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I Kaiten


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Palombaro

Comune di II Cl.

 

 

Kamikaze di profondità: la storia dei kaiten - di Marco Petrelli

 

 

“Kamikaze” (Vento divino) è un termine entrato nel lessico comune dopo la seconda guerra mondiale ed oggi ampliamente usato dai media ogniqualvolta si debbano descrivere strategie di guerra estreme.

 

Il kamikaze fa la sua comparsa nelle ultime fasi del secondo conflitto mondiale quando il Giappone, ormai a corto di armi e munizionamenti, gioca una carta disperata, quella dei piloti suicidi.

 

L’idea di scagliare contro un’unità nemica un aereo carico di esplosivo balenò nel tardo ’44, precisamente quando gli alleati preparavano l’invasione delle Filippine.

 

Il 17 ottobre del 1944 gli angloamericani danno inizio a quella che sarà ribattezzata la battaglia del Golfo di Leyte. Quattro giorni più tardi, fra lo sgomento generale dell’equipaggio, la portaerei Australia viene colpita da un caccia Zero, subendo grossi danni e trenta vite umane spezzate. Il 25 ottobre è il turno della USS St. Lo, che salta in aria dopo l’incendio alla santabarbara provocato da un attacco suicida.

 

Nelle profondità marine, dalle pance d’acciaio dei sommergibili nipponici, stanno per entrare in scena i kaiten (lett. rivolgersi al paradiso).

 

A bordo di piccole torpedini pilotate e dotate di una carica esplosiva, gli uomini della Marina imperiale scivolano fin sotto la chiglia delle navi nemiche, per farsi poi esplodere con l’intero mezzo.

 

Per chi, come gli inglesi, si era cimentato nella guerra navale nel Mediterraneo contro la Regia Marina italiana, questo tipo di battelli non era cosa nuova. Gli SLC (Siluri lenta corsa) avevano violato la rada di Alessandria d’Egitto il 19 dicembre del 1941, colando a picco la HMS Valliant e la HMS Queen Elizabeth, due grosse unità della Royal Navy. Ma mentre i marinai italiani si allontanavano prima dello scoppio delle mignatte (mine magnetiche), gli epigoni del Sol Levante erano votati al martirio.

 

I giapponesi disponevano di un’arma tecnologicamente più avanzata degli SLC, a partire dalle dimensioni: 14, 5 m di lunghezza e 1 m di diametro, contro i 6, 70 m degli SLC, con motori ad ossigeno da 550 cavalli capaci di sviluppare una velocità stimata fino a 30 knots; in più avevano una cabina di pilotaggio. Queste peculiarità erano dovute al diverso impiego operativo: non si colpivano navi ormeggiate in rade e porti ma in mare aperto. Si rendeva quindi necessaria una potenza e una precisione tali da potere conseguire l’obiettivo sfidando le condizioni meteo marine del Pacifico, in più la preda non era ferma, bensì in moto.

 

Quattrocento gli esemplari prodotti a cavallo tra 1944 e 1945, cento quelli impiegati in missioni suicide. Malgrado la raffinatezza dei meccanici giapponesi e la possente carica di 1300 kg di tritolo, questi battelli conseguirono un numero di vittorie nettamente inferiori alle aspettative.

 

Se gli aerei erano in grado, per autonomia di carburante, di coprire maggiori distanze, dalla base all’obiettivo, le torpedini kaiten venivano lanciate dai sommergibili solo in prossimità della preda. Ciò poneva il pilota in una condizione di svantaggio, esponendolo al pericolo di intercettazione delle unità di scorta nemiche.

 

Problematiche, queste, che un sommergibilista non avrebbe potuto trattare con leggerezza: scoperto il battello gli americani sarebbero presto risaliti all’unità da cui esso era partito.

 

Una nave da battaglia e una petroliera in fiamme i risultati di sette mesi di attività dei “kamikaze del mare”. Di fronte a tale realtà è comprensibile la scelta della Marina imperiale di concentrarsi sulle missioni dei caccia Zero.

 

Sulla terraferma, invece, dai tempi di Guadalcanal gli alleati erano abituati a vedere soldati giapponesi scagliarsi contro di loro anche a mani nude, pur di non cadere prigionieri. Ogni popolo ha una sua logica di guerra, un proprio codice. Nel Sol Levante il soldato che si arrende non è da considerarsi uomo: il prigioniero, pur di avere salva la vita, preferisce il disonore della sconfitta a più onorevole morte in battaglia. Questo è indice di come la scelta di morire facendosi esplodere contro l’obiettivo nemico non fosse figlia di mero fanatismo, bensì frutto di un humus culturale fortemente influenzato dall’epopea dei guerrieri samurai. I piloti kaiten e i piloti delle squadriglie kamikaze Yamato e Shikishima raggiungevano l’aldilà scevri di retorica e prosopopee.

 

“Il fiore per eccellenza è il ciliegio/l’uomo per eccellenza il guerriero”. In questi versi l’essenza della vita del soldato nipponico. Per aspera ad astra* avrebbero sentenziato i latini.

 

 

*Letteralmente: Attraverso le asperità alle stelle. E' anche il motto della Royal Air Force.

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