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max42

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  1. Sono trascorsi pochi giorni dal 75° anniversario dello sbarco in Normandia e questa data mi ha fatto tornare alla mente la storia di un Liberty che oggi è un museo galleggiante e che, pochi giorni dopo l’inizio dell’Operazione Overlord, arrivò davanti a quelle famose spiagge. Il 28 Dicembre 2009, Rita ed io eravamo a San Francisco, dove la nave che ci stava portando in Cina in uno stupendo viaggio attraverso due oceani aveva fatto scalo. Questa era la seconda volta che visitavamo la metropoli californiana e, dal momento che avevamo già visto quel che resta del centro storico dopo il grande incendio innescato dal disastroso terremoto che squassò la città il 18 aprile 1906, ed il Financial District con i suoi impressionanti grattacieli, decidemmo di trascorrere la giornata al Fisherman’s Wharf, il porto peschereccio di San Francisco, nel quale a partire dai giorni della febbre dell’oro e fino ai primi del ′900 arrivavano ogni mattina le piccole imbarcazioni a vela latina per scaricare il pescato della notte, destinato per la maggior parte agli stabilimenti d’inscatolamento del pesce alle spalle del Fisherman’s Wharf. Oggi i pronipoti di quei pescatori, che erano in prevalenza immigrati dall’Italia e fecero la storia di questo angolo di San Francisco, continuano la tradizione dei loro avi con una minuscola flottiglia di imbarcazioni che riforniscono quotidianamente i numerosi ristoranti disseminati sulla Jefferson Street. Questo antico porto è stato ora trasformato in un museo della marineria a cielo aperto e vi sono ormeggiati alcuni velieri che nel XIX secolo attraversavano gli oceani trasportando le merci più disparate, traghetti con propulsione a ruote che collegavano i vari centri della baia e che restarono in servizio fino agli anni ′30 del ′900. Infine, al Pier 45, sono ormeggiati il sommergibile USS Pampanito, che operò durante la Seconda Guerra Mondiale, ed uno degli ultimi due Liberty sopravvissuti: il Jeremiah O’Brien. Poiché l’occasione di poter metter piede su questo cimelio storico era troppo ghiotta, dopo aver convinto Rita non esattamente entusiasta di questa iniziativa, ci siamo diretti verso questo museo galleggiante. Ai piedi della passerella che sale sulla nave c’è un piccolo box dove vengono registrati i visitatori e lì un veterano della US Navy facente parte del centinaio di volontari che formano l’equipaggio della nave, si è offerto di accompagnarci nella visita. Il Jeremiah O’Brien ormeggiato al Pier 45. La nostra guida. Osservando il cassero centrale dalla posizione in cui ci troviamo nella foto sopra, salta subito agli occhi una strana “fodera” del ponte di comando e delle postazioni per le mitragliere contraeree situate alle due estremità della controplancia. La nostra guida ci spiega che durante la guerra l’acciaio scarseggiava perché impiegato negli armamenti, quindi la protezione delle zone sensibili dei Liberty, come il ponte di comando e le postazioni delle armi da fuoco era realizzata in cemento armato. Un’altra caratteristica erano le sole tre finestre del ponte di comando: si voleva ridurre al minimo le aperture per mantenerne la massima resistenza. Il ponte di comando e la postazione antiaerea di dritta visti dalla coperta. Ci spostiamo alla tuga di poppa dove era ubicato l’ospedale, non visitabile. È comunque interessare notare quello che la nostra guida definisce il “ponte di comando di poppa”. Anch’esso, come le postazioni antiaeree laterali, è rinforzato con protezioni di calcestruzzo ed è una vera e propria stazione di governo d’emergenza. Da qui si poteva governare la nave nel caso di danneggiamento del ponte di comando principale. La ruota a caviglie agiva direttamente sul servomotore del timone escludendo il telemotore. Si notano, coperti, la bussola magnetica a proravia della ruota a caviglie e, poco più a sinistra, il telegrafo di macchina. Un piccolo tavolo da carteggio è nascosto dalla manica a vento. Sulle piazzole laterali si vedono due mitragliere antiaeree. A proravia della tuga, il verricello a vapore (come del resto tutti gli altri verricelli, compreso il salpa ancore) per tonneggiare i cavi durante le manovre di ormeggio. Cassero di poppa. Per una migliore comprensione di come si è svolta la visita all’interno, inserisco qui sotto un piano generale del Jeremiah O’Brien; quando passeremo agli alloggi e parti comuni aggiungerò un ingrandimento dei quattro ponti del cassero centrale. Attraverso un passaggio interno scendiamo nella stiva n. 2, dove sono sistemati alcuni mezzi militari d’epoca, tra cui due jeep e un camion che spesso costituivano buona parte del carico trasportato dai Liberty. Sul pavimento alcune casse di munizioni. Poi è la volta della sala macchine, dove troneggia la semplice motrice a triplice espansione, con i relativi quadri di comando, le caldaie ed i vari macchinari ausiliari, ma il tutto incredibilmente semplice e spartano rispetto alle sofisticate sale macchine delle navi moderne; sono passati meno di ottant’anni, ma sembra che la tecnologia abbia compiuto progressi di secoli! Una veduta parziale della testata della macchina alternativa. Si vedono, in particolare, i coperchi delle testate dei cilindri a bassa e media pressione. Tra i due, il coperchio della valvola a cassetto del cilindro a bassa pressione. Bielle, aste delle valvole a cassetto e albero motore. Le caldaie, alimentate ad olio combustibile Il telegrafo di macchina. La leva è posizionata su “FINISHED WITH ENGINE”, l’equivalente del nostro “FINITO IN MACCHINA”. Notare, sotto il telegrafo, il contagiri davvero primitivo. A sinistra “ASTERN” (Indietro), a destra “AHEAD” (Avanti). La scala arriva fino a 125 giri/minuto, ma in realtà il regime a “FULL” (Tutta forza) era di 75 giri/min. L’elica a quattro pale aveva un diametro di 5,64 m. L’invertitore di marcia e il quadro di controllo nella postazione di guardia della sala macchine. Riemergiamo dal profondo ventre della nave e saliamo nella zona abitativa del cassero centrale. Gli spazi sono molto angusti e l’arredamento essenziale. Finiture spartane. CASSERO CENTRALE – PONTE COPERTA – TRADUZIONE DI ALCUNE DEFINIZIONI: Spares = Cabine disponibili; Crew’s Mess = Mensa equipaggio; Pantry = Cambusa; P.O. Mess = Mensa sottufficiali; Cooks = Cuochi; Stwd. = Cameriere; Messmen = Giovanotti di camera e di cucina; Ship Off. = Segreteria; Engine Casing = Cofano macchina; Galley = Cucina; Boiler Casing = Cofano caldaie; Off. Mess = Mensa ufficiali; Lounge = Saletta ufficiali; Carp. & Bsn. = Caporale di macchina e Nostromo; Wipers = Giovanotti di macchina; Firemen = Fuochisti; Oilers, Donkeymen = Ingrassatori, Macchinisti; Uno scorcio della mensa equipaggio – Notare i termosifoni disposti a paratia. I termosifoni erano installati in tutti gli spazi abitativi. Cabina dei cuochi Cabina del cameriere – Notare l’enorme differenza con la cabina dei cuochi. Il letto, come nelle altre cabine, è molto corto. Cabina dei giovanotti di cucina e camera. Sono 4 cuccette sovrapposte, due per lato. Anche qui lo spazio è molto angusto. La cucina – Le norme igieniche dell’epoca erano decisamente più permissive. Cucina - Il piano di lavoro alle spalle del lavello. Notare il severo monito per genitori “distratti”. La stufa a carbone della cucina. Sembra impossibile che in spazi così ristretti si cucinassero ogni giorno tre pasti per un’ottantina di persone, tra civili (marinai) e militari (artiglieria e comunicazioni). Mensa ufficiali. La foto è di scarsa qualità, ma rende l’idea della sua essenzialità. L’unica differenza con la mensa equipaggio è costituita dai tavoli più piccoli e dalle sedie con i braccioli. Saletta ufficiali. L’unico lusso è costituito da un divano in finta pelle a paratia. Cabina marinai. Tutte le cabine della bassa forza erano composte da quattro cuccette e quattro stipetti verticali (uno è visibile ai piedi delle cuccette di sinistra). Il termosifone elettrico in fondo a sinistra non fa parte dell’arredamento originale. Saliamo ora sul Ponte lance. CASSERO CENTRALE – PONTE LANCE – TRADUZIONE DI ALCUNE DEFINIZIONI: Asst. Engrs. = Ufficiali di macchina (3° – 2° – 1°); Chf. Engr. Off. = Ufficio direttore di macchina; Chf. Engr. S.R. = Cabina direttore di macchina; Spare (Pilot) = Cabina disponibile (Pilota); 2nd. Mate = Cabina 2° ufficiale di coperta; Jr. 3rd Asst. Engr. = Cabina allievi ufficiali di macchina; Jr. 3rd Mate = Cabina allievi ufficiali di coperta; 3rd Mate = Cabina 3° ufficiale di coperta; Chf. Mate = Cabina 1° Ufficiale coperta. Ufficio del direttore di macchina. Ovviamente, gli oggetti che si trovano sulla scrivania non sono originali. Il Jeremiah O’Brien effettua saltuarie uscite in mare con equipaggio composto da veterani della US Navy, quindi sono stati portati a bordo strumenti moderni. Anche il radar non era previsto nel