ti lasciai senz'altro un'idea falsata. Lascerò riposare in pace Tuo fratello, su di lui non Ti mentii, ma non fui sincero su me stesso, Ti dissi che ebbi molta paura ma credimi, ne ebbi molta di più in seguito, in Tua presenza.

Tu non hai mai visto, com'è giusto che sia, una battaglia sul mare. È la morte, l'attrazione verso la soglia del nulla, che va a possedere uomini e navi, di quelli che somministrano così come di quelli che devono ricevere. La controspinta antagonista all'esistenza risale alla superficie degli animi e delle cose e rende tutto limpido, fa l'uomo veggente; vedi scafi condannati correre veementi attraverso i solchi di un camposanto con filari di cipressi bianchi, viventi come non mai, come ansiosi di terminare tutta la loro forza prima di arrivare al limitare della loro corsa; vedi la pira funebre del vincitore lento, che si ammanta di globi di fiamme una volta ogni dieci secondi ed allunga dita di traccianti sullo spazio conquistato, mentre la morte attinge con gioia e mano generosa alla sua santabarbara, per spandere la sua semenza sul campo blu arato dove si va a mietere il raccolto, che matura pochi istanti dopo, quando alla centrale di tiro gracchia l'indicatore di caduta delle salve e l'occhio del direttore si fa più avido.

Il seme, se cade in mare, fa nascere un albero effimero di schiuma, e tutt'attorno l'acqua si irrita, pinzata dalle schegge. Se coglie nel segno, è un fiore di luce da cui si diparte una ragnatela di spine che bucano aria, acqua, acciaio, nafta, vapore e carne con lo stesso agio, fondendo assieme gli elementi, riportandoli alla confusione primordiale. Le belle strutture lineari, le curve armoniche, i metalli lavorati, tagliati e foggiati della nave vengono sventrati, anneriti e contorti e tornano a somigliare al ferro minerale da cui ebbero origine. Gli uomini educati, addestrati, forti nel fisico e dotati di coscienza e volontà, se son toccati da una di quelle spine ridiventano feti appena partoriti, sanguinanti, abbandonati sul ponte, incapaci di muoversi, del tutto indifesi. Su molti di essi il caso non s'accontenta di ciò, ma ne fa scempio, ne fa aborti mutilati e li getta nel rimescolio della materia, chi sminuzzato da un colpo di mitragliera, altri, come sentii raccontare poi da dei fuochisti scampati, bruciati dal vapore ruggente che fuggiva dalle condotte sconquassate, e rimasti uniti, come incollati dal calore, a quelle stesse condotte, tessuti così stravolti che forse neppure i batteri marini avranno potuto cibarsi di loro. E la nafta che sboccava dalle casse sfondate evaporava in fiamme grasse, avide, che nell'impazienza del non poter mangiare il metallo senza prima averlo portato al calor bianco, si rifacevano sui corpi.

La luce elettrica se ne va presto, non appena il fragile sistema nervoso riceve le prime offese: restano a far luce solo gli incendi e le vampate delle armi, quelle sì, attive ed efficienti fino alla fine, perché la distruzione opera secondo logica rigorosa e fa in modo che essa possa coinvolgere quanta più esistenza che sia possibile. Quindi, man mano che fioriscono i colpi giunti a bersaglio sul grigio delle murate, prima cadono le aeree della radio, si perdono le comunicazioni e la forza elettrica, ma si corre e si spara sempre; poi si potrà perdere la forza motrice e la nave si fermerà, si comincerà ad imbarcare acqua: ma anche così, anche con gli armamenti dei pezzi più volte falciati e le norie della santabarbara fuori uso, i cannoni spareranno ancora con artiglieri improvvisati venuti da altri reparti, e con le munizioni delle riservette. Più volte è successo che una nave ha spento la fiamma della sua ultima cannonata nel mare che fluiva a coprirle il ponte cosparso di corpi e bossoli sparati.

Gli uomini come le navi in battaglia sono posseduti, non si appartengono più. Entrano nella gravità del nulla, ed al nulla che reclama distruzione obbediscono, e se alcuni di loro hanno facoltà di vedere tutto più chiaramente è solo per meglio uccidere ed uccidersi. Per questo esultano per la morte altrui, per questo tirano sulle navi nemiche finché non son scomparse nella fossa, e mitragliano i naufraghi in mare, gli passano addosso a tutta forza per macellarli nelle eliche, per poi abbandonarli agli squali: tutte cose che non si sarebbero mai creduti capaci di fare, compiute da uomini altrimenti mansueti, di buona educazione. Bevono a palpebre spalancate la luce degli incendi, si nutrono del tuono che fanno le granate sconquassando le lamiere, che non proviene dalla semplice distanza che leggi sul ripetitore del telemetro: prima di giungerti ha percorso intere le cavità del nulla. Per questo nessuna onomatopea, nessuna similitudine delle nostre povere lingue può descriverlo.

Quando viene il giorno, sull'incrociatore che rientra intatto e vittorioso al proprio porto, coi cannoni scorticati dal calore del tiro a ritmo serrato, la gente non è felice e superba come si potrebbe pensare, se lo è sta fingendo per non svelare il proprio torbido; perché in realtà è come se si fosse svegliata da un intenso sogno perturbante: non si ritrova più, non si capacita, ricorda appena qualche fotogramma della notte passata: l'acqua dei colpi caduti vicino, le vampate che lasciano nel vuoto nero dei baleni multicolori. Sono cavi nello spirito, capaci di compiere il loro dovere quotidiano e nulla più, perché il nulla è stato in loro e loro son stati il nulla: torneranno ad essere uomini solo col tempo, l'amore e l'amicizia. Per ora, le voci risuonano dentro di essi senza che possano coglierne il senso, la luce entra nei loro occhi per dissolvervisi.”

 

Suonava il Silenzio in quartiere, vibrava da dietro le persiane chiuse. Secondo dovette mollare tutto, riporre penna e cartacce e rinviare alla sera dell'indomani, quando puntualmente, avendo palleggiato tutto il giorno altre idee, riprese:

 

“E i vinti? Noi sapevamo che cosa avevamo davanti a noi: prima salva lunga, seconda corta, terza a segno, è la progressione logica di un tiro ben diretto. Dalla quantità d'acqua che si sollevava dal campo, capimmo anche che chi tirava su di noi era un incrociatore. Sapevamo, infine, di essere sull'ultimo miglio di corsa del Fulmine ma, perdio, non volevamo affondare soli! Mentre le prime schegge sfarfallavano per il vuoto sopra di noi, ronzando come calabroni, e suonava la sirena del posto di combattimento, cessavamo di essere uomini e scendeva in noi il dominio del nulla che per noi vinti è pura paura ed intenso, ardente bisogno di distruzione. Non avevamo più i nostri nomi, al limite potevamo avere un grado ed una funzione. Pensavo poco, e poi più nulla dal momento in cui fui mancato di poco dai primi frammenti, quel che mi passò per la mente fu solo una ridda di sentimenti primari. Volevo vedere i miei siluri schiantare il ventre di quel borioso, superbo, crudele incrociatore ed il suo sangue oleoso mischiarsi al nostro; volevo, se proprio dovevo restarci, non soffrire. Dopo, dopo sì, ripensandoci arricchii il momento di una trafila di complesse riflessioni, ma abusivamente, perché sotto le righe delle spine che frullavano provavo solo paura ed odio.

Trasmettevo queste forze alla rigidezza attorno a me, forzando il soggolo dell'elmetto con la mascella, gonfiandomi d'aria fino a far scricchiolare i legacci del mio giubbotto, serrando il volantino del mio impianto con mani che non erano più le belle e lunghe dita che tanto Ti piacquero, ma artigli, morse, e così i miei occhi, non più sfumati di biondo e sfuggenti come Tu mi dicesti, ma fissi, spalancati, dovevano essere neri come non saranno mai più, cercando di stimare la distanza e gli elementi del moto della nave inglese contro la quale avrei potuto dover lanciare quanto prima. Come i miei bei siluri, una macchina votata alla distruzione propria ed altrui, con una testa esplosiva ed un cuore a duecento atmosfere.

Ed avevo dentro un terrore; nulla di sorprendente, penserai: ma non mi spaventava tanto la morte, per la quale mantenevo solo la paura di Colombo sulle rive dell'Atlantico, quanto piuttosto la realtà ed il suo male. Facile dire che bene e male non dipendono che dalla nostra prospettiva, finché non hai davvero toccato il dolore della materia. Non hai mai visto una scheggia di granata, per Tua fortuna: è un grano di ferro grezzo, rovente, tutto irregolare e tagliente: fa quel ronzio basso volando proprio perché lacera l'aria malamente e questa, ferita e trapassata, rantola d'un gorgoglio sanguigno. Lo scatenarsi istantaneo della potenza chimica del tritolo racchiuso nel seme spaventa come può farlo un tuono inatteso nella notte, ma è quel rantolo subito seguente che terrorizza, e le mie fibre andavano in risonanza con quel suono, come se presentissero la loro macellazione. Perché in fondo allo scomparire m'ero già rassegnato, era per quello che ero partito volontario: ma, solita pusillanimità degli uomini, volevo che succedesse senza che soffrissi.

Che ho detto? Che ero partito per non tornare? Sì, anche. Una storia che grossomodo ti ho già raccontato; non ero del tutto volontario: se mi trovavo in quel camposanto era colpa di una notte di tre anni, cinque mesi e venti giorni (circa) prima di quella. La notte in cui ebbi la certezza d'aver perso Lina ancora prima d'aver tentato l'assalto, che come ti dissi mi diede tutto un altro orientamento rispetto alla vita mia ed altrui; prima avevo un'altra idea, del tutto diversa, dell'amore e del mondo su cui esso imperava, che mi ero ficcato in testa di voler comprendere, perché amavo; ne ero felice perché sentivo prossimo il più grande bene che avrei mai potuto avere, la vedevo giù nel mio cortile quasi ogni giorno, con quei vestiti seri da oltralpe ed i capelli ribelli di cui lei si lamentava, ed in presenza di lei ogni necessità di indagine e di comprensione veniva meno. Però volevo comunque capire, per poter gustare più a fondo quella gioia sentendomi in qualche modo padrone del mio gioco, altrimenti avrei continuato a parlare la lingua dei sogni, perfetta nell'atto e sul momento, ma irriproducibile dopo il risveglio.

