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Deceduto L'amm. Birindelli


Visitatore luciano pietri

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Per fortuna,poco dopo, arrivò il cambio, mi avviai velocemente per raggiungere la mia branda nel locale 5 a poppa ma nel percorrere il corridoio di sinistra sivolai su una vomitata,quel corridoio era come un campo minato,sono riuscito ad entrare nel locale gabinetti di poppa appena in tempo per sganciare la mia mina, ho iniziato così a farmi il piede marino.

 

Chi non ha mai raccato, non è un vero marinaio... :s02:

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Grazie Alagi per le tue parole di consolazione.

Quella fu la mia prima raccata,ma non certo l'ultima, però,pinne stabilizzatrici o no, con il tempo si diradarono e prese forma il cosidetto "piede marino".

Nel mio precedente intervento ho accennato al locale 5 di poppa di Nave Impavido, ma credo si tratasse del locale 2,il 5 era a prora,sono passati quarant'anni ormai e la memoria, per questi particolari, vacilla.

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  • 2 weeks later...
  • 7 months later...

Il mio primo post, su questo prestigioso forum, voglio che sia un omaggio ad un grandissimo uomo e marinaio: l'Ammiraglio di Squadra Gino Birindelli, leggendario eroe dei mezzi d'assalto.

 

Ricordo che lo scorso 2 agosto, ricorreva il primo anniversario della scomparsa dell'Ammiraglio, Medaglia d'Oro al Valor Militare, eroe tra gli eroi, mito di tutti gli incursori e di tutti gli uomini della Marina e, più in generale, eccelso ed impareggiabile punto di riferimento, per chiunque voglia avvicinarsi alla missione del militare (e non, come qualche volta si dice, al mestiere delle armi).

 

 

 

Dal link http://www.dedalonews.it/it/index.php/08/2...lio-birindelli/

 

riporto:

 

"...Nel suo libro "Vita di marinaio" l'ammiraglio di squadra Gino Birindelli traccia la sua cinquantennale vita in Marina, dai primi passi in Accademia Navale, fino agli anni del dopoguerra, passando dalle esperienze belliche durante il secondo conflitto mondiale.

 

Il titolo dell'ultimo capitolo, "Come i soldati vedono la Patria", lascia ben intuire come l'ammiraglio di squadra Gino Birindelli non abbia voluto scrivere un libro di facile lettura, quanto, piuttosto, esporre una serie di considerazioni sull'umano fenomeno della guerra e del suo indispensabile corollario umano: l'etica militare.

 

Un libro che ogni appartenente alle Forze Armate dovrebbe aver letto almeno una volta nella sua vita..."

 

Confermo trattarsi di un libro splendido: ne consiglio la lettura a tutti.

 

 

 

In Sua memoria e perenne ricordo, inserisco i link a 4 trailer tratti da un film a Lui dedicato e in cui l'Ammiraglio stesso ci parla di alcuni argomenti ed uomini a Lui cari.

 

 

 

 

http://www.youtube.com/watch?v=9YJVX71Cmz8...feature=related

 

 

http://www.youtube.com/watch?v=6kz-1i3te18...feature=related

 

 

http://www.youtube.com/watch?v=OecR7uI0Ihk...feature=related

 

 

 

Eccovi il link alla puntata della trasmissione televisiva "La Storia siamo noi", intitolata "La guerra occulta. 1941: Operazione Alessandria. L'affondamento delle corazzate Valiant e Queen Elisabeth":

 

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=86

 

 

Al link che segue, della trasmissione predetta, potrete seguire un'intervista all'Ammiraglio Gino Birindelli:

 

http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/pop/sch...deo.aspx?id=312

 

 

 

Dal sito ufficiale della Marina Militare Italiana, numero di luglio/agosto 2008 del "Notiziario della Marina", eccovi i link a 2 articoli:

 

http://www.marina.difesa.it/editoria/notiz...ocumenti/42.pdf

 

http://www.marina.difesa.it/editoria/notiz...ocumenti/45.pdf

 

 

 

Il link ad un'intervista rilasciata, nel 2005, dall'Ammiraglio Birindelli ad una giornalista del quotidiano "La Stampa":

 

http://archivio.lastampa.it/LaStampaArchiv...aPdf?ID=6210787

 

 

 

Infine il link ad un articolo dell'Ammiraglio Guido Venturoni, già Capo di Stato Maggiore della Marina, Capo di Stato Maggiore della Difesa e Presidente del Comitato Militare della Nato (articolo già linkato nel post n° 44 da GM Andrea, ma con un link non più attivo):

 

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubr...e=&sezione=

 

 

 

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"Prego bensì che l'una e l'altra cosa, la Vittoria e il Ritorno, Tu conceda; ma se una sola cosa, o Dio, darai, la Vittoria concedi sola".

(Preghiera dell'Incursore)

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  • 2 weeks later...

Ecco un interessante articolo del giugno 1968 , sugli SLC ed – in particolare – sull’Ammiraglio Gino Birindelli, il miglior modo di ricordare la Sua figura e la “notte di Gibilterra”.

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Un pugno di uomini, con minimi mezzi, contro una flotta: così può essere riassunta la drammatica lotta dei mezzi d'assalto della Marina Italiana, nel quadro del secondo conflitto mondiale. Da una parte quel pugno di avventurosi, dall'altra la potenza della « Home Fleet » britannica. Teatro: il Mediterraneo. Niente o quasi niente di comune con la guerra delle navi di superficie, impegnate nell'alta strategia del dominio dei mari. Soltanto un complemento ad essa, se mai.

Il compito dei mezzi di assalto era, insomma, quello di scemare la supremazia del nemico, bilanciando, almeno, il rapporto delle forze. Un compito pienamente assolto, giacché in certe fasi del conflitto i colpi inferti da essi determinarono sullo scacchiere mediterraneo situazioni di grave disagio per l'Inghilterra. Il bilancio di quelle imprese resta eloquente: cinque navi da guerra e ventisette navi mercantili colarono a picco, per un complesso di 265.000 tonnellate.

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Un Siluro Lenta Corsa (SLC)

 

« Maiali », « barchini », « cimici » e « bauletti esplosivi » erano le armi dei tre reparti specializzati che si addestravano a Bocca di Secchio, al Varignano presso La Spezia ed all'Accademia Navale di Livorno. Bocca di Serchio fu la prima di queste basi segrete ad entrare in azione. Era il nido dei « siluri a lenta corsa » più comunemente conosciuti come « maiali ». I pionieri dei mezzi d'assalto, un gruppo di otto ufficiali, vi furono chiamati e dettero inizio al ciclo delle vere e proprie azioni di guerra. Al Varignano andarono gli operatori dei « barchini », a Livorno i nuotatori di assalto sotto la denominazione convenzionale di « Gruppo Gamma ».