piano originale. Cabina del 2° ufficiale di coperta. Anche qui compaiono numerosi oggetti non originali, compresa la moquette sul pavimento. Cabina allievi ufficiali di macchina. Erano previsti due allievi sia di coperta che di macchina, che alloggiavano in una cabina piccolissima con due cuccette sovrapposte simili a quelle della bassa forza. Cabina del 3° ufficiale di coperta. Saliamo sul Ponte superiore. CASSERO CENTRALE – PONTE SUPERIORE – TRADUZIONE DI ALCUNE DEFINIZIONI: Ch. Radio Op. = Capo radiotelegrafista; Radio Op. = Radiotelegrafista; Batt. Rm. = Sala batterie; Radio Rm. = Sala radio; Dk. L. = Scale (a sn. scende al ponte lance; a dx sale in controplancia); Wheel House = Timoneria o Ponte di comando); Bond Stores = magazzino prodotti senza tasse (sigarette, liquori, ecc.); Capt. S.R. = Cabina del comandante; Capt. Off. = Ufficio del comandante; Chart Rm. = Sala nautica. Cabina del Capo radiotelegrafista. Sala radio. Notare, da sinistra a destra, la macchina da scrivere d’epoca. Uno dei due “orologi del silenzio”, come erano chiamati a bordo: sul quadrante ci sono delle zone opportunamente colorate, in rosso e in verde che consentivano al marconista di sapere, con un colpo d’occhio, quando nell’arco di un’ora doveva cessare le trasmissioni e mettersi in ascolto per tre minuti sulle frequenze di soccorso, settori rossi per la telegrafia e settori verdi per la fonia. Evidentemente questo orologio è stato aggiunto in un secondo tempo, perché all’epoca della costruzione dei Liberty le trasmissioni in fonia non esistevano (vedi orologio sul pannello di fronte all’operatore). Cuffia di ascolto. Quadrante di selezione delle frequenze radio; tasto morse (sul piano di lavoro). Ponte di comando – Timoneria. Sulla paratia alle spalle del timoniere lo scaffale delle bandiere di segnalazione. Notare le due colonne montanti verso la controplancia sopra il telegrafo di macchina e la ruota a caviglie. Ne avremo la spiegazione quando saliremo in controplancia. La ruota a caviglie è imperniata sul meccanismo del telemotore. A sinistra del telemotore la ripetitrice della girobussola. A proravia del tele motore, leggermente spostata sulla destra, la bussola magnetica. Un’altra inquadratura del ponte di comando dala quale si rileva la sua minuscola dimensione. Sul fondo, coperto da un telo, un vecchio modello di radar aggiunto in un secondo tempo. Notare la doppia porta (metallica scorrevole e di legno) per dare una parvenza di maggior protezione alla plancia. Infine i tre finestrini con la protezione metallica abbassata. Non ho saputo resistere alla classica foto al timone del Jeremiah O’Brien! Cabina del comandante. Notare, a sinistra, l’estremità del tubo portavoce con la sala nautica. Ingresso all’Ufficio del comandante dal carruggetto interno che corre attorno al cofano caldaie. Notare la radio anni ’40 sul mobiletto a sinistra e la macchina da scrivere originale. Ufficio del comandante in comunicazione con la cabina. Il megafono originale dà l’idea della tecnologia dell’epoca. Sala nautica. In primo piano la girobussola madre. Finisce qui la visita ai locali interni; tutti spazi ristrettissimi in cui erano costretti a vivere per lunghi mesi un’ottantina di persone, tra militari e civili, sotto l’ incubo di attacchi da parte di sommergibili nemici che ben difficilmente avrebbero lasciato scampo, o di incursioni di aerosiluranti quando la navigazione si svolgeva in prossimità della costa. Durante la navigazione in convoglio la navigazione era condotta dalla controplancia, priva di qualsiasi protezione, qualunque fossero le condizioni atmosferiche. Questo si rendeva necessario perché la formazione era molto stretta e c’era il rischio di collisioni. Sull’intelaiatura superiore veniva generalmente steso un tendalino. Si notano, benché coperti, la ruota a caviglie, la bussola magnetica e il telegrafo di macchina (un’unica cuffia) e, a destra, la ripetitrice della girobussola. Da un opuscolo lasciatomi dalla nostra guida ho tratto la storia di questa nave che, per le vicissitudini incontrate nella sua lunga carriera, può davvero definirsi “una nave fortunata”. Assemblato in meno di due mesi nei cantieri della New England Shipbuilding Corporation di South Portland, nel Maine, sulla costa atlantica degli Stati Uniti, il Jeremiah O’Brien – fino ad allora denominato Costruzione 230 – fu varato il 19 giugno 1943: una cerimonia come tante altre, semplice ed essenziale. Quel giorno fu l’unica nave a lasciare il Cantiere Ovest di South Portland. Era stato costruito in 57 giorni, perfettamente in linea con i tempi medi del cantiere ed il lavoro sulle altre navi in costruzione non si interruppe nemmeno un momento quando lo scafo disadorno scivolò in mare con il gran pavese a riva. Il Jeremiah O’Brien pochi giorni prima del varo nel cantiere New England Shipbuilding Corporation di South Portland, Maine. La signora Starling, moglie del capo dei Servizi Segreti della Casa Bianca dal 1923 al 1929, sotto la presidenza di Calvin Coolidge, fu la madrina del varo che avvenne con una cerimonia non aperta al pubblico per motivi di sicurezza connessi al tempo di guerra. La nave fu battezzata col nome di Jeremiah O’Brien, un capitano marittimo di Machias, nel Maine, che a capo di un gruppo di cittadini insorti, il 12 Giugno 1775 li guidò all’assalto dello sloop inglese Margaretta che si trovava sul Machias River, conquistandolo. Questa fu la prima battaglia navale della Guerra d’Indipendenza americana. Anche le navi gemelle uscite in quei giorni dal cantiere portarono nomi di personaggi illustri del Maine: il Joshua L. Chamberlain (Costruzione n° 229), varato il 14 giugno, assegnato anch’esso al servizio convogli, e il John A. Poor (Costruzione n° 231), varato il 23 giugno e silurato un mese più tardi mentre era in navigazione da Boston ad Halifax. La minaccia di sommergibili tedeschi nelle acque dell’Atlantico, anche in prossimità della costa americana, era così elevata che il Jeremiah O’Brien compì il viaggio di trasferimento da Portland a Boston in totale silenzio radio. Circa un mese dopo il varo, l’O’Brien salpò da Boston per il suo primo viaggio in un convoglio, formato da 23 mercantili e scortato da tre cacciatorpediniere, diretto ad Halifax in Nuova Scozia, Canada, ad una velocità di 8 nodi. Le navi viaggiavano a luci spente ed in assoluto silenzio radio. Gli ordini erano di mantenere una distanza di 400 metri tra una nave e l’altra e ciò non era affatto semplice, specialmente nel buio della notte, con mare agitato o in presenza di nebbia; per non venir meno a questa direttiva erano necessarie continue variazioni di velocità e di rotta: un compito particolarmente arduo con visibilità scarsa o assente ed era costante il rischio di collisione con un’altra nave. Dopo aver completato il carico ad Halifax, l’O’Brien iniziò la traversata dell’Oceano Atlantico, questa volta inquadrato in un convoglio di 32 navi e due cacciatorpediniere. La velocità fu fissata a 10 nodi. A parte la tensione che regnava a bordo per la consapevolezza che in qualsiasi momento la nave avrebbe potuto subire un attacco e il disagio per l’equipaggio causato dal grande numero di personale imbarcato, tanto che si dormiva “a branda calda”, il viaggio si svolse senza che accadesse nulla di rilevante ed il 5 agosto il Jeremiah O’Brien arrivò ad Aultbea, nel fiordo di Loch Ewe, in Scozia. Quattro giorni più tardi era ormeggiato ai Victoria Docks di Londra, dove avrebbe sbarcato tutto il suo carico. Per i marinai, la possibilità di scendere a terra costituiva una pausa quanto mai gradita alla stressante vita di bordo. Qualcuno andava a visitare la città, altri invece si dedicavano ad attività meno culturali. I pub, con la loro ampia offerta di bevande alcoliche, erano un classico luogo di ritrovo per gli equipaggi assetati da un lungo periodo di astinenza, dal momento che gli alcolici erano vietati a bordo e talvolta una scazzottata tra marinai ubriachi creava qualche problema diplomatico. Le cause delle risse erano le più svariate, ma generalmente erano per questioni di donne. Gli Inglesi se la prendevano con gli Americani perché li irritava molto il fatto che le loro donne fraternizzassero con gli Yankees. Una volta accadde un incidente particolarmente grave: un radiotelegrafista fu ferito a coltellate in modo serio e un nostromo perse un occhio dopo essere stato colpito con un coccio di bottiglia; uno dei partecipanti fu congedato con disonore: gli fu comminata una multa di 10 dollari e dovette sbarcare con l’unica ricompensa di una stecca di sigarette. Per qualche tempo ai marinai fu vietato di scendere a terra. Nel viaggio di ritorno verso gli Stati Uniti, il convoglio navigò lungo la costa orientale dell’Inghilterra fino alla Scozia e poi fece rotta verso Ovest. Questa volta la navigazione fu assai più movimentata, ma la fortuna continuava ad assistere l’O’Brien. Mentre il convoglio