 

Ho sempre pensato che per comprendere i massimi sistemi si debba scendere ai minimi: così (ero ai tempi del Liceo e mangiavo scienza anche per conto mio, per propiziare il mio futuro sogno di diventare Macchinista di Prima Classe alle F.S.) un giorno che ero più innamorato del solito mi misi a cercare le logiche alla base dell'amore non nei vari Canzonieri, ognuno dei quali dice la propria verità, ma in un inappellabile libro di fisica, con lo stesso estro disordinato con cui avrei scritto una lettera a lei.

Nel volume serissimo, che nessuna tarma avrebbe mai osato addentare in virtù dell'autorità della copertina e dei caratteri, scoprii che l'unità minima della materia non sono gli atomi, perché questi si formano con l'incontro degli elettroni e dei protoni, particelle di cariche opposte che armonicamente – e spesso in modo provvisorio – si congiungono e coesistono in virtù della reciproca attrazione; così m'immaginavo che anche noi fossimo carichette insignificanti che, lanciate per lo spazio vuoto e seguendo passive e sballottate le chine dei più disparati campi elettromagnetici, attendevano di entrare nell'influsso di un opposto a loro congeniale, perché per noi non ci può essere pace né stabilità se non nell'interazione che annulla lo scompenso dei potenziali, quando l'elettrone orbita attorno al suo protone e spicca l'atomo, il mattoncino solido e visibile dell'universo. Allora, i nostri campi si compensano a vicenda ed in questa unione ognuno pensa alla felicità dell'altro, ricevendo la propria di riflesso da quella. Così completi e bilanciati, si può passare indenni attraverso tutte le burrasche che percorrono il vuoto in cui continueremo sempre a vagare.

Mi mancava però la ragione fondamentale, quella che spiegava l'attrazione reciproca che esisteva indipendentemente dal nostro perderci o trovarci: si può sempre aggiungere un perché alla catena delle domande, e fino ad un certo punto le risposte possono controbattere: ma si giungerà prima o poi ad un perché a cui non si può dare soddisfazione scientifica, e lì troverai la tua qualche forma di Dio, oltre la frontiera dell'ultima risposta: “Perché è così”.

Io avevo dunque trovato il mio protone nero, venuto da lontano per elaborati intrecci di traiettorie, si sarebbe detto apposta per completarmi; senonché doveva mancarmi qualcosa, forse avevo un che di sbagliato, di scarico o di storto, forse il numero di Spin al contrario, perché lei quella notte scelse un altro e tenne me su un'orbita più alta, quasi al di fuori del suo campo. Lascia stare la delusione, il naturale scoramento di chi perde la propria fonte d'equilibrio e resta così esposto alle soperchierie del vuoto, ad ogni minima ondina magnetica che, senza quel campo a tenerlo saldo, diventa una valanga: quello di cui presi coscienza e che mi fece orrore andava oltre ed era la predestinazione, la matematicità di tutto quel che era successo, celata nel motivo primo che restava oltre l'ultima risposta.

 

Di certo c'era che non poteva andare altrimenti che così; io non potevo non innamorarmi di lei, lei non poteva non innamorarsi dell'altro, essendo io troppo scarico, troppo poco carico di vita. La nostra vitalità e la nostra bellezza facevano la differenza di potenziali in cui io restavo fregato. Se anche ci fosse stata qualche variabile momentanea che avrebbe potuto giocare a mio favore, un gesto particolare che avrei dovuto fare, la buona predisposizione d'un momento che avrei dovuto cogliere, non me ne resi conto. E persi non perché non conoscevo il regolamento, ma perché mi sfuggì qualche rilevamento dell'elettricità di lei, o non seppi vedere che avevo lo Spin del tutto a rovescio: nel gioco in sé, tutto era perfettamente misurabile e prevedibile, proprio come le attrazioni delle particelle. Io poi non m'ero nemmeno posto la domanda se volessi stare con lei, e per che cosa; di tutto il piano elaborato che m'ero studiato per dichiararmi, io avevo deciso di tutte le minuzie ma non dell'attuazione stessa, la cosa più importante. La poesiola che scrissi per l'occasione era come se non fosse mia – difatti faceva pietà e fu forse un bene per il mio orgoglio che non la lessi. Era un conflitto che combattevo per vincere, che io però non avevo dichiarato, come la Grande Guerra, decisa dalla piazza più che dal Re. Era il fatto che mi aveva investito, ed io beato e felice m'ero lasciato fare, senza possibilità di usare il mio libero arbitrio, e senza nemmeno sentire il bisogno di usarlo! Ero stato giocato e non potevo non soffrire: tutto il passato ed il presente era scritto nelle nostre leggi, le stesse che con gioia ero andato a scoprire.

Vero, pensavo quello perché ero solo, ero in pratica vittima di un qualcosa di sbagliato che in fondo c'era in me stesso e la mia non era protesta sincera, scaturita contro l'evidenza: volando nell'orbita più interna di lei avrei senz'altro cantato le lodi della galassia fatta a nostra somiglianza. Ed anche questo era prevedibile, non potevo non lamentarmi. Però, buttato fuori dal ballo in malo modo, una volta rialzatomi dal fango ebbi la possibilità di vedere le danze da fuori, e guardando da fuori notavo come nessuno giocasse davvero per sé stesso: anche la stessa ricerca della felicità era in fondo un'esigenza dataci dalla nostra precostruita natura. Noi dovevamo essere atomi e nient'altro, atomi come tutti quelli che ci precedettero e che ci seguiranno.

Avevamo letto di Ippolito, al Liceo: e tutti a dare addosso al fesso che preferiva i cavalli alle donne per quanto, fra di noi boriosi sfottitori, molti avrebbero ancora preferito possedere una Isotta Fraschini a sei cilindri in linea piuttosto che una qualsiasi Giulia od Anna o Chiarella. Ma ora il mito mi si svelava più limpido e la realtà era che Ippolito aveva avuto ragione a far di testa sua, e gli Dei carogne l'avevano punito perché non si conformava ai loro disegni, non tolleravano la marionetta senza fili. Ippolito era l'elettrone impazzito e selvaggio: io volevo essere come lui, magari non vivere senza amore, ma almeno giudicare e se del caso combattere, essere io a decidere, anche contro tendenze che facessero parte di me stesso. Soffrire perché era così, perché quella era la via e non poteva andare che così? No, non ci stavo, non più, dato che al male non si fuggiva almeno avrei sofferto per motivi che IO m'ero scelto, non che l'esistenza aveva prescelto per me senza consultarmi.

 

Sarei stato punito a fuoco lento: scaricandomi, giorno dopo giorno, nella solitudine, nel negare la mia natura. Ma avrei riconquistato una vera libertà facendo un qualcosa che io, solo io avevo deciso, e che andava contro ai miei stessi interessi e progetti, per essere certo che non la convenienza, non la naturale pendenza della vita avevano deciso per me, ma io solo. Le mie previsioni mi vedevano fare il corso macchinisti ed entrare nelle F.S. appena finiti gli studi, con i buoni uffici di mio zio Mario che mi avrebbe aiutato a preparare il corso e che, se del caso, avrebbe messo una buona parola per me alla direzione del personale. Poi, e lo pensavo nei momenti di calma seguiti a quella notte, non potendo avere Lina mi sarei sistemato con una qualche sciacquetta di paese, quelle buone ragazze un po' bruttine ma in apparenza virtuose di cui abbondano i miei paraggi, magari quella Laide, piccola cosa di commessa di bottega che, quando non era fissata col figlio minore del medico, ogni tanto sorrideva anche a me. Ero conscio che non avrei potuto contrastare per sempre la corrente, che presto la ribellione si sarebbe esaurita da sé, ma almeno mi sarei preso gioco della mia insaziabile sete di bellezza.

In fin dei conti le decisioni più importanti della vita le ho sempre prese d'impulso; un pomeriggio alla G.I.L. era venuto un Ufficiale di Marina a parlarci degli arruolamenti: esponeva la sua mercanzia con parole convincenti, parlava di vita sana, una paga vera, il cameratismo, girare il mondo e ritrovarsi alla fine uomini fatti, rispettati e con un mestiere già imparato. Io però non ascoltavo tanto quello, pensavo a quello che non diceva, che teneva ben nascosto perché andava contro le nostre aspirazioni naturali: alla lontananza, alla solitudine, al pericolo, alla disciplina. A come doveva essere fuori in quelle notti di burrasca quando il mare lo sentivo fin da casa mia ed il vapore salino risaliva le vie a sbuffi, alle armi da usare, i vaghi echi di una guerra che c'era già stata e che mi avevano lasciato dentro schizzi di sangue.

Naturalmente esitavo; però avevo lì Italo vicino a me, sicuro, sprezzante, con la camicia perfetta nerissima con una riga di nastrini e la brillantina nei capelli – sarebbe senz'altro uscito con Lina, finita l'adunata – ed io avevo un sacco grigiastro che mi si sformava a sbuffi sulle braccia ossute e a campana sulla pancia, con un solo nastrino e la solita zucca polverosa. L'Ufficiale guardava lui, vedeva che era il più valido. Forse fu quello il particolare che mi fece decidere, perché raccoglieva in me la voglia di fare qualcosa di grande ed il bisogno di allontanarmi da quella macchia spinosa in cui ormai vivevo. Al diavolo voi ed i vostri salamelecchi, tu Italo che ti credi tanto uomo e quella gattamorta che sta con te che mi tratta come un suo fratellino un po' tocco, lo vedrete se non ho anch'io del coraggio! Finito che ebbe di parlare, andai subito a manifestarmi dall'Ufficiale chiedendogli con risoluzione cosa dovessi fare per arruolarmi. Lui mi guardò sorpreso, non se l'aspettava la carogna, una mezza cartuccia come me il primo a proporsi... Poi si congratulò, mi lasciò dei moduli da riempire e da consegnare al municipio, ma cautelandosi, raccomandandosi che ci pensassi bene. La sera annunciai l'affare a casa come cosa fatta, non volevo lasciare falle da cui la mia indecisione potesse far breccia. Mia mamma era sul punto di piangere, protestava che mi mancava ancora un anno al diploma, e mio padre disse che con quell'ultima mia trovata lo sapeva per certo: ero un imbecille.

