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L'ultima Carica A Cavallo Italiana


Visitatore Kashin

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Visitatore Kashin

L’Armir ( ARMata Italiana in Russia ) era arrivata da poco sul DON quando l’attacco dei Russi inizio sul fronte Della Sforzesca, la situazione disperata intorno la collina Izbusenskij, il Colonnello Alessandro BETTONI ordino’ la carica al 2° Squadrone del Capitano De Leone.

Poi attacco il 4° , appiedato , e poi al galoppo il 3°, del Capitano ABBA . Fu un suicidio da leggenda .

Questa l’ultima carica del SAVOIA CAVALLERIA (600 Uomini e 600 Cavalli)

24 Agosto 1942-

 

P.S. Il Reggimento è uno dei più antichi e gloriosi della Cavalleria italiana.

Le sue origini risalgono alla fine del ‘600.-

 

 

savoiacavalleriadrapponu6.jpg

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In realtà, secondo molti, a rigore l'ultima azione di cavalleria dovrebbe essere considerata la meno nota carica di Poloy (Croazia), avvenuta il 17 ottobre 1942 ad opera del reggimento "Cavalleggeri di Alessandria", inquadrato nella 1a divisione celere "Eugenio di Savoia".

 

Tra morti e feriti, 9 ufficiali, 4 sottufficiali, 116 soldati e 160 cavalli...

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Visitatore Kashin
In realtà, secondo molti, a rigore l'ultima azione di cavalleria dovrebbe essere considerata la meno nota carica di Poloy (Croazia), avvenuta il 17 ottobre 1942 ad opera del reggimento "Cavalleggeri di Alessandria", inquadrato nella 1a divisione celere "Eugenio di Savoia".

 

Tra morti e feriti, 9 ufficiali, 4 sottufficiali, 116 soldati e 160 cavalli...

 

Infatti io non la conoscevo anche se non faccio testo; non sono un esperto di cose in Grigio/Verde .....!!!!!

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Visitatore Kashin

Ovviamente approfondiro' anche con l'aquisto di qualche lbro del USEI......fermi a pochi volumi sulla guerra di Spagna aquistati per avere info sui reparti di mio padre che partecipo oltre al II WW anche alla Guera Spagnola....aquistare libri mi da' soddisfazione anche se le librerie scricchiolano e vengono aumentate di capienza e numero ...... :s03: :s03: :s03:

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Allora, il capitano Petroni, com.te del primo squadrone fù decorato di medaglia d'argento al valor militare alla memoria (morì caricando il nemico).

Di altri non so il nome, ma so per certo che per l'azione furono assegnate 12 MAVM, parecchie MBVM e croci di guerra. Non so se la bandiera di guerra fu decorata di Medaglia al Valor Militare, tuttavia la decorazione avrebbe dovuto essere praticamente automatica visto che il Reggimento caricò con lo Stendardo e il comandante in testa al reparto (almeno secondo le consuetudini dell'epoca almeno la MAVM al reparto avrebbe dovuto essere assegnata).

Ciao

Ursus

 

P.S. Altri decorati per quel valoroso episodio:

 

Capitano Antonio Vinaccia, Comandante del 4° Squadrone, Medaglia d'Argento al V.M. (alla memoria)

Capitano Gian Galeazzo Bernabò Medaglia d'Argento al V.M. (alla memoria)

Tenente Mario Novi-Ussai, Medaglia di Bronzo al V.M. (alla memoria).

 

La bandiera di guerra del reparto NON è stata decorata di alcunchè (grandissima ingiustizia)

Modificato da Ursus Atlanticus
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Visitatore Perla

Riguardo alla carica del Savoia Cavalleria, ho sentito raccontare da mio zio che aveva combattuto durante la spadizione in Russia (era Alpino, sergente del Battaglione Mondovì) che quegli eroi si lanciarono alla carica.....a cavallo contro i CARRI ARMATI nemici..... :s67:

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Grazie per questo Post , che mi fà tornare indietro negli Anni, forse pochi o nessuno sà che ho prestato Servizio durante il Militare nel Savoia Cavalleria in stanza a Merano e ho iniziato a conoscere la Storia del Reggimento e voglio aggiungere solo...

 

Che la cavalleria, si guadagnò di fatto un ruolo operativamente significativo nella campagna di Russia: e alle unità come Savoia cavalleria va soprattutto il merito di essersi sapute ambientare in uno scenario così ostile e così diverso da quello di origine, senza perdere di capacità combattiva, inoltre le cariche alla sciabola rappresentavano l'aspetto più sintomatico ed evidente di una cultura militare profonda, che affondava le sue radici in un passato preunitario, addirittura cavalleresco.

 

Questo è un copia incolla di un documento Salvato tempo durante le mie ricerche sun corpo dei Savoia Cavalleria.

 

Lo squadrone fantasma

 

Nel novembre del '41, il capitano Dario Manusardi, bergamasco(Uomini duri :s01: ), era da poco rientrato nel Savoia, dopo un periodo di malattia, riprendendo il comando di uno squadrone. Avendo frequentato la scuola di guerra, i suoi superiori avrebbero preferito averlo con sé, ma Manusardi era stato irremovibile: voleva il fronte.

 

E il fronte ottenne dai suoi superiori, che non gli risparmiarono i rimproveri ricordandogli che "Lo stato spende denari in questa scuola perché chi è passato di qui vada a portare il suo bagaglio di esperienze presso i comandi, non perché vada a farsi ammazzare alla testa di una compagnia al primo assalto".

 

Ma Manusardi non cambiò idea e ventiquattro ore dopo aver riottenuto il comando sul campo gli fu assegnata una missione speciale e particolarmente difficile.

 

Il comandante dello CSIR (Corpo di spedizione italiano in Russia), Messe, era preoccupato per un enorme varco che era rimasto aperto tra le divisioni "Celere" e "Torino".

 

Data la scarsità delle forze disponibili, non c'era altra possibilità che affidare ad un contingente di cavalleria il difficile compito di tenere i collegamenti tra le due grandi unità, pattugliando il territorio e svolgendo contemporaneamente attività esplorativa e di saggio dello schieramento avversario. Venne così costituito lo squadrone di formazione "Savoia" al comando di Manusardi.

 

La neve era già caduta, il termometro aveva già raggiunto gli zero gradi (per precipitare velocemente verso i -30), le carte disponibili erano lacunose, le fattorie dove cercare il nemico o trovare riparo distanti chilometri l'una dall'altra.

 

Per più di un mese, Manusardi e suoi operarono in queste condizioni tremende, portando a termine con successo il proprio compito e guadagnandosi l'appellativo di "squadrone fantasma". Le parti tra italiani e cosacchi si invertirono: furono questi ultimi a dover temere le incursioni della nostra cavalleria, a non poter dormire tranquilli persino nelle più sperdute isbe delle retrovie, e dovettero intraprendere, senza successo, massicce azioni di contenimento.

 

Manusardi venne promosso maggiore, ma era destinato ad un altro appuntamento. Il giorno di Isbuscenskij prese in "prestito" (letteralmente rubò) il cavallo del proprio generale (il suo era stato ucciso due giorni prima durante un altro scontro) e partecipò alla carica del suo originario 2o squadrone, guidandolo in prima persona quando il capitano De Leone, il nuovo comandante, venne prima appiedato e poi ucciso.