navigava verso nord molto vicino alla costa, dalla nave si udirono in lontananza delle cannonate accompagnate da sorde esplosioni: il porto inglese di Hull era sotto bombardamento tedesco, ma il convoglio passò indenne, senza subire alcun attacco. Il giorno successivo l’equipaggio avvertì una forte esplosione molto vicina alla prua e fu ordinato il posto di combattimento; era accaduto che un dragamine aveva fatto brillare una mina proprio davanti all’O’Brien. Pochi giorni dopo fu avvistato un periscopio a non più di 200 metri sulla dritta e le navi di scorta sganciarono immediatamente le bombe di profondità. Non appena suonò l’allarme generale, l’O’Brien fece una rapida accostata; solo dopo qualche tempo si ebbe la certezza che il sommergibile nemico si era eclissato e l’equipaggio tirò un sospiro di sollievo. Vi furono altri momenti di tensione quando furono avvistati aerei nemici in zona e suonò il posto di combattimento; tutto si risolse senza incidenti, ma si manifestarono delle perdite in due caldaie e l’O’Brien dovette far rotta verso il porto più vicino per effettuare le riparazioni. Una singola nave non poteva avere una scorta militare, così dovette navigare da sola nelle acque del Firth of Clyde, in Scozia; anche questa volta senza incidenti, ma il fatto di non poter contare su alcuna protezione creò sicuramente molta tensione nell’equipaggio. Poi si trovò a navigare in una chiazza di nafta rilasciata da una nave silurata poco più avanti rispetto alla posizione in cui lei si trovava; ancora una volta l’O’Brien era stato assistito dalla fortuna. La nave rientrò a New York il 10 settembre 1943, dopo aver felicemente completato il suo primo viaggio e, da quel momento, le fu attribuito l’appellativo di “nave fortunata”. Dopo aver effettuato altri tre viaggi in Inghilterra, l’O’Brien fu approntato per prendere parte allo sbarco in Normandia, insieme ad altre migliaia di navi. In quell’occasione trasportava truppe, esplosivi ed autoblindo che il 9 giugno 1944 presero terra ad Omaha Beach. Appena tre giorni prima, proprio ad Omaha Beach si era scatenata la più aspra battaglia mai tenuta sulle spiagge dello sbarco, ma quando arrivò l’O’Brien il combattimento era già notevolmente diminuito d’intensità; dovette comunque subire l’attacco di aerei tedeschi e fu più volte colpito da schegge di bombe, ma riportò solo danni di scarsa rilevanza ad una scialuppa di salvataggio; la fortuna continuava ad assisterlo! Nei giorni dello sbarco effettuò in totale quattro viaggi ad Omaha Beach ed altri sette ad Utah Beach, trasportando rifornimenti e truppe dall’Inghilterra; ne uscì indenne ogni volta, a differenza di altre navi attaccate da aerei o affondate da mine. Certamente i momenti di paura non mancarono e la sirena del posto di combattimento suonò parecchie volte, ma i danni causati dalle schegge di bombe che sibilavano nell’aria furono sempre molto lievi. Ora che il Jeremiah O’Brien aveva registrato sul suo palmares la partecipazione alla più grande invasione mai avvenuta, era giunto il tempo di far ritorno negli Stati Uniti per continuare la sua attività. La guerra non era ancora finita, ma era ormai chiaro che gli Alleati avrebbero vinto. Ancora molti viaggi avrebbero aspettato l’O’Brien, anche nel dopoguerra. Nei successivi sedici mesi trasportò uomini, armi, automezzi e merci in numerosi altri Paesi: Cile, Perù, Nuova Guinea, Filippine, India, Cina ed Australia, prima di tornare a San Francisco e la sua proverbiale fortuna lo accompagnò sempre. Mentre stava per arrivare a Mindoro, nelle Filippine, con un importante carico di esplosivi, l’equipaggio apprese che la nave che lo precedeva era stata colpita da un kamikaze. Anche quella nave trasportava esplosivi e al momento dell’impatto con l’aereo suicida si era disintegrata. Questa informazione, su un equipaggio già molto nervoso a causa del carico stivato a bordo, mandò la tensione a mille e questo stato non cessò fino a quando, parecchi giorni dopo, la nave non fu completamente scaricata. Poi il Jeremiah O’Brien fece rotta su Calcutta per imbarcare un carico che doveva essere trasportato a Shanghai per conto dell’US Army. La guerra era ormai finita e la vita a bordo si svolgeva in maniera assai più tranquilla. Il silenzio radio era soltanto un ricordo del passato, gli allarmi erano rari sebbene il pericolo di incappare in qualche mina fosse ancora incombente; tuttavia le cose continuarono ad andare per il meglio e il viaggio non destò particolari preoccupazioni. Forse il carico più insolito trasportato dall’O’Brien fu quello del suo ultimo viaggio, da Fremantle, in Australia, a San Francisco: nove spose di guerra australiane con tre bambini si imbarcarono come passeggere; le nove donne si erano sposate con dei marinai americani ed ora venivano portate negli Stati Uniti per ricongiungersi ai rispettivi mariti. Dovettero essere apportate alcune modifiche agli alloggi per evitare imbarazzanti promiscuità ed il viaggio si svolse senza alcun problema; il ritorno in patria fu ancora più gradevole. Gli uomini passavano il tempo a chiacchierare ed a giocare a carte con le spose di guerra, che tra l’altro trascorrevano diverse ore a prendere il sole in coperta; i marinai disponevano di macchine fotografiche …, così prese il via una nuova attività per impiegare il tempo libero a bordo. Il ritorno a San Francisco segnò l’ultimo viaggio operativo di questo Liberty. In un primo tempo fu scelto per essere convertito in nave ospedale, ma nel 1946 fu invece assegnato alla Flotta di Riserva della Difesa Nazionale a Suisun Bay in California. Sulla carta era una nave in perfetto stato di navigabilità, pronta ad entrare in servizio in qualunque momento. In realtà era finito nella ignominiosa Flotta in Naftalina, uno spettrale cimitero di navi arrugginite per le quali, di anno in anno, si avvicinava sempre più il momento della demolizione o della vendita ad armatori privati. In questo stato di abbandono il Jeremiah O’Brien rimase per ben 33 anni. Ancora una volta la fortuna, unita a qualche rimescolamento di documenti, sorrise a questa nave ormai dimenticata. Un giorno del 1962 l’ammiraglio Thomas Patterson, ispettore dell’Amministrazione della Marina, salì a bordo dell’O’Brien nel corso di una verifica delle navi che avrebbero dovuto essere inviate alla demolizione nei giorni successivi, ma rimase colpito da ciò che vide. Successivamente dichiarò: «Era assolutamente immutato rispetto a quando era operativo. Si trovavano ancora a bordo tutti documenti che lo avevano riguardato, dalla Normandia al Pacifico … Il quaderno degli ordini del comandante della notte che precedette lo sbarco in Normandia era ancora nel cassetto della scrivania. La nave sembrava essere una capsula del tempo…». Patterson, conscio del valore storico dell’O’Brien, si adoperò per nasconderlo in qualche modo, facendolo scivolare all’ultimo posto della lista delle navi da demolire e qualche giorno prima che gli operai salissero a bordo per recuperare le parti che avrebbero potuto essere riutilizzate, l’O’Brien fu trasferito altrove in gran segreto. Nel 1966 le ripetute sollecitazioni di Patterson furono accolte dall’Amministrazione della Marina, che approvò la trasformazione della nave in museo. Tuttavia solo nel 1978, dopo la costituzione in California del National Liberty Ship Memorial Inc., una fondazione senza fini di lucro, iniziarono i lavori di raddobbo. A quell’epoca la nave era un valoroso relitto, completamente arrugginito, ancorato ad un miglio dalla costa senza né acqua, né luce, né servizi igienici funzionanti. Ci vollero mezzo milione di dollari e migliaia di ore di lavoro da parte di volontari per rimetterlo in condizione di navigare. L’8 ottobre 1979, col gran pavese a riva e 500 ospiti a bordo, lasciò con i propri mezzi il cimitero di navi di Suisun Bay per raggiungere i cantieri Bethelehem Steel della California per un lifting completo. Nel 1980 il Congresso l’ha dichiarato Monumento Storico Nazionale. Attualmente l’O’Brien è ormeggiato al Pier 45 del Fisherman’s Wharf, dove centinaia di volontari lo mantengono in attività, arrivando anche ad organizzare delle minicrociere giornaliere nella baia. Nell’aprile 1994, il Jeremiah O’Brien è passato ancora una volta sotto il Golden Gate, diretto in Normandia per le cerimonie commemorative della cinquantenario del D-Day che si tennero in Giugno, portando con sé, unica nave ad aver partecipato allo sbarco, un grande carico di storia.
  2. Grazie a tutti per l'apprezzamento .... ma la nostalgia per il mare e le navi aumenta con l'incedere dell'età e, dicono, quando si comincia a vivere di ricordi si è davvero vecchi. Mi illudo di essere l'eccezione alla regola! Sto preparando quella che, secondo me, è una vera chicca. La posterò nei prossimi giorni.
  3. max42

    Giornata della Marina 2019

    Peccato non esserci. Ricordo con nostalgia la festa dello scorso anno ad Ancona.