Il « siluro a lenta corsa » era una specie di piccolo sottomarino, di quasi sette metri di lunghezza tra apparato motore e carica esplosiva. Questa conteneva tre quintali di esplosivo. Giunti sull'obiettivo, i due operatori la staccavano dal resto, per applicarla alla chiglia della nave da affondare e cercavano di allontanarsi rimanendo a cavalcioni dell'apparato motore azionato a propulsione elettrica. I due uomini vi stavano, tanto per dare una idea, come sopra una motocicletta, chiusi nelle loro tute di gomma e con il respiratore, a contatto diretto con l'acqua.

 

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Un gruppo di “assaltatori” riunito a Bocca di Serchio nel 1940. Da sinistra: Stefanini, Bertozzi, De La Penne, Falcomatà, Aloisi, Giorgini, Tesei, Birindelli, Centurione

Lo strano nome di « maiale » glielo dette inconsapevolmente il personaggio di maggior spicco della brigata pionieresca, durante una esercitazione sul fondo marino di Bocca di Serchio. L'allenamento consisteva nel superare una ostruzione simile a quelle che si usavano a difesa dei porti. La corrente subacquea era forte e c'era il rischio che portasse via l'apparecchio abbandonato lì vicino. Allora Teseo Tesei disse ad uno dei suoi compagni : « Lega il maiale! ». Così, così come avrebbe potuto dire, magari, il cane o il cavallo. Fatto sta che l'appellativo rimase vivo nel gruppo e poi si divulgò a di fuori di esso.

Teseo Tesei, di Marina di Campo all'isola d'Elba, un uomo eccezionale per le sue virtù, quasi un asceta, era uno dei due inventori del « siluro a lenta corsa ». L'altro era Elios Toschi, anconetano. Usciti dallo stesso corso d'Accademia, entrambi avevano il grado di capitani del Genio Navale. Appassionati studiosi delle cose marinare, erano partiti dal concetto informatore della « mignatta » di Rossetti, elaborandola però con accorgimenti nuovi, rivoluzionari. L'insidia veniva dal fondo del mare e non dalla superficie, veniva da un minuscolo apparecchio che consentiva a due uomini - un pilota ed un aiutante - di vivere sott'acqua, navigare, dirigersi contro un bersaglio passando sotto le reti protettive, attaccarlo liberamente rimanendo sempre in immersione. L'elemento sorpresa non poteva mancare, favorendo il successo.

 

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Teseo Tesei

 

L'invenzione del « maiale » fu progettata a La Spezia nell'atmosfera delle sanzioni economiche contro l'Italia, in seguito al conflitto etiopico. Si può far risalire, quindi, al 1935. Le discordanze con l'Inghilterra facevano già prevedere tempi cupi nel Mediterraneo. Occorreva trovare qualcosa da opporre alla potente flotta britannica. Aguzzare l'ingegno, giocare alla spericolata. Il « maiale » fu dunque l'arma dei poveri, nella vicenda. Si perse del tempo, questo sì. Lo si perse perché negli alti comandi c'era sempre qualcuno che non credeva alle possibilità reali dell'apparecchio.

Si tergiversò, anche, sul sistema di avvicinamento ai porti nemici. Aereo o sommergibile? Si trascurarono, per un lungo periodo tra il conflitto etiopico e quello mondiale, i rammodernamenti agli apparecchi e gli allenamenti dei piloti. E fu così che mancò il grande colpo: quello, cioè, di avere quell'arma segreta già perfettamente pronta nel momento della dichiarazione di guerra, così da agire subito, in quel momento stesso, contemporaneamente contro Gibilterra, Malta e Alessandria d'Egitto, le tre grandi basi della « Royal Navy » nel Mediterraneo. In tal caso, la sorpresa assoluta avrebbe garantito uno strepitoso successo.

Soltanto nell'autunno del 1939, il centro segreto di Bocca di Serchio, nella quiete della tenuta dei duchi Salviati, entrò in funzione con caratteristiche permanenti. Da principio i mezzi di assalto furono inquadrati nella I Flottiglia MAS, dal cui comando dipendevano in tutto e per tutto. Poco dopo lo scoppio della guerra, però, furono resi autonomi sotto la convenzionale denominazione di « X MAS ». Tale denominazione assunse un significato foscamente politico al tempo della repubblica di Salò, ma non bisogna assolutamente fare confusione accomunando la « Decima mas » di prima a quella di dopo, in questa storia. Aggiungiamo che la sigla « MAS » derivava da « motoscafi anti sommergibili ». Di tali mezzi esistevano da tempo alcune squadriglie, negli organici della nostra Marina. Si pensò, chiamando ufficialmente così i mezzi di assalto in genere, di mascherarli il più possibile agli occhi dello spionaggio nemico.

Vi furono adunati otto volontari, vi furono portati quattro apparecchi, sempre del vecchio tipo, con i loro inevitabili problemi tecnici non del tutto risolti. Di quegli otto uomini, i pionieri veri e propri, è giusto fare i nomi: Teseo Tesei ed Elios Toschi (di cui già si é detto), i tenenti di vascello Gino Birindelli di Pescia nel Pistoiese e Alberto Franzini di Reggio Emilia, il livornese Gustavo Stefanini capitano delle Armi Navali, il napoletano Bruno Falcornatà capitano medico, il sottotenente di vascello Luigi Durand de la Penne ed il guardiamarina Giulio Centurione, tutti e due genovesi. Da prima, comandante dei mezzi di assalto fu il capitano di fregata Aloisi, ma nella primavera del 1940 gli successe in pari grado Giorgini. Fu appunto con Mario Giorgini, fiorentino, che si svolsero le prime missioni di guerra.

Divideremo il vasto argomento in tre parti, cominciando subito con gli attacchi alla base navale di Gibilterra, lasciando perciò all'ultimo capitolo - quello di Alessandria d'Egitto - a dispetto della cronologia, due missioni antecedenti e sfortunate che portarono alla perdita di due sommergibili ed alla cattura di tre « pionieri » ossia Toschi, Stefanini e Franzini, con i loro « secondi uomini» e col comandante Giorgini nell'agosto e nel settembre del 1940.

