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Storie di Mare


marat

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Parte, con il numero di Betasom del 14 novembre, una nuova iniziativa editoriale: il romanzo d'appendice. Che riemerge dall'oblio in cui era caduto per risorgere a vita nuova.

Tirate fuori dagli scantinati, in cui li avevate buttati perché finissero i loro giorni in pasto ai topi, i fogli spiegazzati dei vostri vagiti letterari. Betasom se ne farà  carico e li darà alle stampe. In tempi in cui i roghi dei libri e degli umani che li hanno scritti sono un lontano ricordo, si può osare.

Con vivo sprezzo del pericolo, Marat ci mette ancora una volta la faccia e osa aprire le danze.

Abbeveratevi alla prima puntata della sua attesa "Storia di una Vespa di mare", appassionatevi alle vicende dei suoi personaggi, scoprite come sul finire degli anni sessanta la storia di un pugno di ragazzi si intrecciò con quella dell'industria scooteristica italiana. Altre puntate seguiranno se, a causa della prima, non chiederete in massa la cancellazione del Forum.

 

(N.B.: Il supplemento é compreso nel prezzo, e non può essere venduto separatamente. Il lettore si assume ogni e qualsiasi responsabilità  dei danni che possano essergli cagionati da una irresponsabile lettura, e, parallelamente, l'Editore declina qualsiasi conseguente responsabilità.

 

 

STORIA DI UNA VESPA DI MARE

-Prima puntata-

Nell'autunno del 1967, all'ombra di un fico fronzuto che da anni ci nutriva e copiosamente ci approvvigionava di munizioni da getto e da spiaccico, scoprimmo una lancia in stato di semiabbandono. L'acqua doveva essersela scordata da tempo perché fra una tavola del fasciame e l'altra ci passava una mano, ma dalle scrostature il pitch-pine ('u piscipani = il pescepane) si intuiva intatto. Dovevano averla buttata fuori da qualche fondaco, perché quello del fico era territorio nostro e sino a due giorni prima lei non c'era.

Era un oggetto troppo grosso perché potessimo considerarla res nullius (come facevamo, da recuperanti professionali e infallibili, con la minutaglia gettata a riva dalle mareggiate) e così demmo voce a Giovanni il Cannoniere (Giuvanni 'u Cannuneri) e dopo pochi giorni entrammo in contatto con il proprietario.

Entrammo e lo perdemmo quasi subito, il contatto, perché le diecimila lire che ci chiese erano più di tutti i cinema e di tutte le sigarette che potessimo ipotizzare per l'inverno a venire. Dopo furibonde trattative il prezzo scese a ottomila lire, e questo aprì le cateratte della tragedia. Perché all'epoca erano annotate nei pubblici registri pure le nasse per la trigliola e quindi il proprietario pretese l'atto notarile e il notaio cinquemila lire per onorario e spese vive.

Non potevamo, non avremmo mai potuto. Ma nello studio del notaio ormai ci stavamo, l'orgoglio non ci consentiva di ammettere che eravamo alla fame, chiedemmo con le fauci secche un pagamento a rate, lo ottenemmo, e andammo a prenderci la nostra lancia.

La vita sociale quell'inverno si ridusse a zero. Ma la vita sociale alla fine dei sessanta era fatta di assemblee più che di bistrot, e poi i bistrot sono a Parigi e noi stavamo a Catania. In fondo la benzina era a centotrenta lire, e facendo colletta si arrivava a metterne anche centocinquanta in una volta sola, sufficienti per andare da casa al mare e tornare se avevi cura di farti le discese a motore spento e il falsopiano sull'abbrivio (noi le corse le facevamo in discesa: dicevamo che in salita si vede solo il motore, ma in discesa viene fuori il pilota).

 

Mio padre era morto da pochi mesi, ma io avevo salvato un po' di ferri di bottega dalle razzie dei suoi ex ragazzi. Restava, a toglierci il sonno, il costo dei prodotti. Io che avevo preteso la direzione dei lavori di carpenteria per diritto di sangue (nel senso che, causa la frequentazione della bottega paterna, nelle tubolature mi girava un poco di sangue frammisto alla molta segatura) in realtà  non avevo la minima idea di come turare la vastità  delle vie d'acqua se non a forza di stucco. Tuttavia questo non era controproducente, anzi era un colpo di fortuna, perché lo stucco di allora era poco tecnologico e quindi a buon mercato.

Ho parlato sinora al plurale. Ma nella società  di armamento non eravamo in tanti: solo due. Io e quello che negli anni a venire sarebbe diventato uno dei migliori ufficiali carristi dell'Esercito. Era di due anni più vecchio di me, e aveva già  i tratti del capo. Soprattutto era muto. Io pensavo che, pure se lo avessero preso negli alpini, per renderlo operativo avrebbero dovuto mettergli accanto un attendente ventriloquo. La presero in cavalleria, anzi lo presero in cavalleria, lo issarono su un M 47 e ce lo lasciarono per trent'anni visto che le cannonate le tirava da dio.

In quegli anni io e lui comunicavamo mio tramite. Nel senso che io parlavo per me e per lui. Facevo le domande , davo le risposte, le repliche, ammiccavo, grugnivo, mi imbestialivo, mi scimunivo, sempre per due. Dico questo non per inutile pettegolezzo, ma per spiegare come andò la motorizzazione dell'unità .

Lui, il futuro cavalleggero, stabilì che il vascello avrebbe avuto propulsione mista, per la banale ragione che, ricavata nello spessore della ruota di poppa, esisteva una galleria d'asse. E, se c'era una galleria, non utilizzarla sarebbe stato un parziale spreco dell'investimento che avevamo fatto. Acquisire le macchine sarebbe stato un dettaglio, disse. Difatti le acquisimmo.

L'inverno precedente (il primo d'università ) avevamo deciso che dovevamo trovarci un alibi nobile per aver ragione di non studiare. Avevamo avuto l'alzata d'ingegno dell'archeologia. Il sito greco e poi romano di Akis-Jacium, qualche ora di biblioteca, molte di motocross, anzi di vespacross, su e giù per le uniche colline argillose rimaste a galla in un mare di terreni lavici. Tornavamo a casa in versione statue di terracotta dei guerrieri cinesi. La Vespa pure.

 

-fine della prima puntata-

Modificato da marat
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Visitatore ERICH TOPP U-552

....Caro Michè....di questa famosa "vespa di mare" me ne hai accennato più volte il pm e ora (era "proprio ora" !!) finalmente ti sei deciso ad iniziare a condividere con tutti noi questa storia "di vita",che già dalle prime battute oserei dire...."MERAVIGLIOSA" !!....