  4. Come dicevo nell'articolo, sono usate molto raramente perché la struttura cellulare delle portacontainer non prevede queste misure. Li ho citati unicamente per completezza di informazione. Generalmente vengono imbarcati in stiva sulle multipurpose, collocati sopra i ma-fi, delle specie di carrelli senza l'asse anteriore che vengono spinti (quando imbarcano) o trainati (quando sbarcano) dal trattore in dotazione della nave che ha il posto di guida girevole di 180°. La foto che segue, pur se di scarsa qualità, rende l'idea; in questo caso sul ma-fi sono imbarcate delle casse e il trattore sta operando da "spintore".
  5. I Comandanti non più giovanissimi che hanno un passato in Marina mercantile, ricorderanno che fino agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso, le merci varie venivano trasportate in casse di legno, sacchi e barili. Era il sistema di trasporto via mare in uso da sempre. Il carico e lo scarico delle merci era molto laborioso; una nave di 10-12.000 tonnellate di portata (questa era la media delle dimensioni dell’epoca) restava ormeggiata in porto fino a due settimane per completare le operazioni, con i portuali che manovravano il carico dentro e fuori da spazi angusti all’interno delle stive. Spesso per sollevare i carichi non si usavano le gru di banchina, ma i bighi (era questo il nome dei picchi di carico di bordo) accoppiati “all’americana”. Un bigo era bracciato sopra il boccaporto e l’altro sulla banchina; i due amantigli (cavi d’acciaio che facevano capo al verricello) erano collegati ad un unico gancio; quando il bigo sul boccaporto calava o issava il carico dalla stiva, l’amantiglio dell’altro bigo veniva lasciato in bando, così da non ostacolare la manovra; quando il bigo sulla banchina prelevava o deponeva il carico, avveniva l’inverso, cioè il bigo sul boccaporto veniva lasciato in bando, in modo da consentire la rotazione del gancio di circa 90° e il suo spostamento all’esterno della murata. I due verricelli dovevano essere manovrati da portuali esperti per non provocare danni e inoltre il peso del carico non doveva superare le 3 tonnellate, anche se il singolo bigo ne poteva sollevare 5, perché le tensioni laterali sui cavi e sui bracci di carico aumentavano considerevolmente. La merce che si movimentava era generalmente contenuta dentro una braca “giapponese”, ossia un quadrato di cavi annodati a formare una rete munita di quattro golfari agli angoli nei quali si inseriva il gancio. Quando si sollevava con dentro la merce, si creava una specie di sacco che poteva essere abbastanza facilmente depositato nella stiva o in banchina. Naturalmente con l’uso le maglie della giapponese si usuravano e, se non si interveniva in tempo, prima o poi la braca si rompeva causando la caduta del carico. A questo proposito mi viene in mente un episodio avvenuto durante il mio primo imbarco da Allievo ufficiale. Eravamo a Marsiglia e stavamo caricando delle casse di vino destinate alla comunità francese di Abidjan (la Costa d’Avorio aveva ottenuto l’indipendenza da pochi mesi e il quartiere europeo della capitale era abitato esclusivamente da Francesi), quando forse per la spigolosità delle casse la braca si ruppe facendo precipitare tutto il suo contenuto in banchina che divenne immediatamente rossa di Bordeaux. Da bordo ci accorgemmo immediatamente che numerose bottiglie non si erano rotte, così il 1° Ufficiale mi spedì subito in banchina con l’ordine di recuperarle. Da bordo calarono un vecchio bidone di vernice utilizzato per contenere stoppa e filacce e lo riempii un paio di volte con le bottiglie superstiti. L’operazione fu particolarmente apprezzata perché per qualche giorno pasteggiammo a Bordeaux anziché col pessimo cancarone dal sapore di resina che ci passava il provveditore di bordo. La geniale intuizione di un camionista americano, Malcom McLean, decretò la fine di questo antico sistema di movimentazione delle merci. Nel 1935, quando finì il liceo, McLean comprò un camion di seconda mano ed iniziò con successo una piccola attività di autotrasportatore. Lo stesso anno fondò con il fratello e la sorelle la McLean Trucking Co., con sede in Red Springs, Nord Carolina, e lui era uno degli autisti; la ditta si era specializzata in un business di nicchia consistente nel trasporto di merci e rifornimenti per aziende agricole e l’intraprendenza di Malcom fece sì che alla fine degli anni ’40 l’azienda di famiglia operasse con trenta camion. Nelle lunghe ore che trascorreva al volante percorrendo i circa 1.000-1.500 Km. di strade statali che collegavano il Nord/Sud Carolina a New York, trasportando tabacco e cotone all’andata e attrezzature e pezzi di ricambio al ritorno, Malcom era tormentato da un’idea fissa: caricare i propri camion su una nave nei porti di Wilmington o Charleston, a seconda che l’azienda agricola sua cliente si trovasse in Nord o Sud Carolina e percorrere via mare la tratta fino a New York. Ma il problema era l’ingombro del camion, che faceva lievitare a dismisura il costo del trasporto. E allora perché non trasportare solo il cassone? Tanto più che i mezzi della McLean Trucking Co. erano tutti furgonati. A rafforzare questa sua idea fu un fatto che gli accadde nel 1937 quando dovette trasportare sul suo autoarticolato un carico di cotone al porto di Newark, New Jersey, di fronte a New York sull’altra sponda dell’Hudson, che doveva essere caricato su un mercantile diretto a Istambul. Dovette aspettare alcuni giorni in coda agli altri camion che i lavoratori portuali trasferissero le balle di cotone dai cassoni dei camion alle stive della nave. E qui ebbe il colpo di genio: perché non caricare il solo cassone e scaricarlo su un altro camion al porto d’arrivo per la consegna al destinatario? Durante l’attesa si era reso conto che il carico di una nave era costituito da un gran numero di merci varie che dovevano essere issate a bordo in piccoli quantitativi e poi stivate con attenzione per evitare danneggiamenti durante la navigazione. Tutto questo richiedeva un grande dispendio di tempo e di ore di lavoro. Inoltre, a causa dell’incertezza sulla data di arrivo della nave, la merce veniva spesso scaricata sulla banchina dove giaceva per giorni e anche per settimane, con ampie possibilità di furti e danneggiamenti. Malcom fece allora un esperimento, modificando alcuni automezzi in modo che il cassone furgonato fosse facilmente amovibile dallo chassis ed effettuò la spedizione via mare. L’esito fu positivo: i costi erano praticamente simili a quelli del trasporto via strada, ma si poteva ottenere un grosso risparmio nei costi del personale e inoltre le navi dell’epoca non erano concepite per il trasporto dei cassoni di camion. In sostanza, Malcom McLean intuì che la sua idea avrebbe potuto avere enormi sviluppi nel futuro. Lo scoppio della 2ᵃ Guerra mondiale rallentò il progetto di Malcom. Le industrie producevano a ritmo serrato armi e forniture militari che, sebbene gli Stati Uniti non partecipassero attivamente al conflitto, andavano in parte a costituire le riserve delle Forze armate e in parte venivano imbarcate per supportare la cugina Inghilterra assediata dalle truppe tedesche. Questo stato di cose comportò un grande sviluppo dei trasporti e la piccola azienda di famiglia dei McLean vi si gettò a capofitto. Al termine del conflitto la McLean Trucking Co. era diventata una tra le maggiori aziende di trasporto operanti negli Stati Uniti, con oltre 1.700 autoarticolati. Era giunto il momento, per Malcom, di sviluppare e mettere in pratica la sua idea fissa. All’epoca, la normativa vigente negli Stati Uniti non consentiva alle aziende di trasporto via terra di essere anche società armatoriali e allora, nel 1955, McLean vendette la McLean Trucking Co. al prezzo di 6 milioni di dollari per trasformarsi in armatore. Nello stesso anno, dopo aver ottenuto un prestito bancario di 22 milioni di dollari, Malcom acquistò una piccola compagnia di navigazione: la Pan-Atlantic Tanker Co. Il passo successivo fu l’acquisto di due petroliere T2, la Potrero Hills dalla Philadelphia Marine Co. e la Whittier Hills dalla National Bulk Carriers Inc., entrambe costruite nel 1945 e facenti parte delle 481 unità di questa classe che erano state impiegate nel periodo bellico per trasportare prodotti petroliferi, ma non solo, nei vari teatri di guerra. Infatti, allo scopo di trasferire anche carichi ingombranti come aerei e PT Boats, erano stati realizzati dei graticci di legno amovibili denominati “mechano decks” sui quali venivano ancorati questi carichi particolari. Caccia P-47 su un graticcio collocato tra il cassero centrale e il cassero di poppa di una T2 La Potrero Hills Proprio il “mechano deck” suggerì a McLean la soluzione da adottare per il trasporto dei cassoni furgonati dei suoi semirimorchi. Ribattezzate le due navi rispettivamente Ideal X e Almena le trasferì ai cantieri navali Bethlehem Steel di Baltimora per adattarle al nuovo utilizzo, sovrintendendo personalmente alla realizzazione del falso ponte sul