 

Un mese dopo arrivavo alla Spezia per cominciare l'addestramento. Il resto lo sai già. Scelsi di fare il silurista per il mio interesse per tutto ciò che è meccanico, anche se in vista del mio futuro impiego avrei dovuto fare l'elettricista: ma non avevo appena scelto di sviarmi la vita dal mio vantaggio? E poi i siluristi lavoravano all'aperto, sulle navi, esposti più di tutti, la cosa mi piaceva. Ho poi accettato la guerra, e la sera del 10 Giugno io e Tore eravamo i soli a sorridere. Non dico che ci sperassi, ma la consideravo da tempo, perché se volevo la mia libertà dovevo non curarmi della vita invece di amarla, e la battaglia sarebbe stata una buona occasione per vedere com'era questo limitare dell'esistenza, sapere cosa succedeva affacciandosi dal muro che ci trattiene qui e ci preclude la vista; se del caso, mollare la carcassa ed andare a vedere di là del muro con le carte in regola al cospetto di Dio e della Patria, da uomo che fa il proprio dovere. Non volevo aver paura perché questa sarebbe stata una cosa inconscia ed incontrollabile, come l'innamorarmi. Volevo non aver paura e, finché s'era trattato di parlar di guerra fra di noi a mezzogiorno, o di sopravvivere a qualche blando attacco aereo, ero riuscito a restare abbastanza saldo.

Ora c'ero, dov'ero voluto arrivare: ma non avevo fatto caso se non all'ultimo momento al filo spinato sopra il muro, e nessuna fantasia può figurarsi la solidità minacciosa che prendono i rumori in un combattimento; le contrazioni che mi causavano quelle schegge che stendevano capelli neri nel vuoto, non le potevo proprio controllare: volontà o meno, ero ritornato allo stato bestiale, aggrappato ad un volantino, scosso da ondate che mi sbattevano su realtà troppo dure. Un'altra volta avevo sentito questa spietata, ostile indifferenza del vero attorno a me, ed era nella notte di Lina. Io ero forse già il nulla nel mio vuoto di pensieri, ma ancora avevo un corpo a tenermi ancorato alle paure, e chi si ricordava più che volevo non essere codardo? Provavo macchinalmente a concentrarmi sul mio dovere: le formule per i calcoli di lancio evaporarono nella mia mente, senza più tornare, avrei appena saputo maneggiare, per cieca abitudine e rozza approssimazione, il traguardo di puntamento e niente più. Attendevo un numeretto ed un ordine che mi avrebbero liberato della responsabilità: ma avvenne altro.

Venne quell'esplosione più vicina e Tuo fratello cadde: la vista del suo corpo, devo dirTi, anziché spaventarmi mi confortò, perché di certo non aveva sentito nulla e non potevo leggere la sua ultima espressione, gli fu così risparmiato lo scherzo del destino che toccò ad un intatto Goethe che sembrò, ad un suo amico che lo vedeva steso sul letto di morte, ancora pensante, come se non potesse proprio aver mai pace! Per Tore, la mano trasparente l'ha falciato ma rispettando la sua essenza: di lui non poteva rimanerci un volto che ancora nascondesse desideri insoddisfatti, né una maschera di dolore dopo una vita passata a sorridere per gli altri. Aveva trovato il riposo. Andai poi a soccorrere per quanto potevo Aldo, che pareva malridotto ma forse poteva vivere, aveva ancora il suo protone scarico e fedele ad attendere il suo ritorno, il suo e quello di nessun altro. Tornai al mio posto, ma come tacquero le nostre mitragliere, come restò solo l'urlo del vapore che eruttava dai gangli perforati, seppi che noi eravamo finiti; quando provai a puntare il mio impianto per lanciare alla disperata, giusto per sfida, o per ubbidire alla voglia di distruzione che mi aveva posseduto, venni redarguito da un Ufficiale. Ormai era tutto inutile, non era più tempo di vendicare i morti, bisognava solo cercare di salvare i vivi.

 

Intanto, le navi inglesi rimettevano la prua su Malta: svaniva l'eco delle ultime cannonate, scomparivano anche i barbagli che restavano negli occhi dopo i lampi. La mano del nulla che mi aveva stretto da dentro allentava la sua presa a mano a mano che sostenevo il peso dei miei compagni menomati che portavo al battellino. Poi il ponte ci sfuggì da sotto i piedi, saltai nel mare oleoso e tornato in superficie scoprii che ero stato prosciugato dal passato. Le cariche elettriche andavano esaurendosi, la tempesta violentissima che mi aveva appena arato così a fondo aveva cancellato i relitti lasciati da tutte le precedenti buriane, ed aveva spostato i campi magnetici che, sotto la mia volontà superficiale, continuavano a governare la mia esistenza di elettrone. Prima del primo colpo di cannone, in me s'affrontavano tutte le inerzie di un'esistenza non del tutto iniziata, e tutto sulla stessa frequenza finiva in una gran risonanza che sentivo ogni qualvolta non pensassi ad altro e che inibiva la mia azione. Ora non più, le linee dei miei campi erano rade ed ordinate sebbene mi stessi dibattendo accecato per sfuggire al risucchio della grande massa che scompariva allora dalla superficie portando con sé forse più della metà di noi. Avevo la curiosità timorosa di sapere dove ci stesse portando il caso, pressapoco come la voglia di sapere verso che destinazione stesse salpando il Fulmine. L'acqua era fredda e muggiva: per un po' i rumori dell'agonia continuammo a sentirli attraverso la pelle. Era come se piangesse, comunque prima di lasciarlo l'avevo rassicurato, carezzando un suo mancorrente e tamburellandoci in codice Morse che là sotto c'è solo un soffice letto di fango, che il buio è così intenso che appare come una diversa luce a cui non si avesse mai fatto caso, che il silenzio è troppo intenso per far paura, che il tempo non assilla più coi suoi squilibri. Che è bello, infine, essere nel nulla. L'ultimo suo lamento, che percepii appena, mi parve infatti meno penoso. Ma noi che stavamo all'orizzonte?

Diluito il sangue, passati l'odio e la vera paura, mi ritrovavo abbandonato nel vuoto, con un sottile, sottile richiamo che mi indicava un futuro senza volto. Per un curioso giro del caso contrario ai miei desideri, ero passato attraverso le fittissime ragnatele della battaglia per essere gettato in un buco nero ancora più lontano, ancora meno conosciuto: ed il timore che provavo era come quello che mi prendeva in notti più tranquille, quando vedendo il cielo troppo aperto su di me mi veniva da aggrapparmi a qualcosa perché improvvisi mancamenti della gravità della nostra trottola ubriaca non mi facessero risucchiare da quell'eternità di distanza, gelo ed incognito che mi sovrastava. Stranamente, avevo perso il desiderio di scomparire, spazzato via anch'esso come il resto delle immondizie che mi appesantivano, ma di fatto ero scomparso: ero fra quel vuoto che sentivo sopra me e quello che sentivo sotto di me, cieco ed ancora un po' sordo. Talvolta un'onda tornava a ricoprirmi il capo con la nafta sfuggita dal ventre della nave, giusto per assicurarsi che non potessi vedere niente. Salito su un battellino, ancora per tutta la notte restai cieco, infreddolito. I miei compagni sani si chiedevano se sarebbero tornati a prenderci, già in parte presi dal terrore dei naufraghi, quello d'essere dimenticati dal grande meccanismo ora che senza imbarco non avevano più ragion d'essere, d'essere tralasciati dalle navi che correvano a uccidere le centinaia più che a salvare la decina.

Anche senza le parole tranquillizzanti dell'Ufficiale che era con noi, io sapevo che non avevo nulla da temere; avevo nella testa un fischio elettrico, come quello che aleggia nelle orecchie dopo aver ricevuto una violenta sberla, che però allora era un suono armonico, perché mi indicava un campo, e quello aveva una direzione ed uno scopo. Sentivo la direzione, non conoscevo lo scopo: quando un cacciatorpediniere infine venne a prenderci ed io rinacqui dalla nafta accettai di seguire placido quel campo, benché ne avessi timore. La mia terra durante la battaglia aveva perduto la sua gravità, ed ora la nave grigia salpava verso un cielo che sentivo ancora ostile ed infinito, ma che non era più immagine del nulla che non cercavo più. Là dove andavo c'era un senso che avrei scoperto, non ero più l'elettrone ribelle ma docile seguivo il volere dell'esistenza.

Senza fretta: prima dovemmo sbarcare dal caccia che ci aveva salvati e che come tutta ricompensa, mentre era fermo a raccogliere altri scampati, si beccava un siluro nella carena per la prodezza di un eroico sommergibile di Sua Maestà. Ma di che meravigliarsi? Tutto restava spietato come prima, solo che ora la violenza della realtà non mi toccava più, l'avevo accettata: quello spazio era ostile, lo sapevo, ma ora avevo uno scopo ed in quello trovavo sicurezza. Augurai di cuore al comandante inglese di farsi una bella bevuta d'acqua salata in ricordo di questa sua impresa, e trasbordai.