 

....orsù dunque nostro "sommo maestro"....illuminaci di quelle gesta così "umane" ed al tempo stesso "donchisciottiane"....narraci gli eventi di questi due baldi giovini,che presi dai momenti dell'epoca,mossero il loro primi passi nell'arte "dell'arrangiarsi" !!.... :s20: :s20: :s20:

 

 

:s67: Mau

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Favoloso racconto. Anzi favolosa prima puntata del racconto. Vale tutti i 30 centesimi di Lira (Italia, Impero, Colonie) dell'edizione del mattino di Betasom. Anzi, io l'edizione del mattino di Betasom la butto pure, che mi pesa in tasca. E mi leggo solo il supplemento. Sulle panchine dei giardini di Porta Venezia, anzichenò!

 

Domattina farò come dicono nelle reclàm della radio: Correrò in edicola, per chiedere all'edicolante se sia uscita la parte seconda de STORIA DI UNA VESPA DI MARE.

 

Omaggi rispettosissimi all'autore. :s20: :s20: :s20:

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Complimenti Michele!! Ma oltre ad un abile modellista, sei anche una delle "penne" di spicco di Betasom!!

Purtroppo non sono dotato di tale abilità con le parole, per questo, ma non solo, trovo il tuo racconto semplicemente....incantevole.

Aspetto anch'io la seconda puntata allora, spero non tardi ad arrivare, che la prima m'ha preso davvero... :s02:

Modificato da Poseidon
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Stimatissimo avvocato,

Non posso che compiacermi delle vostre virtù letterarie... e come gli altri Comandanti attendo impaziente la prossima puntata del Vostro scritto.

Bravo davvero! pezzo bello e ben scritto; avete dato l'avvio a un nuovo "filone" nella base... leggendo il Vostro racconto - o meglio, la sua prima puntata -, e pensando a qualcosa che ho già postato in passato da parte mia, mi sta iniziando a frullare una certa idea in testa: stanotte ci dormo su e domani "elaborerò" qualcosa, penso di simpatico e interessante.

Voglia gradire - come sempre - i più alti sensi della mia sempre immutata stima.

Cordialmente Suo

Alagi

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Che Betasom fosse un ambiente di piacevole partecipazione l'ho sempre sostenuto, ora si arricchisce anche di una sezione romanziera di notevole spessore. complimenti davvero, aspetto le altre puntate, anzi ho intenzione di stamparle e tenermele in cartaceo.

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Il vecchio trucco manzoniano dell'antico manoscritto ritrovato (ma stavolta autografo) :s03:

 

Congratulazioni Collega! Alla prossima uscita salterò a piè pari l'elzeviro per godermi la seconda puntata.

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Perfetto, ora grazie allo stimolo di GM Andrea so vita morte e miracoli sul termine elzeviro, o meglio vita morte e miracoli riportati nella scarna paginetta di wikipedia ad esso dedicata. Perchè sono pigro e non ho cercato altrove. Non vi faccio il copia e incolla da wikipedia, sarebbe una scelta poco originale e sicuramente OT. Cercatevi da voi la definizione se volete approfondire. :s03: :s41:

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Ragazzi, damose 'na carmata (quando uno è biligue è bilingue) il bello ha da veni'.

E poi, che mi caschi una tegola in testa, guardate che è esattissima cronaca e non mi sono inventato niente.

(.......forse la benzina era a centoventicinque e non a centotrenta, lo ammetto .........)

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STORIA DI UNA VESPA DI MARE

-Seconda Puntata-

 

 

Il recupero

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La Vespa era di proprietà  del fratello maggiore del futuro cavalleggero. Nominalmente.

Quando in capo a un anno di vespacross da nuova che era si ridusse a reperto archeologico (l'unico delle nostre ricerche) il futuro cavalleggero decise che era venuto il momento di demolirla e farla reincarnare sotto altro sembiante. Non lo disse, naturalmente. Agì.

Fece intendere al fratello che era accaduto un evento irreparabile, si prese le sfuriate, se ne scrollò, e un giorno arrivò con il motore espiantato e pronto alla nuova vita. Si autonominò direttore del progetto esecutivo.

Che in questo consisteva: in una staffa di ferro a omega che avrebbe tenuto fermo il motore (fermo ?) addosso ad una (una !) ordinata alla quale sarebbe stata fissata mediante due viti (due viti ?!) non più lunghe di tre dita.

Chiamai a raccolta tutto il coraggio di cui disponevo e sbraitai che almeno una piastra, qualche bullone passante, un cuscinetto, un mezzo copertone, due correnti in più da fissare sulle ordinate ...

"Chi n'ha' fari?"rispose, e io compresi che, con questa conferenza stampa di presentazione del progetto, aveva esaurito l'articolo pubbliche relazioni.

Poi ebbe un gesto di enorme carità . Aggiunse tre parole (si giocò tutta la dotazione della settimana): "come un motore stellare" disse. E io restai folgorato: non la barca avrebbe sostenuto il motore, ma lo stesso asse di trasmissione. La staffa a omega non aveva nessuna funzione strutturale: c'era unicamente per evitare che il Piaggio si mettesse a girare in senso opposto a quello dell'elica e ci frullasse i piedi.

E sì c'era un sentore di genialità  nell'affermazione. Decisi che, per quanto ipotetica (la genialità), non era irragionevole scommetterci.

 

Prime prove di galleggiamento

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Ma dicevo dell'asse. Era stato acquisito sulla spiaggia di Santa Maria la Scala, otto chilometri a nord (l'Etneo é come la Liguria di Levante: microapprodi e chilometri di costa inaccessibile).

C'erano le vestigia del relitto di una motobarca. Glie l'avessimo chiesto, ai pescatori, ci avrebbero ringraziato loro. Ma non potevamo certo correre il rischio che ce lo regalassero, avremmo perso l'epica della conquista. Così aspettammo una notte di pioggia e lampi, e poi, visto che non c'era verso che arrivasse, ci rassegnammo a smontare asse, astuccio, elica e premistoppa, alla luce dei lampioni del porticciolo, senza riparo alcuno e con i nervi tesi ad aspettare torme di fiocinatori che, ci eravamo figurati, ci avrebbero tosto inseguito mentre scappavamo con la preda.

Non ci inseguirono nemmeno i gatti e il maltolto fu montato a regola d'arte sulla barca: non entrava una goccia dalla galleria.

 

Quando venne il giorno delle prove di macchina ci rendemmo conto che lo spazio per il pedale d'avviamento era scarso e che il malleolo del piede preposto andava a picchiare contro un madiere. Ma erano minuzie nel contesto di una realizzazione superba. Di strappate sulla pedivella ce ne volevano cinque o sei, il malleolo si catafotteva, ma il motore si avviava.

Alle prove sulla base misurata Lido Conchiglia-Isola Lachea ci rendemmo conto che lo spunto era inferiore a quello di contratto, e lo imputammo al passo dell'elica sconsideratamente pensato per i giri di un diesel e non per la brillantezza delle macchine installate. Ma decidemmo di tenercela, l'elica, ché tanto i pescatori della Scala mica ce l'avrebbero cambiata.