 

Motto del Savoia Cavlleria.

 

"Savoye, bonnes nouvelles"

 

Onore a tutti Loro.

 

Un pò di Storia

 

Nascita del Savoia Cavalleria

 

Savoia Cavalleria nasce il 23 luglio 1692, nello stesso giorno della costituzione di Piemonte Reale, per volere del duca Vittorio Amedeo II di Savoia. Sono gli anni della guerra della lega di Augusta (1690-1697) con Austria, Spagna, Inghilterra e Olanda coalizzate contro la Francia di Luigi XIV, il re Sole. Dopo essersi consultato con il cugino principe Eugenio di Savoia, maresciallo dell'impero austriaco, Vittorio Amedeo II scende in campo contro la Francia.

Nell'estate del 1693 Savoia Cavalleria è già impegnato nelle operazioni relative all'assedio di Pinerolo occupata da forze francesi; combatte in particolare a Marsaglia dove, con altri reggimenti di cavalleria, impedisce che l'armata del maresciallo Catinat colpisca alle spalle le truppe piemontesi impegnate nell'assedio. Il successo dell'operazione vale al Piemonte, con la pace firmata il 1697, la liberazione di Pinerolo e altre città. Il 22 novembre 1699 le solite economie di bilancio impongono lo scioglimento di Savoia Cavalleria, che cede i suoi uomini a Piemonte Reale e ai Dragoni di Sua Altezza Reale.

 

Non passano due anni che un'altra guerra porta con sé nuove alleanze e l'esigenza di rinforzare i ranghi; si ricostituisce così il 14 aprile 1701 Savoia Cavalleria su 4 squadroni di 2 compagnie, ciascuna di 50 cavalli. Combattendo questa volta contro l'Austria, Savoia si distingue a Chiari il 1° settembre 1701 e a Luzzara il 15 agosto 1702. L'evento più significativo di questa guerra si verifica nel 1703 in Lombardia a S. Benedetto Po dove è schierato un contingente franco-piemontese.

 

Vittorio Amedeo II è irritato dalla prepotenza degli alleati francesi e il re Sole, nel timore che il duca passi alla parte avversa col principe Eugenio, il 29 settembre fa circondare le truppe piemontesi col pretesto di una rassegna. Confiscati i cavalli e le armi, ufficiali e soldati vengono portati a Pavia, da dove riescono tuttavia a fuggire e rientrare in Piemonte. A ricordo di questo episodio, il motto "Secta et ligata refloret" compare sullo Stendardo del reggimento che, prontamente ricostituito, dovrà tuttavia aspettare l'anno seguente per riavere i cavalli.

 

Un episodio successivo è invece all'origine del motto. Il quadro politico-strategico, nuovamente mutato, vede il ducato di Savoia dichiarare guerra alla Francia alleandosi con l'Austria. Le operazioni si svolgono in Piemonte e culminano con il celebre assedio di Torino del 1706. Il 17 giugno Vittorio Amedeo II lascia a presidio della città il generale Daun e continua a fronteggiare i francesi in tutta la regione con azioni audaci e manovriere dei suoi reggimenti di cavalleria.

 

Respinto il 30 agosto con il sacrificio di Pietro Micca un ulteriore tentativo dei Francesi di penetrare in città, Vittorio Amedeo II sale in ricognizione sul colle di Superga per decidere le operazioni che dovranno rompere l'assedio; in quella circostanza formula il voto di erigere la famosa Basilica in caso di vittoria. Le fasi decisive della battaglia hanno tra i protagonisti un porta-ordini di Savoia.

 

Nella zona di Madonna di Campagna, facendosi largo tra gli avversari per informare Vittorio Amedeo II degli sviluppi favorevoli dell'azione, riceve un fendente che gli squarcia la gola; riesce ugualmente a portare al suo sovrano la notizia, accolta con l'esclamazione "Savoye Bonnes Nouvelles", che diventerà il motto del reggimento. La cravatta bianca dell'eroico porta-ordini, macchiatasi di sangue, sarà adottata sull'uniforme come simbolo distintivo, ancor oggi in uso, con il colore rosso.

 

Liberata Torino, la guerra prosegue e Savoia combatte a Tolone, nella Savoia e nel Delfinato; nel 1712 respinge definitivamente i francesi a Villanovetta presso Saluzzo. Il trattato di Utrecht del 1713 sancisce la sovranità di Vittorio Amedeo II sui territori del Piemonte e la sua incoronazione a re di Sicilia. Dopo un periodo di pace e di consolidamento delle istituzioni militari, il Piemonte, divenuto nel frattempo regno Sardo-Piemontese, scende in campo contro l'Austria nella guerra per la successione al trono di Polonia.

 

Francia e Spagna affidano al re Carlo Emanuele III il comando delle operazioni in Lombardia. Savoia si distingue ancora una volta per una circostanza in cui il valore intrinseco del fatto si arricchisce di una espressione simbolica. Durante la battaglia di Guastalla, il 19 settembre 1734, quando il re chiama la cavalleria a sventare un contrattacco austriaco, gli uomini di Savoia caricano ripetendo il grido "Savoia!" che per primo aveva lanciato il loro comandante, colonnello Vittorio di Castellinaldo. Nasce così il grido di guerra che accompagnerà per oltre due secoli i nostri reggimenti.

 

Nel 1742 il regno Sardo-Piemontese si allea con l'Austria contro Spagna e Francia per evitare il ritorno del dominio spagnolo in Lombardia. Numerosi i fatti d'arme in cui Savoia si distingue; un episodio tra i tanti è quello dell'aiutante maggiore Vacca di Piozzo che l'8 febbraio 1743 in località Camposanto presso Modena pone in salvo i timpani del reggimento a prezzo della sua vita.

 

Dopo la stasi operativa nella seconda metà del '700 e gli eventi del periodo napoleonico che avevano determinato lo scioglimento del reggimento, il fervore della ricostituzione è condizionato dalla disponibilità di quadrupedi idonei per numero e taglia, cosicché Savoia nel 1819 transita nella specialità leggera, col nome di "Cavalleggeri di Savoia"; solo nel 1832 saranno ripresi denominazione e ordinamento originali.

 

Nella 1^ Guerra di indipendenza Savoia si distingue inizialmente a Pastrengo il 30 aprile 1848, poi il 6 maggio a S. Lucia alle porte di Verona e il 30 maggio a Goito. Il 24 luglio nel vallone di Staffalo presso Sommacampagna gli squadroni di Savoia catturano 400 uomini e il sergente Michele Gardino riesce a impadronirsi della Bandiera del reggimento Wimpffen dell'arciduca Ernesto. L'anno successivo Savoia si distingue a Mortara e a Novara tra il 21 e il 23 marzo.

 

Nella 2^ Guerra di indipendenza è da ricordare in particolare l'episodio del 12 maggio 1859 a C. Stra presso Vercelli dove un plotone di Savoia mette in fuga una pattuglia di ussari meritando 6 medaglie di Bronzo individuali. Il 24 giugno 1866 a Custoza, 3^ Guerra di indipendenza, Savoia si distingue nei combattimenti di Villafranca, protrattisi con ripetute cariche fino a notte per consentire il ripiegamento del grosso a ovest del Mincio.