Portato all'ospedale, vi potei completare la mia rieducazione, necessaria perché dalla battaglia tornavo nuovo ma anche vuoto e grezzo, inadatto a rientrare subito nel complicato consorzio degli altri uomini; là dentro imparai di nuovo cos'era la gentilezza, la ferma dignità del dolore proprio ed altrui, la modestia necessaria a ciascuna di noi pagliuzze perse nel vento come i pappi del cardo; ed ogni tanto, uscivo in terrazza per immergermi di nuovo in quel vento, perché riuscivo a restar quieto solo se mi giravo nel suo senso, che mi ridava forze. Non durò molto: una sera sentii che la corrente era ancora abbastanza forte da trascinarmi, ed io ormai abbastanza rinvigorito da farmi portare senza farmi sbranare; nuovo e semplicissimo, senza più storia né gloria, senza più il nome d'una nave scritto sui documenti così come sul berretto né quello d'una donna scritto ad ogni pagina nel diario, la mattina dopo ero di nuovo per le strade ed i loro mille refoli, ma non mi lasciai distrarre e seguii guidato dalla mia bussola il mio cammino: come antenne longilinee i binari che portavano a Nord concentravano il flusso da seguire. Ma no, non a Nord fin su da me, dove quei soli neri gemelli erano i mulinelli che inghiottivano ogni energia della mia esistenza, prima: poco più a Nord di dove avevo toccato terra.

Tu vivi in un posto strano per me, che mi ci vorrebbero anni per capire malgrado sia sul bordo dello stesso mare a causa del quale fui concepito; non capivo i colori delle vie né le parole che vi vivevano, ma che importava? Il campo si faceva sempre più forte e forse i colori diventavano sinistri ai miei occhi per via dei suoi effetti. Naturalmente, la mia destinazione non poteva chiamarsi altrimenti che Via della Mecca. Senza saperlo era verso di là che m'ero dovuto voltare per trovare la quiete in quei giorni: e più mi avvicinavo, più cresceva in me un senso di pace, da mattina in mare aperto. Salii quelle scalette come senza sentire più il peso delle mie membra tozze ed il male della ferita, che non mi curai di nascondere. Mi presentai ai Tuoi, e con profondo piacere vidi che avevo fatto la cosa giusta nel venire a trovarvi, ma per quanto fosse cosa buona e molto giusta, sentivo ancora che non era proprio quello che mi aveva attirato lì...

Poi, con un riso liberatorio e leggerissimo che sorse dentro di me quando mi stringesti la mano, di colpo capii tutto quel che restava dubbio. Tu mi tirasti con quel gesto, che si espanse in un giorno, in trenta, in cent'anni seppur per noi fosse solo un istante, sulla vetta del più alto monte dell'esistenza, da cui potevo ammirare quel che m'era dato vedere di quella terra senza più alcun timore. Dietro le mie spalle già lontano un nero in cui globulavano lampi con suoni stridenti, davanti sotto di noi una nebbia gentile che saliva ad abbracciarci, sopra noi quel cielo, che sempre mi aveva fatto paura e che vedevo infine vivo e pulsante, perché solo allora ero rientrato nel giusto sistema e non avevo più distorsioni di prospettiva.

Guardavo in basso, il binario che avevo percorso e che prima, a vederlo dalla grezza superficie dell'esistenza, mi pareva ondivago e senza meta, in realtà portava drittissimo al punto in cui mi trovavo. Persino quando m'ero allontanato dall'amore, in realtà mi ci stavo avvicinando: ed ora ero nell'orbita del mio vero protone attorno al quale ondeggiavo non più a caso ma preciso e chiaroveggente, guardandolo con occhi gonfi di lacrime di bambino felice. Ciò che mi stava dietro le spalle mi aveva permesso d'arrivare a Te con l'animo umile e silenzioso, senza la baldanza molesta di chi è sull'onda della vita, avevo già visto i mali dell'esistenza che tu cominciavi forse solo allora a conoscere e feci voto di proteggertene. Questo sì, questo giuramento di rito lo portavo dal mio passato tal quale, anche se ben poco avrei in effetti potuto fare io, povero e fragile pappo di cardo, minimo elettrone pur sempre un po' scarico. Tu che mi avevi accolto a mano tesa e sguardo spento me ne fosti riconoscente, io sentii così.”

 

Qui veniva il bello... fin qui aveva pressapoco posato la via coi pensieri del giorno, e qui la pista battuta s'arrestava; che dirle dopo di ciò, come entrare nel vivo del discorso? Secondo fu obbligato a deviarsi su un foglio di brutta; proseguì:

 

“Tu mi dovresti perdonare, perché io non presi in conto la tua predisposizione verso me”

 

- Nah, troppo tecnicistico... Riga...

 

“ Tu ora mi dovresti perdonare perché sto pensando solo per me. Che ne sapevo di cosa sentivi Tu? Forse sulla cima dell'esistenza mi ci avevi voluto portare un secondo per permettermi di dimenticare quel temporale in cui Tu mi credevi ancora perso, un gesto pietoso e null'altro.”

 

- Hm. Così può andare. Non troppo sbilanciato né in un senso né nell'altro. Né troppo assertivo né troppo remissivo.

 

“Ma che si nascondeva sotto la tua magnifica noncuranza?”

 

- Ah no, questa non la dovevi fare... la fai passare per menefreghista. Riga!

 

“Ma che si nascondeva dietro la tua solare serenità, che mi pareva così forte da essere al di là di ogni comprensione? Fingevi? No, impossibile, un protone che attragga me non mente mai. Ma, vedi, io amavo credere che una piccola parte di quella serenità te la stessi donando io con la mia impacciata presenza, giacché quando un elettrone vola per la sua orbita interna attorno al suo protone, gettategli un granello di speranza ed esso ci costruirà su un castello di congetture.”

 

- La censura approva...

 

“Che ne sapevo se Tu stessi a tua volta nell'orbita d'un altro elettrone ben più carico di me, come m'è sempre successo?”

 

- Non mi convince. Piagnucoloso. Riga!

 

“Io potevo ben immaginare che Tu avessi altri cammini da percorrere e che su quei cammini Tu non mi ci vedessi. Il versante del futuro era però nebbioso e, da quella parte, volli solo vedere quel che mi sarebbe piaciuto, e cioè che su quella vetta sarei tornato, magari dopo peripezie che avrebbero potuto girare più volte attorno alla nostra trottola, e durare anni, per restare con Te. Non so se mi attenderai, ma un giorno tornerò su per le facciate grigie di quella Tua montagna e se sarai infelice spenderò tutta la mia energia residua per salvarTi, mentre se Ti ritroverò in dolce compagnia me ne andrò subito, col sorriso del saperTi completa e protetta da ogni burrasca, col bel ricordo del minuto pezzetto di felicità che pur io Ti diedi.”

 

- Hm. Può passare, e magari è pure vero. Affondo finale, ora:

 

“Ma oramai ho scritto troppo, ti lascio tornare a parlare col tuo paziente vecchio amico mare, ed io andrò dal mio mare Tua immagine, dove le vite si spezzano sotto l'orizzonte e si trasformano, dove i mercantili, le corazzate, tutti gli altri mastodontici violenti accrocchi umani non sono nulla in confronto alla calma del suo (Tuo?) volto in cui si riflette l'ordine del cosmo, né nulla possono contro la sua forza, se durassero mille anni non sarebbero che il tempo d'un respiro della sua vita. Sapendo che anche tu parli alle stesse acque, potrò chieder loro che mi risolvano un ultimo enigma che andrò a dir loro...

Rieccomi ancora a guardare, onda,

la tua voce stanca di chi ha corso

e molto amato; vedermi dire è strano,

da te, che tutto inizia e tutto si risolve

in quelle ore d'amore col Libeccio;

per me è un molle, ignobile intreccio,

per te è vita, che cambia e non evolve;

ma io son dell'incerto e dell'umano

e ancor non so se bacio o morso

è quel che dai crudele alla tua sponda.”

 

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Ananké

 

Secondo entrò in classe sbattendo la porta. Non che questa avesse davvero sbattuto con violenza ma solitamente egli la chiudeva con cura, accompagnandola fino al soddisfacente scatto della chiusura, rispettoso della povera vita del serramento di Stato: quella mattina invece le diede uno strattone lasciando che si chiudesse da sé e la cosa ebbe fra gli allievi abituati a più morbide discipline una rilevanza pari a quella del primo colpo di cannone dell'Aurora a San Pietroburgo salvo che, invece di scatenare la Rivoluzione, causò una spontanea repressione. Se la sofferenza istantanea del legno gli diede un rimorso, quello non fu meno fulmineo, fu subito spazzato via dalla massa furente ed in due falcate rigide e rabbiose il dittatore era già dietro la cattedra; quel poco di brusio che albergava nell'ambiente prima che egli arrivasse, fu ucciso dalla fucilata del battente che si schiantava nella cornice, e morì quietamente. Doveva essere talmente nero che perfino i gesti, che solitamente continuavano a svolazzare fra i banchi al suo arrivo, si tacquero. Aprì un lungo rotolo che teneva a spall'arm lasciandolo cadere per un'estremità, lo appese per il suo gancetto baricentrico ad un chiodo che attendeva sulla parete: era un grande disegno in sezione di un Whitehead, che portava in un angolo il nobile cartiglio del silurificio. Si sedette, squartò la sua cartelletta. Cominciò a far scattare lo sguardo con sbalzi nervosi sugli allievi perplessi, un gruppo di nuovi abbastanza mansueti che seguiva da una settimana scarsa, e che avevano percepito la giornata nera ma non riuscivano a spiegarsene il motivo con gli indizi che l'istruttore forniva loro. Si misero sull'attenti degli studenti, fecero il presentat'arm con le penne.

 

Oggi, apparato propulsivo dei modelli principali dell'inventario della Marina. Aprite a pagina 34, ma non perdetevi a leggere, vi servono solo le figure per seguirmi. Aspettate per gli appunti, per ora lavoriamo solo sul manuale.

 

Le penne batterono il riposo. La lezione l'aveva ascoltata, preparata, ed anche ripetuta ormai talmente tanto che non aveva quasi più bisogno di pensare a quel che doveva dire, poteva quindi tenere una parte del suo pensiero per fronteggiare quell'ondata furente che l'aveva preso. Il problema, lo sentiva inconsciamente, era che la sua giornata era stata mutilata sul nascere da un sillogismo da colazione. Stoicamente cominciò la spiegazione:

 

- Il serbatoio dell'aria compressa è una bombola in acciaio saldato che viene testata ad olio fino alla pressione di duecentocinquanta atmosfere. Notate lo spessore delle sue pareti sul disegno...