Le lievi imperfezioni di progetto diedero qualche grattacapo di assestamento. Ci accorgemmo che le vibrazioni delle macchine alle massime andature tendevano a schiodare lo schiodabile, e così fu che io, nominato Ufficiale di macchina, venni comandato al banco centrale con la faccia a poppa e i piedi, muniti di pesanti scarpe da tennis, saldamente piantati sul Piaggio a smorzarne gli impeti.

Fummo costretti ad arruolare il Peppino dei Cartoni (così detto per via della fabbrica in cui lavorava) che venne posto alle mie dirette dipendenze, affinché, munito di spugna, fungesse da impianto di raffreddamento umano a beneficio sia delle mie scarpe che tendevano a prendere fuoco, sia del tubo da lavatrice che sostituiva la marmitta e convogliava i residui di combustione oltre murata (con soluzione ripresa dalle portaerei giapponesi).

Imbarcammo anche lo Scuderi, che già  mostrava un accenno di sovrappeso, perché si installasse stabilmente nei quartieri di prora e provvedesse a correggere l'assetto compromesso dall'eccesso di gente concentrata nelle sezioni centro-poppiere.

Spesso ci capitava di salpare di notte dal Capo con destinazione Trezza (quella dei Malavoglia) per un cartoccio di olive al chiosco del porto, o per la caccia notturna ai granchi (spiedo e un pezzo di copertone incendiato per torcia).

Sarà  un miglio scarso e ci mettevamo tre quarti d'ora, per via della faccenda dell'elica. Il motore a pieni giri e l'assenza di marmitta rendevano la nostra entrata in porto un evento collettivo. La Tirpitz, ci battezzarono i pescatori di Trezza in un raptus sfrenato di fantasia degno di alcuni dei nostri modellisti.

 

Fine della seconda puntata

Modificato da marat
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Visitatore ERICH TOPP U-552

....porca paletta Michele....ma è qualcosa di MERAVIGLIOSO questo racconto "di vita vissuta" !!.... :s20:

 

....nella prima foto sul "carrello",non avevo notato che il "bastimento" era pure provvisto di "bompresso"....!! :s07:

 

....certo che....oltre al racconto,poter vedere quelle foto originali di quell'epoca....rende il tutto un qualcosa di IRRIPETIBILE !!....GRAZIE MICHELE per condividere in questo modo un episodio così colmo di BELLEZZA della vostra gioventù !!.... :s15:

 

....mi fai pensare alle mie vicissitudini da ragazzino e alla mancanza di foto per poter rivedere "oggi" quanto eravamo buffi e malandrini....

 

....che nostalgia !!.... :s06:

 

 

:s67: Mau

 

P.S.

attendo con ansia il proseguo !! :s44:

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Ho proposto al Direttivo e ai Moderatori di mettere questa discussione tra quelle in evidenza (e che quindi non vanno perse a fine mese) poichè è una tra le più simpatiche e interessanti degli ultimi tempi.

Invito quindi L'avv. Marat a inserire appena possibile la terza puntata...

Un saluto.

Maurizio

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STORIA DI UNA VESPA DI MARE

-Terza Puntata-

 

La sperimentazione condotta per conto della Piaggio Motori Marini non era l'unica risorsa. La piattaforma aveva una certa plasticità  d'impiego.

Capitava che lo Scuderi abbrancasse i remi, e in evidente stato di possessione si rivolgesse a invisibili presenze incitandole a non temere il forcing dell'otto di Cambridge. Ma il piùù delle volte si limitava a lasciarsi di poppa le ostruzioni del Capo, raggiungere Trezza, costeggiare faraglioni e isola, e rientrare nei recinti retali (così li chiamava) senza aver perso una battuta di voga.

Doveva partire con me Scuderi, destinazione Livorno, ma la prosa aveva presentato la lista della spesa, e così lui aveva finito per barattare l'Accademia con una trentacinquina d'anni di lavori forzati in banca. A parte l'interpretazione del capovoga dell'otto di Oxford, era sostanzialmente inoffensivo. Una sola volta asserì di avere strappato il vessillo alla capitana di Maometto Scirocco e, genuflesso, di averlo offerto a Sant'Erasmo, in Gaeta.

 

Il vero talento lo riversammo nell'armamento velico. Convenimmo che l'alberatura dovesse essere il massimo concepibile della tecnologia, per cui scartammo subito il legno e la realizzammo in profilato metallico. O, se si vuole, in tubo idraulico, che profilato metallico resta e ha in più il vantaggio del prezzo vile.

Per le vele avremmo dovuto accendere un mutuo. Ma non ce ne fu bisogno. Le inestinguibili risorse della famiglia del futuro cavalleggero ci soccorsero una volta di più. Stavolta nelle vesti di una sorella che, ignara, sacrificò gran parte del proprio corredo. D'altra parte aveva raggiunto la compassionevole età  di ventisei anni e questo, a noi che non ne avevamo ancora venti, dava certezza che mai più avrebbe avuto ragione di utilizzarlo, quel corredo. A misfatto compiuto, l'esame visivo dei miseri resti non faceva nascere imperiosa la certezza che presto si sarebbero evoluti in vele, e per la prima volta fummo trafitti dal sospetto che mai ne saremmo venuti fuori.

Ma esisteva anche una cugina, la mia questa volta. Completa di Singer e abitata dallo spirito di un mastro velaio del settecento, che mutò quei brandelli in un Ballo Excelsior di ferzi e bugne, mure e balumine. Ne venne fuori una randa (manco a dirlo aurica) una controranda, una trinchetta e un fiocco murato su bompresso.

 

quasi in planata

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Sarà  stata la chiglia lunga, sarà  stata la genialità  del progetto, sarà  stata l'anima santa del mastro velaio reincarnato, fatto sta che il bastimento filava sotto vela perfettamente neutro e la barra non tirava né all'orza né alla puggia. Trottava a tutte le andature, e col vento al giardinetto riusciva a lasciarsi dietro lo Snipe dello Scuderi.

Aveva una sua anima: ostinatamente rifiutava la virata in prua. Non c'erano santi che riuscissero a portargli il naso oltre il filo del vento: sia che arrotondassi l'orzata o che dessi di barra all'ignorante: quando arrivava al punto si piantava come un asino di Pantelleria, dava due o tre musate nell'onda, puntava gli zoccoli e ripartiva alla puggia. Progettai due derive all'olandese, ma poi convenni che si faceva prima ad abbattere ogni volta che occorreva cambiare mura, quale che fosse l'andatura. Di bolina e con vento fresco la manovra comportava una qualche allegria: strapoggia, molla la volante, abbatti, riagguanta la volante, straorza. Ma quello era il nostro Vespucci e il nostro Thermopylae.

E poiché al Capo dei Mulini gli alisei arrivano infarlocchiti, ci risolvemmo a cambiare base e andammo a Nord, a Santa Maria La Scala. Per noi Scapa Flow.

