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Storie di Mare


marat

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Ciao Marat, è un vero piacere che tuo tramite abbia scritto anche il Cavalleggero che secondo me qui a Betasom con noi si troverebbe proprio bene :s02: . Ringrazialo ed estendi i saluti!

 

In realtà è il Capovoga di Oxford che ha scritto, avendo normale uso di scilinguagnolo verbale e ancora migliori capacità di delirio letterario.

Il Cavalleggero, ormai Colonnello della riserva, non potrebbe neanche volendo. Era muto, ed è diventato muto afasico. Inoltre è nato senza polpastrelli. O perlomeno: i polpastrelli sembrerebbe averli, visto che sulla testiera pesta che è un piacere. Ma a differenza mia, che uso il computer come una macchina da scrivere, lui lo usa per tutto tranne che per scrivere. Fra l'altro, dice che a casa sua l'ADSL non arriva ("dice", ...... naturalmente "non dice": te lo lascia intuire).

C'è quindi qualche remota speranza che l'Oxfordiano, incline alla commozione, si lasci catturare dalla buona accoglienza e ci venga sporadicamente a raccontare delle sue molte Spoon River.

Ma del Colonnello non ci resta che immaginare la sagoma in controluce sugli scogli del capo di sant'Anna. Dove ogni giorno, sul far del vespero, va a salutare l'uscita dei granchi.

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Adesso fai subito una cosa, e falla immediatamente, prima che mi arrabbio. Togli subito il tuo scritto dal topic della Vespa e dagli vita e dignità autonoma. E poi continua. Ché qualche chilata di carta con le storie di tuo padre la riempi facile.

 

Caro Michele, ti ho risposto per PM... :s02:

Chiedo "asilo" temporaneo per il mio pezzo per qualche tempo ancora e... spero di non farti arrabbiare!

 

Un caro saluto.

Maurizio

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Caro Michele, ti ho risposto per PM... :s02:

Chiedo "asilo" temporaneo per il mio pezzo per qualche tempo ancora e... spero di non farti arrabbiare!

 

Un caro saluto.

Maurizio

Come Le dicevo in privato, Signore, ospitarla è un privilegio. Ma Lei deve avere alloggio adeguato al Suo rango.

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Bellissima storia Alagi, ne hai altre??? :s44: :s44: :s44:

 

 

Sì, sì....

Dovete darmi un po' di tempo... Ad esempio, ricordatemi di scrivere come mio padre e il suo secondo "convinsero" un ufficiale di macchina a smetterla di darsi malato per finta... è una storia veramente simpatica! ... O di quella volta in cui la moglie dell'armatore - molto legata agli ambienti ecclesiastici - richiese che il mercantile comandato da mio papà trasportasse sei suore dall'Italia agli Stati Uniti... Il bello è che ce le portarono pure!

Ce ne sarebbe da scrivere un libro... Magari trovo il tempo e lo faccio, prima o poi.

 

Intanto, se volete leggere qualche bel libro di mare, ve ne suggerisco due del com.te Gatti (il moderatore del convegno di Rapallo):

- Quelli del Torregrande

e

- Quelli del Vortice

sono entrambi riferiti alle sue esperienze sui rimorchiartori d'altura di Genova... Belli davvero!

Modificato da Alagi
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Intanto ecco una fotografia dell'African Monarch immobilizzato tra i ghiacci dell'Hudson nel febbraio del 1961.

L'originale è una diapositiva, e venne scattata da un membro dell'equipaggio sceso sulla "banchisa". Appena possibile vedrò di passare la diapositiva allo scanner e di postarla, la qualità in effetti è molto buona. La foto qui sotto è tratta dalla copertina del fascicolo di Rapallo di cui ho parlato, che ha per sfondo una carta nautica...

 

africanmonarchil5.jpg

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Dopo il saluto di rito a chi, anche dopo quaranta e più anni e molti centimetri di giro vita in più, resta di grado superiore, lo Scuderi – preso da estatica possessione – mi fornisce su precario quadratino di carta le indicazione per arrivare a “Storia di una vespaâ€. Tace del “di mare†ma mi assicura che non ritratta di “storie di piluâ€.

Nessuna altra indicazione fornisce e così, non appena rientrato in studio, arrivo in quello che mi sembra certamente un posto di “fuori di testaâ€.

Mi incuriosisce il titolo completo. Inizio la lettura e, rigo dopo rigo, mi trovo a combattere con un fiume di emozioni e ricordi che mi sommerge. Mi toglie il respiro come una di quelle onde che riuscivano a mandarti sotto.

