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Il diario di guerra di Mario Daneo, un sommergibilista assegnato a BETASOM


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Nato a Fiume il 2 ottobre 1909, Mario Daneo entrò in Marina ventenne come volontario nel 1929.Dopo cinque anni di servizio, Mario Daneo si congedò ed entrò nel ruolo naviganti come ufficiale macchine a bordo di navi di varie compagnie amatoriali. Richiamato in servizio durante la guerra, Mario Daneo servì in qualità di sottufficiale a bordo dei sommergibili.

 

Dopo la guerra, Mario Daneo ritornò a Fiume da cui si trasferì a Venezia, per poi vivere a Mestre fino al 1975, anno in cui si trasferì a Dolo, una piccola cittadina non troppo lontano da Venezia. Nel 1987, Mario Daneo diventò ospite della Casa di Riposo di Dolo dove rimase per alcuni anni. Questo breve sommario della vita del signor Mario Daneo ci introduce ad un manoscritto che lasciò per i posteri e che siamo lieti di presentare in versione parzialmente edita. In queste memorie scritte molti anni dopo gli eventi, Mario Daneo ci introduce alla vita a bordo dei sommergibili in servizio in Atlantico e alla base sommergibili di Bordeaux. Alcune delle date, annebbiate dal tempo, non sono esatte, ma il significato della storia rimane intatto.

 

 

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Io racconto...

Eravamo appena arrivati a Venezia con un carico di gran turco di 10.000 tonnellate. Ormeggiati in marittima sotto i silos, come al solito il primo a venire a bordo era il nostro agente per le solite pratiche di porto portando anche la posta per l’equipaggio. Così ricevetti un espresso nel quale mia moglie mi faceva sapere che, 5 o 6 giorni prima, era venuto a casa un incaricato della capitaneria di porto con la cartolina verde di richiamo alle armi. Mia moglie gli rispose che era imbarcato summa M/N A. Venier della società SIDARMA. Cosi l’incaricato tratteneva la mia cartolina e mi seguiva nei miei spostamenti. Era il 7 o l’8 maggio del ’40 e mi trovavo a Trieste. Dopo aver caricato a Trieste varia merce (camion, ambulanze, munizioni, viveri, 2 cannoni da 120 mm e 2 mitragliatrici da 20 mm) destinazione Tripoli. Poi però cambio tutto perché durante il viaggio arrivarono ordini del Ministero Militare (in quanto ora eravamo militarizzati) di cambiare in continuazione i nostri spostamenti. C’erano ordini e contrordini finché ci ritrovammo Taranto.

 

 

A Taranto c’era il coprifuoco era tutto all’oscuro, un’incursione d’aerei aerosiluranti inglesi, non ricordo se tre o quattro, passarono sopra le nostre teste sganciando i siluri che andarono a segno su una corazzata italiana, ma quello che mi colpì furono segnali fatti da qualcuno a terra con flash per indirizzare gli aerei nella direzione giusta per il lancio dei siluri. Si è parlato di spionaggio, di tradimento, ma mai d’altro. In quella occasione venne persino Mussolini con lo Stato Maggiore della Marina a verificare come poteva essere successo tutto ciò visto e considerato che si era solo all’inizio della guerra. Ricevemmo l’ordine da Roma di partire, scortati da due caccia e senza sapere la destinazione. Come risaputo, c’era la scritta sia a bordo che nelle città marittime che dicevano: “non parlare con nessuno il nemico ti ascoltaâ€Â. Quando avvistammo il Vesuvio, comprendemmo che stavamo per arrivare a Napoli; qui finalmente ormeggiammo in banchina nella zona militare.