 

Dopo la partecipazione alla breve campagna per la presa di Roma, Savoia festeggia nel 1892 a Verona il bicentenario della sua fondazione con gare di tiro, corse e un torneo storico svoltosi nell'Arena. Giosuè Carducci compone una sintetica storia del reggimento conservata in una pergamena firmata dall'autore.

 

Nella 1^ Guerra mondiale Savoia viene inizialmente impiegato per la vigilanza delle rive del Tagliamento e costituisce la 1497^ compagnia mitraglieri, le cui sezioni si distinguono sul Carso e a Passo Buole. Dopo aver partecipato alle operazioni per la liberazione di Gorizia (agosto 1916), nelle giornate di Caporetto contribuisce a proteggere la ritirata della 2^ armata alla Croce del Vinchiaruzzo (Pordenone). Il 3 novembre 1918 una pattuglia comandata dal ten. Baragiola entra per prima in Udine suscitando l'ammirazione della cittadinanza e meritando la Medaglia di Bronzo al Valor Militare allo Stendardo.

 

Nella 2^ Guerra mondiale Savoia partecipa alle operazioni sul fronte occidentale e su quello italo-jugoslavo; nel luglio 1941 parte col C.S.I.R. per il fronte russo. Numerose azioni condotte in tutto il mese di ottobre valgono allo Stendardo la seconda Medaglia di Bronzo. Nell'estate del 1942, al comando del colonnello Bettoni Cazzago, Savoia scrive pagine di gloria coronando il 24 agosto la sua storia "a cavallo" con la carica di Isbuschenskij: lo Stendardo viene decorato di Medaglia d'Oro al Valor Militare.

 

L'eroismo degli uomini di Savoia continua nei mesi successivi con i contributi forniti agli alpini dal 5° squadrone mitraglieri (cade il capitano Corinaldi, comandante di squadrone) e dal 1° squadrone di formazione, quasi completamente distrutto. Nel gennaio del 1943 inizia la dolorosa ritirata.

 

La ricostituzione del dopoguerra inizia a Milano nel 1946, sotto il nome di "3° Cavalieri"; due anni dopo la denominazione cambia in "Gruppo di Cavalleria Blindata Gorizia". Solo nel 1958 sarà concesso al reggimento di riprendere il suo antico nome.

 

 

 

 

 

Armando

Modificato da duval
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I ricordi meranesi di Duval mi fanno sovvenire un simpatico episodio avvenuto una trentina d'anni fa.

A Merano convivevano il Savoia Cavalleria e gli Alpini dell'Orobica. Naturalmente era usanza che gli Ufficiali dei rispettivi Circoli invitassero la...controparte alla festa di gala del proprio corpo.

E così avvenne che una sera alcuni Ufficiali del Savoia, invitati dai colleghi Alpini alla "festa verde", si presentassero in maniera invero snob, in tenuta da equitazione, sbattendo il frustino sugli stivali e facendo tintinnare gli speroni. Come a rimarcare la differenza tra la Cavalleria e le penne nere.

La vendetta non si fece attendere.

Alla successiva festa del Savoia, gli Ufficiali Alpini si presentarono sì in divisa da sera, ma con corda a tracolla e sbattendo ritmicamente la piccozza sugli scarponi (tra la disperazione dei rispettivi colonnelli).

 

L'ideatore della vendetta fu un capitano alpino, poi divenuto generale, che chiameremo X.

Il capitano X era quello che si fece portare la 500 al primo piano della caserma, per girare a suo piacimento nelle camerate della truppa (che lo idolatrava).

Da comandante di compagnia, fu protagonista dell'epica serata di gala in cui ogni compagnia del battaglione avrebbe presentato un'artistica maxi-riproduzione del proprio stemma. Ora, la compagnia del capitano X non aveva uno stemma "ufficiale", ma aveva, come quasi tutte, un soprannome. Che era, ahimè non si può scrivere per intero, "La Ca**uta".

E ahimè, alla serata di gala al Circolo, venne presentato dall'orgoglioso capitano X lo stemma nuovo fiammante della propria compagnia, pienamente rispondente al motto.....

 

GM Andrea

Modificato da GM Andrea
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Mi permetto di segnalare che l'affermazione "fu un suicidio da leggenda" andrebbe rivista.

Ecco un pò di notizie, estratte da

http://www.netwargamingitalia.net/storia-m...cavalleria.html

 

Sul "suicidio da leggenda":

"Il bilancio delle perdite, pur doloroso, fu contenuto, da un punto di vista militare: 32 cavalieri morti (dei quali 3 ufficiali) e 52 feriti (dei quali 5 ufficiali), un centinaio di cavalli fuori combattimento.

I sovietici lasciano sul campo 250 morti e accusarono 300 feriti e 500 prigionieri, oltre ad una cospicua mole di armi (decine di mitragliatrici e mortai, svariate centinaia di fucili e mitra)."

 

Sul valore tattico dell'azione:

"L’azione, coraggiosa quanto audace, aveva portato, soprattutto, all’allentamento della pressione dell’offensiva russa sul fronte del Don ed aveva consentito il riordino delle posizioni italiane, salvando migliaia di soldati dall’accerchiamento.

Il Reggimento ebbe la medaglia d’oro allo stendardo, furono concesse due medaglie d’oro alla memoria, due ordini militari di Savoia, 54 medaglie d’argento, 50 medaglie di bronzo, 49 croci di guerra, diverse promozioni per merito di guerra sul campo."

 

Sulle conseguenze in termini di immagine:

"La carica di Isbuschenskij ebbe subito una vasta eco, destando ammirazione anche fra i tedeschi alleati ed i nemici sovietici. Un ufficiale tedesco commentò: “noi tali cose non le sappiamo più fare!†e certamente non si può dire che l’alleato sia stato eccessivo nelle lodi visto che raramente ha sottolineato una positiva condotta delle truppe italiane."

 

Insomma, a me sembra che sia stata una azione ben condotta, tenuto conto che si doveva improvvisare (se leggete la pagina al link riportato sopra potrete farvi la vostra idea), e che ha dimostrato - ancora una volta - che le "leggende" negative sui nostri soldati, sulla nostra gente e - in definitiva - sul nostro Paese sono ingiuste e infondate.

 

Altro link, con bibliografia: http://www.storico.org/Savoia-cavalleria.htm

 

:s01:

Modificato da deflektor
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  • 2 years later...

Pochi giorni fa, il 24 agosto, ricorreva l'anniversario della epica carica (e non ultima della nostra Cavalleria!) di Isbuschenskij, del Reggimento "Savoia Cavalleria" (3°).

 

 

 

Eccovi, ai link che seguono, cenni storici sul Reggimento e sulla carica in argomento:

 

http://cronologia.leonardo.it/battaglie/batta40.htm

 

http://guide.supereva.it/modellismo_static...04/207976.shtml

 

 

 

Sempre sul "Savoia Cavalleria", dal sito "Pagine di Difesa", http://www.paginedidifesa.it/ e dalla "Breve storia della Cavalleria italiana" di Francesco Apicella, http://www.paginedidifesa.it/libri/cavalleria07.pdf , date uno sguardo alle pagine 22 e 23, dedicate al Reggimento in argomento.