Ad una ad una tornano le immagini di quel racconto che non mi aveva certo visto protagonista ma testimone. Ricordi ed immagini che, semplicemente, non sapevo di ricordare.

Fino a qualche sera fa avevo raccontato ad un gruppo di amici, forse per l’ennesima volta, di come aveva preso l’ernia del disco su una barca di un gruppo di pazzi che si facevano le vele con le lenzuola rubate al corredo delle sorelle. La boa che dovevo afferrare al volo come mi era stato ordinato, la botta sulla schiena e poi nulla di quel periodo. Non tanto per l’evento clinico, ma per vantarmi di essere stato sul beccaccino che armarono in seguito.

Improvvisamente, invece, viene fuori tutto. Cosa strana, anche il viso della cugina che realizzò le vele.

Facevo l’istituto tecnico ma frequentavo quel gruppo di liceali di due-tre anni più grandi di me. Mi accettavano alla pari ed a me piaceva seguire i loro discorsi ed i loro progetti che, non raramente, sfioravano la completa idiozia. Ma ci credevano profondamente e ti coinvolgevano

Quello della lancia, invece, si concretizzo ed iniziò un periodo di spasmodica discussione. Scartata l’ipotesi di poter partecipare all’acquisto per carenza cronica di finanze, seguivo i dibattiti che si protraevano per ore anche sul corretto senso da seguire nell’applicare lo stucco.

Non mi era consentito fare tardi la sera come loro, i grandi. Non partecipai ai lavori e quindi non mi fu consentito partecipare al varo, ma l’immagine del futuro cannoniere che roteando il polso con l’indice ben teso, simulava il movimento dell’asse dell’elica e sosteneva la sua tesi sulla possibilità di farcela senza troppe staffe, mi è tornata nitida così come una muta richiesta di sostegno ad una tesi che – da tecnico – dovevo per forza condividere.

Il boma, poi, mi sembrava assolutamente ridicolo. Un naso finto su una bella faccia, ma mi guardai bene dal dirlo. Oggi con gli occhi della loro immensa passione, sembra bellissimo.

Alla fine toccò anche a me l’uscita con la lancia. Stavano sornioni, i due comandati.

Capii che toccava a me dare il primo colpo di pedale. Il cenno di intesa che si scambiarono mi fece capire che il malleolo sbucciato era il prezzo della iniziazione ma mi valse la nomina a “mozzo†in prova a qualcosa del genere..

Ricordo che il mare – forse incazzato per la presenza di un sacrilego motore – non concesse molto tempo per l’uscita e fortunatamente rientrammo quasi subito: il rumore era assordante e rischiavi di diventare sordo.

Poi, non so con quale barca, con una cima in mano ti ordinano di fare qualcosa nel gergo marinaresco che non puoi rivelare di non aver capito. Il rischio ci essere buttato in acqua non era nulla rispetto agli sfottò che ti avrebbero perseguitato per mesi interi.

Ed all’improvviso sei fregato. La stoffa del fiocco che segue quella cima non è più roba morta, inanimata. Ti parla. A secondo della tensione che riesci a dare si gonfia senza sfrangiarsi e quel senso di calma si trasmette all’intera barca e ti entra dentro.

Filava, quel pezzo di legno, in un contrasto di silenzio e assordante rumore che non puoi più dimenticare o, meglio, che ti rimane dentro nascosto fino a che leggi una storia te lo riporta a galla.

Feci l’intervento e mi fu proibito di salire su qualunque tipo di barca. Non potei seguire le successive imprese.

Ognuno dei comandati dovette fare la sua scelta, chi in banca, chi sul carro M 47, chi – dopo qualche anno – “emigrò†a Roma.

Si allentano i contatti. Il romano non lo vedo dal 1999, in occasione di un mio passaggio a Roma dove abbiamo regolarmente litigato per pagare il conto di una pizza.

Questo, però, ti manca. Alla fine sono assolutamente d’accordo sul fatto che non bisogna avere rimpianti del passato e sono stato sempre contrario alle cene degli â€ex†alle quali mi rifiuto di partecipare.

Ma incontrarsi, magari in una sera di tarda primavera, non per rinvangare il passato ma per fare il punto della situazione. Per stabilire cosa fare a partire da domani e perché no, vedere se ci sono sogni da poter realizzare.

E’ sempre tempo si sogni.

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  • 2 weeks later...