 

Gli Scaloti (aggettivo toponomastico alla greca) sono gente molto più spiccia e tosta dei Trezzoti e dei Capoti. Pescatori e basta. Senza le fisime letterarie dei primi (rovinati da Giovanni Verga e da Luchino Visconti) né i cedimenti turistico-commerciali dei secondi. Ci ribattezzarono immediatamente "i pròfini" (pronuncia rigorosamente sdrucciola) e l'unico dubbio che coltivarono fu quello fra l'indifferenza e il compatimento. Dimenticammo comunque molto presto l'affettuoso soprannome di Tirpitz.

Avevamo cercato Scapa Flow per temprarci, ma in poche settimane l'ansia di dimostrare di che stoffa eravamo fatti divenne ossessione. C'eravamo cresciuti su quegli scogli, lazzariandoci mani e ginocchia nel rito polinesiano d'iniziazione, che ci obbligava a risalire sulle rocce dopo il tuffo nel mare in tempesta (e potevi farlo solo se di quelle conoscevi la topografia palmo per palmo e se Sammastianu -che é la pronuncia esatta di San Bastiano- quel giorno non era distratto). La storia dei "pròfini" bruciava come sale su una ferita aperta.

 

le scogliere polinesiane

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-Fine della terza puntata-

arrivederci alla quarta e ultima puntata

Modificato da marat
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Visitatore Leon X

Ricordi stupendi raccontati in maniera straordinaria.

In attesa di leggere la quarta (spero non ultima) puntata ti faccio i complimenti per aver condiviso questa esperienza con noi e per averla descritta in maniera così appassionante.

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STORIA DI UNA VESPA DI MARE

- Quarta ed ultima puntata-

 

 

Il vento a levante dell'Etna viene quasi sempre da Greco. Quando si approssima a terra si ammaraggia di fronte ai tremilaquattrocento metri che si trova di petto, per cui prende quota e si lascia sotto solo refolette insulse. Solo ogni tanto, quasi mai dopo maggio, si prende puntiglio e se ne viene giù dallo Stretto che sembra che abbiano aperto tutte le finestre di casa e abbiano pittato i pizzi dell'Aspromonte con una mano di vernice fresca (mio padre dal Belvedere di Aci in un pomeriggio di luglio del '40 aveva tenuto contabilità  delle cannonate di Punta Stilo)...

Lo fece un pomeriggio di fine estate, e col piglio di chi deve dare una rassettata prima che arrivi lo scirocco di settembre. Il futuro cavalleggero mi telefonò (poteva accadere che cadesse preda di questi attacchi di logorrea) e disse: "c'é ventu, scinni". Mi precipitati a scinniri, e il mare mentre andavo giù s'era fatto bianco di sfraiature.

 

Santa Maria La Scala - Scapa Flow

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Noi avevamo messo in opera due poderose volanti e avevamo totale fiducia in queste e nell'albero di tubo idraulico. Perciò mentre due o tre pescatori si facevano il segno della croce, scapolammo la testata del molo con l'aria di Bartolomeu Dias che doppia il Cabo do Padrao.

 

Le volanti ressero, l'albero non si spezzò. I tubi idraulici si piegano ma non si spezzano, per l'appunto.

Imprigionato nella rete delle sartie e delle ritenute si adattò ad assumere una forma tendente al manico d'ombrello.

Randa e trinchetta, preso atto del mutato taglio d'inferitura, si sentirono vocate ad un ruolo del tutto nuovo e sperimentarono, trent'anni prima che se ne inventasse il nome, l'ebbrezza del mutarsi in gennaker.

La Tirpitz si appoggiò sul mascone di dritta, alzò la poppa su un frangente e partì in una planata al cui capolinea si ergevano le scogliere che cent'anni prima avevano salutato il naufragio di Bastianazzu Malavogghia e della Pruvidenza carica di luppini.

Ma evitare di finirci, a luppini, non era semplicissimo. Con quell'assetto di velatura era diventato impensabile, non dico risalire il vento, ma anche solo tenere un'andatura al traverso, parallela alla linea di costa, che ci consentisse di non stamparci anime e beni sul promontorio del Faro. Con tutto il rispetto per Bartolomeu Dias, convenimmo che faceva male all'orgoglio ma occorreva mettersi alla cappa. E prima possibile.

Ammainare fu un problema, infilare i remi negli scalmi una faccenda ancora più complicata, sicché al terzo tentativo me ne lasciai strappare uno, di remo. "Ti pari ca eri Scuderi ?" mi incenerì magnanimo il futuro cavalleggero, che consapevole delle mie fallimentari attitudini remiere s'era intanto dato verso di mutare il bugliolo di bordo in ancora galleggiante.

La navigazione era durata dieci minuti, il lavoro per non andare a fare compagnia all'anima persa di Bastianazzu durò l'intero pomeriggio. Era però, quella di dar fondo sopravvento ad una scogliera inaccessibile, una manovra in cui eravamo insuperabili, dato che non di rado ci eravamo trovati in quei frangenti (anzi "su" quei frangenti) e impeccabilmente quindi la eseguimmo.

Il capovoga di Oxford e il mio Secondo di Macchina, che, contando di recuperare i resti mortali, ci avevano seguito lungo la costa saltando come mufloni fra scogli e rocce, ci raggiunsero in serata a bordo di una motobarca scalota e ci rimorchiarono indietro.

Dopo pochi giorni salpammo con le refolette dell'alba per la rada del Capo dei Mulini e non tornammo mai più alla Scala.

E' possibile che il silenzio dei pescatori volesse significare che l'esame era stato superato. Ma noi non avevamo più urgenza di saperlo, e difatti non lo sapemmo mai.

C'era ormai altro che spingeva da qualche parte e non si sa per dove.

 

Fu in quest'aria da tutti a casa, o se volete da tutti altrove, che venne a maturare il tradim

ento del fico. In una notte di scirocco, e a conferma della pessima nomea che affligge la categoria.

L'avevamo ricoverata sotto le sue fronde perché ci passasse l'inverno, glie l'avevamo affidata. All'alba lei non c'era più, e il fico si ostinò a negare ogni addebito.

Il cavalleggero (io avevo già  avuto il mio otto settembre ed avevo cacciato i piedi a mollo nel Tevere, perché si perdesse il ricordo del sale di cui erano intrisi)) batté a lungo la costa, ma non riuscì a trovare nemmeno un pezzo di piscipani da appendere sopra il camino.

Del resto, lo stesso cavalleggero, che era oramai in servizio permanente effettivo e non più in ipotesi, stava per andarsene a tirare le sue cannonate.

 

Ce la sognammo per anni, sui cavalloni di un'alba livida di scirocco, in un'ultima sgasata del Piaggio smarmittato. Non abbiamo mai smesso di sognarcela.