Entra in scena il sommergibile « Scirè » insieme col suo comandante, il principe Valerio Borghese. Lo « Scirè » da lui guidato portò ben quattro volte (settembre e ottobre 1940, maggio e settembre del 1941) gli «operatori» ed i «maiali» dinanzi alla base di Gibilterra. A Gibilterra, in tali spedizioni, non ci furono affondamenti di naviglio bellico. Soltanto tre mercantili (le cisterne « Derbydale » e « Frona Shell » e la motonave armata « Durham ») furono colati a picco nel quarto assalto. Generalmente, gli equipaggi dei « maiali » venivano « ricuperati » anziché cadere prigionieri, se scampavano alla morte.

E questo perché era possibile, col favor delle tenebre, dopo l'azione, raggiungere a nuoto le coste della baia di Algeciras, in territorio spagnolo, dove era stata creata una organizzazione per aiutarli a nascondersi ed a tornate in Italia in aereo. Tuttavia, anche se non furono raggiunti orgogliosi obbiettivi, Gibilterra rimane importantissima per quello che accadde la notte del 30 ottobre 1940: perché, per la prima volta, un « maiale » violò una munitissima base navale nemica.

 

 

La “casa bianca” di Bocca di Serchio sulla costa tirrenica

È la grande avventura di Birindelli e del suo « secondo uomo », il sottufficiale palombaro Damos Paccagnini,viareggino. Senza un guasto meccanico dell'apparecchio, la nave ammiraglia della «Home Fleet» sarebbe stata squarciata. Un'avventura sconcertante, che va raccontata in tutti i suoi dettagli.

Ecco, dunque, lo « Scirè », dopo una navigazione quanto mai difficile e perigliosa, infilare la baia di Algeciras e, presso la costa, calarsi sul fondale di settanta metri, per attendere che calino le tenebre. Tutto quello che qui riferiamo è tratto dagli atti dell'ufficio storico della Marina e dalla viva voce del principale protagonista.

La posizione voluta è stata raggiunta. Gibilterra è lì davanti; come a portata di mano. Arrivata l' « ora x », i sommozzatori cominciano a indossare i paludamenti da mostri marini. Alle due del mattino, lo « Scirè » emerse ed il comandante Borghese assegnò i bersagli: Birindelli contro la « Barham », Tesei contro l'altra corazzata che sì chiamava « Renown », De La Penne contro una portaerei situata al centro del porto interno. L'emersione del sommergibile non fu totale. Verme fuori dal mare solo un metro di torretta, tanto da poter aprire il portello e da far uscire i tre equipaggi. I sei uomini si attaccarono ai cassoni che racchiudevano i propri « maiali » e il sommergibile tornò ad immergersi. Dovevano estrarre i mezzi di assalto dalle custodie e poi si sarebbero aspettati in superficie, come stabilito, per fare insieme la marcia di avvicinamento all'obbiettivo, Sott'acqua la visibilità era nulla. Birindelli ricorda: « Non vidi più i miei compagni, non seppi più nulla di loro, se non a guerra finita. Quando risalii per l'appuntamento, essi non c'erano. Poiché avevo perduto molto tempo ad estrarre e a cercare di mettere in efficienza l'apparecchio, immaginai che erano già andati sull'obiettivo. Tanto per scrupolo, mi tolsi la maschera e chiamai Tesei. Nessuna voce mi rispose ».

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Cartina delle varie fasi delle operazioni compiute durante “la notte di Gibilterra”

Stava accadendo un dramma: i tre « maiali », forse per effetto della pressione, presentavano, quale più e quale meno, dei seri inconvenienti. L'equipaggio Tesei - Pedretti, dopo molte disavventure per guasti meccanici, giunto presso il ruolo nord del porto interno, constatò, al momento della immersione decisiva, che i respiratori non funzionavano. Di conseguenza, diventato impossibile l'attacco, affondò l'apparecchio e si diresse, a nuoto, sulla costa spagnola, trovandosi all'appuntamento fissato nel luogo « x » con gli agenti segreti addetti al ricupero dei piloti. L'equipaggio De La Penne-Bianchi fu avvistato da una motovedetta che gli gettò addosso il proiettore. Anche quel « maiale » funzionava malissimo. Nella indispensabile immersione per eclissarsi, si fermò ad una profondità di quaranta metri e non ebbe più possibilità di risalire. Fu affondato, anche quello. Il pilota ed il « secondo uomo », come Tesei e Pedretti, si portarono in costa e qualche giorno dopo erano già tornati a Bocca di Serchio.

Birindelli non sapeva queste cose. Sapeva appena che il suo apparecchio risultava appesantito, marciava troppo lentamente, doveva tenersi « appoppato » obbligando Paccagnini a stare sempre con la testa sott'acqua ed a « consumare » il respiratore. Per rimetterlo in sesto alla meglio, a quel modo, i due uomini avevano perduto cinquanta minuti attorno al sommergibile. Ora si trovavano completamente soli, Birindelli disse al suo palombaro : « Ci si va o non ci si va? ». Incertezza. Poi pensò che, arrivando al porto due ore dopo gli altri, anche se scoperto non avrebbe guastato nulla del loro lavoro forse già compiuto. E partirono.

A proposito di questa concomitanza di guasti a tutti e tre i « maiali », che poteva anche suscitare qualche dubbio, Birindelli a fine guerra ebbe a dichiarare, escludendo ogni incuria (se non di peggio) nella manutenzione e nella messa a punto degli apparecchi: « Si trattava forzatamente di congegni rudimentali, proprio di gingillini. Era tutto lamierino. La parte meccanica era da rivedere. Un mese prima della guerra fu deciso un completo rifacimento. Il dosaggio con l'acqua, per trovare l'equilibrio indispensabile alle manovre di immersione e di emersione, dovevamo farlo noi stessi prima dell'azione. In pratica, la fase di esperimento non era finita. I maggiori inconvenienti erano dati dalle pompe e dalle valvole. La pressione del fondo provocava spesso, anche l'allagamento delle batterie del motore a elettricità. Era fatale, in quella prima fase, che fosse così ».