quale trasportare i cassoni. Contemporaneamente lavorava alla modifica dei semirimorchi per consentire un’agevole rimozione e ricollocazione del cassone sul telaio. Per non incorrere nella normativa antitrust, McLean fondò una nuova società di trasporti, la Sea-Land Service Inc., che utilizzava le navi della Pan-Atlantic per trasportare i cassoni furgonati dei propri automezzi. Nel 1960, quando cadde il divieto per gli armatori di essere anche autotrasportatori, la Pan-Atlantic Tanker Co. confluì nella Sea-Land Service Inc. Profilo della Ideal X modificata per il trasporto container L’imbarco dei cassoni sulla Ideal X per il viaggio inaugurale. Notare sulla banchina i semirimorchi ancora con i cassoni montati Venne finalmente il giorno in cui il progetto divenne realtà a tutti gli effetti. Il 26 aprile 1956, ormeggiata ad una banchina del porto di Newark, la Ideal X stava imbarcando i primi cassoni furgonati lunghi 35 piedi (11 metri) prelevati dai semirimorchi parcheggiati in banchina. La gru ne deponeva sul falso ponte uno ogni 7 minuti, affiancati l’uno all’altro in file di sei od otto pezzi a seconda della larghezza dello scafo. I cassoni venivano fissati al falso ponte con degli agganci ideati dallo stesso McLean che si inserivano nelle fessure longitudinali del ponte. Il carico fu completato in otto ore e quello stesso giorno la nave, con 58 cassoni a bordo, ma con le tanche vuote, salpò in zavorra diretta a Houston, Texas, dove sarebbe giunta sei giorni più tardi. Subito dopo la partenza della nave, Malcom volò a Houston per organizzare lo sbarco e l’imbarco degli stessi cassoni riempiti di balle di cotone dalle aziende che li avevano ricevuti con i rifornimenti. Nel frattempo, la Ideal X avrebbe imbarcato 15.000 tonnellate di greggio proveniente dai campi petroliferi del Texas e diretto ad una raffineria del New Jersey. La Ideal X in un rendering che mostra la collocazione dei cassoni a bordo Ben presto altre due petroliere della stessa classe, la Maxton e la Coalinga Hills andarono ad aggiungersi alla flotta della Pan-Atlantic e furono anch’esse adattate al trasporto di cassoni dei semirimorchi. Con quattro navi operative, McLean istituì un servizio regolare porta a porta tra New York (Newark Terminal) e Houston. Fino ad allora la maggior parte delle merci erano caricate e scaricate dalle navi dai lavoratori portuali. Il costo medio della movimentazione dei carichi era di 5,86 dollari a tonnellata; con l’avvento dei container il prezzo scese a 16 centesimi, ben 36 volte di meno! Inoltre il tempo di permanenza in porto delle navi si ridusse enormemente, creando ulteriore efficienza al sistema dei trasporti. Come diceva McLean “Una nave guadagna denaro solo quando è in navigazione”. Altri armatori americani condivisero ben presto la nuova modalità di trasporto messa a punto da Malcom McLean, come la Matson Navigation Co. di San Francisco che due anni dopo trasportò con la Hawaiian Merchant – un Victory della 2ᵃ Guerra mondiale – 20 container da Alameda, nella baia di San Francisco, ad Honolulu, nelle Hawaii; furono i primi container a solcare le acque dell’Oceano Pacifico. L’Hawaiian Merchant transita sotto il Golden Gate Bridge diretta ad Honolulu Il 4 ottobre 1957 la prima nave specificatamente ristrutturata per il trasporto di container, la Gateway City della Sea-Land (originariamente un Victory della 2ᵃ Guerra mondiale) fece il viaggio inaugurale collegando Newark a Tampa con scali intermedi a Miami e Houston. Poteva caricare 226 container da 35 piedi parte in coperta e in parte nelle stive. Un elemento chiave della conversione della Gateway City fu l'aggiunta di una coppia di gru a portale, una a proravia del cassero centrale ed una a poppavia che si muovevano su binari installati su due piattaforme laterali realizzate su entrambe le murate. Ogni gru era dotata di un motore diesel da 290 HP. Le operazioni di carico e scarico richiedevano solo due squadre di lavoratori portuali che in media movimentavano 12 container/ora. La Gateway City – Notare la strana modifica alla forma dello scafo per ottenere le piattaforme laterali sulle quali erano installati i binari delle gru a ponte Il 7 gennaio 1959 entrò in servizio la prima gru di banchina a portale , antesignana delle moderne gru a portale che spiccano nei terminali container dei nostri giorni. Fu realizzata dalla Pacific Coast Engineering Company di Alameda, California su specifiche dettate dalla Matson Navigation Company. Il traffico di container andava sempre più diffondendosi nei trasporti marittimi, ma con una certa confusione nelle dimensioni che ogni azienda di autotrasporti adattava alle dimensioni dei propri camion, creando difficoltà nello stivaggio sulle navi. Nel 1961 la International Organization for Standardization (ISO) definì le misure standard dei container, in uso ancora oggi. Le due misure principali sono, per quanto riguarda la lunghezza, 20 piedi (6,09 m.) e 40 piedi (12,18 m.); per entrambi i tipi l’altezza è di 8 piedi e 6 pollici (2,591 m.) e la larghezza di 8 piedi (2,438 m.). Il peso lordo massimo consentito è di Kg. 30.000, per cui ne consegue che il container da 20 piedi ha una possibilità di carico netto maggiore di quello da 40 piedi: rispettivamente Kg. 27.800 e Kg. 26.199. Nel corso degli anni la normativa ISO ha certificato anche misure diverse, sia in altezza (9 piedi e 6 pollici, 2,896 m.) creando la categoria di container “High Cube”, che di lunghezza: 45, 48 e 53 piedi. Questi ultimi sono però scarsamente usati perché la struttura cellulare della quasi totalità delle navi portacontainer è fatta per i 20 e i 40 piedi. Una specifica importante derivante dai container da 20 piedi è il Twenty-foot Equivalent Unit (TEU) che indica la misura standard di riferimento del volume di carico di una nave portacontainer. Per fare un esempio, una delle più grandi navi portacontainer, la CMA CGM Marco Polo, lunghezza 395 m.,larghezza 54 m., immersione 16 m., ha una capacità di 16.000 TEU, intesi come volume globale che è ovviamente composto da un mix di container da 20 e da 40 piedi. Ma attenzione, si tratta di una misura di volume e non di peso; per cui dovrà essere sempre rispettata la portata massima della nave, che è di 186.470 tonnellate; quindi la possibilità effettiva di carico può scendere anche di alcune migliaia di TEU. La guerra del Vietnam ebbe un ruolo determinante nello sviluppo della containerizzazione. All'inizio del 1965, il governo degli Stati Uniti iniziò un rapido accumulo di forze militari nel Paese del Sud Est Asiatico con gravi problemi di carattere logistico. Il Vietnam del Sud non era assolutamente preparato a sostenere una forza militare moderna come quella messa in campo dagli Stati Uniti; aveva strade primitive, un’unica linea ferroviaria in gran parte inattiva e un solo porto di acque profonde: Da Nang. Ancora una volta Malcom McLean fiutò un lauto affare nel quale avrebbe potuto coinvolgere la flotta di portacontainer della Sea-Land. I rifornimenti alle basi americane arrivavano più o meno con la stessa logistica della 2ᵃ Guerra mondiale o di quella della Corea, anche se in quest’ultima erano state fatte delle spedizioni in cassoni metallici anziché di legno. Gli Stati Maggiori delle truppe americane in Vietnam non vedevano di buon occhio le spedizioni delle merci in container perché erano difficili da maneggiare e si creava un problema in più con la restituzione dei “vuoti”. Contro molte resistenze, McLean si aggiudicò un contratto per la costruzione di un terminale container a Cam Ranh Bay e per gestire i trasporti di merci militari tramite le portacontainer della Sea-Land dalla California al Vietnam. Nel 1969 si trovavano in Vietnam 540.000 soldati, marinai, avieri e marines delle forze armate degli Stati Uniti e le navi della Sea-Land consegnavano una media di 1.200 container al mese di rifornimenti essenziali per il mantenimento di una forza militare ben equipaggiata e ben nutrita. A partire dal 1968 cominciò a svilupparsi un trend via via crescente nella costruzione di navi portacontainer. In quello stesso anno furono costruite 18 navi, di cui dieci con un una capacità di 1.000 TEU, non indifferente per quel tempo. Nel 1969 ne furono costruite 25, di dimensioni sempre crescenti che arrivarono a sfiorare i 2.000 TEU. Nel 1972 si superarono i 3.000 TEU. Nel decennio 1970-1980 i trasporti marittimi con i container crebbero in maniera esponenziale; furono stabiliti collegamenti tra l’Europa e la East Coast degli Stati Uniti e tra la West Coast ed il Giappone. Alla fine del decennio il traffico di merci varie tra Europa, Asia, Sud Africa, Australia, Nord e Sud America era in gran parte containerizzato. Nel 1973, gli armatori di portacontainer europei, statunitensi ed asiatici trasportarono 4 milioni di TEU in tutto il mondo. Dieci anni dopo, nel 1983, si raggiunsero i 12 milioni di TEU. Infine una cifra da capogiro: nel 2017 nei porti di tutto il mondo sono stati movimentati 753 milioni di TEU, con un incremento del 6% rispetto al 2016.
