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Maginot Alpina - Saint Roch


walter leotta

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PER CHI VOLESSE FARE UNA GITA NELLA ZONA DI SOSPEL, SOPRA CANNES, CONSIGLIO LA VISITA DEL MUSEO DI SAINT ROCH, UNA DELLE POCHE OPERE DELLA MAGINOT ALPINA TRASFORMATA IN MUSEO. MERITA CERTAMENTE UNA VISITA

 

WALTER LEOTTA

 

 

 

 

Al termine della Seconda Guerra Mondiale si pose il problema di cosa fare delle numerose opere della Linea Maginot costruite durante gli Anni Trenta. Lo Stato Maggiore ne discusso a lungo, ipotizzandone un impiego ancora come fortificazione classica - ovviamente tenendo conto delle capacità delle nuove armi - e, più semplicemente, come posti comando protetti. La guerra di Algeria con il suo gravoso impegno economico pose fine a qualsiasi progetto di trasformazione tanto che nel 1965, nel corso di un dibattito televisivo, la nazione venne messa al corrente del definitivo abbandono della Maginot. Fino a che le strutture rimasero di proprietà dell’Armée de Terre lo stato di degrado fu contenuto poi, una volta dismesse, si ritrovarono alla mercé di vandali e cacciatori di souvenirs oppure utilizzate per scopi meno nobili e trasformate, ad esempio, in semplici depositi da occasionali occupanti.

Di Maginot si ritornò a parlare qualche anno più tardi quando a livello nazionale, anche su sollecitazione delle associazioni d’arma e reduci, fu nuovamente posta la questione di come utilizzare quegli ammassi di cemento armato che caratterizzavano lunghi tratti dei confini nazionali. Così come accadeva nei grandi campi da battaglia della Prima Guerra Mondiale oppure per le spiagge della Normandia, la consapevolezza dell’esistenza di un turismo storico-militare, oltre alla necessità morale di preservare valori e avvenimenti che avevano caratterizzato la storia del Paese, facilitò il recupero di alcuni complessi e la trasformazione in entità museali.

Per quanto riguarda la frontiera italo-francese, la collaborazione instauratasi tra esercito, municipalità e associazioni di appassionati ha portato alla nascita di due musei veri e propri: il Fort de Saint Gobain di Modane e il Fort de Saint Roch di Sospel. La visita delle opere, aperte nei mesi primaverili ed estivi grazie a volontari, fornisce una precisa idea delle potenzialità della linea fortificata oltre a uno spaccato sulla quotidianità delle migliaia e migliaia di soldati che ne formavano gli equipaggi.

La storia del dopoguerra del Saint Roch rispecchia quanto appena descritto. Dismesso dall’esercito negli anni Settanta, fu ingloriosamente “declassato†a fungaia da un agricoltore della zona prima del decisivo intervento di un gruppo di appassionati - costituitasi in associazione nel 1984 - che ne ha curato il restauro, giungendo nell’aprile del 1990 all’inaugurazione del museo. Il complesso sotterraneo è oggi visitabile in ogni sua parte, il materiale presente è quello originale, successivamente impreziosito dall’allestimento di alcuni spazi con armi, uniformi e materiali del conflitto ma non solo, come testimonia la presenza di un obice Oto Melara da 105 mm in dotazione fino alle soglie del Duemila all’Esercito Italiano. Sempre di provenienza nazionale è il cannone da 149 mm appartenente al Regio Esercito, abbandonato per decenni ai duemila metri di quota del monte Mangiabo nei pressi della stessa Sospel.

Realizzato tra il novembre 1930 e il dicembre 1934, con un costo di 12.669.000 franchi, diventato operativo nel biennio 1935-36, l’Ouvrage Mixte de Saint Roch dipendeva dal Settore Fortificato delle Alpi Marittime [sFAM] e insieme alle opere di Agaisen, Barbonnet, Brouis e Mont Gros contribuiva alla difesa del Sottosettore di Sospel. L’armamento principale - composto da un cannone obice da 75 mm, quattro mortai da 81, cinque mitragliatrici gemellate da 7,5 mm - doveva servire a impedire l’accesso delle truppe avversarie ai valloni di Bevera e Merlancon, alla sorveglianza dell’uscita meridionale del tunnel ferroviario del monte Grazian, concorrere alla protezione della vicina opera dell’Agasein.

A differenza delle fortificazioni del Nord-Est dove non si ponevano problemi di spazio e al pari invece delle altre strutture alpine, Saint Roch era caratterizzato da un unico blocco d’entrata - il blocco numero 1 - per l’accesso di uomini e materiali, per la cui difesa vi erano due cupole corazzate [una per fucile mitragliatore e l’altra per lanciagranate], i fucili mitragliatori del corpo di guardia dotato di due feritoie, e l’immancabile fossato antistante l’ingresso con tanto di ponte levatoio da sei tonnellate [entrata materiali] e passerella asportabile [entrata uomini].