L’Ammiraglio MOVM Gino Birindelli in una foto alla fine degli anni 60

Le luci della cittadina spagnola di La Linea aiutarono Birindelli nell'orientamento. Ad un certo punto, i. due uomini sì trovarono tra due piroscafi che rappresentavano la testa di due lunghe file di navi mercantili. Ci passarono in mezzo. Sentivano le voci di bordo. Avanti, avanti, ad una velocità da lumache. Dopo due ore arrivarono alla testata del molo mercantile. L'entrata nel porto vero e proprio era lì.

Per passare il primo sbarramento bisognò venire a galla, dovendo far passare il « maiale » in superficie, cioè nello spazio esistente tra la rete antisiluro e le sbarre che la collegavano alle boe. Le sentinelle erano a trenta metri ma, stranamente, non si accorsero di nulla. Oltrepassata la seconda ostruzione, di colpo, sulla destra, apparve la mole gigantesca della corazzata «Barham », nave ammiraglia. appena a duecento metri di distanza.

Accadde allora una cosa assolutamente imprevedibile. Mentre Birindelli metteva la prua contro il bersaglio, per poi immergersi e continuare sulla stessa direttrice data dalla bussola, dal « maiale » si sprigionò un bagliore accecante. Era Paccagnini che, senza accorgersene, aveva urtato l'interruttore della lampada subacquea e l'aveva accesa. Il pilota acciuffò il suo « secondo uomo » per i capelli ed entrambi si immersero in un lampo. Un disastro dietro l'altro : nel tuffo, fu chiaro che il respiratore di Paccagnini non funzionava più. Il viareggino tornò a galla mezzo svenuto, con i primi sintomi della asfissia. Birindelli se ne era accorto e gli aveva dato l'ordine di abbandonarlo, di emergere e, possibilmente, cercare una boa e attaccarcisi stando fermo come una statua.

Birindelli era del tutto solo, ormai, nella lotta. Un uomo contro una nave da battaglia : come una formica contro un elefante. Controllò la bussola, mise in moto il « maiale » sul fondo. L'apparecchio obbedì, avanzò. Pochi metri, ancora pochi metri, ed il sogno sarebbe diventato realtà. Affondare la «Barham », il colosso di cui tanto si era parlato nella lunga vigilia di Bocca di Serchio, magari come di un fantasma irraggiungibile...

Il pilota aveva considerato il piano di emergenza. Senza l'aiuto del palombaro non avrebbe potuto applicare la morsa e la cima alle alette di rollio della nave per far pendere la carica di tritolo sotto la carena. Però il fondale era di quattordici metri e la corazzata «pescava » dieci metri. Era sufficiente, così, abbandonare l'esplosivo là sotto. Ma d'un tratto il mezzo si fermò. Benché il motore funzionasse, l'elica non girava. Si era rotta la ruota dentata di trasmissione. Nulla da fare. Non rimaneva che tentar di trascinare il « maiale » avanti, spingerlo sul fondo a forza di braccia. L'uomo non si arrese, si logorò nel tentativo. Era giunto a settanta metri dal bersaglio. Però non ne poteva più. Bisogna che si sappia che Birindelli aveva perduto l'uso di un polmone, nel corso di precedenti esercitazioni. I superiori non volevano nemmeno che partecipasse all'impresa. Era partito dopo molte insistenze, l'aveva avuta vinta quasi raccomandandosi. E sul più bello sentiva che lo svenimento stava attanagliandolo.

«Avevamo fatto » racconta lui stesso « anche l'errore di non mangiare o quasi, nell'immediata vigilia dell'azione. Io poi per venti ore non avevo potuto toccare cibo. Mi sentivo debolissimo, perciò. Con un ultimo sforzo, riuscii ad azionare la spoletta, regolando a due ore lo scoppio. Venni a galla come un involucro di gomma. Respirai e mi misi a nuotare verso una boa. Mi sfilai gli indumenti da sommozzatore, rimasi in tuta da lavoro, grigia e con i gradi militari sulle maniche. Nuotai ancora verso qualche cosa che distinguevo appena. Era un molo. Il freddo mi irrigidiva, i crampi mi assalivano. Stavo per affondare, quando vidi, quasi sopra la mia testa, un cavo che pendeva. Pendeva dalla banchina. Allora mi aggrappai. »

Si arrampicò, rimase disteso per una ventina di minuti sulla banchina. Poi si ricordò dell'appuntamento con gli agenti segreti. Fu un lungo giocare a nascondino, per non essere veduto o avvicinato da qualcuno. Il molo era interrotto da una passerella da cui pendeva una rete dì sbarramento. Si calò e avanzò all'esterno, mettendo i piedi sulle maglie della rete. Un motoscafo si fermò lì vicino, ma nessuno degli uomini a bordo fece caso a lui. Si era rimboccate le maniche della tuta da lavoro, per nascondere i gradi. Risalì sul molo e prese a camminare - senza destar sospetti - tra gli operai e i soldati. Cominciava ad albeggiare. La costa spagnola non era lontana: a nuoto ce l'avrebbe fatta. Ma di giorno avrebbe dato troppo nell'occhio un uomo che, d'ottobre, nuotava vestito.

Un piroscafetto dal nome « Sant'Anna » lo attrasse. Pensò che fosse spagnolo, andò a bordo con l'intento di scivolare sotto coperta. Uno dell'equipaggio lo vide. Birindelli chiese di essere preso a bordo, offrì duecento pesetas. Stavano per accettarle, quando apparve un soldato inglese. Il piroscafo era sotto controllo. Fu inevitabile l'accompagnamento alla polizia. Arrivò un tenente di vascello, ad interrogarlo. « Chi siete? ». Rispose di essere un ufficiale italiano e mostrò il piastrino di riconoscimento. L'interrogatore sorrise, non lo prese sul serio. E, proprio in quel momento, si udì uno scoppio che fece tremare tutto il porto.

Io credevo » disse poi Birindelli « che fosse l'ordigno esplosivo di Tesei o di De La Penne. Avevo gettato via anche l'orologio, con gli indumenti, non avevo più cognizione del tempo. Invece era la testa del mio apparecchio che esplodeva a trenta metri dalla corazzata. La corrente l'aveva portata ancor più vicina. Roba da mangiarsi le mani ».

L'interrogatore non rise più. Venne un capitano di fregata e chiese subito al prigioniero: « Conosce Aicardi? ». Il nome era sbagliato, si trattava di Accardi. Sì, lo conosceva. Era un ufficiale del sommergibile Lafolè . L'inglese spiegò che il sommergibile era stato affondato due giorni prima nello stretto di Gibilterra. Poi, ancor prima di cominciare il vero e proprio interrogatorio, pronunciò questa frase che a Birindelli fece grande effetto : « Voi siete in ritardo di tre giorni. I vostri amici passeggiano da tre notti sulla spiaggia di La Linea. Uno alloggiava all'albergo Principe Alfonso ».