 

 

 

Dal sito ufficiale dell'Esercito Italiano, il link alla pagina del "Savoia":

 

http://www.esercito.difesa.it/root/unita_s...li_3_savoia.asp

 

 

 

Infine, sempre dal sito "Pagine di Difesa", http://www.paginedidifesa.it/ , il link ad un bellissimo e coinvolgente racconto (DA NON PERDERE, ASSOLUTAMENTE!) di un protagonista della carica di Isbuschenskij del 24 agosto 1942:

 

http://www.paginedidifesa.it/2007/saccardi_070220.html

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Propongo sull'argomento la trascrizione integrale di un articolo apparso sulla benemerita "Storia Illustrata" nel lontano 1958, il breve "cappello" introduttivo è mio.

 

L’utilizzo in guerra del cavallo ha radici antichissime che arrivano all’antico Egitto. I popoli delle steppe ne fecero perno delle loro scorrerie e conquiste [1]. Per secoli la cavalleria fu regina delle battaglie; l’avvento delle armi a canna rigata, di maggiore portata e celerità di tiro, cambiò tale preminenza. L’insigne storico e americanista Raimondo Luraghi così si esprime in ordine all’impiego di tale specialità nel corso della Guerra civile americana:

“Quanto alla cavalleria, anche per essa l’avvento del fucile rigato avrebbe significato la fine delle grandi “cariche” di stile murattiano, a sciabola sguainata o lancia in resta: ma qui, in verità, gli americani si trovarono senza saperlo già avanti di decenni in rapporto agli europei. Il modo con cui essi (e specialmente i sudisti) usarono la cavalleria, fu mirabile. I settentrionali non mancarono di abbozzare qualche carica vecchio stile; ma in generale la cavalleria fu usata in maniera veramente nuova, e nulla si sarebbe visto in America dei folli massacri cui fu votata, per esempio, l’arma a cavallo francese nella guerra del 1870 sui campi di Froeschviller, di Vionville-Mars-la-Tour o di Floing. I confederati furono i primi a raggruppare la cavalleria in Grandi Unità alleggerendola di molti compiti faticosi come quello degli avamposti; la cavalleria fu così usata con straordinaria abilità sia per la sicurezza in marcia che per stendere un velo impenetrabile agli esploratori nemici attorno alle proprie Grandi Unità di fanteria in movimento; per l’esplorazione vicina e lontana; e addirittura per colpire con audacia straordinaria le retrovie del nemico spingendosi fin addentro il territorio avversario ed operando sulle comunicazioni, i centri di rifornimento, sulle più distanti basi. Ad un tempo scudo ed occhio dell’esercito, la cavalleria, sotto la guida di leaders prestigiosi e geniali quali i generali Stuart, Ashby, Sheridan, Grierson, Morgan e soprattutto Forrest, anticipò addirittura le imprese fulminee e audaci delle grandi colonne celeri della seconda Guerra mondiale, fino a trasformarsi in una vera e propria truppa trasportata, capace di spostarsi con sorprendente celerità e quindi combattere sia a piedi che a cavallo.” [2]

Il mancato assorbimento delle lezioni del conflitto americano da parte degli stati maggiori delle potenze europee fu una delle ragioni delle ragioni dei massacri sui campi di battaglia della prima Guerra mondiale, che vide l’apparire di una nuova cavalleria, quella corrazzata.

All’inizio delle sue memorie sulla seconda Guerra mondiale un grande generale tedesco, Frido von Senger und Etterlin affermava recisamente:

“Mi rendevo conto che la cavalleria era un anacronismo nell’epoca delle guerre moderne. Ciò nonostante ero rimasto fedele a quest’arma alla quale mi ero fatto trasferire dopo la prima guerra mondiale.” [3]

Durante la breve campagna di Polonia (1939) i biplani d’assalto Henescel Hs.123 dispersero le colonne ippotrainate avversarie con il seguente metodo:

“I piloti si scagliano all’attacco. Dopo dieci giorni di esperienze belliche sanno benissimo che l’arma principale del biplano Hs-123: in nessun caso le due bombe da cinquanta chili piazzate sotto le ali. Così neppure le due mitragliatrici montate sulla parte superiore del motore. L’arma più potente è l’effetto puramente acustico: il terribile rombo dell’elica, a partire da una certa frequenza di giri.

Una breve occhiata agli strumenti: il punto critico è raggiunto a milleottocento giri. Davanti al motore si forma una cappa acustica. Si ha all’improvviso l’effetto del crepitio di una mitragliatrice pesante.

I “macellai” spazzano via a questo modo a dieci metri sul nemico, seminando terrore e panico. Uomini e cavalli schizzano via in tutte le direzioni, gli automezzi s’incastrano creando grovigli inestricabili. E’ raro che una colonna non venga dispersa da un simile attacco radente.” [4]

Esiliata dai campi di battaglia la cavalleria ebbe nell’immane conflitto un importante ruolo logistico, a tal proposito basti considerare quanto detto da Adolf Hitler in persona, nel rapporto sulla situazione al mezzogiorno del 12 dicembre 1942 trattando la situazionenella sacca di Stalingrado:

“I cavali sono esausti, non hanno più forza di tirare. E non posso dare un cavallo in pasto a un altro. Se si trattasse di russi, direi: Che un russo divori l’altro. Ma non posso far divorare un cavallo dall’altro. E’ inutile, e quindi si tratta di perdite inevitabili. E nemmeno si può dire: Fra un paio di giorni andrà meglio, diamo una razione in più di biada. Fra due giorni i cavalli non staranno per niente meglio. Tutto ciò che non può essere portato via con gli automezzi dovrà rimanere qui. Ci sono tanti mortai pesanti là dentro, e sono perduti.” [5]

Sulla scorta di tali sintetiche considerazioni la carica del Savoia Cavalleria assume il sapore di un commiato, quello di un modo di combattere durato secoli, con un suo codice etico e un pathos che rimarrà nei cuori e nelle menti di tanti, seppur estranei alle cose militari e guerresche.

Per ricordare nuovamente e degnamente questa data propongo i seguenti materiali:

 

 

L’ultima carica nella steppa russa

IL GRIDO DI ISBUSCENSKJ “SAVOIA A CAVALLO!” [6]

L’episodio già leggendario nel misurato racconto di un ufficiale superstite: come una catapulta urlante, il glorioso Reggimento scaraventato all’attacco della fanteria siberiana.

 

Nel luglio del 1941 il Reggimento “Savoia Cavalleria” fu rimpatriato dalla Jugoslavia per essere trasferito sul fronte russo. Trasportato in treno sino in Romania, esso iniziò il movimento a cavallo attraverso i Carpazi, lungo le strade di Moldavia, Bessarabia e Ucraina. In 35 giorni percorse più di 1200 chilometri ed ai primi di settembre si attestò alle rive del Dnieper. Dopo aver preso parte alla battaglia di forzamento del fiume, il Reggimento riprese le marce verso est ed il 28 ottobre concorse con il III Bersaglieri e le truppe tedesche alla conquista di Stalino.