 

Quel ragionamento che l'aveva molestato, di cui ora sentiva ancora l'influsso funesto come una corrente d'aria fredda sulla nuca, era nato da quelle brevi, insignificanti constatazioni che si fanno nei momenti peggiori, quelli della celia, in cui non si ha da pensare a nulla. Attraversando il piazzale infagottato nel cappottone, sentì il freddo pungerlo comunque da sotto il tessutaccio rado, ma sopra, nel blu venato del mattino, soffiava la tramontana ed era ben peggio. La vita era ruvida là dentro, però era già meno dura che fuori. Se quelle mura giallo vomito lo recludevano, era reclusione volontaria e vantaggiosa, che gli dava di che vivere senza preoccuparsi del domani, di che assolvere il suo dovere nei riguardi della Patria senza dover rischiare di nuovo la ghirba, di che pensare senza patire pene di cuore che non fossero lievi solitudini a cui da anni aveva fatto il callo.

 

- Il rubinetto, a quattro vie, è collegato a questi tubi di mandata: motore, giroscopio, serbatoi dell'acqua e del petrolio. Tutte le vie sono dunque aperte con un solo intervento; questo viene fatto dall'esterno, al momento del lancio dell'arma. La rotazione della chiavetta di lancio accende altresì un cannello nella camera di combustione...

 

Quella caserma era il cappottone da sussistenza del suo animo. Generalmente efficace, ma attraverso le sue cuciture mal fatte l'ariaccia del mondo non era detto non riuscisse a trovare il modo di pizzicarlo lo stesso. Soprattutto era un grande strappo quadrato ad incomodarlo, che avrebbe necessitato di una bella toppa abbondante: la piazza d'armi ed il suo cencio di cielo.

Il problema col cielo era che aveva una controgravità per Secondo, attirava il suo sguardo, non foss'altro per il fatto che era meteoropatico inverso e che si informava sempre sul tempo, alla ricerca delle nubi che facevano la sua felicità. Tanto poco bastava perché si distraesse fatalmente. Se teneva alla sua tranquillità, non doveva ricordarsi che là fuori c'era pur sempre un mondo. Malvagio: un mondo di sfruttatori che attendevano di rubargli anche il niente a cui aspirava nella vita, di donne che volevano prosciugarlo dalla felicità. Al confronto, la guerra che martellava ormai in tutto il mondo, era meno spaventosa che l'eventuale futuro in tempi di pace. Ma anche un mondo di seduzioni e di piaceri finti che nel momento in cui li si sfiora parrebbero veri.

Si era fermato in centro al piazzale, coi suoi due metri e mezzo di rotolo che svettavano immobili rischiando di farlo passare per l'ospite di un manicomio, ma non era quello a dargli pensieri. Tentava di cogliere il ruggito della tramontana; e niente, c'era silenzio. Possibile che tutte le centinaia di tonnellate di esplosivo che andavano in fumo in quello stesso momento nei campi ad ovest di Mosca, in Africa, nelle foreste di Giava e delle Filippine, non bastassero a dare neppure un fremito a quel suo angolo di terra? Gli obici dell'artiglieria d'assedio giapponese tempestavano le fortezze poste a guardia della baia di Manila, i Panzergrenadier avanzavano verso Leningrado; e lì nulla, non un rumore, non un segno.

Secondo peraltro s'illudeva, ancora dava i sovietici ormai per sconfitti, non poteva sapere che l'offensiva era stata bloccata, che il gelo aveva ucciso su quel fronte più che il nemico. L'aria immobile e trasparente aveva fermato di notte nel silenzio delle loro tende di tela gli invincibili soldati – a migliaia furono trovati impietriti, ma i cinegiornali ufficiali si guardavano bene dall'annunciarlo – che folgoravano di giorno all'assalto e che i cannoni russi non avevano potuto arrestare. Forse la calma di quel cielo cristallizzato dai rigori era più appropriata al momento, ma Secondo non lo capiva. Gli Stati Uniti erano ora in guerra contro l'Asse, eppure il cielo di Liguria gli pareva non esprimere la minima compartecipazione per tutti gli eventi grandi che si stavano realizzando, come tutta concessione all'incendio del mondo lasciava passare suo malgrado i messaggi delle radio da tutte le nazioni, che impazzavano sulle notizie, che non riuscivano a star dietro a tutte le frontiere che correvano; lui, il cielo azzurro e quieto come sempre, pareva se ne fregasse dell'ultima dichiarazione di guerra, quando ci sarebbe stato bene un fronte di nubi nere ed irraggiungibili per dare l'idea del gigante contro il quale s'andava a lottare.

Se Secondo avesse saputo tutto, avrebbe visto nei cirrostrati sottili un messaggio portato da quell'aria siberiana che ad Est, nelle foreste di larici, era passata a fare la sua mietitura; ma non solo, aveva anche indurito il suolo su cui cadevano i corpi dei russi fucilati dalle SS, strappando loro più presto, come pietosamente, il calore della vita per sottrarla subito alla miseria disumana della realtà. Ed invece, tradito dalle notizie incomplete che riceveva e dalla sua idea eroica delle battaglie terrestri, Secondo accusava il cielo di fare la donnetta che se ne fa un baffo della Guerra. Ma d'altronde lo capiva, non c'era di che rabbuiarsi: per lui la Russia stava cadendo ed il gigante era ancora lontano, oltre l'Atlantico, e già messo alle strette dai giapponesi. Per quello nessuno ci pensava, tutti fingevano di non dar peso alla notizia e chi si arrischiava a parlarne diceva: non verranno fin qui, verremo a patti prima.

Ma se anche fossero arrivati? Avrebbero raso al suolo tutto, loro e gli inglesi che non riuscivano a tollerare un altro padrone nel Mediterraneo, che volevano schiacciare, annientare il popolo nuovo. Il Re, il Regime, tutto sarebbe crollato, e prima di ciò avrebbero fatto sterminii, che già ci provavano bombardando saltuariamente le città e se ancora le grandinate di bombe non avevano spianato tutto era perché gli aerei erano più richiesti sul fronte. Ma un giorno... E intanto per l'aria zampillavano più fitti che colpi di mitragliatrice i lampi elettromagnetici in codice Morse che raccontavano delle masse d'acciaio e di sangue che battagliavano. Avrebbe voluto sentirli e decifrarli senza bisogno d'una radio.

C'erano dei giorni così, faceva parte del suo pendolare. Certe volte ancora aveva di quelle fantasie ingenue ed eroiche che l'avevano aiutato a decidersi per la carriera che faceva; quanto gli bruciò i primi tempi di non esser stato imbarcato sulla Calatafimi in quella brumosa mattina del 14 Giugno del '40 quando la vecchia torpediniera s'era lanciata sola contro una squadra di incrociatori francesi, contribuendo – forse – a scacciarli da Genova e salvando la città da un cannoneggiamento già iniziato: era esattamente, dettaglio più dettaglio meno, quel che sognava ai tempi della sua istruzione. Si vedeva su un classe Poeti in pieno giorno accecato dal sole sul volto e dalle colonne d'acqua dei trecentottantuno a silurare una corazzata inglese, tornando a casa da eroe; s'era poi visto la sua corsa a silurare che fine aveva fatto. Forse era proprio per quella delusione che ora a volte sognava di starsene ancora da silurista sulla Calatafimi, ed a volte invece avrebbe voluto essere il Direttore del tiro dell'incrociatore Colbert per essere quello che sparava sulla città. A volte la Guerra la voleva scacciare; in altri momenti la invocava su tutto e tutti.

Quello era uno dei giorni del Colbert. Perciò voleva ascoltare nella tramontana il rombo del bombardamento: era per sentire la Guerra più vicina. Per dare una bella, vigorosa scrollata alle regole stantie che governavano quel piccolo mondo. Un bel bombardamento a tappeto, da cui pochi o nessuno ne sarebbero usciti vivi... Finito con l'amore... Finito coi sistemi... Finito con l'incertezza del domani che sempre guastava la pur minima gioia del presente... Tutto da rifare daccapo, rimboccarsi le maniche, ognuno secondo il suo valore, senza più gradi e gerarchie e senza ambizioni... Finito con la ricerca oltranzista del successo...

Tutta quell'enfasi posta sul successo... Secondo considerava il nastrino che aveva avuto alla G.I.L. per l'assiduità alle adunate, più quello per la diligenza... Le tre dita che ne aveva da appuntare Italo per aver sbaragliato tante volte tutti gli avversari alle gare di corsa e d'atletica... E tornando a lui, la medaglia di cui ora si fregiava il suo camisaccio, la sola che contasse fra tutte le altre che aveva ricevuto... Tutti quegli orpelli erano attestati di vittorie, e a credere nell'insieme del sistema facevano pure molto piacere. Indubbiamente i galloni e la medaglia vera di cui si fregiava, di quelle che si conquistavano vedendo il sangue e non con la diligenza ai corsi ed il rispetto dei superiori, lo rendevano rispettato nell'ambiente in cui avevano corso quelle distinzioni. Le reclute consideravano con ammirazione ed invidia la sua condizione, o così almeno gli sembrava. Eppure lui che istruiva, che poteva comandare, era uomo meno completo di molti dei suoi allievi, e la coscienza di questa inferiorità non lo abbandonava mai. Fuori da quelle mura, nel consorzio dei civili, l'uniforme, i galloni e la medaglia non valevano poi molto.