Interrogatori lunghi e serrati, come sempre in tali casi, ma senza alcun frutto. Birindelli fu chiuso nelle carceri insieme a delinquenti comuni. Ad ennesime domande (come fosse arrivato fin lì) rispose di essere un naufrago di un Mas affondato in una ricognizione per aver urtato conto un relitto. Ma gli inglesi non lo credettero per una strana circostanza. Birindelli era rasato di fresco, quando fu catturato. Si erano fatti la barba tutti insieme, prima di uscire dallo Scirè.

Era stato Birindelli a lanciare l'idea, celiando : « Gli inglesi dicono che un gentiluomo non esce di casa al mattino senza essersi fatto la barba : e noi affonderemo le loro navi ben rasati ». Così, in base a tale osservazione, l'inquisitore di turno ribatté: « Un naufrago non è uscito fresco dal barbiere. Voi siete una spia o un sabotatore e vi giudicherà la corte marziale ».

La faccenda si metteva male. Alla fine, gli inglesi si dissero pronti a considerarlo prigioniero di guerra. in attesa di conferme, a patto che ritrattasse la storia del Mas. Il che Birindelli fece perché non significava proprio nulla e bastava non rivelare come si era svolta l'azione. Non fornì particolari di sorta.

Sapevano davvero ogni cosa gli inglesi? In base alla frase del capitano di fregata Birindelli lo supponeva. Ne parlò con Paccagnini, quando si ritrovarono nel carcere. Volle avvertire quelli di Bocca di Serchio e lo fece tramite un prete spagnolo che andò alla prigione per confessare Accardi. Una cartolina diretta a Falcomatà, con due parole: " Sanno tutto ". Ma più tardi, ripensando e valutando meglio, considerato il colpo mancato per un soffio, per pura disdetta, dall'ospedale dove fu ricoverato appena arrivato in Inghilterra a causa delle precarie condizioni di salute, Birindelli corresse le sue informazioni con una lettera a sua madre.

La lettera, in un frasario convenzionale che non dette ombra alla censura, diceva: « Dì a Bruno di seguitare a prepararsi agli esami e sicuramente sarà promosso perché i professori non sono cattivi conte sembrava. Io sono stato bocciato per la stessa ragione di Gigi alla seconda sessione di esami ».

La madre cadde dalle nuvole. Temé che il figlio fosse in preda a una crisi psichica. Ma poi ricordò che Bruno era Falcomatà e gli mandò la lettera. Tutto chiaro, per quelli di Bocca di Serchio. Il compagno catturato diceva, dunque, che il « maiale » meritava fiducia e che bisognava insistere nei tentativi. Aggiungeva che non era vero che gli inglesi : i < professori > conoscevano le cose a fondo e erano in grado di neutralizzare ogni attacco. Finiva col segnalare il guasto che aveva immobilizzato il suo apparecchio : Gigi era Luigi De La Penne che, rientrato dalla fallita missione di Gibilterra; constatò la rottura della ruota dentata di trasmissione.

Fu in base a questa lettera incoraggiante che l'utilizzazione dei « maiali » non fu accantonata e scartata, anzi si intensificò la preparazione. Al Ministero della Marina, infatti dopo tre insuccessi già si parlava di rinunciare. Teseo Tesei apportò altre modifiche, si entrò pian piano nel clima della sfolgorante notte di Alessandria dove i sommozzatori, nel dicembre 1941, colarono a picco le corazzate « Valiant e Queen Elisabeth ».

Quanto alla « Barham » sfuggita per un vero miracolo a Birindelli, sprofondò un anno più tardi nel Mediterraneo orientale con tutti i suoi 859 uomini di bordo, nel giro di sei minuti, squarciata dai siluri del sommergibile tedesco comandato dal tenente di vascello Von Tiesenhausen.

Gino Birindelli fu tenuto in prigionia in Inghilterra dove, comandante di campo, ogni poco « dispiaceva » agli inglesi e veniva ripetutamente chiuso in cella. Consegnato in un secondo tempo agli americani, rimpatriò dopo l'armistizio (nel marzo 1944) e comandò a Taranto il ricostituito gruppo dei « barchini » che operò nell'Adriatico. La medaglia d'oro gli fu conferita per il complesso della sua attività, ma in primo piano figurò la sfortunata impresa di Gibilterra.

Nuova tecnica, nuovi accorgimenti, anche nuovi personaggi, per le operazioni dei mezzi d'assalto contro Gibilterra, dopo le quattro spedizioni dello « Scirè ». L'accostamento col sommergibile si rivelava sempre più problematico, sia per le difficoltà della navigazione nello stretto, sia perché ormai gli inglesi avevano preso le loro contromisure.

Si aprì così, verso la metà del 1942, una fase del tutto diversa. Siamo, ora, con la nostra ricostruzione dei fatti, alle « basi di sabotaggio segrete » di Villa Carmela e della petroliera « Olterra ». Sbarcato dallo « Scirè » per assumere il comando dei mezzi di assalto, il comandante Borghese dette piena fiducia agli ideatori di quegli stratagemmi e si arrivò rapidamente alla loro organizzazione.

Spionaggio e controspionaggio si affiancarono alle azioni belliche. La scena era sempre quella della baia di Algeciras. E proprio dirimpetto, nel porto esterno di Gibilterra, sostavano i grossi convogli diretti a Malta e in Egitto per le truppe del generale Montgomery impegnate nella grande battaglia del deserto. Anche la distruzione di quelle navi mercantili cariche di materiale bellico era un obiettivo molto importante.

Nella primavera del 1942, dunque, fu inviato in Spagna, per una « esplorazione » attinente ad un preciso progetto, il tecnico genovese Antonio Ramognino. Aveva sposato da poco una spagnola, di nome Conchita, che doveva costituirgli un alibi ed essere poi di enorme aiuto all'impresa. Affittarono una villa sopra una collinetta vicinissima alla riva della baia di Algeciras, perché « la signora doveva rimettersi in salute ». Quel primo punto di appoggio si chiamava Villa Carmela. Da lì operarono i nuotatori del « Gruppo Gamma » che venivano introdotti clandestinamente in Spagna e, di notte, attraversando a nuoto il breve tratto di mare, attaccavano le « cimici » (piccole cariche esplosive) alle navi mercantili alla fonda nel porto esterno di Gibilterra e ne spezzavano la carena.