Trascorso l’inverno in riposo, riprese le operazioni l’11 luglio 1942 occupando Krasnij Luc e raggiungendo il 15 agosto, dopo una marcia di oltre 400 chilometri, le rive del Don. Qui, con il Reggimento “Lancieri di Novara”, contribuì a frenare l’attacco che le truppe sovietiche sferrarono il 20 agosto contro le nostre linee con l’intento di aprire un varco alle spalle dei soldati tedeschi operanti a Stalingrado.

Dopo giorni di duri combattimenti, il Reggimento si trovava la notte sul 24 agosto 1942 a quota 213,5 nei pressi di Isbuscenskj. In attesa dell’alba per riprendere il movimento verso il fiume, il “Savoia” aveva assunto una formazione di sicurezza, chiudendosi in un quadrato di armi automatiche, artiglierie e pezzi controcarro a protezione degli uomini e dei cavalli che, al centro, riposavano all’addiaccio.

Alle 3,30 il Colonnello Comandante fece uscire una pattuglia con compiti esplorativi. Dopo poche centinaia di metri essa i scontrò con elementi nemici sistemati a difesa. Immediatamente tutto lo schieramento avversario divampò tenendo sotto tiro il Reggimento che aveva appena iniziato le operazioni per riprendere il movimento. Vi furono attimi di incertezza. Poi le nostre armi automatiche presero a rispondere al nemico. Infine si udì un ordine: “Secondo squadrone a cavallo!”. “Savoia Cavalleria”, per l’ultima volta nella storia dell’Arma, si apprestava alla carica.

Mi svegliai di soprassalto e cacciai la testa fuori dal sacco a pelo, dentro il quale mi ero allungato per terra, le briglie di Palù legate al polso destro. Adesso i colpi che mi avevano strappato al sonno si erano fatti più intensi. Cercai di volgere lo sguardo verso la zona da cui provenivano e vidi la notte punteggiata di fiammelle azzurre delle mitragliatrici. “Ci siamo”, pensai. E appena un attimo dopo udii da qualche parte il comando: “Secondo squadrone, a cavallo!”.

Ero in piedi prima ancora che il cervello cominciasse a pensare. Gettai il sacco a pelo a Balsamo, il mio attendente, e montai a cavallo. Mentre raggiungevo la testa dello squadrone, sentii pesarmi addosso la vastità di quel cielo notturno, che da un momento all’altro si sarebbe illuminato a giorno.

“Ma che succede? Ci risiamo?”: questa fu la mia prima reazione cosciente, quando mi resi conto che ci stavamo allontanando dai fuochi azzurri. E non fu un pensiero piacevole, perché a ridosso della linea di combattimento c’era un grande vuoto, uno spazio enorme senza alcun punto d’appoggio.

Erano quattro giorni che non toglievamo le selle ai cavalli. Dormivamo quando e come era possibile. La situazione precisa del fronte ci era ignota. Sapevamo unicamente che i russi si erano infiltrati nelle nostre linee e che cercavano di sfruttare i loro success iniziali. Il nostro compito consisteva soprattutto nell’accorre a turare le falle più preoccupanti, nel dare al nemico la sensazione di non poter sentirsi sicuro in nessun posto.

La sera del 23 avevamo ricevuto l’ordine una certa quota difficilmente identificabile in quella zona piatta, movimentata da lievi ondulazioni del terreno e costellata da campi di girasoli. A un certo punto del cammino ci eravamo fermati per dare un po’ di riposo agli uomini e ai cavalli e anche perché era pericoloso e inutile proseguire nella fitta oscurità.

In attesa dell’alba, il Reggimento si sistemò a difesa: noi del secondo squadrone ci collocammo all’interno del quadrato, disposti in gruppi, pronti a balzare su al minimo allarme. La notte era fredda il silenzio intenso. Uomini e cavalli (i primi sdraiati, i secondi in piedi) ci addormentammo di colpo.

Quella notte, qualcuno forse si domandò se per caso non avessimo sbagliato direzione, andandoci ad attestare lontano dall’obiettivo fissato alla nostra incursione: una strada attraverso la quale i russi, dopo aver superato il Don, ricevevano munizioni e rifornimenti. Nella steppa tutto è possibile, data la mancanza di riferimenti topografici precisi.

Invece noi e i russi, gli uni all’insaputa degli altri, ci eravamo accampati a meno di un chilometro di distanza. Anche gli scopi della manovra erano gli stessi: noi volevamo sorprendere il nemico sul fianco e interrompere i suoi rifornimenti; loro cercavano di tagliare la ritirata ai nostri reparti attestati lungo il fiume.

Ma in quell’alba sul Don, cavalcando alla testa dei miei cavalieri, io non potevo avere la coscienza che del brusco risveglio e dei fuochi azzurri che ci lasciavamo alle spalle. Sentivo alla nuca il respiro degli uomini del mio plotone e sapevo che non avrebbero indietreggiato di fronte a nessun pericolo.

Ed ecco a un tratto, mentre i cavalli acceleravano l’andatura, improvvisamente i fuochi azzurri apparvero sulla sinistra. Dunque la nostra non era una ritirata! Avevamo semplicemente fato una conversione al largo per poter piombare sul fianco del nemico con la massima potenza d’urto.

Il cuore mi diede una scossa nel petto e mi strinsi a Palù, trasmettendogli il mio entusiasmo e la mia esaltazione. Sentii il cavallo vibrare, tendersi in avanti come se a un tratto avesse capito che qualcosa di meraviglioso stava per compiersi, che la vecchia cavalleria tornava ad essere una catapulta che piomba sul nemico, consumando in pochi minuti i frutti di una lunghissima preparazione.

Ma era ancora possibile, nell’epoca dei carri armati e delle armi automatiche condurre vittoriosamente a termine questo compito classico? Il quesito mi balenò nella mente solo per rendermi avvertito che la risposta l’avremmo avuta tre poco e che, comunque fosse andata la carica, ormai per noi non esistevano alternative di sorta: bisognava andare avanti e tenersi stretti, serrare le file al massimo, formare un corpo unico di uomini e cavalli; perché questi animali così sensibili, così ombrosi, così facili a impressionarsi e a cambiare rotta, avanzavano ora con un galoppo terribile, gli occhi miopi – dilatati dall’esaltazione della carica – puntate sulle fiammelle azzurre delle mitragliatrici.

Fu nel momento preciso che la carica si scatenava che un cavaliere apparve al fianco del comandante dello squadrone. Era il maggiore Manusardi, che qualche mese prima aveva lasciato il comando del reparto perché promosso di grado. “Da Leone”, gridò, ”sono un tuo gregario. Voglio caricare anch’io col mio vecchio squadrone!” L’interpellato fece cenno di assenso, mentre le fiammelle azzurre erano diventate paurosamente vicine e le palle fischiavano da ogni parte, tagliando l’aria come staffilate, e i cavalieri cominciavano a urlare il loro grido di guerra: “Savoia!”.