Molte donne avrebbero guardato forse con interesse i suoi colori da Sergente e la testimonianza del suo coraggio guerriero, senza sapere che la vistosa linguetta di seta egli non se l'era guadagnata uccidendo come il dovere gli imponeva, ma salvando; tuttavia le più l'avrebbero considerato con la sincerità della natura, divina e spietata in quanto si manifesta nell'atto e sul momento senza bisogno di essere preceduta e sostenuta da alcun ragionamento. Costoro, tolto lo sguardo dalla bigiotteria ministeriale, avrebbero visto la sua pellaccia grassa ed il solino spolverato di forfora e l'avrebbero scartato, disprezzandolo. Ogni incontro dalle premesse galanti era come l'ispezione dell'Ufficiale: mostrarsi puliti, in ordine, niente unghie rigate di nero, o si viene puniti, messi per vent'anni e forse più in isolamento agli arresti della solitudine.

Ora era fermo sul secondo pianerottolo delle scale. Una finestra dava sull'esterno della caserma e Secondo, avendo ancora un largo anticipo e senza curarsi del viavai che passava per quel luogo, s'era di nuovo fermato, per curiosare fuori. I battenti risalenti almeno all'Italia umbertina e le stuccature decrepite dei vetri lasciavano filtrare una folla di spifferi, ma più che il vento era ciò che vedeva a corroderlo, ad impregnarlo di una malinconia ruvida ed astiosa. Quel tranquillo agglomerato di case variopinte, che parevano un nido ideale per l'amore, per furtivi incontri nelle ombre degli archetti o placide conversazioni al sole delle terrazze... Su tutto quello lui invocava la distruzione. Per perdere una volta per tutte il bisogno di vincere.

Vincere, vincere... La battaglia, le ispezioni degli Ufficiali... Vincersi una carriera ed una donna... Vincere, tutti uniti, una Guerra per avere in futuro una Patria grande e libera, padrona del proprio destino... Vincere!

...e vinceremo in terra, cielo e mare!

È la parola d'ordine

di una suprema volontà

Vincere, vincere, vincere!

Ad ogni costo, nessun ci fermerà!

I cuori esultano,

son pronti a obbedir!

Son pronti, lo giurano!

O vincere o morir!

 

Vincere! Ma era poi così importante? Chi lo stabiliva?

Ma che domande. Pericle l'aveva detto, potente è la nazione che ha il dominio dei mari. Ed ora, vincere per sopravvivere, per non cessare di esistere in quanto popolo. Ma perché vincere nel dettaglio, vincere nella vita dei singoli? Tutti correvano: tutti avrebbero voluto essere gerarchi, industriali, Ufficiali, campioni sportivi, eroi di guerra: tutti a voler diventare qualcuno, ed era il Regime stesso ad imporre questi modelli di successo. Perché, perché questa ricerca dell'eccellenza a tutti i costi ed in tutti i campi?

Ricerca che era portata avanti dal Regime: si facevano i Littoriali di ogni disciplina per scovare capillarmente, fin nei più remoti angoli del paese i talenti potenziali, i campioni del fascismo di domani. Davvero coloro che avevano avviato la corsa alla vittoria credevano di poter elevare una parte ristretta dell'umanità al di sopra delle masse grigie creando l'uomo nuovo del futuro, con la selezione dei migliori esemplari attraverso la competizione e la Guerra?

 

- Se la valvola di registro è perfettamente regolata, il siluro arriverà a fine corsa nel tempo stabilito: ciò è fondamentale perché dal fattore tempo dipende in buona misura la riuscita del lancio, anche il puntamento più accurato non serve a nulla se l'arma non mantiene la rotta e la velocità previste. Un difetto di regolazione della valvola avrà come conseguenza che il siluro manterrà una velocità diversa da quella prevista e, sulle lunghe distanze, questo porta ad errori considerevoli.

 

Tutta la nazione era stata votata alla vittoria. Ma forse essa era un istinto primordiale, prima che una nobile aspirazione. Ma sì, che sciocco a non averci mai pensato prima d'allora, era tanto evidente... Era proprio quello, era l'istinto che preludeva all'amore e, come l'amore, necessario ed incontrollabile. Cos'era se non un bisogno di confronto e di vittoria, quello che lo spingeva in passato a misurarsi sempre con Italo, se non in forza bruta almeno in prontezza di spirito? Specialmente in presenza di Lina, e davvero fino ad allora non s'era mai spiegato il perché di quell'impulso fastidioso.

Forse era anche per quello stesso istinto che era entrato in Marina. Anche lui aveva sempre sentito il bisogno di sentirsi un nome, di avere una parcella seppur infima di potere. Potere, conseguenza della vittoria: anche lui ne sentiva l'attrazione. Lui che si era arreso alla vita da quando Lina gli era sfuggita, non voleva tuttavia rassegnarsi alla nullità. Formalmente disprezzava coloro che avevano smesso di combattere, quei relitti umani che si trascinavano nullafacenti nello squallore impolverato dei pomeriggi. S'era arreso, sì, ma non del tutto: se non avesse incontrato Lina avrebbe forse tentato l'Accademia. Visto che voleva essere comunque qualcuno, magari infilarsi fra le comode file ombreggiate dei subalterni che ubbidivano ma avevano lo stesso il loro brano di potere, era partito per la scuola Sottufficiali. E gliel'avevano anche detto, che con i suoi numeri avrebbe anche potuto tentare l'Accademia: ma fingeva di non crederci per non rimpiangere la sua prematura esposizione della bandiera bianca di fronte agli assalti della vita.

Viltà al cospetto del nemico: beh, che vivessero gli altri al posto suo allora se ci tenevano tanto, quelli che lo riprendevano perché era troppo tiepido, perché non sfruttava le sue facoltà: Italo, Aldo, il Guardiamarina che gli aveva detto che aveva la stoffa per essere Ufficiale se solo si fosse impegnato davvero a fondo. Parlavano tutti per il suo bene: e ciononostante al momento li odiava, perché anche loro lo spingevano ad ubbidire all'istinto della vittoria, perché erano stati la voce stessa di quell'istinto.

 

- La camera di combustione ha la funzione di aumentare i parametri fisici del gas in entrata nel motore: l'aria compressa viene in parte bruciata ma, con la combustione e la produzione di gas che ne risulta, aumentano sensibilmente la sua pressione e la temperatura e, se avete un po' di conoscenze di macchine a vapore, saprete che questi dati entrano nel conto per determinare la potenza sviluppata.

 

Ma a pensarci bene avevano ragione ad attaccarlo, perché tutti, proprio tutti avevano avuto più coraggio di lui. Il Guardiamarina che sul Fulmine comandava il suo reparto, d'origine non molto più elevata della sua, s'era guadagnato l'ammissione all'Accademia che aveva poi completato dandoci dentro coi paraocchi. E lui aveva avuto il coraggio del vincente. Aldo non voleva che fare il suo dovere secondo quanto gli era richiesto, era di leva e ciò gli bastava, forse attendeva solo di poter tornare alla sua bottega di fabbro: lui era il coraggio dell'umiltà, di dirsi che il poco basta e che non bisogna cercare oltre. Ma lui, il Sottocapo ora sergentino... Non aveva avuto né l'uno né l'altro, troppo orgoglioso per abbassarsi a fare il comune di leva, troppo vigliacco per tentare di essere Ufficiale. Si accusava con veemenza, si scordava di quanto sul momento era stato difficile mollare il calore di casa per andare a cacciarsi nelle camerate della “Duca degli Abruzzi”. Tutti erano stati migliori di lui, persino i pochi, ben conosciuti perdigiorno che ingombravano le vie della sua città con la loro inutile presenza, vivacchiando di lavori saltuari, e che lui odiava visceralmente, da liceale zelante con solidi ideali di lavoro e di progresso, che aiutava suo padre alle commesse quando c'era bisogno: persino tali parassiti, che risorgevano ora nella sua memoria delle giornate di vita civile con la loro apparenza odiosa, dinoccolata e stracciona da prenderli a schiaffi, gli parevano più nobili di lui. Avevano avuto il fegato di non lottare affatto, di contrastare ciò che l'istinto e la società dicevano loro, di rassegnarsi al grado più basso dell'esistenza, ed i loro pantaloni sformati diventavano uniformi di un esercito di irregolari, la prima linea della resistenza alla vita. Che coraggio raro dovevano avere, per resistere agli appelli del loro orgoglio ed a volte persino del loro stomaco, per volare bassi e noncuranti sotto gli sguardi storti delle guardie, sempre pronte ad allungar loro una legnata per un sì o per un no, che tanto non erano nessuno per ribellarsi; e per tollerare senza ferirsi i modi dei borghesi, che li chiamavano con disprezzo, con ancora un altro lavoraccio d'infima dignità da far fare loro. Il prezzo della libertà, dell'essere un ingranaggio spanato scartato dal grande meccanismo.

 

- La valvola di distribuzione è calettata sull'asse motore; le luci di immissione sono posizionate in modo da cominciare a lasciar passare il flusso di gas quando il pistone corrispondente ha appena superato il punto morto superiore. La loro portata non è costante: essa è massima quando il pistone è pressapoco a metà della corsa discendente, per poi ridursi costantemente fino alla chiusura che avviene poco prima del raggiungimento del punto morto inferiore.

 

Sì, il meccanismo era all'apparenza perfetto e c'era una bellezza intrinseca a farne parte: su quella d'altronde si fondava la sua estetica e tutta la sua residua gioia di vivere. Lui del resto non era quello della Disciplina? Sì, se solo avesse saputo applicarla integralmente: ogni tanto perdeva il controllo su sé stesso e il pensiero partiva in pericolose sommosse, come succedeva in quel mattino. E pensava che decisamente non avrebbe mai avuto il coraggio dei vinti, la forza che ci vuole all'ingranaggio per cedere e cadere in pezzi, sapendo che andrà a finire sbriciolato dagli altri ordigni dell'orologeria. Lui era troppo seguace dell'ananké.

 

- Quando il motore entra in funzione, l'effetto della temperatura elevata dei gas congiunto a quello dell'attrito causa la dilatazione del pistone e della camera, i cui spessori sono calibrati di modo che entrambe le parti si dilatino nella stessa misura, evitando così tanto il grippaggio dei pistoni quanto all'opposto la perdita della tenuta.