Sono il Capitano Achab. Nulla contro le balene ....

Equipaggi!, io di computer non capisco un accidente. Non so dove vado ad incagliarmi con questo esercizio di scrittura. Marat mi sfida ed io l'accontento anche perchè devo seguire il consiglio del buon Maurizio. Quando dopo quella "tempesta magnetica" (vai a capire se l'avevo capita!) non ho più visto la mia presentazione con tutto quel che seguiva ho semplicemente pensato che fossi stato relegato in cella di punizione a far compagnia ai topi. Invece non era così, sono venuto a galla e riprendo con questo ricordo del 1968.

 

... ORZA, ... ORZA, ... VIENI DUE GRADI ALL'ORZA!

 

"Capitava sempre alle prime uscite con il mio Snipe (... mio!? Anche qui "mio" solo nominalmente; fu sempre "loro", nel senso che accamparono sempre tutti i diritti di caratura, di proprietà, di possesso e mai quelli naturali nascenti dalle spese di manutenzione, - che c'entra - dicevano), e capitava sempre quando io ero al timone, quando le raffiche del grecale ci facevano stivare tonnellate di mare. Per rendere più emozionante l'andatura di bolina non cercavano di correggere lo sbandamento, al contrario l'accentuavano stando sottovento. Anche il beccaccino, complice anche lui, aveva la sua anima e le sue fisime. Tra queste, non ultima, il non voler cavalcare le onde a nessun costo. Questo non era dovuto al dislocamento nè alla zavorra del numeroso equipaggio. A Lui piaceva infilare il muso nell'onda affinchè questa gli passasse sopra come una carezza. Era in questi frangenti da Capo Horn, o meglio da Capo S. Anna, che Michele, in perfetta tenuta "mentale" da cap-hornier, mi impartiva questo comando, secco, perentorio, deciso e preciso nei termini, ... navigato insomma!

"... orza, vieni due gradi all'orza".

"!!?????"

La timoneria non rispondeva all'ordine.

"... ho ordinato orza!, ... vieni due gradi all'orza1". Poi cominciava ad urlare:

"... maledetto figlio di un cane vieni due gradi all'orza!", più convinto che mai del suo ruolo.

Io pensavo ..., trovavo anche il tempo di pensare, che così venivano apostrofati i timonieri al tempo della vela. La timoneria infine rispondeva, con una vocina intimidita, che al di sopra della tempesta chiedeva:

"... Micheli, chi m.....a voli diri orza?"

Fortuna voleva che tra le poche dotazioni di bordo non ci fosse il gatto a nove code e non ci fosse ancora, per gli indisciplinati, l'usanza del giro di chiglia; in senso longitudinale, ovviamente.

Furono fatti come questo (tanti, tantissimi) che da allora per me l'isola Lachea, dirimpetto ad Acitrezza, ebbe il lontano fascino di Pitcairn e degli ammutinati del Bounty.

 

Ciao. Capitano Achab.

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Signor Alagi, che Lei (o altri) vogliate provvedere a misericordiosamente ricomporre i miseri resti di Achab in sezione più consona ai suoi deliri letterari.

 

Capitano Nemo, circoscriva l'ambito delle Sue perplessità.

Se riguardano la sanità mentale del Suo parigrado-similcollega-personaggio-letterario temo che ci sia poco da capire, sicché potrà rivolgersi al presidio medico-psichiatrico da poco istituito alla Base.

Se riguardano la storia dell'orza (e delle orzate in genere) posso provvedere nei limiti delle mie poche possibilità.

Mi faccia sapere.

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Signor Alagi, che Lei (o altri) vogliate provvedere a misericordiosamente ricomporre i miseri resti di Achab in sezione più consona ai suoi deliri letterari..

Mi faccia sapere.

 

Signor Marat, provvedo allo spostamento nell'ormai tradizionale "Vespa di Mare", topic al quale provvederò a modificare il titolo, se Ella è d'accordo, in:

 

"Storie di mare - romanzi d'appendice in più puntate"

 

editando opportunamente quanto dal Lei creato a suo tempo.

 

Doverosi ossequi.

 

Alagi, MAVM

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Comandante Marat,

cortesemente vuol spiegare al Capitano Nemo il suo comando di venire all'orza?

Achab.

 

Su istruzioni del Comandante Marat, che mi ha demandato il compito, ecco spiegato il significato di "venire all'orza".