Da lì a qualche tempo, i nostri cantieri sarebbero risorti, e saremmo andati (ancora insieme, e però mai più sulla stessa barca) a correre nientedimeno che campionati italiani ed europei. Ma ormai i bozzelli avevano marchi americani, le vele le pagavamo in sterline, e questa era ormai tutta un'altra storia.

Con l'infamiata del fico s'era chiusa un'epoca anche per l'industria scooteristica italiana. Che difatti rinunciò per sempre ad avere un futuro sul mare.

 

-FINE-

Modificato da marat
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Il tristo pessimismo di cui, oltre ai lupini, era carica la Provvidenza, è decisamente soppiantato dall'ottimismo della volontà (e dall'umorismo) della Tirpitz etnea.

Modificato da GM Andrea
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Visitatore ERICH TOPP U-552

....finale da brivido....lessico da poeta....circostanze da "veri bagasci" (bagasci in ligure delle "mie" parti,indica i ragazzini pestiferi e sempre alla ricerca di nuove "avventure"....un pò come me....e altri che....ahimè....non ci sono più !! :s06: )...."profondità" nei ricordi di quella gioventù che non tornerà...."tenerezza" nel ricordare quello che per ogniuno di noi rimarrà sempre nel cuore....il primo amore non si può MAI scordare !!.... :s19:

 

....Michele....grazie di cuore per aver condiviso così tanta "BELLEZZA" !!.... :s15:

 

:s67: Mau

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Ciao Marat, mi dispiace che sia già finito il racconto ma qualcosa mi dice che Marat e il Cavalleggero ebbero poi molte altre avventure. Grazie per aver condiviso qui momenti e la nostalgia con noi. :s55:

 

Ragazzi miei, una cosa mi sento obbligato a dirvi.

Io non so cosa sia la nostalgia. La vita non è un cimitero di ricordi: finché sei vivo (e lo sei fintanto che lo sai, direbbe Monsieur de La Palisse, cioé sempre) i tuoi non sono ricordi, sono la materia stessa di cui sei fatto, sono la vita che continua a fluire anche se tu diventi poco a poco qualcos'altro (e meno male che diventi qialcos'altro, altrimenti il tracciato dell'encefalogramma non si distinguerebbe da quello di un calamaro).

Ora, è vero che il maledetto cavalleggero non intende fare altro che tirare sù cucuzze nell'orto della casa che si è costruito a duecento metri dal fico infame, è vero che ti spara una cannonata residua se gli parli di barche inferiori ai trentacinque piedi e che non siano di proprietà e a carico altrui, è vero che il capovoga di Oxford parla di "quando avevamo la vita davanti" e gli diventano gli occhi lucidi, ma io continuo a mandare al diavolo gli occhi dell'uno e le cucuzze dell'altro, non mi sento la "vita di dietro", e mi sento fortunato se penso che non mi tuffo più nel mare in tempesta dalla Pietra di Sarpa.

La mia vita è un film che dura da cinquantanove anni, girato in superotto e riversato su DVD, che posso rivedere come mi pare e senza pagarne il noleggio. Il tempo è circolare, quello di prima che ci fossimo, quello che riguarda la nostra vita stessa. Montaigne diceva (più o meno) che il fatto che suo padre fosse morto da pochi anni non lo rendeva meno morto di Giulio Cesare, e quindi lui poteva interessarsi a Giulio Cesare sentendolo vicino allo stesso modo in cui sentiva vicino suo padre.

Non è ottimismo della volontà (anche se l'immagine mi piace e ha una sua allure di nobiltà). Io non so cosa sia l'ottimismo: le barche affondano per loro vizio costituzionale, i lupini si perdono, e non c'é Provvidenza che tenga. Ma c'è molto da vedere, e c'è molto da capire. E ha senso continuare a farlo fintanto che si può.

Può darsi che non soffrire di nostalgia sia una forma di patologia (sono praticamente sicuro che lo sia). Ma se lo è, io me la tengo e non voglio essere curato.

Modificato da marat
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A commento di quanto scritto da Marat aggiungo le frasi finali di un libro delle amate Maldobrìe, con adeguata traduzione. Non sono originale ma mi pare azzeccato. Il saggio Sior Bortolo, cantastorie di lungo corso, ricorda alla Siora Nina e a noi:

 

...Però, arè, va tanto! Tanti ani, e robe, e nomi de vapori che nissun ga mai visto, e comandanti morti e sepolti e porti e loghi che non se sa più. Robe del bel de una volta. Che po' el bel de una volta, forsi, ierimo solo che nualtri, come che nualtri se ricordemo che ierimo. Cossa volè siora Nina, el sol magna le ore. Indiferente.

 

Però, guardate, se ne va tanto! Tanti anni, e cose, e nomi di navi che nessuno ha mai visto, e comandanti morti e sepolti e posti di cui non ci si ricorda più. Roba del bello di una volta. Che poi il bello di una volta, forse, eravamo solo noi come ci ricordiamo di essere stati. Cosa volete, Siora Nina, il sole mangia le ore. Fa niente.

Modificato da GM Andrea
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Cosa volete, Siora Nina, il sole mangia le ore. Fa niente.[/i]

 

Non ho titolo per cimentarmi in questo tipo di esegesi. Ma azzardo che la bella traduzione "fa niente"non sia letterale, anche se coglie esattamente nel punto. E amo immaginare che "indiferente" possa essere niente altro che un aggettivo, rivolto al sole. Indifferente: appunto.

E' per questa indifferenza (padrone in casa sua, il sole, di avercela) che io mi tengo stretti i fotogrammi del mio film, e non mi giro indietro per ricordarmi quello che sono stato. Continuo ad esserlo, continuerò ad esserlo. Fintanto che non andrà a scadenza la data di utilizzo stampigliata sulla confezione dei miei neuroni.

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A voler essere rigorosi filologi dovrebbe dirsi che indiferente è il modo triestin-dalmato di dire "non c'entra, non importa, non fa nulla".

Di solito, nei libri citati, il Sior Bortolo la usa icasticamente per porre termine alle inconferenti divagazioni della sua abituale e svanita interlocutrice, la Siora Nina per l'appunto; e così riprendere il filo del discorso.

L'interpretazione proposta da Marat è però intrigante, e forse va al di là delle intenzioni stesse degli autori.

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  • 2 months later...

Mi corre l'obbligo, ai sensi delle leggi sulla stampa, di pubblicare la mail che il Capovoga di Oxford mi ha inviato, quando alla fine ho trovato il coraggio di confessargli che lo avevo esposto al pubblico ludibrio senza avergliene chiesto il permesso.

Devo aggiungere due precisazioni.

L'accenno alla Nuova Zelanda non è una botta di arteriosclerosi: da quelle parti lui in effetti ci tiene figliolanza.