Il sottotenente di vascello Agostino Straulino, poi asso mondiale ed olimpionico della vela, comandò le operazioni, partecipandovi con gli altri nuotatori di assalto che vi si avvicendarono arrivando a Villa Carmela poco prima dall'e ora X » e ripartendone subito dopo. L'Intelligence Service mai scoprì l'arcano, continuando a pensare che si trattava di uomini portati a Gibilterra dai sommergibili, come nei casi precedenti. Il bilancio di tali azioni è presto detto. Furono affondati nel luglio e nel settembre del 1942 questi cinque piroscafi di medio tonnellaggio, a carico pieno: « Meta », « Shurna », « Empire Snipe », « Baron Douglas » e « Ravens Point ».

Intanto, si stava lavorando per la seconda « base di sabotaggio » dalla quale dovevano operare non più i nuotatori di assalto bensì « maiali ». Nel porto di Algeciras c'era una petroliera italiana, la « Olterra », di quattromila tonnellate. Allo scoppio della guerra, il suo comandante l'aveva portata via per tempo da Gibilterra e, giunto in acque territoriali spagnole, aveva aperto gli allagamenti. Rimasta semisommersa, era stata messa in disarmo, ormeggiata, appunto, al molo del porto di Algeciras, proprio davanti all'Hotel Vìctoria, nel quale aveva sede il consolato inglese. Un picchetto di carabineros montava la guardia sul cassero di poppa, in omaggio alle regole della neutralità.

Bisognava, in assoluto segreto, senza destare il minimo sospetto, creare nello scafo un nascondiglio per gli apparecchi, praticare un'apertura sotto la linea dì galleggiamento da cui gli stessi apparecchi potessero uscire e rientrare, organizzarvi un'officina, portare i « maiali » dall'Italia e, con essi, gli operatori ed i tecnici indispensabili. L'armatore della nave si prestò subito a collaborare e fece le regolari pratiche con le autorità spagnole, spiegando di voler rimettere la nave in efficienza. Ciò era alla base di tutto, Con regolari permessi potevano, così, farsi i lavori di trasformazione, far arrivare i materiali, giocando su tutti gli inganni. II problema degli uomini fu pure risolto bene con la graduale sostituzione dell'equipaggio mercantile rimasto sull'« Olterra ». Per di più, era logico che nella operazione del « riarmo » dovessero esser chiamati altri marittimi e tecnici specializzati.

I nuovi arrivati appartenevano alla Marina da guerra o erano militarizzati: carpentieri e meccanici provetti. Alcuni erano operai delle officine di San Bartolomeo, a La Spezia. Ci fu tutta una preparazione, prima di mandarli ad Algeciras. Impararono, imbarcandosi sopra un piroscafo mercantile nel porto, di Livorno, i modi, il gergo e il vestire dei marittimi. Si trasformarono, nelle sembianze, in autentici, rudi e rissosi « lupi di mare ». Entrarono in Spagna con libretti di navigazione veri e con passaporti dai nomi e dalle qualifiche falsi. Ad ogni domanda risposero che andavano, per conto dell'armatore a dare il cambio agli uomini della « Olterra » per fare i lavori e per costituire il nuovo equipaggio. Arrivati a destinazione, frequentarono le osterie del bassoporto, bevendo e fingendo di ubriacarsi, tenendo un parlare da lupanare, imprecando contro la guerra, contro il comandante della nave e contro tutti.

Una finzione riuscitissima. Tornando a bordo, sparivano barcollando sotto coperta, raggiungevano i locali di prua, lontani dalle sentinelle che sonnecchiavano a poppa. La nave era lunga cento metri. E, subito, gli uomini si trasformavano, lavorando nella officina che, intanto, era stata montata. Di giorno, per recitare in pieno la loro parte, raschiavano e spennellavano ogni lato e ogni sovrastruttura della nave. i materiali, provenienti dall'Italia, entravano in Spagna via Bordeaux, Entravano in gabbioni fatti a liste di legno tra le quali non apparivano che tubi da caldaia. Sotto, naturalmente, c'era quello che non si doveva vedere. I «maiali» partivano dalla Spezia, smontati, abilmente celati in doppi fusti da nafta. E la nafta era soltanto nell'intercapedine.

L'avvio alle azioni di guerra fu dato la notte del 7 dicembre 1942. Nuovi piloti, nuovi « secondi ». I vecchi, i «pionieri di Bocca del Serchìo, erano stati « bruciati » : o morti o in prigionia. Giovani leve, dunque. Tra essi spiccava la figura del tenente di vascello Licio Visentini, nato a Parenzo, un uomo della tempra di Tesei. Fu lui che ebbe le funzioni di comandante di quel gruppetto della « Olterra » che poi fu chiamato coloritamente « la squadriglia dell'Orsa Maggiore ». Egli aveva partecipato già alla quarta ed ultima spedizione dello « Scirè », affondando la motonave armata Durham, Si era anche occupato della scelta degli uomini della « base di sabotaggio » e Conosceva perfettamente la zona.

Con un cannocchiale da marina a sessantaquattro ingrandimenti, Visentini si esso sorvegliava le entrate e le uscite di Gibilterra, a tre miglia in linea d'aria da Algeciras. Bene : in quei giorni vi erano entrati la corazzata « Nelson », l'incrociatore da battaglia « Renown » e le portaerei « Furious » e « Formidable ». In coppia col sergente palombaro Magro, egli partì col suo « maiale » all'assalto della « Nelson », assegnando gli altri bersagli agli equipaggi formati dal sottotenente delle armi navali Cella e dal sergente palombaro Leone, dal guardiamarina Martisco e dal capo palombaro Varini.

Naturalmente, bisognava poter entrare nel porto interno, come, aveva fatto Birindelli. Ma l'impresa era molto più difficile : perché sull'elemento sorpresa non si poteva più fare conto assoluto e perché le misure di protezione erano assai efficienti. Infatti, gli inglesi avevano rafforzato le ostruzioni delle reti con un « imbando » di quattro metri che si distendeva sul fondo e che nemmeno il sollevatore automatico riusciva ad alzare. Motoscafi incrociavano in continuazione davanti all'entrata del porto, riflettori illuminavano lo specchio di acqua, bombe di profondità venivano lanciate per tutta la notte ad intervalli di tre minuti.