 

"Venire all'orza" o "Orzare" vuol dire portare quanto più possibile la rotta della barca in direzione della provenienza del vento. Questa manovra consente di "bolinare" maggiormente, ossia di "stringere il vento", cioè di navigare (non nella) ma verso la direzione da cui viene il vento. Quanto più possibile una barca è boliniera (e quanto più il timoniere è bravo a orzare, senza portare cioè la barca nel letto del vento e quindi rallentarla) quanto più rapidamente si potrà raggiungere una posizione sopravento a quella in cui la barca si trova. Incidentalmente, questo è il motivo per cui il primo lato di un triangolo di regata è previsto sia fatto "di bolina".

La manovra opposta al "Venire all'orza" è il "Venire alla poggia" o "Poggiare": vuol dire portare la rotta della barca distante dalla direzione da cui proviene il vento. In tal modo, continuando a "poggiare" si arriva a ricevere il vento "al traverso" (cioè di lato), "al lasco" (cioè a poppavia del traverso) e "di poppa". Le andature al lasco e di poppa sono dette "portanti" perchè non si deve risalire il vento (come di bolina) ma è il vento stesso a portarti.

Spero che lo schemino qui sotto sia esplicativo!

 

orzarezu4.gif

 

Ciao!

Alagi

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  • 2 weeks later...

C'è stato anche un "prima" della Vespa. Anzi, questa è "la madre di tutti gli inizi".

Con particolare dedica a Charlie Bravo, che mi ha indotto a grattare altri fondi di cassetto.

 

 

 

Dulcinea del Toboso

 

Verso la fine della terza media Nicola si ammalò di qualcosa di più che un raffreddore fuori stagione. E io cominciai ad andarci tutti i pomeriggi per portargli i compiti e farli insieme a lui.

Farli i compiti li facevamo, ma il resto della serata andava avanti a Dadocalcio, che era pubblicato dal Corriere dei Piccoli (l’Italia si divideva fra i ragazzi che leggevano il Corriere dei Piccoli e quelli che leggevano il Vittorioso: i fumetti, per la morigerata piccola borghesia del tempo, erano ancora fuori dall’arco costituzionale).

L’elettronica di allora in questo consisteva : nell’incollare con larghe ditate di coccoina le figurine sul cartoncino appositamente acquistato da cartolai che diventarono benestanti vendendone a quintali, nel ritagliarle con le forbici più indecenti che le nostre madri si rassegnassero a cederci in comodato precario, nel piazzarle ancora fresche di colla sul foglio che simulava il campo di calcio. E via coi dadi.

Di figurine il Corriere ne pubblicava di tutte le risme: c’erano quelle del presepio, di Coppi (correva ancora) di Anquetil (cominciava a correre) di Louison Bobet (antipatico per eccesso di b) quelle degli ussari, dei Piedi Neri, dei Kaiserjager, dei fantaccini giapponesi, in una sorta di KFOR trasversale alle nazioni e alle epoche storiche.

Io naturalmente incollavo e ritagliavo pure l’Aviere e il Canopo, anche se il disegno aveva il mare e il cielo e non aveva il contorno netto, buono a essere ritagliato. Mi fermavo solamente davanti ad Albino “cavallo d’Italia”, perché conservavo religiosamente intatte le pagine con le illustrazioni della storia sua e del Savoia Cavalleria in terra di Russia.

Nelle figurine del Dadocalcio c’erano Sivori e John Charles, Liedolm e Nicolé. Io ricordo pure Beppe Furino, ma mi sa che mi sbaglio. Di sicuro c’era Bruno Pizzul con la maglia del Catania.

 

Nicola abitava a Via del Popolo, una strada che gli amministratori comunali avevano deciso dovesse portare un nome senza sbavature di coerenza, e così l’avevano riempita di case popolari.

C’erano poche botteghe al piano terreno di quelle case, ma in una di queste i fratelli Valerio avevano installato un’officina. E in una primavera di non so quale anno sul marciapiedi davanti a quell’officina presero ad aggrumarsi, per sovrapposizioni successive che rispondevano ad un criterio a me ignoto, curiose ferraglie che non ricordavano niente di conosciuto.

Per qualche giorno non me ne curai, ma il fatto che non rientrassero in niente di catalogabile non poteva fare altro che spingermi a ficcare il naso.

A quell’epoca avevo cominciato a disertare la bottega di mio padre, dove avevo passato i più bei giorni della mia infanzia, e dove avevo classificavo tutta la materia del creato in due sole partizioni: da un canto il legno che è la materia nobile di cui sono fatte le cose che vale la pena di fare, dall’altro tutti gli altri materiali (fra cui il metallo) che servono solamente a dare al legno la sua forma.