Il presidio era composto da 215 uomini appartenenti al 75ème Battaillon Alpine de Forteresse [bAF] e alla 10ème batterie del 158° Regiment d’Artillerie de Position [RAP] al comando del capitano Lindenmann. Le condizioni degli uomini che ne componevano l’equipaggio - l’utilizzo del termine non è casuale in quanto la vita all’interno del complesso era molto simile a quella dei sommergibilisti - erano alquanto difficili, anche per gli standards dell’epoca: così come nei battelli subacquei, nel forte vi erano due cuccette ogni tre militari in quanto un terzo del personale, suddiviso appunto in turni giornalieri di otto ore, era sempre operativo. L’igiene personale era di difficile praticabilità: il numero dei lavabo era veramente ridotto ai minimi termini - appena 12 - ma soprattutto non vi era nè acqua calda nè tantomeno docce. Persino l’utilizzo del gabinetto era strettamente regolamentato: non più di 10 fogli di carta igienica alla volta! In mancanza del locale mensa - soluzione tipica delle opere Maginot - il pasto, preparato dalla cucina interna, era consumato nei dormitori su tavolette di metallo agganciate alla parete. L’unico svago concesso - se così può essere definito - era rappresentato dalla sala cinematografica, costruita a fianco dei depositi munizioni. Isolati in ambiente sotterraneo e nelle condizioni descritte, non stupisce che l’esercito francese dovette fare fronte a numerosi casi di “sindrome da betonite†che colpiva indistintamente tutti i reparti.

Dopo aver superato il blocco numero 1 e la porta corazzata interna dotata di feritoie, il complesso era caratterizzato da un corridoio centrale - costruito a una profondità di 28 metri - lungo circa 300 metri sul quale si affacciavano numerosi locali: l’infermeria per il trattamento dei casi meno gravi; l’officina meccanica con tornio, pressa e saldatore; la centrale elettrica con tre gruppi autogeni da 125 Kw, funzionanti con motori diesel che consumavano 15 litri di carburante all’ora e raffreddati ad acqua prelevata da una cisterna di 30.000 litri; la riserva d’acqua generale di 65.000 litri, contenuta in tre cisterne, necessaria per i fabbisogni di tre mesi; il locale caldaia, a legna o carbone, che manteneva la temperatura interna a 18 gradi. Tra l’altro il forte disponeva di due distinte sale di ventilazione destinate a proteggere il personale da attacchi chimici mentre la pressione interna era leggermente superiore a quella esterna per consentire l’evacuazione dei fumi. Ovviamente presente anche una centrale telefonica per mantenere i collegamenti con i comandi in superficie.

L’intero asse centrale era percorso dalle rotaie di un trenino elettrico del tipo Decauville a scartamento ridotto [60 centimetri] con un autonomia di quattro ore e una portata massima di 1.000 chilogrammi alla velocità media di 15 chilometri orari. Il corridoio terminava con un piano inclinato di 45 gradi, una sorte di teleferica, che conduceva ancora più in profondità dove erano stati realizzati i depositi di munizioni [il personale aveva invece a disposizione un’attigua scala di un centinaio di gradini], ricavati nei pressi del blocco da combattimento.

Quest’ultimo, blocco numero 4, era articolato su due livelli. Al primo erano installati i mortai da 81 mm [3.000 metri di gittata, 15 colpi al minuto] destinati a proteggere il forte dell’Agaisen e l’accesso al vallone di Bevera mentre al secondo si trovava il cannone da 75 mm [12.000 metri, 30 colpi al minuto] perennemente puntato contro l’uscita del tunnel ferroviario distante appena 6 chilometri. Completavano la dotazione cinque mitragliatrici gemellate Reibel da 7,5 mm del raggio di 1.200 metri con una cadenza di tiro di 750 colpi al minuto. A disposizione del personale era presente un montacarichi, della portata anch’esso di 1.000 chilogrammi, che serviva al trasporto delle munizioni dai magazzini, situati 18 metri più in basso.

Il blocco 3 era destinato all’osservazione e alla regolazione del tiro dell’artiglieria tramite gli appositi periscopi. I dati raccolti venivano comunicati al posto di comando dell’artiglieria che li rielaborava e li inviava al blocco da combattimento tramite telefono o mediante un trasmettitore meccanico. In caso di urgenza o di avaria alla centrale, il blocco 3 poteva comunicare direttamente con i serventi attraverso un tubo acustico della lunghezza di 300 metri. Per ultimo vi era il blocco 2, il meno importante, armato di una cupola corazzata per periscopio e di un semplice fucile mitragliatore 24/29 per la sorveglianza della strada d’accesso al forte e del blocco di osservazione.

 

 

A differenza di quasi tutte le opere Maginot presenti nel Sottosettore di Sospel, il Saint Roch non ebbe l’occasione di sparare un solo colpo contro le unità italiane impegnate nell’offensiva su Nizza: bersagliati con tremenda efficacia dai potenti cannoni dei forti situati più a nord, i reparti attaccanti rimasero infatti sempre al di fuori della portata - invero scarsa - dei pezzi in dotazione alla fortificazione del comandante Lindenmann.

Nell’ambito dell’articolato sistema difensivo dello SFAM, al Saint Roch fu affidata una missione secondaria, forse di importanza non così elevata da giustificare la realizzazione di un’opera di questo livello. Questo ovviamente con il senno di poi.

Modificato da walter leotta
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