 

Il giorno seguente arrivò a bordo un sottotenente di Marina con un sergente maggiore e consegnarono al nostro comandante un’ordinanza di richiamo alle armi. Allora io chiesi al mio comandante perché dovevo sbarcare se eravamo già militarizzati. Mi rispose il tenente che era venuto a bordo a portare l’ordinanza. Visto che io, il nostromo di bordo, ed un marinaio eravamo ex volontari e per giunta graduati con mansioni specifiche in Marina di guerra, dovevamo sbarcare. Intanto erano passati alcune settimane dato che eravamo al 12 e 13 dicembre ’40. Avevo cinque giorni di tempo per presentarmi al deposito della Marina di Pola. Il 15 dicembre arrivai a casa a Fiume e il 19 mattina alle ore 8.30 partii per Pola dove arrivai il pomeriggio alle 14.00, dopo sei ore di treno in una tradotta di quei tempi. Mi recai al deposito della Marina militare dove mi presentai agli uffici e consegnai la cartolina di richiamo. Un marinaio di leva di servizio mi accompagnò al secondo piano dove c’era un lungo corridoio e mi sistemarono in un camerone. C’erano anche altri cinque sottufficiali richiamati, tutti in borghese ed in attesa della visita medica. Qui conobbi un triestino capitano di lungo corso. Rimanemmo insieme due giorni, il terzo fummo chiamati alla visita medica eseguita da un colonnello medico. La visita consisteva nella misurazione dell’altezza e del peso. Speravo, alludendo che soffrivo di ulcera gastrica, di cavarmela, ma non fu cosi.

Dopo qualche giorno noi abili andammo in sartoria a prendere le misure per la divisa. Con la confusione che c’era in quel camerine, ogni sabato me ne andavo a casa con un autobus che toccava tutti i paesi dalla parte del Golfo del Quarnaro: Albona, Moschiena, Laurama (paese di mia moglie), Abbazia, Volosca e Fiume. Al ritorno lunedì mattina arrivai a Pola alle ore 11.00. Tutti i giorni, meno il sabato e la domenica, c’era l’assemblea generale alle ore 14.00 nel piazzale davanti al deposito. Io ero in fila con gli altri sottufficiali e questo era il momento delle diverse destinazioni secondo le richieste dei diversi comandi. Fummo scelti in tre perché come altezza eravamo superiori al metro e settanta, poi marinai, ufficiali che passarono al Battaglione S. marco. Quelli annotati sarebbero in seguito stati segnalati nella tabella in portineria con la destinazione e partenza.

 

Natale e capodanno del ’40 l’avevamo trascorso a casa con mia moglie e mio figlio che aveva due anni e mezzo. Per me venne l’ordine di partire il 15 gennaio. Ero destinato a La Spezia con imbarco sul sommergibile A. Morosini; comandante Capitano di Corvetta Athos Fraternale ( In verità, il comandante del Morosini alla data dell’imbarco era il C.C. Criscualo che fu poi sostituito dal C.C. Fraternale) . Il 4 Febbraio ’41 ero alla Spezia alla casermetta sommergibili; facemmo le solite presentazioni con i membri dell’equipaggio. Il 10 febbraio si partiva ma come al solito non si sapeva per dove. Dopo quattro giorni in navigazione intravedemmo alla nostra sinistra una costa, che era quella marocchina. Lo Stretto di Gibilterra era controllato dagli inglesi con corvette di giorno e fasci di potenti proiettori la notte. (in verità l’attraversamento ebbe luogo intorno ai primi di novembre del 1940).

 

Mi ricordo che facemmo una decina di miglia in immersione, poi in superficie, e così arrivammo in Atlantico. A distanza con il cannocchiale si intravedeva la costa del Portogallo. Dopo due giorni, se rammento bene, fummo in vista della costa francese nel Golfo di Biscaglia. Alle cinque del mattino entrammo con il pilota francese accompagnato in divisa militare, come dire, guardati a vista. Dopo tre ore arrivammo a Bordeaux, nei bacini, come a Venezia. In ogni bacino potevamo ormeggiare due sommergibili. Dopo un paio di giorni di riposo, venne l’ordine di prepararsi alla missione che durava due mesi.