L’invasione di elettrodomestici e automobili che aveva investito il paese aveva mandato a gambe all’aria anche le mie certezze e me ne aveva rivoltato tolemaicamente i riferimenti. Con una cinquantina d’anni di ritardo Marinetti aveva raccattato un ultimo adepto, e lo strepito del ferro e dei motori (ignari della brevità della stagione che avrei loro concesso) stavano proclamando la loro effimera signoria su di me.

 

Fatto sta che un pomeriggio qualcosa alitò sulla ferraglia, gli diede (almeno a me così sembrò) vita, e io riconobbi un pezzo di prua. Non so da cosa mutuassi l’archetipo della prua (nella mia testa l’album di ciò che va per acqua era del tutto vergine e l’idea platonica della barca non aveva ancora una sua cittadinanza) ma da quel giorno non ne trascorse più uno senza che corressi ad assistere al miracolo dei bagli, dei correnti, delle falchette che prendevano forma dal grumo primordiale.

Per mesi, fino a notte fonda, disegnai per aria e sul soffitto masconi e ruote di prua, certo di trovare nell’infinità delle linee possibili quelle assolute. Se l’indomani avevo idea che l’avanzamento dei lavori desse ragione ai miei deliri ne diventavo euforico, e se no riannodavo i fili da dove mi aveva vinto il sonno e ripartivo per una nuova sessione di progettazione virtuale.

Di questo nessuno ebbe mai sentore, e del resto di quello che mi succedeva nemmeno io ebbi ragione di sapere, né avrei potuto, visto che ti accorgi di esserti innamorato solo la seconda volta, quando sei in grado di dare nome alle cose, non la prima.

Porque has de saber, Sancho, si no lo sabes, que dos cosas solas incitan a amar más que otras; que son la mucha hermosura y la buena fama.

 

Non che ci fosse abbondanza di hermosura, o di buena fama. Il materiale si prestava per come poteva e i libri di architettura navale non erano di casa nell’officina dei Valerio. Così gli slanci di prua non promettevano di venire molto più arditi di quelli di una cassa per capitoni, e la tuga, squadrata, riecheggiava quella che mi ricordo dovesse essere la barca di Capitan Cocoricò (il Corriere dei Piccoli batteva ancora Cervantes, e non di poco, come fornitore di categorie e di immagini).

Ma ero pur sempre un caballero di primo pelo. era giudizioso che mi accontentassi di hermosuras ragionevoli. Quel che contava era che, se qualcuno l’avesse guardata senza la necessaria devozione, di certo non avrei mancato all’obbligo di sfidarlo sul campo dell’onore.

E in effetti questo fu quasi quel che accadde il giorno che sul marciapiedi corse voce (il cantiere era quasi alla fine) che lei, da motoscafo che era, si sarebbe mutata per esigenze di bilancio in barca a vela. Dal brutale rivolgimento che me ne venne, ebbi finalmente sospetto che la figlia del salumiere di San Rocco aveva perso la primazia nella causazione dei miei torcibudella, e che era stata raggiunta e appaiata dalla bella del marciapiedi di via del Popolo

L’ira mi scosse come una tempesta, mi montarono le fiamme al viso: avessi avuto un cavallo e una picca avrei inchiodato i Valerio alla porta della loro officina, avrei spezzato le catene che tenevano avvinta Dulcinea e l’avrei sottratta al suo destino da marciapiede. Accettare che le sottraessero -loro che di mestiere facevano i meccanici- la vita per cui l’avevano fatta nascere, mi riusciva insopportabile, e indigeribile l’idea che mai l’avrei vista planare sulle creste spinta dall’impeto dei suoi motori, condannata ad una vita di rassegnate andature e di quieti sciacquettii.

Ma alla latitudine a cui sono nato le procelle non hanno durata eccessiva, e la mia sostanza doveva apparentarmi più a Sancho che a Chisciotte, inducendomi a pensare che sono i piedi a portare le budella, e non le budella i piedi.

Sicché mi parve che la strada più dritta per sottrarmi al dolore fosse lo scioglimento della balzana bigamia: e quindi di scodarmi di Dulcinea e di occuparmi solo della figlia del salumiere.