 

Lui come il Regime, entrambi sudditi leali dell'ananké. Era stata, in tempi che ormai sembravano lontanissimi, Lina a parlargliene. Lontanissimi, erano solo tre anni, forse meno; il programma del quarto anno del Classico di lei. Ma lontanissimi per quanto tutto era cambiato in quel poco tempo. Tempo maledetto, tempo dannato, quando lui aveva la certezza granitica che lei non sarebbe stata sua, eppure continuavano a vedersi, per forza di cose, per il ripasso e mille altre piccole incombenze che li riunivano. E malgrado tale certezza, l'amava ancora con convinzione, sebbene fosse divenuto dopo quella sera un amore passivo, da sentimento glorificato e sentito appieno a randagio da sopprimere alla prima occasione.

Era stata lei stessa a dirgli perché le cose gli stavano andando così. Che è l'ananké, gli aveva chiesto un giorno: e lui a dirle ridacchiando di non far la scema, che non doveva prenderlo in giro, lo sapeva che col suo greco da donnette non voleva averci niente a che fare. Dunque lei gli aveva parlato di quel che aveva capito a lezione, quest'idea dei greci antichi che al di sopra del mondo, al di sopra degli stessi Dei ci fosse una forza, una ragione superiore: ananké, la necessità. Tutto esisteva per lei, la ragione che ragione non era, perché non aveva altro fine, altro scopo fuorché l'esistenza. Non c'era più bisogno di cercare altri motivi, finiva all'ananké la corsa dei perché. Ad averle chiesto un qualsiasi motivo, lei avrebbe risposto come una madre insofferente alle importune insistenze del marmocchio: perché sì, perché è così.

 

- Ora, sapete che il motore ha un solo albero, ma le eliche sono due e controrotanti: questo perché sull'albero di trasmissione c'è una coppia conica che agisce su un secondo albero inserito all'interno del primo, facendolo ruotare in senso inverso. Così l'albero esterno agisce sull'elica prodiera, e quello interno su quella poppiera. L'elica prodiera è di diametro inferiore a quella poppiera: teoricamente la forza propulsiva di un'elica è anche funzione della superficie delle proprie pale, ma l'elica poppiera, a superficie maggiore, agisce di fatto nella scia d'acqua già perturbata da quella prodiera: risulta così che entrambe le eliche, per quanto di dimensioni differenti, producono una spinta che si può considerare equivalente. Questo è importante perché, se è vero che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, se un'elica spinge una quantità d'acqua avremo una reazione scomponibile in due vettori: uno parallelo all'asse del siluro, che è quello che produce la spinta; un altro normale all'asse, vuol dire che avrà la tendenza a far girare il siluro su sé stesso in senso inverso a quello della rotazione dell'elica. Ma, siccome le eliche sono due, girano una in senso opposto all'altra e producono una spinta uguale, i vettori di spinta longitudinale si sommano, e quelli di spinta laterale si annullano a vicenda! Il risultato è che l'arma durante la sua corsa si mantiene stabile in assetto trasversale.

 

Perché si vive e si muore? Perché sì. Perché si ama? Perché è così. Smettere di cercare ragioni poteva forse essere una buona ragione per mettere a tacere i piagnistei dell'animo di fronte al dolore. Un senso che senso non è, che si ripiega su sé stesso: ananké era un'enciclopedia che alla voce “senso” scriveva “vedi: ragione” ed alla voce “ragione” vi si trovava “vedi: senso”. E allora la vita non esisteva se non per continuare sé stessa, perché era essa stessa la propria giustificazione. Che bisogno d'altre ragioni, se tutto esisteva e tutto succedeva solo per esistere e succedere? Qui finiva la ricerca del filo d'Arianna perduto per uscire dal labirinto: il labirinto non esisteva, eravamo noi a costruircelo attorno cercando per il cosmo un fine ultimo che questo non ha.

La guardava disfatto mentre, dopo questo minuto di apertura, lei continuava a cinguettare sulle solite scemenze quotidiane, rispondendo se si richiamava la sua attenzione con segni d'assenso. Eccome se la vedeva ora, l'ananké: essa spiegava perché, anche se lei non poteva esser sua, lui continuava ad amarla; la vedeva sul profilo del suo volto, sulla curva umida delle labbra, al riparo all'ombra delle ciglia. Era sui semplici oggetti della casa, nel sole calante fra le tende; la sentiva nella dolcezza che lo inondava a star lì, a far niente, a sentirla parlare di stupidaggini; pur sapendo che appena sarebbe stato di nuovo da solo per i fatti suoi, avrebbe ripreso la sua guerra vana contro un Dio malvagio ed insensato, a cui lei non aveva fatto che cambiar nome.

La mia città è ricca di relitti,

memorie di passate invasioni:

rosse di ruggine le vie, e fitti

ma vuoti i binari delle stazioni.

Sui muri crivellati stan scritti

motti di guerra e di guerra canzoni:

in faccia al nulla restare diritti,

contro l'amore mitraglie e cannoni.

Fu l'amore il bieco invasore

che non respinsero scritte né armi.

Vinse. Soppresse. Rimase a occupare.

Ora nel tempo stiamo incolore

su ponti interrotti lenti carmi

cantansi dell'oppressore amare.

 

- Da non dimenticare poi il supplemento di spinta fornito dai gas di scarico del motore, convogliati attraverso l'asse di trasmissione interno e scaricati da un foro nell'ogiva dell'elica poppiera: i gas sono sì esausti, ma hanno ancora abbastanza forza da fornire per reazione una spinta supplementare che si somma a quella delle eliche. Questo scarico lascia però la scia di gas che, venendo alla superficie, può svelare il siluro in avvicinamento al bersaglio. I tedeschi hanno sviluppato un siluro a propulsione elettrica che non lascia scia, lo vedremo però nel seguito del corso.

Bene Signori, per oggi è quanto. Alla prossima lezione affronteremo ciò che è veramente importante, l'insieme dei sistemi di guida del siluro, quindi vedete di arrivarmi freschi in classe perché se non capite quello, qui non ci state a far niente. Potete andare.

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Anche se sono la reincarnazione del "miles gloriosus", di solito almeno in campo letterario cerco di non "spararmi le pose", come direbbero a Napoli :s03:

Ma in questo caso credo di poter essere moderatamente fiero di me, e spero piaccia anche a Voi :s01:

 

Lettera a Rosa, IV tentativo

 

“Cara Rosa,

ti risparmio le mie magre peripezie da quando ti ho lasciata. Mi è capitato di scrivere due righe in memoria di tuo fratello, ci tenevo che anche tu le leggessi

 

Tu eri il gentile che amava le viti:

se si doveva smontarne sul ponte,

nelle tasche tiepide dei vestiti

le ospitavi: Per averle pronte!

dicevi, ma in realtà tu temevi

che ti cadessero all'ombrinale:

ti scappava talvolta a scatti brevi

di mostrare un timore da animale

per il mare che pareva chiamarti:

era un vuoto che contro la carena

sciabordando chiedeva: quando parti?

Era il canto della nostra sirena,

e credevi che i poveri pezzetti

della nave chiedessero salvezza

a te che resistevi a denti stretti

alla carezza orrenda della brezza.

Ma davvero non c'è giustizia al mondo

se tu, vitina dell'ingegno umano,

abbandonato ad andare a fondo

pare fosti da meno cauta mano.

Sai? Io ora scorrere sento il tuo sangue

con le correnti, ed irriga la riva;

piccola vita, e piccola Guerra

vivesti tu: fra le onde spariva

tranciato corto il muto tribolare

che ci celavi sotto le risate

forzate sopra un male d'ore amare.

Allegri, ci dicevi, che voi amate!

Pure tu: ma ne parlavi ben poco;

di sicuro non fosti corrisposto,

non sapevi le regole del gioco.

Branda, rancio, paga e siamo a posto!

Andavi dicendoci sciocchi motti

e si capiva che non ci credevi;

ridevi, di mattino, ma le notti,

le tue come le nostre, erano grevi

per il sapere del fondo di sotto

al fragile scafo che ci mantiene

aggrappati ad un cielo corrotto

aspettando un bene che non viene.

Forse del mondo ma non di noi stessi

padroni, serviamo i nostri piaceri:

scienza, conoscenza e gran progressi

impotenti contro due occhi neri,

l'amare e del vivere il terrore.

Cattiva ti spiava l'acqua dal basso,

perciò tu cercavi un po' d'amore

che ti rendesse più sicuro il passo.

Segreta, l'avevi già un'amante:

salvarti voleva dalle immense

tue paure, dalle speranze infrante:

la vita era; per amor tuo ti spense.

È bastato un ultimo schiaffetto,

la marionetta alla fine s'è rotta:

liberato da un corpo troppo stretto,

liberato così dalla tua lotta

hai smesso di pesar sul bilancino

gioie date, e scorni ricevuti;

hai smesso di cadere sul cammino

e d'abbassarti a mendicare aiuti.

Tu fosti triste, ed ora sei nessuno,

sei nell'aria che viaggia al temporale,

tu fosti uno dei centoquarantuno

andati al di là del bene e del male.

Sei nelle acque che piovono in mare

così inutilmente, per me che resto;

sei anche al di là del grigio ragionare

che tutto ci rende tanto molesto:

oltre sei andato a senso, non senso,

più non ti curi d'onori ed errori,

più non ti curi del giusto compenso,

te ne strafreghi d'accendere cuori.

Tu sei sfuggito all'oggi e al domani,

ma io? Io sono stato risparmiato,

volli andare e mi fu detto: rimani,

qui inchiodato a futuro e passato,

nella galera che apre le porte

a volte, perché gli ergastolani

si rendan conto di quanto corte

siano le catene, e lunghe le ore;

io qui resto, cercando le ritorte

tue parole che chiare nel livore

d'un Novembre mi pare intravvedere,

per sapere dov'è che sta l'errore,

la stortura che fa tristi le sere,

amaro l'amare, e nero il nulla.

Tu puoi parlarmi a parole sincere:

sapere vorrei perché in una culla

trovo le labbra aperte d'una fossa,

e sotto un viso grazioso di fanciulla

sento il grezzo rigore delle ossa.