  6. max42

    Incidente a Venezia

    Secondo me le concause sono due: un problema alla trasmissione dei comandi ai motori o qualcosa di analogo che ha impedito il funzionamento del motore di dritta e l'inversione di marcia di quello di sinistra (avrebbe oltre che frenato, allargato la prua). Il rimorchiatore di prua ha tirato al massimo verso sinistra e si è spezzato il cavo. Mi sorge qualche dubbio sullo stato di usura del cavo che dovrebbe resistere a una trazione ben maggiore di quella esercitata dal rimorchiatore. Sarà l'inchiesta a stabilirlo. Inoltre, nelle dichiarazioni del pilota che ho ascoltato suol sito del gazzettino, questi avrebbe dichiarato che era stato dato fondo ad entrambe le ancore nel tentativo di fermare la nave. Esaminando le foto e i filmati non sono riuscito a capire se l'ancora di dritta era ancora in cubia o no. Spero che non sia stata data fondo, perché avrebbe costituito una specie di perno che avrebbe fatto avvicinare ulteriormente la prua alla banchina. Quando è successo l'incidente, la nave stava navigando nel canale della Giudecca diretta al Bacino di San Marco. Morale della vicenda: LE NAVI DA CROCIERA NON DEVONO ESSERE AMMESSE A QUESTO SPECCHIO D'ACQUA. Mi domando se non sarebbe sufficiente un'ordinanza della capitaneria di Porto per mettere fine a questa vergogna.
  7. max42

    Buona festa della Repubblica!

    L' amor patrio non deve mai venir meno, anche se abbiamo conosciuto tempi migliori. Grandi uomini hanno creato l'Italia unificata! Grandi uomini, i padri fondatori, hanno creato la Repubblica sulle macerie di una guerra sbagliata e persa. Per questo, oggi Festa della Repubblica, e sempre comunque, dobbiamo essere fieri della nostra Patria, di essere Italiani!!! W L' ITALIA ! ! !
  8. max42

    I “CAVALLI DA TIRO” DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

    Belle le foto della Sterope che hai postato. Di questa nave non conosco molto, tranne che venne acquisita dalla Marina da un armatore privato e non, come potrebbe apparire logico, da una delle tante T2 che la U.S. Navy aveva all'epoca in "naftalina". Il fatto che tu abbia scattato quelle foto a 18 anni e le altre numerose e belle foto di navi della Marina Militare che hai postato in precedenza mi fanno supporre che tu faccia parte o abbia fatto parte della Marina. Forse sai qualcosa di più su questa che è stata una nave importante per la nostra Flotta. Se sì, hai voglia di raccontarcelo?
  9. max42

    I “CAVALLI DA TIRO” DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

    Che piacere risentirti, Roberto! L'articolo che hai pubblicato è molto interessante e la ricostruzione del ponte di comando della Sestriere, per quanto ho potuto rilevare dalle foto postate, quasi perfetta (non ho visto la consolle del radar e la colonnina del pilota automatico. La lettura del tuo articolo mi ha fatto tornare indietro di tanti anni, quando ho fatto i miei primi due imbarchi da Mozzo-Allievo nautico sulla M/c Italmotor il primo (1958) e sulla M/n Villarperosa (non la prima, quella che citi tu, ma la seconda varata nel 1957 ed entrata in servizio non ricordo bene se alla fine di quello stesso anno o ai primi del 1958), nel 1959. Ebbene, non passava giorno che a bordo non si parlasse della Sestriere e della Sises, le due navi "storiche" dell'ITALNAVI, la società alla quale appartenevano anche l'Italmotor e la Villarperosa. Non c'era comandante, 1° o 2° ufficiale che non vi fossero stati imbarcati e gli aneddoti sulla vita di bordo e sui viaggi di quelle due navi si sprecavano. A proposito del mio articolo sulle Liberty, non dobbiamo dimenticare che anche l'ITALNAVI ebbe quattro Liberty, le famose Italmare, Italcielo, Italsole, Italvega e Italterra. Famose (all'epoca) perché furono le prime navi adibite esclusivamente al trasporto di auto della FIAT (la quale era la proprietaria dell'ITALNAVI) negli Stati Uniti. In particolare 1100 e 600, berlina e multipla. Naturalmente le Ro-Ro dovevano ancora essere inventate, quindi le auto si caricavano e scaricavano con le gru di banchina o con i bighi di bordo passando per i boccaporti. Per la verità, queste navi dei Liberty avevano mantenuto solo lo scafo: nelle stive erano stati costruiti diversi ponti intermedi con un a luce tra l'uno e l'altro di poco più di 2 m., la motrice alternativa era stata sostituita con un motore diesel (FIAT, ovviamente), i bighi originali sostituiti con altri più moderni con motore elettrico ed era stata costruita una lunga tuga sopra la coperta per ricavare altro spazio di carico. Qui di seguito posto una foto dell'Italterra che dà un'idea delle modifiche esterne.
  10. max42

    I “CAVALLI DA TIRO” DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

    Ringrazio te e Danilo per le parole di apprezzamento. Le tue osservazioni sono appropriate e cerco di dare una risposta. Franklin Delano Roosevelt era laureato in legge, anche se non praticò mai la professione di avvocato, e di navi si intendeva abbastanza poco sebbene fosse stato Sottosegretario alla Marina dal 1913 al 1919, ma si occupava di rapporti col personale civile. La battuta dei “brutti anatroccoli” fatta all’ammiraglio Land ha, secondo me, un chiaro riferimento all’omonima fiaba di Andersen: il brutto anatroccolo preso in giro dagli altri pulcini della covata perché così diverso da loro, si trasformerà poi in un bellissimo cigno. I Liberty, rispetto ai nostri mercantili di quegli anni, avevano una linea di scafo decisamente più brutta: non avevano il castello di prua, lo scafo era tozzo, una specie di parallelepipedo orizzontale dagli spigoli inferiori arrotondati che si rastremava senza stellatura alle estremità a formare la prua e la poppa, quest’ultima appuntita e non ad incrociatore. Avevano un cavallino piuttosto accentuato per consentire di affrontare al meglio il mare. Tutto questo era dovuto ai limiti imposti dalla saldatura e dagli strettissimi tempi di produzione, quindi le lamiere dovevano avere meno curvature possibili. Il “bellissimo cigno” di Andersen, forse nel pensiero di FDR si estrinsecava nell’immagine luminosa della vittoria finale degli Stati Uniti e degli Alleati, alla quale questa classe di navi avrebbe contribuito in maniera determinante. Per quanto riguarda la capacità di trasporto dei Liberty, essi uscivano dal cantiere con un ponte di corridoio che divideva in due parti la stiva. In realtà era possibile collocare dei ponti mobili al di sotto del ponte di corridoio e forse (ma non ne sono sicuro) al di sopra, in modo da moltiplicare la superficie destinata al carico. Ecco quindi la possibilità “teorica” (perché il carico non era mai costituito da un unico tipo di merce) di poter imbarcare 2.840 jeep. Invece i carri armati non potevano essere stivati sui ponti mobili a causa del loro peso, quindi venivano sistemati solo in stiva, in corridoio e in coperta. Il numero di 440 si riferisce a carri leggeri, mentre per il carro medio il numero (sempre teorico) scendeva a 260. Un carro armato leggero americano della 2ᵃ Guerra mondiale (sin.) e uno medio (dx) Ecco infine la mia fonte d'informazione: quando ho visitato il Jeremiah O'Brien, accompagnato da un veterano della U.S. Navy che mi faceva da guida, ho potuto sbizzarrirmi a fare le domande più disparate, ottenendo sempre delle risposte chiare, che mi sono sembrate plausibili, come quelle dei carichi “teorici” di mezzi mobili.