Decisi ad entrare ad ogni costo, consapevoli del rischio mortale. gli uomini dell'Orsa Maggiore spinsero il loro coraggio ai limiti della temerarietà. La squadriglia fu decimata, senza che il porto venisse forzato: rimasti uccisi Visentini, Magro e Leone, prigionieri Manisco e Varini. soltanto Cella riuscì a tornare alla « Olterra ». I cadaveri di Visentini e di Magro furono ripescati qualche giorno dopo ed il famoso Lionel Crabb detto per antomasia l’" uomo rana " capo ciel servizio segreto di sicurezza subacquea della roccaforte, gettò una corona di fiori sulle acque, cavallerescamente. Dopo ogni attacco, egli si tuffava per ispezionare personalmente le carene delle navi, rischiando anche lui la vita. Nella inchiesta che ne seguì, il servizio segreto inglese continuò ad asserire che anche quegli assalitori erano arrivati sul posto portati da un sommergibile.

Della ricostruita « squadriglia dell'Orsa Maggiore », assunse poi il comando il capitano di corvetta Ernesto Notaci, messinese, uno dei primi ufficiali di vascello specializzati palombari. Deteneva primati di immersione con scafandro. Due azioni furono compiute, sempre con tre « maiali » per volta, dalle coppie Notari - sergente palombaro Lazzari poi sostituito, perché ammalato, dal novizio palombaro Giannoli, tenente direzione macchine Tadini - sottocapo palombaro Matera e tenente armi navali Cella - sottocapo palombaro Montalenti. Sì, quel Cella unico superstite della precedente, tragica spedizione.

La tremenda decimazione aveva consigliato, però, il ministero della Marina a non disporre più tentativi di violare il porto interno: si dovevano attaccare soltanto i mercantili alla fonda. D'altra parte, anche con ciò, il pericolo degli operatori era grande. perché la vigilanza delle vedette annate inglesi era stata estesa a tutto lo specchio del porto esterno.

Due azioni (8 maggio e 4 agosto 1943) coronate da pieno successo. Ogni equipaggio affondò la nave designata e rientrò alla base. Le vittime furono il « Pat Harrison il « Mahsud », il « Camerata », l`« Harrison Grey» . il « Thorshovdi » e lo « Stanridge », tutti oscillanti tra le cinquemila e le diecimila tonnellate. Oltremodo drammatica fu l'ultima impresa di Notaci che, disceso il suo « maiale » (per un guasto) a quasi quaranta metri di profondità, riemerse di colpo, ad un metro dalla fiancata dell'« Harrison Grev » e dovette fare il ritorno alla base sempre in superficie. Lo avrebbero certo scoperto, se un branco di delfini non gli fosse guizzato d'attorno confondendo con i suoi spruzzi le vedette inglesi e facendogli ala nella corsa fino ad accompagnarlo all'« Olterra ».

Gli inglesi non si resero mai conto della esistenza della « base di sabotaggio » e tanto meno pensarono che potesse trovarsi nella vecchia petroliera. Algeciras: davvero la « baia delle beffe ». II segreto fu loro rivelato soltanto dopo l'8 settembre.

Beppe Pegolotti

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  • 10 months later...

Domani, 2 agosto 2010, ricorre il secondo anniversario della scomparsa dell'Ammiraglio di Squadra Gino Birindelli, M.O.V.M., onore e vanto, non solo della Marina Militare, ma di tutto il popolo italiano!

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Cari comandanti,

 

oggi 2 agosto 2010...

un minuto di silenzio per i morti di Bologna........ e per la M.O.V.M. Gino Birindelli. Ricordiamoci anche di chi ha difeso la nostra Patria.

ad majora

xtgold

:s67: :s67: :s67:

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  • 8 years later...

Riordinando vecchie carte di mio padre, ho trovato un suo articolo proposto a un settimanale dell’epoca, a cui saltuariamente collaborava. Non so se sia stato pubblicato, data la vis polemica che lo caratterizza ( e che in questi stralci attenuo). Si riferisce alla famosa conferenza stampa di Birindelli nel febbraio 1970, che suscitò furiose reazioni in molti partiti e relativi organi di stampa. In effetti, non è tanto un articolo in difesa di Birindelli (che non aveva nessun bisogno di essere difeso, tanto più che aveva ampiamente ragione) ma di replica a certi pretestuosi attacchi; non a caso, il titolo è L’AMMIRAGLIO E GLI OMETTI. Ormai, tutti i partiti e i relativi giornali citati sono spariti dalla circolazione, quindi non credo di riprendere una vecchia polemica o di accendere chissà che diatriba.  Può tuttavia essere forse di qualche interesse citarne alcuni brani, se non altro perché vengono citate le esatte parole usate dall’ammiraglio, nonché il genere di accuse di cui fu fatto oggetto.

 

L’ammiraglio Birindelli, comandante in capo della nostra flotta militare, ha fatto sabato 21 febbraio, a un gruppo di giornalisti, le dichiarazioni che per chi non le avesse lette –dato che molti giornalisti le hanno taciute- riportiamo integralmente.

“Abbiamo una bella flotta, ma mancano perfino i mezzi necessari alla manutenzione ordinaria. I nostri equipaggi sono insufficienti a fronteggiare le esigenze e sono stanchi di essere considerati cittadini di serie B”

“Se non vogliono darci i mezzi materiali e morali per compiere il nostro dovere ce lo dicano; passeremo dall’altra parte della barricata e ci cercheremo un altro lavoro.”
“E’ tempo che questa situazione venga resa di pubblico dominio, perché si faccia ciò che non si è fatto finora”

“Da otto anni facciamo presenti queste considerazionia chi dovrebbe intervenire, ma cozziamo contro un muro di indifferenza.”

Queste considerazioni hanno suscitato un coro di indignazioni negli organi di stampa di questi tutti i Partiti e certamente lo hanno suscitato anche nel pubblico; ma i motivi di indignazione del pubblico e dei giornali sono ben diversi e contrastanti.

I giornali di partito non si sono indignati infatti perché la nostra bella flotta è inefficiente o quasi – lo dice il suo capo e non un Pinco Pallino qualsiasi-, non si sono indignati perché il danaro per la costruzione e manutenzione di essa viene ad essere così buttato dalla finestra per mancanza di stanziamenti sufficienti (e basterebbero, ha detto Birindelli, sia pure come minimo appena venti miliardi di lire, che sono ben poca cosa di fronte alle centinaia di miliardi che vengono buttati per ragioni demagogiche), no, non si sono indignati per questo; si sono solo indignati perché il capo della flotta ha osato fare sapere ciò alla Nazione.