Palù, il mio fido, scorbutico cavallo dal manto grigio non regolamentare, che a suo tempo avevo ricevuto in eredità dal comandante di “Savoia Cavalleria”, Raffaele Cadorna, diede allora uno strappo alle redini e partì, prima affiancando e poi superando il cavallo del comandante, capitano De Leone, che mi gridò arrabbiato per l’atto di indisciplina: “Dove vai con quel brocco?”. Ribattei sullo stesso tono: “Tienilo tu, se ne sei capace! Io non ci riesco!”.

E poi vidi De Leone cadere dal cavallo che era stato falciato dalla mitraglia. Allora Manusardi assunse il comando dello squadrone, brandendo come arma il frustino di cui non si separava mai. Ed eravamo ormai sui russi, che ci balzavano incontro, chi cercando di colpirci, chi sollevando le braccia in segno di resa, chi correndo alla cieca nell’illusione di sottrarsi all’urto dei cavalli. Dietro di me, intanto, il trombettiere Carenzi, detto “Facciun”, si affannava invano a tirar fuori la pistola “Very” per segnalare ai nostri che cessassero il fuoco. Ci riuscì infine, ma quando ormai eravamo passati e il quarto squadrone, che attaccava frontalmente, a piedi, si era reso conto della situazione.

“Signor tenente il suo cavallo muore!” Questo grido mi meravigliò. Non mi ero accorto che Palù fosse ferito, e tanto meno ferito a morte. Avevo soltanto avvertito, a un certo momento, che non riuscivo più a tenerlo e le redini mi avevano tagliato le mani nello sforzo di mantenerne il comando. Comunque mi volsi alla voce, che era quella del mio attendente, e constatai che aveva ragione. Il cavallo perdeva sangue da innumerevoli ferite e mi bastò un’occhiata per capire che stava per crollare. Smontai di sella e mi cercai un’altra cavalcatura.

Parecchi cavalli, anche dopo aver perso i loro cavalieri, avevano continuato la carica, superando con lo squadrone le linee russe. Alcuni si abbattevano al suolo adesso, dissanguati. No aveva addirittura una delle gambe anteriori troncata; eppure non si era arrestato, perché soltanto la morte può fermare un cavallo quando carica.

Il maggiore Manusardi, intanto, riordinava le file dello squadrone. Dal canto loro i russi, passato lo spavento e l’orgasmo, riprendevano coraggio e cominciavano a bersagliarci di colpi. Sostare era pericoloso. Saltai sul primo cavallo illeso che mi venne sottomano e mi accinsi a partire per la seconda carica, seguito dal mio attendente.

E ancora una volta, a ranghi serrati, ci lanciammo sulle linee russe, seguendo il frustino del maggiore Manusardi. L’urlo dei cavalieri coprì il fischio delle pallottole, l’impeto della carica ci impedì di vedere chi cadeva e chi proseguiva. Io avvertii a un tratto che il mio nuovo cavallo allentava il suo galoppo, ma non me ne diedi pensiero perché mi era bastata un’occhiata per capire che si trattava di un animale che valeva poco. Cercai comunque di spingerlo a dare il massimo di se stesso e il cavallo riprese tendendosi in uno sforzo supremo. Non durò a lungo, però: con una grande spruzzata di sangue – era stato anche lui colpito a morte – si afflosciò al suolo.

La carica era ormai finita. Mi rialzai e raggiunsi le linee italiane mentre il terzo squadrone, guidato dal capitano Marchio, puntava a sua volta contro i russi, per la terza carica. Nel frattempo il quarto squadrone, che per primo aveva impegnato il nemico con un attacco frontale, a piedi, guadagnava terreno, attestandosi in vista dell’assalto risolutivo.

Una delle prime notizie che appresi fu la morte del capitano Silvano Abba, comandante del quarto squadrone. Costretto dalle necessità tattiche ad operare come un fante, la vista dei compagni che andavano alla carica lo aveva riempito di amarezza. Avrebbe voluto anche lui saltare in sella al suo cavallo e partire al galoppo, ma dovette contenersi. E allora pensò che se non gli era concesso di partecipare alla carica, nessuno gli poteva impedire di fotografare “Savoia Cavalleria” mentre irrompeva sui russi.

Ma le fotografie scattate da Silvano Abba, le fotografie che dovevano consegnare alla storia il documento della carica eroica dei cavalieri italiani fra i girasoli del Don, si persero nel turbine della battaglia [7]. Silvano Abba cadde fulminato da una raffica di mitraglia, che mandò in frantumi la macchina fotografica. Egli perciò non vide gli uomini del quarto squadrone compiere l’ultimo balzo e snidare i russi dalle loro posizioni, dopo che la terza carica li aveva letteralmente sconvolti.

Quando io rientrai, a ogni modo, la battaglia era ancora in pieno svolgimento e l’esito finale appariva incerto, tanto più che i russi avevano rivelato di essere nettamente superiori, sia per quantità di uomini che per mezzi. Tuttavia qualsiasi considerazione di ordine generale passò in secondo piano, ai miei occhi, di fronte al fatto che il mio attendente era scomparso nel tratto più tremendo della carica.

Passò del tempo. Il sole saliva nel cielo e l’aria si faceva calda. Sulle posizioni nemiche, la lotta si andava frazionando in cento episodi singoli allorché mi vidi sbucare dinanzi tre uomini con le mani alzate, sospinti in avanti da un soldato italiano armato in modo inverosimile e quasi curvo sotto il peso di certe grosse borse che si era appeso al collo.

“Signor tenente, le ho portato questi!”, gridò lo strano soldato. Era il mio attendente. Appena si fu liberato dei prigionieri, m i agitò sotto gli occhi il sacco a pelo. “Non l’ho lasciato indietro!”, disse con orgoglio.

Come si sia svolta l’avventura del mio attendente, non l’ho mai saputo di preciso; ma forse neppure il protagonista dell’incredibile vicenda sa con esattezza come fece a catturare un ufficiale e due soldati armatissimi, lui provvisto soltanto di una modestissima bomba a mano O.T.O., una bombetta di quelle che i bersaglieri ritenevano adatte alle signorine.

Una spiegazione dell’episodio c’è, tuttavia, e me la diede lui stesso con semplicità: “Che vuole, signor tenente”, disse, “la carica li aveva storditi, non capivano più nulla”. E per lui il discorso fu concluso, né lo si riaprì quando gli comunicai che nella borsa appartenente all’ufficiale c’erano documenti importantissimi, che contenevano piani dettagliati delle azioni che il nemico si proponeva di svolgere per annientare la nostra resistenza.

Il resto, almeno per me, non ha storia. Molto prima di mezzogiorno la battaglia era finita e il “Savoia Cavalleria” si trovava ad essere padrone assoluto del campo, con un numero di prigionieri superiore ai suoi effettivi. Nel posto di soccorso, dove avevamo concentrato i feriti, italiani e russi, trovai un soldato del mio plotone che aveva perso una gamba. Era Sulas, un sardo dal carattere ombroso e difficile, un tipo molto difficile da trattare. Mi chinai su di lui ed egli mi strinse la mano. Disse: “Ne valeva la pena, signor tenente”.