Nemmeno il fatto dell'Olandese Volante lo é: lui usa girare per cimiteri di guerra, e parla coi ragazzi lì sotto, in una sorta di Spoon River ogni volta rifatta. E ci parla davvero, quale che sia la loro lingua.

Spero che un giorno a l'altro venga anche lui da queste parti. Sopratutto ora che abbiamo adeguato presidio medico-psichiatrico.

 

 

Largo di Capo Sant’Anna, quasi alla fine del mese di gennaio 2008

 

Michele,

 

a volte bisogna accantonare per qualche istante il babbìo e sforzarci di essere seri. Lo sforzo non è mai stato facile per cui questo ne sarà un simulacro … solo apparente, fatto di parole, perché non ci sono necessarie le parole per essere seri. Anche nell’essere seri abbiamo sempre fatto i buffoni, come quando sull’altare della chiesa di S. Rocco comparimmo, inaudito, in abito talare. E chi crederà mai a tanta audacia di serietà?

Dovrei, ma ovviamente non lo faccio, ringraziarti per la “storia di una vespa di mare†in quanto protagonista; anzi, mi aspetto, con il colonnello, la mia parte dei diritti d’autore che andrai ad incassare. Era finalmente ora che uscissi allo scoperto e non per la vanità letteraria che so non esserci, ma perché è l’imposizione che ti viene da dentro e che ti ordina di scrivere, di far sapere a tutti del nostro divertimento conquistato a così caro prezzo (Lire diecimila oltre alle spese notarili) e soprattutto direi fatto di un niente che era tantissimo. Continua a scrivere; è un ordine.

Ne ho già informato alcuni italiani, il popolo liparoto e tutta la Nuova Zelanda e financo la Nuova Guinea e le Nuove Ebridi. Aspetto le reazioni che non tarderanno. Il “cavalleggeroâ€, consone allo scritto, non ha parlato ma l’espressione del volto era alquanto compiaciuta.

Inevitabilmente sono andato nei ricordi. La lancia stava sotto la piazzetta, incatenata ad un anello, maltrattata dagli uomini e dalle intemperie e al suo interno, nei quartieri di prua cresceva e fioriva una pianta di cardedda. Poco sarebbe mancato per le leguminose e per le solanacee. Era evidente che chiedeva pietà ed attese paziente che l’adottassimo.

Lei docilmente ci seguì e ci fu fedele fino a quando lei volle. Fu compagna di giochi, nostra complice sempre discreta, entusiasta di portarci verso tutti i punti cardinali (mai contro la scogliera di ponente) sia che si andasse con l’insolito motore di una Vespa o sotto vela o sotto forza di remi. La sentimmo parte di noi sempre felice di appagarci, fu compagna silenziosa, paziente nelle nostre intemperanze, sempre sorridente nell’ascolto dei nostri innamoramenti giovanili. Anche Lei aveva la sua anima, buona, al contrario di quella di tanti umani.

Poi una notte, da sola, mollò gli ormeggi e ci lasciò. Prese il largo per non più tornare. Aveva forse origliato quei nostri discorsi sull’Olandese volante e sul suo equipaggio di fantasmi. Chissà cosa le passò per mente … …

Capita che nelle giornate di primavera al largo del Capo ristagni, bassa sulla superficie del mare, una densa nuvolaglia lattiginosa. Da lì a volte abbiamo visto sbucare il suo scafo bianco, con tutte le vele “nuziali†issate e con i fantasmi del suo scalcinato equipaggio, mai morto, in quell’eterno navigare …, un attimo, salutarci e subito scomparire. Giuro che l’ho vista!

 

Ciao Michele

Modificato da marat
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Visitatore ERICH TOPP U-552

....Caro Michele....

 

....certo che per essere un uomo di poche parole,"l'oxfordiano",quando tinge nel calamaio la punta della penna,non scherza mica a sentimenti eh....!? :s07:

 

....mi permetto di aggiungere alcuni pensieri anche se in un certo senso "fuori posto".... :s19:

 

....L'amicizia e il sentimento di ciò che avete vissuto in quegli anni sono meravigliosi !!....leggo i vostri....e penso ai miei....penso che finalmente "oggi" ho ritrovato i miei "fratelli adottivi" con cui ho condiviso la mia giovinezza e tutte le buffonate che abbiamo combinato....sento che anche loro stanno riscoprendo questi sentimenti e che oggi a 40 anni suonati per tutti e con un matrimonio fallito alle spalle per ogniuno di noi,ci "aggrappiamo" in qualche modo l'uno all'altro,riscoprendoci ormai non più ventenni,ma con la voglia di ritornarci (ma non possiamo permettercelo !) ;i bianchi capelli che qua e la spuntano....le loro bambine che vorrebbero sempre essere presenti quando riusciamo a sederci al pub a sorseggiare una birretta,per ascoltare le nostre storie di ciò che combinavamo....ma le mamme non glielo permettono !....la ricerca di uno nei confronti dell'altro per riuscire a dimenticare per qualche ora la quotidianità,per "rifugiarsi" in quei ricordi che....ahimè....non potranno più tornare !....

 

....Le "fila" lentamente si infittiscono....ora anche gli sposati vogliono tornare nella vecchia "compagnia"....forse perchè speriamo di allontanare gli anni che passano....forse per "staccare" per qualche ora....forse perchè più passa il tempo e più la mente umana si affina....affina certi valori,certi sentimenti....forse sente il bisogno di tornare alle proprie origini....forse perchè più passano gli anni e più si vorrebbe tornare ragazzini....per riuscire a scacciare le responsabilità della vita....??

....è strano l'essere umano,ma al tempo stesso è unico nel suo genere !!....

 

....L'amicizia....uno strano sentimento,che da giovane diventa quasi morbosa....successivamente passa ad una fase di "allontanamento",dettato dalle necessità della vita,per poi lentamente tornare a rafforzarsi quando iniziano a scomparire tragicamente "fratelli",strappandoceli a noi e alle loro famiglie....

 

....e quì scatta la "molla"....ti accorgi di non aver più 20 anni....ti accorgi che durante questo tempo hai perso molti momenti da condividere con coloro che ora non ci sono più e inizi a capire che quelli che rimangono fanno parte della tua vita....quasi della tua stessa famiglia,perchè è con loro che sei cresciuto....è con loro che comprasti una vecchia barca e dopo un arduo lavoro per ripristinarla e motorizzarla,le rifacesti bagnare il fasciame....è con loro che per organizzare la tua festa di capodanno,andavi di notte dallo sfasciacarrozze dove avevi addocchiato un pulman turistico e di soppiatto mettevi le ragazze a svitare i bulloni delle poltroncine in velluto,mentre tu,insieme agli altri le portavi giù dal pulman,le facevi scavalcare i reticolati che delimitavano quella proprietà,le caricavi sul portapacchi improvvisato con delle strisce di legno legato con delle cime attraverso i finestini aperti delle varie 500,Mini 90,112 e le portavi nella sala che il prete ti aveva concesso di fare la tua festa e dove il 31 di dicembre facevi accomodare gli ospiti !!....