  11. LO SCENARIO DI RIFERIMENTO Nel 1936, con una legge federale degli Stati Uniti, fu approvato il Merchant Marine Act. Considerato da molti come la “Magna Charta” della Marina mercantile americana, conteneva tre principi fondamentali: 1. Per la difesa nazionale e per lo sviluppo dei commerci internazionali ed interni era necessaria una Marina mercantile moderna ed efficiente. 2. Le navi di questa nuova Marina mercantile dovevano essere costruite in maniera da poter essere convertite in naviglio ausiliario in caso di guerra o di emergenza nazionale. 3. Tutte queste navi dovevano essere costruite negli Stati Uniti, possedute da armatori americani e battere bandiera americana. Allo scopo di soddisfare questi principi, nell’Act erano previsti sussidi costruttivi ed operativi. Ciò avrebbe consentito alla flotta mercantile nazionale di essere competitiva sul mercato mondiale, dove i costi di fabbricazione erano la metà ed i costi gestionali due terzi di quelli degli Stati Uniti. La rimanente vita operativa delle navi della Marina mercantile americana era valutata in media attorno ai cinque anni. A partire dal 1937, l’Act varava un programma decennale che prevedeva la costruzione di cinquanta navi all’anno. La nuova flotta sarebbe stata composta da petroliere veloci e da tre tipi di mercantili – C1, C2 e C3 – con propulsione a turbina, che avrebbe consentito una velocità di esercizio relativamente elevata. La lettera C stava per Cargo, ossia nave da carico ed i numeri 1, 2 e 3 ne definivano la lunghezza, che era rispettivamente: inferiore a 122 metri, compresa tra 122 metri e 137 metri, compresa tra 137 metri e 152 metri. All’epoca, solo dieci cantieri USA erano in grado di costruire navi lunghe più di 120 metri, con una disponibilità complessiva di quarantacinque scali, metà dei quali erano già impegnati da costruzioni militari. Nel 1939, alla vigilia dello scoppio della guerra in Europa, riconoscendo la necessità di controllare i commerci del Paese, la produzione programmata per il decennio fu raddoppiata, portandola a 100 navi all’anno. Nell’agosto 1940 fu raddoppiata ancora una volta e vennero emessi ordini di costruzione, distribuiti su 19 cantieri, per 200 navi all’anno. Nel settembre 1939, subito dopo l’entrata in guerra della Gran Bretagna, la Maritime Commission aveva venduto alla nazione alleata un elevato numero di navi facenti parte della riserva, ma risalenti alla 1ª Guerra Mondiale. Questa operazione commerciale consentì agli Stati Uniti di disfarsi di naviglio ormai obsoleto e, allo stesso tempo, di rimpolpare il tonnellaggio dell’Inghilterra in una fase particolarmente delicata della sua economia, pesantemente condizionata dagli eventi bellici. Frattanto, in Europa una nazione dopo l’altra cadeva sotto il dominio di Hitler e l’Inghilterra si trovava da sola a combattere contro la Germania, avendo gli Stati Uniti confermato la decisione di rimanere neutrali. Durante i primi nove mesi di guerra le perdite inglesi ammontarono a 150 navi, per oltre un milione di tonnellate. Solamente nel mese di aprile del 1941 andarono perdute navi per ottocentomila tonnellate di stazza: i sommergibili tedeschi le affondavano più in fretta di quanto gli Inglesi riuscissero a costruirle! La Marina mercantile americana aveva tuttavia iniziato a collaborare con le nazioni alleate già molti mesi prima dell’attacco di Pearl Harbor. Gli aiuti americani aumentarono proporzionalmente alla probabilità che gli Stati Uniti venissero coinvolti nel conflitto e, a partire dal maggio 1941, le navi americane portarono rifornimenti non solo alle isole britanniche, ma anche nei teatri di guerra inglesi in Medio Oriente, Africa, Golfo Persico e Oceano Indiano, trasportando complessivamente 48.958 veicoli, 302.698 tonnellate di merci e 814 aerei. I continui attacchi dei sommergibili tedeschi avevano falcidiato il tonnellaggio della Marina mercantile britannica. Giunta ad una situazione disastrosa, l’Inghilterra chiese aiuto agli Stati Uniti, che notoriamente possedevano immense risorse naturali ed avevano dimostrato in più occasioni una straordinaria abilità nel portare a termine progetti su larga scala. Nel settembre 1940 la British Merchant Shipbuilding Mission si recò negli Stati Uniti per proporre al Governo Federale di costruire navi per la Gran Bretagna, portando con sé il progetto di un mercantile simile alla Dorington Court, varata nel 1939. Era questa una nave con una portata di 10.000 tonnellate ed una macchina a vapore da 2.500 HP in grado di imprimerle una velocità di 10 nodi. Il progetto non era tecnologicamente all’avanguardia, ma il piano costruttivo era semplice ed il propulsore era una macchina alternativa a carbone, obsoleta ma di estrema affidabilità. La Dorington Court Da quando era entrata in esercizio, la nave non aveva mai dato problemi di sorta ed era ritenuta la soluzione ideale per viaggi in cui la velocità fosse di secondaria importanza rispetto all’affidabilità. L’Inghilterra chiedeva sessanta di queste navi. Secondo l’ammiraglio Emory Scott Land, presidente della U.S. Maritime Commission, il modo più veloce per l’Inghilterra di avere le navi di cui necessitava sarebbe stato quello di ordinarle direttamente ai cantieri, anziché passare per il Governo degli Stati Uniti; ma purtroppo non erano disponibili, al momento, scali di costruzione. Il Governo decise allora di crearne di nuovi, dove realizzare le 60 navi, che sarebbero state denominate “Classe Ocean”. L’iniziativa avrebbe tra l’altro consentito di rispettare i programmi di attuazione della “flotta d’emergenza” americana. Per aggiudicare le nuove costruzioni fu convocato un gruppo di imprese della West Coast specializzate in progettazione e realizzazione di grandi opere, conosciuto come Le Sei Compagnie, di cui era a capo Henry Kaiser, che aveva costruito le mastodontiche dighe di Hoover e Grand Coulee. Nel giro di pochi mesi entrarono a far parte del gruppo anche i cantieri navali Todd Shipyards Inc. di New York e Bath Iron Works del Maine, tra i più antichi e affidabili degli Stati Uniti. Anche se non ci fosse stato l’ordine delle 60 navi inglesi, l’accelerazione nella costruzione di nuovi mercantili avrebbe comunque spiazzato le industrie meccaniche che dovevano fornire i propulsori. Non c’erano abbastanza turbine da installare sui nuovi “Modelli C”. Inoltre, sotto l’effetto dei venti di guerra, la richiesta di ulteriore tonnellaggio aumentava di giorno in giorno e presto apparve chiaro che le sofisticate navi previste nel 1936 dalla Maritime Commission avrebbero dovuto attendere tempi migliori. La quantità, piuttosto che la qualità, divenne il nuovo obiettivo da perseguire. La produzione su larga scala significava dover modificare velocemente i progetti già elaborati sulle indicazioni della Maritime Commission per avviare immediatamente le costruzioni, ma il tempo necessario per sviluppare i piani di una nuova nave era un lusso che gli Stati Uniti non potevano permettersi. Con la Battaglia dell’Atlantico già in atto, anche i normali tempi di costruzione si dimostravano troppo lunghi. Per ridurli, e allo stesso tempo abbassare i costi, fu deciso allora di assemblare i nuovi scafi saldando le lamiere, anzichè ricorrere alla tradizionale e lenta chiodatura con rivettatura. Il miglior progetto immediatamente disponibile era quello portato dagli Inglesi per quella che sarebbe diventata la “Classe Ocean”. La macchina era di potenza adeguata e la capacità di carico soddisfacente per l’uso cui erano destinati i nuovi mercantili. Tra l’altro, lo scafo e l’apparato motore del Dorington Court erano un esempio di semplicità: l’essenzialità delle linee ben si adattava al nuovo concetto di saldatura; la macchina alternativa adottata nel progetto inglese era di concezione elementare e poteva essere realizzata da qualsiasi costruttore di carpenteria metallica, a differenza delle sofisticate turbine ad alta e media pressione con i relativi gruppi riduttori ad ingranaggi progettate per i “Modelli C”. Lo stesso valeva per le caldaie, considerando in particolare la bassa pressione di esercizio richiesta da una macchina alternativa. Infine, questa nave era facile da condurre e la motrice alternativa, in particolare, richiedeva un addestramento minimo del personale. La macchina a triplice espansione di un Liberty Schema di funzionamento All’inizio del 1941 l’ammiraglio Emory Land sottopose al Presidente Roosevelt il progetto inglese, che avrebbe potuto essere modificato per adeguarlo alla produzione di una nave mercantile americana efficiente, di rapida costruzione e che potesse soddisfare i bisogni dettati dallo sforzo bellico. Il commento di Roosevelt fu: «Ammiraglio, penso che questa nave risponda molto bene alle nostre esigenze; può trasportare un buon carico, ma non è bella da vedere: un vero e proprio “brutto anatroccolo”». Appena la stampa venne a conoscenza del sarcastico commento, fece sua la battuta e da quel momento le navi del programma di guerra furono affettuo-samente soprannominate “I brutti anatroccoli”. Ma le parole di Roosevelt segnarono la nascita della più numerosa classe di navi mai costruite: i “Liberty”, realizzati in quasi 3.000 esemplari tra il settembre 1941 e l’ottobre 1945. I LIBERTY Nel Febbraio 1941 il Presidente Roosevelt annunciò alla nazione la costruzione di una nuova classe di navi per fronteggiare l’emergenza. Fedele al suo commento iniziale, le descrisse come “oggetti di brutto aspetto” e comunicò che ne sarebbero state costruite duecento esemplari. Questa cifra sarebbe progressivamente cresciuta nel 1942 e 1943 fino a raggiungere il numero di 2.751 navi, per un totale di oltre 27.510.000 tonnellate di portata. Profilo e sezione longitudinale Cercando di cambiare l’immagine che l’opinione pubblica aveva riportato di questi mercantili d’emergenza, che presto sarebbero diventati il fondamento delle costruzioni navali americane, l’ammiraglio Land dichiarò il 27 settembre 1941 “Giorno della Flotta Liberty”. Quel