Mi allontanai, e col mio attendente andai alla ricerca di Palù, il vecchio cavallo bizzoso col quale mi pareva di formare, quando ero in sella, una cosa sola.

Palù soffriva di reumatismi, non aveva più molti anni da vivere, era proprio un vecchio cavallo: ma quando finalmente lo trovai steso al suolo, con gli squarci delle ferite nel petto e sulla testa, provai una commozione così intensa che fui costretto ad appoggiarmi al soldato che mi accompagnava. Poi mi chinai al suolo e, in silenzio, cominciai a sciogliere la sella bagnata dal sangue di Palù, letteralmente crivellata di schegge.

A mezzogiorno, il rombo di una macchina che si avvicinava ci mise in allarme, ma l’insicurezza durò pochissimo: era una camionetta del comando che ci raggiungeva. Ne scese Bianchi, l’uomo della mensa, in giacca bianca, impeccabile, che cominciò a distribuire panini imbottiti, scusandosi di non aver potuto preparare di meglio. Aveva percorso venti chilometri nella steppa per ritrovarci.

Massimo Gotta

 

Lettera del comandante del “Savoia Cavalleria” , Sandro Bettoni.

E’ oggi il 12° giorno che non togliamo la sella ai nostri cavalli; dal 20 non abbiamo avuto un giorno di riposo. In questo momento siamo in linea coi cavalli sellati dietro le mitragliatrici e i fucili mitragliatori. Dirvi che cosa sono state queste giornate è un po’ difficile. Vi dirò in sintesi che dal 20 al 23 non ho fatto che accorrere con la mia colonna (composta da “Savoia”, un Gruppo Batterie a Cavallo e una Compagnia Cannoni anticarro)a ricacciare i russi imbaldanziti, costituendo linee provvisorie e minacciandoli sui fianchi. La mia colonna era un castigo di Dio e i Russi ci hanno visto capitar loro addosso da tutte le parti.

Il 23 sera ebbi l’ordine di muovere, puntando in mezzo ai russi. Dovevo, all’alba, spingermi a … per minacciare il rovescio proteggendo il fianco destro italiano. La notte arrivai nei pressi di quota 213,5. Raccolsi la colonna e mi disposi in quadrato – cavalli al centro – cintura di armi automatiche, mitragliatrici e fucili mitragliatori in giro.

E così i pezzi anticarro ai miei ordini. Notte fredda e luna. Steppa alta. In giro il silenzio assoluto. Però non ero tranquillo. I russi sono maestri nella sorpresa. E la notte la passai ad orecchie tese. Verso le 3,30 – poiché avevo ordinato di riprendere il movimento della mia colonna alle 4 – mandai una pattugli esplorante sulla mia sinistra, 7-800 metri da me. Nessuna traccia del nemico.

I cavalieri entrarono in un campo di girasoli. Spararono qualche colpo di moschetto senza avere reazione. Il sottufficiale capo pattuglia fece allora da cavallo una raffica di parabellum. Fu come se una polveriera avesse preso fuoco. La pattuglia rientrò con tre feriti, ma un coro rabbioso di mitragliatrici (ne abbiamo rinvenute più di 60), di mortai e di artiglieria si rovesciò a tenaglia sulla mia colonna che stava per muoversi. La situazione mi appariva subito gravissima. In meno di 20 secondi le mie mitragliatrici risposero con eguale furore. Feci aprire il fuoco alle batterie dei cannoni anticarro; ma erano in molti troppi per fermarli; a battaglia finita seppi la situazione esatta: due battaglioni siberiani ci avevano attaccati. Le mitragliatrici battevano inesorabili.

Fra i primi feriti il vice Comandante Pino Cacciandra; il Capitano Aragone, altro ufficiale del mio comando; un cavaliere sull’apparecchio radio; molti cavalli. Anch’io ebbi il pastrano passato da una palla di mitragliatrice. Non c’era da perdere un attimo. Decisi di dare l’impressione al nemico di contrattaccarlo frontalmente. E il 4° Squadrone (Capitano Abba) inizia la manovra: Abba cade tra i primi, il Sottotenente Rubino è ferito mortalmente. Bisognava creare la sorpresa. Lancia il 2° Squadrone (Capitano De Leone) a cavallo sul fianco. La carica si rovesciò furiosa dalla sinistra alla destra dello schieramento nemico. De Leone ebbe il cavallo ucciso. Il Maggiore Manusardi, ex Comandante del 2° Squadrone, che aveva voluto caricare con i suoi vecchi soldati, riporta lo Squadrone alla seconda carica da destra a sinistra, galoppando sulle mitragliatrici, sui mortai, sui cannoni. Il nemico ha la prima battuta di arresto. Io proseguo l’attacco frontale e il nemico riprende a reagire: erano sopraggiunti rinforzi.

E’ la volta del 3° Squadrone (Capitano Marchio)che carica di nuovo lanciando bombe a mano da cavallo. Due plotoni mitraglieri che avrebbero dovuto mettere le armi a terra non fanno in tempo e caricano con le mitragliatrici sui basti e i cavalli sottomano. Ma il nemico era aumentato. Seicentocinquanta cavalieri (a piedi e a cavallo) avevano avuto ragione di due battaglioni (quasi tremila uomini).

In quest’ultima carica cadono feriti gravemente Marchio e il Tenente Bussolera. Marchio ebbe amputato il braccio destro l’indomani. E cade l’eroico Alberto Litta che aveva avuto ucciso il cavallo ed era stato ferito una prima volta. Cercò di rimontarne un altro ma dovette arrestarsi vicino a una mitragliatrice. Mentre additava nella mischia una direttrice d’attacco a uno dei suoi plotoni, una palla al cuore lo finiva. Con lui cadeva il suo aiutante maggiore Tenente Ragazzi e tutto il personale del comando di Gruppo. “Savoia” si è ricoperto di sangue e di gloria, ma ha salvato una situazione molto grave per le armi italiane. Il secolare sacrificio della Cavalleria si è rinnovato nelle steppe del Don.

Oggi, come vi dissi, sono in linea, pronto ad attaccare domani mattina. Sono sereno. Dio protegga “Savoia” e il suo comandante. Non state in pena. Non ho ancora scritto ai Litta perché non so se sono stati avvertiti. Alberto sarà la fiamma di “Savoia”! se lo merita. Per dirvi che cosa sia stata questa azione che S. E. Messe ha definito “la più bella azione di Cavalleria che Egli conosca”, vi dirò che si è verificato quello che maai è successo al mondo: tutti gli ufficiali e molti cavalieri furono decorati sul campo. Vi stringo al cuore con tenerezza.