 

....L'amicizia....quel valore che ti lega per tutta la vita con qualcuno e che riscopri giorno dopo giorno....

 

....Coltivare un amicizia....ecco cos'è la cosa importante....perchè un giorno potrai condividere altre emozioni con un "fratello adottivo"....potranno essere belle o tristi,ma "lui" ti sarà sempre vicino e ti sosterrà anche più di una moglie o di un figlio....perchè l'unica cosa che ti potrà chiedere,sarà di ricordare insieme a lui tutti quegli anni passati insieme a combinarne di tutti i colori....per riuscire a tornare a sorridere !!....

 

 

:s67: Mau

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è con loro che per organizzare la tua festa di capodanno,andavi di notte dallo sfasciacarrozze dove avevi addocchiato un pulman turistico e di soppiatto mettevi le ragazze a svitare i bulloni delle poltroncine in velluto,mentre tu,insieme agli altri le portavi giù dal pulman,le facevi scavalcare i reticolati che delimitavano quella proprietà,le caricavi sul portapacchi improvvisato con delle strisce di legno legato con delle cime attraverso i finestini aperti delle varie 500,Mini 90,112 e le portavi nella sala che il prete ti aveva concesso di fare la tua festa e dove il 31 di dicembre facevi accomodare gli ospiti !!....

Mi pare che la nostra storia criminale ci renda particolarmente fratelli .......... Meno male che il tempo, oltre che i capelli bianchi, porta pure la prescrizione dei reati.

(A proposito di correi: l'oxfordiano è quello loquace, il muto è il colonnello)

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Visitatore Marcuzzo
..... e di soppiatto mettevi le ragazze a svitare i bulloni delle poltroncine in velluto,mentre tu,insieme agli altri le portavi giù dal pulman,le facevi scavalcare i reticolati che delimitavano.....

 

Le ragazze le mettevate di notte e notte a svitare le poltrone di velluto? Ma potevate fargliele provare prima però.... Stì giovani d'oggi!!! :s68: :s68: :s68:

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Visitatore ERICH TOPP U-552
Le ragazze le mettevate di notte e notte a svitare le poltrone di velluto? Ma potevate fargliele provare prima però.... Stì giovani d'oggi!!! :s68: :s68: :s68:

 

 

....bellisscitte Marco....mi rovini la poesia,ma soprattutto....non potevo mica scrivere che le poltroncine servivano per accomodarci a pomiciare con loro....!! (ops....l'ho detto !! :s68: )

 

:s03: :s03: :s03:

 

 

 

:s67: Mau

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....bellisscitte Marco....mi rovini la poesia,ma soprattutto....non potevo mica scrivere che le poltroncine servivano per accomodarci a pomiciare con loro....!! (ops....l'ho detto !! :s68: )

 

:s03: :s03: :s03:

 

 

 

:s67: Mau

 

E noi a farci i lividi sul pagliolato delle barche ...........

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Caro Marat,

senza ovviamente voler paragonarmi a te come scrittore di cose "di mare", sottopongo un mio "pezzo" risalente a qualche anno fa (2003). E' una sorta di "intervista" fatta a mio padre che - da comandante della Marina mercantile - fatti ne ha da raccontare...

Il pezzo era intitolato "Prigionieri dei ghiacci", e venne pubblicato in un fascicolo edito a Rapallo nel 2003 in occasione dell'edizione di quell'anno della mostra "Mare Nostrum", dedicata ai "Liberty".

Commenti o critiche sono graditi!

 

-----------------

Prigionieri dei ghiacci

 

“. . . Come per gran parte dei marittimi italiani che iniziarono la propria carriera negli anni del dopoguerra, la mia esperienza professionale si è formata anche a bordo dei “Liberty”, tra i quali ricordo, in particolare, l’Aequitas (ex Konrad Kohrs) dell’armatore Ravano, dove imbarcai inizialmente come secondo e poi come primo ufficiale. Dopo essere passato al comando del “Liberty canadese” Stella, nel 1960 imbarcai, sempre come comandante, sull’African Monarch dell’armatore savonese Gaetano Serra.

Tra il 1955 e il 1957, il “Sciu Gaetan” (com’era noto negli ambienti armatoriali dell’epoca) aveva acquistato cinque “Liberty” che, pur battendo bandiera liberiana, avevano equipaggi, ufficiali e comandanti italiani. In servizio con l’armatore Serra queste cinque unità assunsero i nomi di African Monarch, African King, African Lord, African Night e African Princess (si trattava, nell’ordine, degli originali Charles A. Young, James J. O’Kelly, Harmon Judson, Samtana e Samearn) e furono proficuamente impiegate, soprattutto sulle rotte dell’Estremo Oriente e del Nord America.

Dalla metà del 1960 mi trovavo dunque al comando dell’African Monarch che, in pratica, stava compiendo una circumnavigazione del globo: partito da Genova, via Canale di Suez era giunto in Giappone, e da qui – facendo scalo in vari porti del Pacifico – aveva raggiunto Brema via Canale di Panama, attraversando l’Oceano Atlantico settentrionale.

All’inizio del 1961 salpammo da Brema diretti ad Albany (sul fiume Hudson, circa 120 miglia a monte di New York), per imbarcare rottami di ferro da trasportare a Genova, meta finale del nostro viaggio. La traversata Brema – New York, che in condizioni normali richiedeva 17 giorni, fu completata invece in 27 giorni, in parte a causa di alcune avarie all’apparato motore e in parte per le avverse condimeteo incontrate sulla rotta.

Il 29 gennaio giungemmo a New York, dove ricevemmo istruzioni dalla U.S. Coast Guard circa le modalità operative del nostro transito verso Albany: l’African Monarch avrebbe dovuto costituire un convoglio con i “cargo” spagnoli Campo Grande e La Mancha, anch’essi diretti ad Albany per caricare grano.

Sulla costa atlantica degli USA, i mesi invernali tra la fine del 1960 e l’inizio del 1961 furono tra i più freddi degli ultimi centocinquant’anni, e il fiume Hudson ghiacciò già a poche miglia dal suo estuario: risalendo verso Nord il ghiaccio diventava sempre più spesso e resistente – trenta miglia a Nord lo spessore era di cinquanta centimetri, e i “broadcasts” della U.S. Coast Guard riportavano valori più che doppi all’altezza di West Point.

La Coast Guard aveva quindi predisposto un convoglio che avrebbe avuto come capofila il rompighiaccio USCGC Westwind (una grossa unità di costruzione bellica di 3.500 t di dislocamento). Il Westwind era in grado di aprire con facilità un canale nei ghiacci che – in caso contrario – sarebbero risultati insuperabili per i mercantili, costituendo anzi, per essi, un elemento di forte pericolo. Il canale aperto dal Westwind, successivamente, avrebbe dovuto essere utilizzato da un altro mercantile spagnolo, il Rivadeluna, da un rimorchiatore e da una chiatta diretti, in senso inverso, da Albany a New York.