 

Il mio sommergibile era considerato di tipo atlantico perché era più grande di quelli che operavano in Mediterraneo. In tempo di pace l’equipaggio era formato da 60 persone, in tempo di guerra di 90, 30 in più. La zona assegnata ad ogni sommergibile era di 40 miglia marine, diametro 65 km. L’acqua a bordo era razionata e serviva per la cucina. Noi avevamo le borracce da un litro e ci dovevano servire per 24 ore: per bere, per lavarci, ecc.

Eravamo tutti barbuti e una volta alla settimana, per chi desiderava sbarbarsi, poteva andare dal marinaio barbiere che aveva a disposizione un po’ più d’acqua, ma era più salata che dolce. I primi giorni di missione si mangiava pane preso a terra, dopo, finché durava la permanenza in mare, solo gallette dure che ci volevano denti buoni e forti e stomaco di struzzo.

 

La prima missione durò 55 giorni, e non si verificò nulla di straordinario; rientrammo alla base. Com’era stabiliti, mezzo equipaggio aveva ricevuto una licenza di 15 giorni, più il viaggio di andata e ritorno di 4 giorni. Il viaggio iniziò così a Parigi, alla Lorena superiore e si arrivava a Meltz, città tedesca, e si attraversava tutta la Germania per arrivare a Monaco di Baviera. Da qui si cambiava treno per arrivare al confine dell’Italia. Per arrivare a Trieste, bisognava proseguire per Bolzano, Trento, Vicenza e Mestre. Si usavano tradotte con vagoni di terza classe del tipo vecchio con sedili di legno come c’erano una volta, ma solo sulle linee secondarie. Questo era il settembre del 1941.

 

Nei primi giorni [d’ottobre] di febbraio ripartimmo per un’altra missione. Arrivati alla nostra zona d’operazione in mezzo all’Atlantico, fermammo i motori principali e mettemmo in moto il motore ausiliario per la luce e per la carica degli accumulatori sistemati nei diversi compartimenti. Ad un certo punto, dal ponte di comando venne dato l’allarme di pronti a muovere (avvistato all’orizzonte un filo di fumo). Ci muovemmo, ed il comandante consultò il prontuario di tutte le navi da guerra civili: di fatto si trattava di una nave olandese di 4 mila tonnellate si S.L. Civile e petroliera vuota (si trattava della petroliera Oscilla di 6.341 t.s.l. e l’affondamento ebbe luogo il 16 marzo, 1942).

 

Ci mettemmo in posizione, e poi arrivò l’ordine di immersione a 7-8 metri di profondità, l;altezza del periscopio. Due siluri a prora e due a poppa erano pronti al lancio. Si sentii l’ordine del comandante “fuori uno†15 secondi, “fuori dueâ€Â, dopo 30 secondi che parevano una eternità, si sentirono due scoppi, uno dopo l’altro smorzati dalla lontananza. Avevamo preso il bersaglio. Tornammo in superficie. Si vedeva la nave sbandata da una parte e si fermava. Il secondo siluro aveva preso la poppa estrema dove era sistemata l’elica. Ci avvicinammo tanto da vedere gli uomini dell’equipaggio che calavano le lance di salvataggio; si allontanavano dalla nave e si avvicinavano sempre di più a noi chiedendoci se potevamo prenderli a bordo.

Il comandante rispose che non era possibile perché erano naufraghi nemici. Ci avvicinammo ancora e preparammo i nostri cannoni da 800 metri di distanza e a cannonate affondammo la petroliera.

 