La fatica non dovette essere sovrumana: la famiglia di Nicola era accogliente e i pomeriggi a casa sua diventarono un’abitudine che andò oltre il tempo della sua guarigione, e oltre le scelte delle rispettive famiglie che separarono le nostre carriere scolastiche. Sul tavolo di cucina Boniperti ed Altafini continuarono a correre per un pezzo.

 

L’unico filo che mi legava a Dulcinea era Achab. Sapevo bene che era entrato nel giro dei Valerio, e che era addirittura stato coinvolto nei lavori di finitura e messa a punto, ma c’era un motivo più solido dell’odio per i Valerio che mi impediva di percorrere quel filo.

Achab al tempo non si chiamava ancora così e tanto meno aveva assunto il ruolo di capovoga dell’otto di Oxford, ma era anni luce avanti a me su tutto. Per carità, eravamo già amici e andavamo al cinema interpretando poi le parti di una serie di western di cui non ricordo nulla, se non che lui poi faceva il trapper e io un pellerossa di nome Winnetoo.

Ma lui faceva tutto meglio di me: nuotava due volte più veloce, si tuffava da scogli alti il doppio, scendeva sott’acqua tre volte più di me e ci rimaneva per minuti interi. Io sapevo che le distanze erano incolmabili e non mi andava di stargli dietro dove lui non mi chiedeva di andare.

Quando però un giorno mi disse che la barca era pronta per un’uscita di collaudo, tutto questo non contò più niente, i miei cavalli di frisia si squagliarono sull’istante, e senza nemmeno rispondergli corsi all’imbarco..

E così fu che la rividi, e la riconobbi subito, anche se oggi quasi non me la ricordo. E non solo era bella come me la ricordavo, ma arrivai a considerare che persino il binario che le avevano messo in testa a foggia di albero le desse grazia.

 

I pomeriggi di maggio, fra l’Etna e il mare, possono valere da soli un’intera vita, e quello fra tutti fu il pomeriggio che più me la cambiò la vita.

Non c’erano polmoni a sufficienza per bere quell’aria di sale, di ruggine, di olio e di nafta (che, se non ad alimentare un motore che non c’era, almeno servivano a tenerla a bada, la ruggine) quel sentore di ferri d’officina, di canapa e di cime, di cotone bagnato e di vele.

Andava con un filo d’aria, senza troppi colpi d’ala, ma andava.. Risaliva il vento, non capivo ancora come, ma capivo che in qualche maniera lo faceva, e mi veniva da ridere e forse ridevo davvero. O forse no, non ho idea. Mai c’erano state ore così nella mia vita precedente, e quando, complice la bavetta da due soldi e l’olio che era il mare, presi possesso di barra e scotta di randa, immediatamente sentii che attraverso le mie mani lei rispondeva come se ci fossimo conosciuti da sempre.

Spingevo la barra lontano da me, e lei accennava a venire verso la direzione da cui veniva il vento, la tiravo a me, e lei se ne allontanava. Ma non faceva solo questo, le vele reagivano ai movimenti di lei, prendevano forma se mettevi d’accordo aria e timone, e le scotte si tendevano o si allentavano da sole, e sentivi che prendeva allegria o che s’acquietava, che andava ad appoggiarsi su un fianco o tornava a dondolarsi seguendo l’onda. Insomma sentivo che la barra del timone era molto di più di un manubrio di bicicletta, ché pure con la bicicletta ti ci sposi e lei ti segue e tu ti adatti alle sue traiettorie, ma la barca è una bicicletta per dieci e il mare è una strada dove il vento disegna percorsi invisibili ma più tassativi dei capricci dell’asfalto.

Non tutto doveva essere proprio come lo sentivo: la barra era di ferro, me lo ricordo bene perché un paio di volte me la presi nelle costole, il cigolio degli agugliotti aggricciava la pelle, la canapa sul palmo delle mani non era una carezza. Ma era appunto la pelle a comandare quel pomeriggio. E le budella, che assaporavano la loro vendetta su Sancho e sui suoi piedi. .

 

In tutto questo naturalmente il cervello c’entrava poco e niente, ma, quando per un momento gli si collegarono i fili, questa illuminazione ritenne di avere: che al tavolo da disegno della creazione, il Padreterno, dubbioso fino all’ultimo sulle options di carrozzeria, aveva deciso per la versione a due mani prensili (anziché a otto o a tre) perché una ci sarebbe servita a impugnare la barra e l’altra a regolare la scotta di randa, e fine della storia. E da questa rivelazione un’altra me ne derivò: che, se questo era il verbo, tutti gli uomini che andavano per mare tenendo la destra su un volante e la sinistra su una manetta, o anche viceversa, deviavano dal precetto divino e facevano peccato mortale.