Peggio che ai tempi del deprecato ventennio, quando bisognava stare zitti o dire che tutto andava benissimo anche se andava malissimo.

[…] Il più feroce di questi giornali è la Voce Repubblicana, che scrive: […] “si tratta di sapere se è ammissibile che un alto esponente delle Forze Armate faccia dichiarazioni che investono il potere politico e arrivi a quello che può essere definito un appello all’insubordinazione”

Certo è poco simpatico che debba essere proprio un militare a far sapere alla Nazione questa penosa situazione della Marina, ma stia certa la Voce che l’ammiraglio Birindelli non lo ha fatto con piacere, ma solo perché si è sentito nella dolorosa e doverosa necessità di farlo dopo che “da otto anni facciamo presente queste cose a chi dovrebbe intervenire”. […] L’ammiraglio non ha chiesto, ad esempio, un aumento della flotta o un ampliamento o limitazione dei compiti di essa – queste potrebbero essere interferenze politiche-; si è riferito solo a questioni di carattere amministrativo e un comandante, di qualsiasi grado, ha tra i suoi compiti, tra i suoi doveri, anche quello di occuparsi di questioni amministrative.

[… segue una polemica contro un alto esponente repubblicano, ex Ministro della Difesa del dopoguerra, un tipo che mio padre vedeva come il fumo negli occhi e che non perdeva mai l'occasione di attaccare, dato che, a suo parere, aveva fatto durante la Guerra altro che appello all’insubordinazione, ma appello al tradimento …]

 

                                                                                                                 (segue a breve ...con altre annotazioni sulle accuse di altri organi di partito)

 

                                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Modificato da malaparte
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Di questa intervista ricordo la battuta "...passeremo dall' altra parte della barricata..." che fu la vera causa scatenante del risentimento di qualche politico che volle mal interpretare la frase.

In quel tempo in Italia c' era un' atmosfera pesante e le nostre Forze Armate erano viste come un covo di fascisti e golpisti: il presunto "Golpe BORGHESE" accadde nel Dicembre di quell' anno.

 

Come ho già scritto altre volte gli atteggiamenti provocatori dell' Amm. BIRINDELLI posero le basi della Legge Navale del 1975 che portò un sensibile ammodernamento della Flotta.

Purtroppo in Italia spesso si debbono assumere atteggiamenti provocatori se si vuol cambiare qualcosa...

 

Modificato da Alfabravo 59
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"Passeremo dall'altra parte dell barricata" l'ho notato anche io, ovviamente.  E so che ha una connotazione, come dire,  aggressiva.

Forse intendeva dire: "se continua così, preferiamo diventare civili, non militari, e lascieremo la difesa, in piena guerra fredda, a voialtri che ve ne fregate da anni". Forse.

Ma andiamo avanti con le polemiche....🤨

 

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Altre accuse mosse a Birindelli sulla stampa:

 

L’Umanità scrive: “Un militare può essere scontento di come vanno le cose nel suo servizio “(grazie)” ma ha una via: le dimissioni e l’appello all’opinione pubblica”. […]Evidentemente questi nobili signori non riescono a concepire come possano esservi al mondo delle persone che sentono la responsabilità dell’alta carica che rivestono e la affrontino anche a costo di restare nella situazione avvilente di lavorare senza mezzi adeguati per cercare di rimediarvi anziché piantare lì tutto dopo quarant’anni di servizio e andarsi a godere in santa pace una vita tranquilla, lasciando pure che la Marina se ne vada a remengo.

 

L’Umanità continua : “Quelli che hanno a cuore la tutela della democrazia debbono esigere che sia compito del governo tutelare gli interessi della difesa e impedire che chiunque altro assuma queste funzioni”. E se il governo non tutela? [… ] Il comandante in capo di una flotta dopo avere “per otto anni fatto presente queste considerazioni a chi dovrebbe intervenire, cozzando invece contro un muro di indifferenza” non ha il diritto, ma ha il dovere di informare l’opinione pubblica, affinché essa costringa il governo tramite il Parlamento […] a provvedere. […]

 

“L’ammiraglio è forse scosso dal clima di sindacalismo generale” continua, ironizzando, L’Umanità.

L’ammiraglio parlando della situazione economica dei suoi dipendenti ha adempiuto a un elementare dovere. […]Non pensano […] che l’ammiraglio col parlare di questo abbia voluto anche e soprattutto indicare le cause della carenza di personale nella Marina? Quanti sono gli “specialisti finiti” disposti a prestare lietamente servizio in Marina quando nella vita civile, quindi anche con minor disagio, possono facilmente guadagnare molto ma molto di più? […]

 

L’Avanti, anche lui organo di un partito da sempre al governo, “non ha difficoltà a credere” bontà sua “che la Marina sia in crisi e che gli uomini siano stanchi del trattamento loro riservato e che il comandante in capo voglia in questa maniera scaricarsi di responsabilità” […]

Non parla l’Avanti, ma cerca di far passare sotto silenzio, che “mancano perfino i mezzi per la manutenzione ordinaria” – manutenzione della cui importanza sa anche il bambinello a cui viene regalata la prima bicicletta- e cerca solo, camaleontescamente […] di ridurre la questione solo al “trattamento riservato al personale” e cioè a un problema sindacale. […]

 

I giornalisti dell’Avanti, dell’Umanità e della Voce non sono affatto degli imbecilli. Hanno capito benissimo cosa ha detto l’ammiraglio Birindelli ma sentendosi sia pur indirettamente accusati da tali dichiarazioni cercano di ingannare i loro lettori accusando senza scrupoli un galantuomo di “appello all’insubordinazione” e di “sindacalismo militare”. [...]

Ma dove sono andati i Santi Ideali che albergavano nel loro cuore [...]?

 

 

Un’ultima nota:  il Popolo, organo della DC, “ a quanto mi risulta ha preferito […] ignorare la cosa. L’Unità, invece, oltre a riportare , approvando, quello che avevano scritto i tre succitati giornali si è rivolta anche a un …tecnico di questioni militari. Ha aggiunto così una lunga dichiarazione del compagno onorevole Aldo d’Alessio, membro della commissione Difesa della Camera, che meriterebbe un articolo a parte per [🤬…]

 

 

 

 

 

 

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