Era febbraio, verso la fine del ’42, quando ci trovammo nuovamente in zona d’operazione. Avvistata una nave da carico, lanciammo due siluri che lasciarono, a due metri di profondità, una scia visibile solo con il cannocchiale. La nave, visto che era armata, ci rispose al fuoco e questo ci costrinse a scendere in profondità fino a 30 metri. Dopo circa due ore non si sentivano più i colpi di cannonate e tornammo in superficie. Era già sera inoltrata, così il comandante diede l’ordine di rientrare nella posizione assegnataci, quella d’osservazione. Si constatò che la nave inglese che era stata bombardata da noi aveva dato l’S.O.S. alla sua base e fummo attaccati da una squadra di caccia siluranti. Visto il pericolo, ci dettero l’ordine di immersione rapida. Eravamo appena a trenta metri di profondità che le bombe cominciarono ad esplodere nelle vicinanze. Quindi scendemmo fino alla profondità di 100 metri. Stavamo fermi, senza fiatare. I caccia ci passavano sopra, ripassavano, sganciavano bombe continuamente: non ricordo quante ore eravamo così. In questo tempo il comandante fece in modo che gli inglesi ci credessero colpiti. Così gli inglesi ci lasciarono in pace. Dopo parecchie ore tornammo lentamente in superficie. Era notte fonda quando potemmo respirare un po’ d’aria buona. Dopo aver fatto presenta alla nostra base i fatti, questa ci rispose di rientrare. Oramai erano passati 50 giorni dalla partenza.

 

Arrivati a terra si seppe che stavano rientrando anche i sommergibili Barbarico e Finzi.

Il comandante del Barbarico credeva di aver affondato al largo delle Bermuda una corazzata americana. I caccia che la scortavano si fermarono a raccogliere i naufraghi della nave.

Da Il comandante Grossi fu promosso a capitano di Vascello e per ordini di Mussolini gli fu insignita la medaglia d’oro al valor militare e, da parte tedesca, la croce di diamante.

Eravamo nel marzo del ’42. Alla base di Bordeaux oltre a noi ufficiali, sottufficiali, marinai, carabinieri, una compagnia del battaglio S. marco, c’erano pure una cinquantina di operai venuti dai cantieri di Monfalcone per le riparazioni dei sommergibili. All’improvviso suonò l’allarme e ci rifugiammo dei bunker costruiti dai tedeschi.

Qui persi un mio caro amico che conoscevo fin dalla 5° elementare; stavamo sempre insieme. Si chiamava Zanolla. Prima di essere richiamato faceva il vigile urbano a Fiume. Era tanto caro, altruista in eccesso. Era del S. Marco e stava mangiando quando una bomba cadde vicino al capannone della cucina. Una scheggia ferì un ragazzo francese di 15 anni cha faceva l’aiutante in cucina. Allora Zanolla, insieme con un altro marinaio, lo presero per portarlo dall’altra parte del bacino. Dovevano passare sopra le chiuse che erano il bersaglio degli inglesi in quel momento. Quando arrivarono con il ferito alla seconda chiusa, una scheggia di bomba ferì mortalmente alla schiena il mio amico Zanolla. Ricorderò sempre tutto quello che aveva: lettere, fotografie, ricordi, oggetti, portafoglio… li presi e li portai alla famiglia che era stata già avvisata della morte.

Rotte le chiuse dagli inglesi, i bacini si svuotarono e i sommergibili rimasero un po’ sbandati, trattenuti solo alle banchine dai cavi d’acciaio.

 

L’8 settembre ’43, mi trovavo fortunatamente alla base. Eravamo tutti allibiti e senza parole. Il giorno seguente fummo radunati nel piazzale. Il nostro comandante, giuntamente con il comandante generale – capo generale della città di Bordeaux – ci fece un discorso nel quale comunicava che chi se la sentiva poteva continuare a rimanere al proprio posto come prima.

 

Io ed il mio amico Prencis Palesano, maresciallo di 3° classe (furiere), ci guardammo in faccia e decidemmo di rimanere. Di duemila persone di marina, Battaglione S. Marco, Carabinieri, operai e maestranze, rimanemmo poco più di trecento. Gli altri dovettero prepararsi la valigia e lo zaino. Alle 16.30 entrarono cinque o sei tedeschi e cominciarono a imbarcare tutti quelli che non volevano restare, e furono portatati nel campo fuori Bordeaux e spogliati di tutto il superfluo. Più di uno si pentì e tornò indietro.