Così, mentre Marinetti affondava dentro di me per mai più riemergere, i pesci volanti (e neanche quelli avevo visto mai) incominciarono a saltar fuori dalle crestine che l’ultimo refolo di brezza s’incapricciava a ricamare..

 

Fino a quando (il sole era appena scollinato oltre le pendici basse del monte e noi avevamo messo prua per la rada del Capo) qualcuno ci gridò di scapolare oltre le reti che avevano calato all’imboccatura della rada.

Non era che un mezzo miglio di strada in più, ma quel mezzo miglio si ingegnò a mettere in scena l’intero repertorio di tutto ciò che può succedere per mare. Il vento non si dovrebbe alzare al tramonto, e difatti non lo fa praticamente mai. Ma quel giorno lo fece. Ci saranno pure stati segnali premonitori, ma i Valerio erano meccanici di mestiere, io ero troppo perso dietro Dulcinea, e Achab non me lo ha mai detto se ebbe premonizioni.

Fatto sta che alla prima raffica che ci prese a levapelo mettemmo subito il boma in acqua, e nel minuto successivo ci mettemmo pure le vele. Uno dei Valerio, meccanico sì ma buon lettore di romanzi della filibusta, si lanciò sull’albero con un coltello da pane fra i denti e recise come poté le drizze. Poi si impaniò nella tela che gli cadeva addosso, e menando fendenti come Rinaldo all’Opera dei Pupi, animosamente liberò lui e noi del superfluo.

Io ebbi modo di rilasciare il diaframma che m’era salito due dita sotto il gargarozzo, ma non per questo rifiatai. Per le stesse ragioni per le quali dieci minuti prima avevo intuito che fra le mie mani e la canapa delle scotte poteva miracolosamente passare la mia volontà, e quasi il mio capriccio, di rallentare, accelerare, voltare a dritta e a manca, o proseguire per dritto, sentii che lei, priva delle sue appendici aeree, tornava ad essere Aldonza, un pezzo di ferraccio che diventava più pesante ad ogni ondata che cominciava a rompere dentro al pozzetto. E, più che sentire, lucidissimamente mi resi conto che le scogliere di Capo Sant’Anna, sempre più ferrigne sotto le prime sciabolate del faro a cui fanno da cippo, non si sarebbero aperte come ebbe grazia di fare la banchisa davanti al brigantino senza governo di James Ross.

 

Ci fosse stato spazio e numero di uomini adeguato, avrei detto che sui ponti era un fervore di gente che correva e si radunava, un vocio di ordini e di richiami che sovrastava il sibilio del vento e il frangere delle onde sulle murate. Quando sull’agitazione finalmente sovrastò una voce, e tornai alle dimensioni della tinozza che mi imbarcava, mi resi conto che l’unico ordine che avrebbe potuto avere un senso era stato dato, e che bisognava mettere insieme tutta la cima possibile per dare fondo.

Ma le coste che vanno dallo Stretto all’Etna non sono coste da atollo. Non hanno nessuna gana di discutere con il mare sulla proprietà di quella terra di nessuno che molto spesso, specie dove ci sono le maree, cambia di appartenenza con disinvoltura da voltagabbana. E così, una volta incontrata l’acqua, se ne vanno giù dritte per non darle confidenza, che se sei a cento metri da riva ti trovi già duecento braccia d’acqua sotto. Insomma se vuoi ormeggiare a qualche lunghezza dagli scogli, e hai esigenza di dare un calumo cristiano per non spedare dopo un sospiro, sei obbligato a filare in acqua mezzo miglio di materiale.

Se ce l’hai. E se non ce l’hai te lo devi inventare. Così, esaurita la cima dell’ancora, le demmo dietro le scotte, e, finite le scotte, i mozziconi delle drizze, e, finiti questi, le draglie delle battagliole, e tutto quello che aveva forma e sembiante (anche se non sostanza) di cosa che potesse reggere. Alla fine, ci si può credere o no, visto che continuavamo ad andare per scogliere che pareva avessimo buttato una nassa al posto dell’ancora, qualcuno trovò in sentina una dozzina di metri di fil di ferro, ci fece alle estremità due occhielli con le pinze e ci passò dentro i mozziconi di cima rimasti.