Le cose, però, non andarono per il verso giusto, in quanto a bordo dell’African Monarch la vecchia macchina alternativa ebbe un’altra avaria, e già il 1° febbraio ci trovavamo fermi, circondati dal ghiaccio e nell’impossibilità di effettuare le riparazioni in tempi brevi. Il Westwind, dal canto suo, doveva proseguire sulla propria rotta, e fu quindi solo dopo alcuni giorni che venimmo affiancati da un’altra nave della U.S. Coast Guard.

Si trattava del “buoy tender” USCGC Firebush, un’unità impiegata per la manutenzione di boe e di altri ausili alla navigazione, la cui prora era rinforzata per la navigazione tra i ghiacci, ma – nel complesso – molto più piccola del Westwind e, soprattutto, dotata di un apparato motore assai meno potente.

Il 4 febbraio il Firebush iniziò a rimorchiare l’African Monarch che, parzialmente riparata l’avaria, poteva ottenere dalla propria motrice un numero di giri dell’elica sufficienti a coadiuvare il rimorchio dell’unità americana. Malauguratamente, il giorno successivo, nuovi problemi in macchina arrestarono nuovamente il nostro “Liberty”, e il Firebush – in pratica – ci abbandonò al nostro destino risultando impossibile rimorchiarci con la sola potenza delle sue macchine.

Iniziò allora un’odissea che ancora oggi, a più di quarant’anni di distanza, ricordo ancora con sentimenti contrastanti di timore professionale e di nostalgia, senz’altro dovuta alla giovane età, per l’avventura. L’African Monarch si trovava imprigionato tra i ghiacci, a sole sessanta miglia da New York e comunque a poche miglia dal mondo civile ma – in effetti – separato da esso quasi come le navi degli esploratori polari della fine dell’Ottocento. Anche se i generatori di bordo garantivano forza motrice e riscaldamento, i viveri iniziavano a scarseggiare e l’equipaggio non riceveva posta da quasi due mesi. In effetti, la posta ci attendeva presso l’agente della Compagnia ad Albany, ma tutti i tentativi per mettersi in contatto con l’agenzia tramite il telegrafo di bordo si risolsero in un nulla di fatto.

Decisi allora di inviare a terra due uomini dell’equipaggio, e – tra i molti offertisi volontari – scelsi il secondo di coperta, Giorgio De Scalzo, e il cameriere Giuseppe Savoia. I due si avventurarono sul “pack” e, dopo un paio d’ore di cammino, raggiunsero la terraferma; superato l’argine del fiume scoprirono di trovarsi nel giardino di una casa privata, di proprietà della famiglia di Mr. Henry L. Scott, situata nel territorio della cittadina di Rhinebeck. I padroni di casa, dopo il primo iniziale attimo di sbalordimento, se non di timore, ascoltarono la vicenda raccontata dai due marittimi che – un po’ in inglese, un po’ in italiano e un po’ a gesti – fecero capire di provenire dalla nave visibile in lontananza, nella nebbia, tra i ghiacci del fiume.

La famiglia Scott si mobilitò ben presto per aiutare l’equipaggio dell’African Monarch, e Mr. Scott accompagnò personalmente De Scalzo e Savoia ad Albany con la propria auto, sino alla sede dell’agenzia marittima, dove fu possibile ritirare i plichi della posta destinata all’equipaggio ed altri documenti. I due marittimi si recarono poi in vari negozi di Albany per acquistare numerosi articoli di prima necessità e, riaccompagnati dalla famiglia Scott al completo, si presentarono sottobordo all’African Monarch nella tarda mattinata del giorno successivo.

A bordo del “Liberty”, non fu poca la sorpresa degli ospiti americani quando, ricevuti nella mensa ufficiali, poterono gustare del vino italiano servito in bicchieri di cristallo posti su un vassoio d’argento! All’aperitivo fece seguito un pranzo in puro “Italian style”, che stupì enormemente gli Scott i quali – probabilmente anche per le “esagerazioni” nella narrazione di Savoia e De Scalzo – temevano di dover fronteggiare a bordo una situazione analoga a quella sperimentata dagli equipaggi della Fram di Nansen o della Stella Polare del Duca degli Abruzzi!

Del fatto si occuparono anche i giornali, ed articoli sulla vicenda dell’African Monarch comparvero sulla “Rhinebeck Gazette” e sull’edizione locale del “New York Times” del 16 febbraio 1961. La risonanza della nostra vicenda fu tale che la famiglia della vedova del presidente Roosevelt (che possedeva una proprietà confinante con quella degli Scott) fece pervenire all’equipaggio un assegno di 500 dollari per coprire le spese più urgenti (e forse per far “dimenticare” una certa assenza della U.S. Coast Guard in tutta la vicenda!).

Alcuni giorni dopo fummo finalmente raggiunti dal Westwind, proveniente da Albany, che – coadiuvato da un altro “buoy tender” – ci liberò finalmente dalla morsa dei ghiacci e ci scortò sino ad Albany dove si poté finalmente dare corso alle operazioni di carico della nave.

La risalita dell’Hudson da New York ad Albany, che con condizioni metereologiche normali richiede non più di dodici ore, era stata compiuta dal nostro “Liberty” in ben diciotto giorni, la maggior parte dei quali trascorsi immobilizzati dal ghiaccio e senza contatti col mondo esterno.”

Modificato da Alagi
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Era da tempo che ti aspettavo al varco, Maurizio.

Bello stile, e bella riduzone della massa aggettivale circolante. La potatura degli aggettivi è sempre un lavoro ben fatto, anche se è possibile solo quando si scrive di fatti, e non di parole.

Anni fa mi ero addirittura messo ad abolire l'uso degli articoli determinativi, perché mi affascinava il periodare di Mario Tobino, un signore delle tue parti (per essere esatti delle parti di levante, anzi dello stesso paese di mia moglie). L'asciugatura del superfluo è un'arte vera dei liguri, sulla quale si banalizza troppo, e insegna molte cose.

Essere figli di un padre che ha vissuto, equivale ad avere una finestra in più spalancata su altre vite. Ma non è scontato che sia un vantaggio. Io, a quarant'anni dalla morte di mio padre, non riesco ancora a raccontare dei suoi anni di guerra (e ne avrei da raccontare) senza sentirmi azzoppato dall'emozione. E non è detto che l'essenzialità del tuo stile in punta di penna, tradisca altrettanta partecipazione emotiva.

 

Adesso fai subito una cosa, e falla immediatamente, prima che mi arrabbio. Togli subito il tuo scritto dal topic della Vespa e dagli vita e dignità autonoma. E poi continua. Ché qualche chilata di carta con le storie di tuo padre la riempi facile.

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