 

Estratti [8]:

A mano a mano che gli uomini ritornavano , Bettoni li abbracciava commosso: “Savoia ha caricato!” dicevano gli ufficiali; “Savoia ha caricato!” rispondeva Bettoni, ma era ansioso di conoscere con esattezza le sue perdite. Sul campo di battaglia, infatti, era cominciata la raccolta dei feriti e dei caduti. Erano le nove e trenta. […]

Si seppe così, finalmente la situazione; seicentocinquanta cavalieri avevano combattuto contro duemila siberiani. Le perdite per il “Savoia” ammontavano a 32 morti (3 ufficiali), 52 feriti (5 ufficiali) e più di 100 cavalli fuori combattimento. I russi avevano lasciato sul campo 150 morti, 300 feriti, 500 prigionieri, quattro cannoni, dieci mortai, cinquanta mitragliatori e centinaia di fucili. Tra i prigionieri c’era un intero comando di battaglione. C’erano anche alcuni plotoni di mongoli interamente equipaggiati con uniformi italiane preda dell’attacco alla “Sforzesca”. […]

Poco dopo arrivarono alcuni ufficiali di cavalleria tedesca che erano di collegamento con il reparto operante alla sinistra del Reggimento: dalle alture vicine avevano visto tutto e per la prima volta manifestavano una ammirazione mista ad incredulità nei confronti degli italiani. Si avvicinarono a Bettoni e scattando sull’attenti espressero la loro ammirazione: “Herr Colonel, noi queste cose non le sappiamo più fare”.

 

 

Note

[1] Su tale argomento: John Keegan “La grande storia della guerra” Mondadori Milano 1996.

[2] Raimondo Luraghi “Storia della guerra civile americana” Einaudi Torino 1966, p. 276.

[3] Frido von Senger und Etterlin “Combattere senza paura e senza speranza” Longanesi Milano 1968, p. 11.

[4] Cajus Bekker “Luftwaffe” Longanesi Milano 1971, p. 71/72.

[5] Helmut Heiber a cura “Hitler stratega” Mondadori Milano 1966, p.65/66.

Il prezioso volume, mai ristampato dopo la prima edizione, raccoglie una selezione dei “rapporti giornalieri sulla situazione” ed altre conferenze e riunioni tenute al Quartier Generale del Reich tra il 1942 ed il 1945. Da notare come gli stereotipi del “discorso” politico di Hitler: i russi sono antropofagi, pronti a divorarsi l’un l’altro, i contadini americani “sono ridotti alla miseria. Ne ho visto delle fotografie. I loro agricoltori sono malandati e penosi, esseri sradicati che vagabondano senza meta” e così via.

[6] Storia Illustrata anno II n.3 marzo 1958, p. 52/58.

[7] Le foto scattate da Abba non sono andate perdute, due di esse sono pubblicate sul libro di Lami.

[8] Lucio Lami “Isbuscenskij L’ultima carica” Mursia Milano 1970, p. 239/240

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L'ultima carica della Cavalleria italiana, come è stato già ricordato, fu, in data 17 ottobre 1942, quella del Rgt. "Cavalleggeri di Alessandria" (14°) a Poloj.

 

 

Dal link: http://www.paginedidifesa.it/2004/apicella_040502.html

 

riporto:

 

" ...

Il reggimento Cavalleggeri di Alessandria, a cavallo, conduce nel 1942 operazioni di controllo del territorio in Croazia, dove è intensa l'attività di guerriglia. Nel pomeriggio del 17 ottobre a Poloj, dopo alcuni scontri con consistenti formazioni partigiane, il reggimento riceve l'ordine di ripiegare sulla località di Perjasica.

 

Durante il movimento iniziato all'imbrunire gli squadroni di Alessandria vengono fatti segno a fuoco da numerose armi automatiche. Il comandante di reggimento porta i suoi squadroni alla carica riuscendo a sorprendere il nemico, rompere l'accerchiamento e riordinare i reparti per il rientro a Perjasica. I tanti atti di valore individuali sono ricompensati con 12 Medaglie d'Argento al Valor Militare, altre di Bronzo e Croci di Guerra. Allo Stendardo di Alessandria rimane il privilegio di essere stato alla testa dei suoi cavalleggeri nell'ultima carica condotta dalla cavalleria italiana. ... ".

 

 

Sulla storia e sull'attività durante la Seconda Guerra Mondiale del Reggimento "Cavalleggeri di Alessandria" (14°), eccovi un altro link:

 

http://www.regioesercito.it/reparti/cavalleria/regcav14.htm .

 

 

Dieblaureiter potrà, sicuramente, postare qualcosa di particolare pregio, anche sulla carica di "Alessandria".

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“L’ULTIMA CARICA” Raffaele Arcella

 

Vi sono episodi storici quasi caduti nell’oblio. La carica del XIV Reggimento Cavalleggeri Alessandria presso la località croata di Dolnij Poloj del 17 ottobre 1942 è senza dubbio fra gli eventi meno conosciuti della nostra storia militare. Eppure è l’ultima carica della Cavalleria italiana nella seconda guerra mondiale.

 

Alessandria fu votato all’estremo sacrificio ma, con le Sue dolorose perdite, salvò un numero elevato di vite evitando il contatto tre le Udarne Brigade titine ed i fanti della Divisione Lombardia (73° e 74° Reggimento) e dell’ 81° Battaglione Camice Nere.

 

L’impeto, la decisione e la rapidità dell’azione di Alessandria sconvolse i piani dell’avversario e fece in modo che le truppe che seguivano il Reggimento non avessero perdite.

 

A riparare a questa lacuna ecco la recente edizione di questo bel volumetto, l’autore, Raffaele Arcella, avvocato partenopeo e dottore in lingue e letterature slave partecipò nella qualità di ufficiale a quella giornata. Dopo l’8 settembre, catturato dai tedeschi a Uroscevac (Macedonia) subì l’internamento nei campi di concentramento di Benininovo, Sandbostel e Wietzendorf.

 

 

 

Raffaele Arcella

 

L’ultima carica – Dolnij Poloj 17 ottobre 1942

 

Bonanno editore, Acireale, 2008 Euro 15

 

 

 

Posso altrimenti consigliare la lettura dell'articolo "La carica di Poloj" di M. Mattioli, Storia Militare n.157 ottobre 2006.

 

Allo stato attuale non sono al corrente d'altri libri o articoli su quel combattimento.

 

Dal testo del libro sulla carica di Poloj traggo questa bella poesia che credo basti quale affidavit per la lettura e promozione di questo libro:

 

 

"L'ultima Carica"

 

Cala la sera

 

Sui colli di Perjasica

 

Popolati di ombre in movimento;

 

d'ottobre sotto le mille stelle

 

s'acceca il vespero febbrile

 

di centomila stelle di fucile

 

uno squillo ferisce il dì cadente

 

di mille cavalieri l'eco è ardente;

 

l'azzoccolio rimbomba nella valle

 

spronato dall'ardore dei vent'anni

 

il ferro canta ancora la canzone

 

degli ultimi Squadroni della guerra

 

un brivido scorre sul filo delle lame,

 

a rompere il cerchio di fuoco

 

dirompendo su tutti sentieri

 

son di “Alessandria" i Cavalleggeri,

 

dragoni d'oro e speroni d'argento,

 

frotta sublime,lo Stendardo al vento.

 

Cedono ad una ad una le barriere,

 

si spengono le stelle ed il fragore.

 

Ferito e immoto un grigio nella valle

 

Annusa un cavaliere senza vita

 

Urla un nitrito d'amore,

 

resta questo monumento

 

 

 

Cap. Aldo Assetta Binda

 

Medaglia d'Argento al Valor Militare

 

Già subalterno del 3° Squadrone

Modificato da dieblaureiter
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