 

Dopo lo sbarco in Normandia, a noi venne dato l’ordine di ritirata verso il nord. Per caso mi venne dato il comando di un camion; avevo con me sei marinai più l’autista, un sergente del S. Marco. Dovevo seguire la carovana dei tedeschi in ritirata. Arrivati a Poitiers, a metà strada tra Parigi e Bordeaux, ci siamo fermati. Il comandante italiano mi diede l’ordine di andarmi a rifornire di carburante, e di due sacchi di carbone e di legna per alimentare la caldaia. Approfittai dell’occasione per chiedere al commerciante se avrebbe potuto procurami delle carte topografiche della regione. Invertii la rotta e ripercorsi la medesima strada. Con la carta topografica in mano, deviai verso un viale alberato che portava in un boschetto dove m’inoltrai finché non mi resi conto di essere coperto.

 

Qui incontrai due francesi, marito e moglie, che accompagnai fino a Bordeaux perché dovevano proseguire per la Spagna. Incaricai i francesi di andare in un paese vicino a comprare due lenzuola bianche e della pittura per tingere; volevo fare delle bandiere francesi e dei bracciali. Nel frattempo cercammo di metterci in borghese, scavammo una fossa dove seppellimmo tutto. Rimase sul camion una mitraglietta Breda più la mia pistola Beretta 7,65. Tornammo indietro verso Bordeaux. Qui mi presentai al Consolato Italiano e a loro feci presente dove avevamo nascosto le armi. Il giorno seguente andarono ma non trovarono più nulla perché i contadini del posto avevano preso tutto.

 

Dissi loro inoltre che mi sarei dovuto presentare al Consolato di Marsiglia. Ci misero a dormire nei camerini su materassi di fieno. Siamo stati bene per qualche giorno. Un giorno mentre stavamo mangiando nei refettori sentimmo quattro colpi di mitra nei piani superiori, proprio nel camerine dove ero sistemato. Un operaio dei cantieri di Monfalcone si era sparato in bocca. Io era stato uno dei primi a soccorrerlo. Nello stesso pomeriggio vennero dei camion della polizia francese; ci sequestrarono le armi e ci portarono in un campo di prigionieri tedeschi, un po’ fuori Marsiglia. Fummo sistemati in una baracca dove eravamo una quarantina. Avevamo i pidocchi e dormivamo sulla paglia. Ogni mattina c’era la conta dei prigionieri da parte francese. Dopo 20 o 25 giorni in campo, si presentò una delegazione jugoslava che ci passò di rivista chiedendoci da quale paese venivamo… Risposi che ero di Fiume, con altri di Gorizia e di paesi istriani. In cinque o sei giorni in tutto fummo trasferiti in un altro campo ma questa volta di jugoslavi. Grazie a questi, in vagoni merci, riuscimmo ad arrivare a Fiume. Qui resi noto il mio indirizzo e mi lasciarono libero.

 

Così si concluse la mia guerra.

Mario Daneo

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  • 3 weeks later...
  • 1 month later...

Il sig Daneo era mio nonno :s01: , il racconto che avete letto e' stato scritto da mio nonno di suo pugno quando aveva 70 e passa anni .. grazie ad una iniziativa della casa di riposo dove stava felicemente. ( tutti gli anziani della casa di riposo stilarono la loro storia... iniziativa lodevole ).

 

La storia e' correlata da alcune foto dell'epoca presso questo indirizzo web http://www.regiamarina.net/ link piu' preciso http://www.regiamarina.net/subs/people/sto...es/daneo_it.htm

, ringrazio il sig. Cristiano D'Adamo per aver pubblicato la storia di mio nonno.

 

balto63 U212 mio nonno nel 1946 dovette scappare da Fiume con sua moglie , 2 figli e tutti i parenti... tranne una sorella che aveva collaborato con i partigiani titini e pote' restare. In definitiva la famiglia allargata venne distrutta dall'esodo... visto che posso contare parenti in ben 5 nazioni estere... solo pochi rimasero in italia.

Continuo' a lavorare sulle navi mercantili di tutto il mondo come ufficiale di macchine e concluse la sua carriera di marinaio molti anni dopo, mori' all'eta' di 84 anni, ora vive nei ricordi di tutti i suoi nipoti.

 

ciao :s01:

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