Tu dimmi: io ascolterò la maretta

o il frangente che fa la voce grossa:

mi dirai perché sento tanta fretta

d'arrivare a quell'ultima fermata?

Mi darai la sillaba, la chiavetta

che schioda ogni vita incatastata?

Dal nulla – nulla è del nulla più vero -

mi stai parlando con voce salata.

Guardo per capirti, taccio e spero;

invano spero: la lingua del Maggio

non riesco a cogliere dal buco nero

dove rintrona. È questo mio viaggio

il vero nulla chiamato esistenza.

Che lettera è l'onda? Di luce il raggio

che dice? Ma che vuoi capire, senza

binari di parole rugginose?

La parola ci separa dall'essenza,

dalla tacita vita delle cose

che bisogno d'aver nome non hanno.

Vedo parole cadere corrose

per abuso, e si svela l'inganno

nostro: noi ci illudiamo nominando

capire e possedere; non andranno

più le nubi a finire ai monti, quando

chiameremo nubi la vita, e morte

i monti? Il dire, è tanto blando...

No, tu non parli per parole storte

che seccano al sole appena son dette,

scriverle non serve o gridarle forte.

Tua non è la magra lingua che smette

d'avere forza appena non rintrona:

parli nell'atto, fuori dalle strette

del dire. Ma che illusione la mia, tuona

e lo credo una sillaba ben strana:

sarà che la mia vista non è buona

a capire che tu non lingua umana

parli, il fatto è che non parli affatto,

bensì agisci, esisti, nella frana

dell'onda a fine corsa, nell'anfratto

fra le rocce profondo che rimbomba:

tu non sei nel pensiero, ma nel fatto.

Non capisco, perché non c'è che incomba

un senso in ogni astro, od un motivo

nell'amore celato o nella tomba;

ma sai che alla ragione io che scrivo

son condannato col catenaccio

della parola: io che resto privo

nel fortunale d'abbrivo se taccio,

o se non trovo il bilancio del male.

Tu ridi, ed il dolore dello straccio

di spuma spappolato dal Grecale

sullo scoglio lo sento io soltanto,

per te è nulla; se l'aria si fa strale,

capisco ora, è il tuo schiaffo: per quanto

andrai cercando – mi urli – per la terra

un senso che non ha? Il tempo infranto

lo paghi tu soltanto, la gran guerra

che tu fai, non lo sai, ma l'hai già persa;

non fidarti del pensiero: spesso erra

e travisa: spegnilo dunque e versa

le sue scorie, mestizie e malumori,

nell'abisso d'una mattina tersa;

vieni la notte, e spegni gli ardori,

sete di un avido animo deforme

che frigna, che di funesti furori

t'infiamma: vieni quando il mondo dorme,

abbandonando l'animo giù al porto,

o per le strade ormai senza più torme,

ed al mattino sarai già risorto!

Ma tu, gentile che esisti leggero

in quel che sento attorno, mi farai torto

a dir così senza vedere il vero

mio basso stato d'uomo nel bisogno

di separare l'atto dal pensiero,

debole tanto che me ne vergogno.

Tu solo sei, e puoi, e più non pensi,

tu solo lieto per i vuoti intensi,

tu solo esisti in un perpetuo sogno.”

 

Giorni di tempo libero, un bel gruzzolo di fogli stanchi, sporchi di una nebbia di grafite, stavano accanto a quelle poche carte scritte a penna. Ma Secondo pensò che, per essere coerente, una lettera così non poteva che seguire le altre. Piegò, aprì il cassetto, ve la ripose, poggiandoci sopra gli scartafacci stropicciati ed un manuale di uso e manutenzione di chissà quale altro ordigno. Suonava il Silenzio.

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  • 1 month later...

[Troppo tempo passato in treno implica troppa poesia scritta a discapito di troppa poca prosa :s03: ]

 

A rapporto dal Comandante

 

E poi capitavano giorni così: che tutto andava bene, ma talmente bene che a Secondo pareva che ci fosse una minaccia incombente, che il favore gli venisse da un trabocchetto della malasorte per attirarlo in roveti nascosti, e restava scontroso, pronto a ringraziare con battute acide di superbia chi gli avesse fatto un complimento o reso un piccolo servigio; il vento in poppa lo spingeva e gli dava una forza che non gli serviva, per l'esistenza ristretta che faceva alla caserma. Che sopportasse poco i suoi compagni nei momenti di sventura, lo poteva capire: ma non si capacitava di quel prurito nero, quella voglia come di fare a pugni con tutti, amici e nemici, che gli restava addosso anche nei momenti di apparente serenità. Salutava male i superiori - almeno, a lui pareva di salutare male - e i sottoposti non li considerava proprio. Se dava lezione, pendolava senza sosta per la classe durante la spiegazione, e batteva con forza sulle parole e sulla lavagna; l'ardesia arida gli dava voglia i strisciarci contro le unghie, di artigliarla fino a quando l'insopportabile stridore avesse ucciso quell'energia di troppo. Se invece aveva tempo libero, passeggiava per la caserma, veloce, deciso, come se stesse davvero andando da qualche parte. Pareva proprio un leone in gabbia. Detestava quella condizione almeno quanto l'eccessivo sconforto, e la disciplina non poteva aiutarlo al di là del mantenimento della correttezza formale.

Se si fermava a pensarci su, si rendeva conto che, ogni tanto, avrebbe dovuto chiamare il suo Direttore di macchina, quello che gli gestiva le valvole e gli accrocchi infernali del suo animo, e chiedergli un rapporto su quell'andamento così irrequieto, così contrario agli ordini impartiti dalla plancia, sempre gli stessi, "Pari avanti adagio", "Pari ferma"...

 

Cosa comanda, Signor Ufficiale?

Ah sì. Siamo intesi. Vuole sapere

se come funziona qui è normale,

perché non va niente, in certe sere.

Dopo la notte che qui saltò tutto

- non me lo spiego, perché stavo sveglio,

e quel che sapevo, lo misi a frutto -

riparai il congegno alla bell'e meglio:

non fui delicato, ma sul momento

parve riandare a regime un po' a stento;

a colpi d'odio e con olio di gelo

ho pur provato a tenerlo assieme,

ma non c'è nulla da fare se il seme

del male c'è rimasto nei condotti:

rifiorisce ad ogni volta che il cielo

perde luce per i suoi tubi rotti.

Vede bene, Signore, che il difetto

solo nostro non è, che l'Universo,

che pur le parrà un ingegno perfetto,

invero avrà sempre un pezzo disperso:

il regolamento include l'errore,

la perfezione è invenzione umana,

come del resto benessere e amore.

Ed io ho per le mani questa strana

eccezione a leggi già sregolate,

animo senza fine né progetto:

capirà bene che le sue piantate

non posso evitarle e me le aspetto

da un sorriso all'altro. Sciagura,

se scorgiamo per caso un puro volto!

Allora il male risorge, l'arsura

tortura i tubi di fiamma, sconvolto

per troppo carico è il riduttore,

piccolo e scassato inutile cuore:

sono tutti ingranaggi rugginosi

che mette a dura prova il moto ondoso:

l'elica impazza a vuoto o nei marosi

ansa, svita, scava. È corroso

il circuito della vita, Signore:

e quando sale troppo la pressione,

per troppa gioia o troppo dolore,

un getto feroce da ogni giunzione

sfugge, soffia via, brucia in minaccia.

È inutile che chieda che le trovi

-e glielo dico con tutto il rispetto -

un modo per risolvere il problema:

ciò che m'ero scritto è carta straccia,

per guai vecchi, eppure sempre nuovi;

il mio manuale è troppo ristretto

rispetto all'ampiezza del suo tema.

Che debbo dirle? Qui si tira avanti!

Quando la vita sfugge, la intercetto,

senza fretta, tanto i buchi son tanti

che se serro una flangia col rigore

partirà una valvola d'impazienza.

Lei vuole ordine, vuole eccellenza

- lo sente? Lo sente, questo tremore? - ,

vuole controllo, e vuole certezze

- lo sente, Signore? Lo strano odore? - ;

ma la nostra è macchina balzana:

se brucia baci o carica carezze

vedrà bene il manometro che frana.

Che valvole vuol metterci, che briglia?

Non vorrà mica che un cosmo di vita

io glielo chiuda dentro una bottiglia?

Prima che lei creda, sarà finita:

dia retta a me, Signore, lasci stare,

vada tranquillo, e lasci che succeda

la burrasca alla calma; qualche falla

non c'impedirà di stare a galla

per quel che basta a giungere alla meda

al confine dell'infinito mare.

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Senti, Secondo: io vorrei leggerti costantemente, perché sono certa che ne vale la pena, ma faccio obiettivamente fatica, su schermo, E credo che questo valga per altri.

Hai pensato a pubblicarti? In attesa di un editore "vero", magari quei siti di autopubblicazione....

Insomma, una pagina stampata, ferma, non ad impulsi.....quella vecchia roba dei tempi del pennino e dell'inchiostro....

Lo so che potrei stampare anche quello che scrivi qui, ma tra "firme" ( e la tua è ingombrante!!!), post qui e post là, , commenti, ecc....spreco un sacco di spazio.

Facci un pensiero perché secondo me ne vale la pena.

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Senti, Secondo: io vorrei leggerti costantemente, perché sono certa che ne vale la pena, ma faccio obiettivamente fatica, su schermo, E credo che questo valga per altri.

Hai pensato a pubblicarti? In attesa di un editore "vero", magari quei siti di autopubblicazione....

Insomma, una pagina stampata, ferma, non ad impulsi.....quella vecchia roba dei tempi del pennino e dell'inchiostro....

Lo so che potrei stampare anche quello che scrivi qui, ma tra "firme" ( e la tua è ingombrante!!!), post qui e post là, , commenti, ecc....spreco un sacco di spazio.

Facci un pensiero perché secondo me ne vale la pena.

 

Non "quoto" mai, se ho a dire una cosa la dico e sennò ciccia.

Ma per una volta mi fa piacere farlo: ecco Lucio é quello che volevo dirti anch'io.

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