 

All’ancora, che di certo caprioleggiava sul fondo da un pezzo, le si dovettero allegare i denti per quel sentore di metallo che sentì arrivare attraverso la canapa, così ristette un momento allarmata, e finì per farsi fregare andando a incocciare le marre in qualche scoglio. Noi sentimmo arrivare lo strappo, provvidenzialmente attutito dalla lunghezza dell’ormeggio, e aspettammo che la prua si mettesse al mare e la barca trovasse da acquietarsi per quanto poteva. Poi cominciammo a contare i primi cinque minuti, perché pensammo che se avesse tenuto per cinque minuti avremmo potuto trarne auspici per il resto della nottata.

E siccome passare la nottata a ballare sotto il faro non era tanto una prospettiva quanto il meglio che potessimo sperare, non trovai da fare niente di meglio che cominciare a sudare freddo. Non erano tempi che uscivi di casa e non davi notizie della tua sorte. Questo come condizioni generali: nello specifico, mio padre mi aveva chiesto di rientrare puntuale a cena perché c’erano ospiti. E mio padre, che chiedeva solo il ragionevole e solo il possibile, non aveva necessità di raccomandarsi, tanto meno di ordinare. Insomma: mia madre avrebbe avuto una crisi di panico, e va bene. Ma lui, che sapevo non avrebbe perso il decoro, si sarebbe rappresentato in silenzio le ipotesi più catastrofiche. E pensavo non lo meritasse.

La perfidia di Achab gli ha fatto raccontare per tutta la vita che, quando apparvero il verde e il bianco delle luci di via di un peschereccio che dirigeva per Trezza, io riuscìì a fare sentire le mie invocazioni di aiuto al di sopra dei frangenti e dei diesel spinti a pieno regime. La verità è che di gridare me lo ordinarono: all’epoca ero noto per una potenza di voce fuori dall’usuale, e la utilizzavo per zingarate notturne nelle quali simulavo tutte le gamma di schiamazzi concepibili, dalle sirene di ambulanze e polizia, all’Urlo del Terrore di Mezzanotte che-ha colpito-ancora.

Non so come fecero a vederci, neri sullo sfondo della scogliera nera, ma il faro che continuava a saettarci paterno sulle teste dovette fare la sua parte.

Del resto il corso di Marinai-in–una-notte era stato organizzato seriamente, così imparai anche che, in quelle condizioni di mare, una natante non accosta a murata per passare un cavo di rimorchio, ma lo lancia navigando a distanza di sicurezza. Alla luce delle lampade di crocetta, con gli occhi che si bevevano ogni gesto di quell’Arcangelo Gabriele, vidi perciò uno dei marinai che adugliava la cima, ne lanciava le spire verso di noi, recuperava e ricominciava da capo per le tre accostate complete che dovettero fare prima che riuscissimo ad acchiappare il rimorchio.

 

La rada del Capo è magnificamente ridossata a tutto ciò che non sia scirocco, e, andare alla boa in un’acqua che era ridiventata amica e innocente, mi imbrogliava le lenze, perché non riuscivo a capire se era giusto sentirsi mortificato dal salvataggio senza merito, se sarebbe stato più commendevole avere una targa in memoria sul basamento del faro, o se potevo godermi la misurata soddisfazione di averla scampata senza pagare dazio.

I Valerio, che erano brava gente, misero subito Achab e me in franchigia sebbene di lavoro sulla barca ce ne dovesse essere. Ci traghettarono a terra uno alla volta, con un canottino marca Upim cha aveva un’autonomia pneumatica di un centinaio di secondi e che bisognava rigonfiare ad ogni tratta.

 

Credo che si fosse fatta mezzanotte, e di mezzi pubblici a quell’ora non c’era nemmeno il concetto. In compenso, di chilometri per le nostre case ce n’erano tanti.

Ne bastarono un paio, perché prima della chiesa delle Grazie accostò una macchina. Era mio padre, che con un amico batteva la costa da ore. Non ho mai saputo come avesse fatto a intuire che ero per mare, io non glie lo chiesi e lui non me lo disse. Disse soltanto, con la voce tranquilla di tutti i giorni: andiamo a casa, ti aspettavamo per cena.

Modificato da marat
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Visitatore Marcuzzo
Che siate Cavalier Errante, o semplice scudiero, Monsieur Marat, la vostra penna carezza i fogli con una leggiadrìa senza pari!!

 

 

:s20: :s20:

 

Quoto in pieno Silviuzzo!!! :s20: :s20: :s20:

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