giorno, infatti, furono varate in diversi cantieri della nazione ben 14 navi “di emergenza”. La prima di queste fu battezzata con il nome di Patrick Henry, in onore dell’omonimo patriota della Guerra d’Indipendenza americana, che fece la famosa dichiarazione “Give me liberty or give me death” (Datemi la libertà o datemi la morte). Di conseguenza, tutte le navi del tipo EC2 (la lettera E stava per emergency) vennero soprannominate “Liberty”. Meno di un mese più tardi, il 15 ottobre 1941, scese in mare la prima nave inglese della classe “Ocean”, la Ocean Vanguard, tenuta a battesimo dalla moglie dell’ammiraglio Land. La strategia americana di costruire le navi più velocemente di quanto esse venissero affondate, si dimostrò un concetto condiviso, ovviamente in maniera opposta, dalla Kriegsmarine. Nel maggio 1942, l’ammiraglio Karl Dönitz, che di lì a poco ne sarebbe diventato il comandante supremo, in una riunione di alti ufficiali fece la seguente affermazione: «Il tonnellaggio complessivo che il nemico può costruire sarà di circa 8,2 milioni di tonnellate nel 1942 e 10,4 milioni di tonnellate nel 1943. Questo significa che, per neutralizzare le nuove costruzioni, dovremo affondare in media 700.000 tonnellate al mese; soltanto se riusciremo a superare questo numero saremo in grado di diminuire il tonnellaggio del nemico. Comunque, già ora stiamo affondando 700.000 tonnellate al mese». Lo sbaglio commesso da Dönitz fu di sottostimare la capacità produttiva dei cantieri americani. Il promemoria con il quale Roosevelt chiedeva a Land un ulteriore aumento di produzione I Liberty erano lunghi 135 metri e larghi 17,3. Spinti da una macchina a vapore della potenza di 2.500 cavalli, potevano raggiungere la velocità di 11 nodi (poco più di 20 Km/h); l’autonomia era di 17.000 miglia (31.500 Km.). Disponevano di cinque stive, tre a proravia della sala macchine e due a poppavia. Avevano una capacità di carico di 10.800 tonnellate: 9.000 nelle stive e 1.800 in coperta, dove potevano trovar posto aerei, carri armati e locomotive. Gli alloggi dell’equipaggio erano sistemati nel cassero centrale. Per avere un’idea della potenzialità di trasporto, basti pensare che su un Liberty era possibile caricare 2.840 jeep, oppure 440 carri armati, o 230 milioni di caricatori per fucili, o 3.440.000 razioni da combattimento. Il processo di accelerazione nella produzione dei Liberty rivoluzionò il sistema delle costruzioni navali. I vecchi cantieri contribuirono con le loro conoscenze derivate dall’esperienza. I nuovi costruttori svilupparono tecniche moderne e metodi innovativi in quello che era sempre stato un lavoro legato alle tradizioni. La saldatura elettrica era stata solo recentemente sviluppata fino al punto da poter essere adottata nelle costruzioni navali: la prima nave interamente saldata fu varata nel novembre 1940. Assieme alla saldatura fu introdotta la prefabbricazione. Il cantiere Sun Shipbuilding di Chester, Pennsylvania, adottò la tecnica di realizzare la sezione di prua a terra, per poi assemblarla alla nave che si trovava in costruzione sullo scalo. Poi fu la volta delle paratie e delle parti inferiori dello scafo ad essere costruite separatamente a terra ed essere unite successivamente alle altre sezioni sullo scalo. I cantieri Bethlehem-Fairfield di Baltimora furono all’avanguardia in questa nuova metodologia costruttiva; nelle loro officine meccaniche assemblavano contemporaneamente porzioni di scafo per otto navi: in particolare i doppi fondi con le tubazioni per il combustibile e per il drenaggio delle sentine già installate; dall’officina, la sezione completa veniva trasportata sullo scalo e lì saldata allo scafo. In Oregon, i cantieri di Portland furono modernizzati per adeguarli alla costruzione prefabbricata. A lavori conclusi si arrivò al punto di costruire a terra l’intero cassero centrale, con gli alloggi arredati e gli strumenti per la navigazione già installati sul ponte di comando. Il tutto veniva poi sollevato da gru gigantesche e saldato allo scafo quando la nave era già stata varata e si trovava ormeggiata alle banchine del cantiere per completare l’allestimento. In Nord Carolina, la Newport News Shipbuilding Company affinò le tecniche di prefabbricazione al punto che nel nuovo cantiere di Wilmington venivano preassemblate quasi interamente le due sezioni laterali delle navi; esse venivano poi tagliate in pezzi che fosse possibile movimentare con le gru, trasportate sullo scalo e nuovamente saldate tra di loro. I tempi di consegna, inizialmente previsti in 110 giorni, scesero a 40. Il cassero centrale col ponte di comando, le piazzole delle mitragliatrici, le cabine e i locali comuni, prefabbricato e montato completamente arredato I Liberty cominciavano a portare a termine con successo le loro missioni. Erano stati progettati per avere una vita operativa di cinque anni, ma apparve ben presto chiaro che se una di queste navi fosse arrivata indenne a destinazione con il carico del suo primo viaggio, avrebbe adempiuto alla missione per la quale era stata costruita; tutti i viaggi successivi sarebbero stati un qualcosa in più. In pochi immaginavano che queste unità avrebbero superato simili pessimistiche previsioni e che, oltre a dimostrarsi dei veri e propri “cavalli da tiro” che permisero la realizzazione di quel “ponte di navi che univa l’America all’Europa” voluto da Roosevelt, sarebbero diventate l’asse portante della marina mercantile mondiale per i successivi venticinque anni. Un risultato così largamente positivo fu ottenuto grazie all’attaccamento al lavoro delle maestranze di cantiere ed alle nuove tecniche introdotte: la capacità di fare il lavoro presto e bene anche quando gli eventi erano già in corso. Questa grande qualità americana, che si estrinseca nello straordinario senso di appartenenza alla nazione da parte dei cittadini, unita alla politica del Governo e ad una scrupolosa programmazione, si dimostrò una risorsa eccezionale. Per costruire un Liberty erano necessarie 3.425 tonnellate d’acciaio: 2.727 tonnellate di lamiere per lo scafo e 698 tonnellate di profilati per l’ossatura. Le donne rappresentavano oltre il 30% della forza lavoro che, nel 1943, arrivò a 700.000 unità. Purtroppo, l’improvvisazione delle maestranze, la mancanza di addestramento e l’inadeguatezza dei controlli, insieme a carenze nelle tecniche di saldatura, provocarono problemi di robustezza allo scafo di molti Liberty della prima generazione, alcuni dei quali si spezzarono in due tronconi, specialmente in presenza di tempeste atlantiche con la nave a pieno carico. Golfo dell’Alaska, Novembre 1943 – Il John P. Gaines spezzato in due all’altezza del ponte di comando con la parte poppiera ancora galleggiante Come era già accaduto nella 1ª Guerra Mondiale, anche ora la capacità produttiva dei cantieri americani si dimostrò semplicemente sbalorditiva. Mentre nel 1939 negli scali di costruzione di tutta la nazione veniva varata una nave ogni 13 giorni, e nel 1941 una ogni tre giorni e mezzo, nel 1943 si raggiunse il record di cinque navi al giorno. Solamente in quest’ultimo anno i cantieri produssero navi per 19.210.000 tonnellate di portata, una quantità maggiore di quanto fosse avvenuto negli anni dal 1914 al 1938. Nel 1942, nei cantieri navali americani furono costruite 746 navi. Nel 1943 ben 1.896, di cui 1.238 erano Liberty. Il costo previsto per ciascuno di essi era di 1.500.000 dollari. A questa cifra andavano aggiunti i costi contrattuali dei cantieri, che oscillavano tra 60.000 e 140.000 dollari per ogni nave. Il personale complessivamente impiegato nella Marina mercantile USA, dai transatlantici ai rimorchiatori, era nel 1940 di 65.000 uomini e qualche donna. Nel 1943 il numero era cresciuto a 85.000 e nel 1944 a 175.000. Alla fine della 2ª Guerra Mondiale ammontava a 250.000 unità, in gran parte donne. Un manifesto propagandistico USA per l’arruolamento nella Marina Mercantile Molti uomini non arruolati nelle forze armate avevano deciso di combattere la loro guerra imbarcandosi sui mercantili. All’inizio si erano effettivamente incontrate non poche difficoltà a mettere insieme gli equipaggi dei Liberty. Le navi venivano prodotte più velocemente di quanto si potesse reclutare il personale, così a bordo si trovava un guazzabuglio di individui. Furono allora compiuti sforzi congiunti tra i vari sindacati dei marittimi, le compagnie di navigazione e gli istituti nautici nazionali, compresa l’Accademia della Marina mercantile. A Sheepshead Bay, un sobborgo di Brooklyn, a New York, venne istituito il più grande centro di addestramento per marinai generici, dal quale uscivano 30.000 uomini l’anno. Nel Maggio 1944 il limite d’età per entrare nel personale navigante fu abbassato a 16 anni. In una settimana, oltre 7.000 ragazzi si arruolarono come volontari in una quarantina di uffici di reclutamento. Il 17 novembre 1941 il Congresso autorizzò l’installazione di cannoni navali sui mercantili per la loro difesa, nonché l’imbarco di personale militare addetto agli armamenti. La prima nave ad esserne dotata fu la Dunboyne. L’armamento dei Liberty era strettamente rivolto alla difesa antisommergibile ed antiaerea. Consisteva in due cannoni navali da 3 e 5 pollici, disposti il primo a prua ed il secondo a poppa, e in otto mitragliatrici antiaeree da 20 mm. collocate, una per lato, a metà tra la prua e il ponte di comando, quattro sul flying bridge (il cielo del ponte di comando) e due a poppa dietro il cannone. Il cannone di prua da 3 pollici e una delle mitragliere da 20 mm. I civili imbarcati venivano pagati alla fine di ogni viaggio, mentre i militari erano regolarmente stipendiati e questa fu la causa principale degli attriti che si instaurarono fra i due tipi di equipaggi. A partire dal 24 febbraio 1943 la paga dei civili fu regolamentata in funzione della tipologia del viaggio e dello scacchiere in cui esso si svolgeva; vennero inoltre introdotti dei bonus in relazione agli attacchi subiti. Un marinaio poteva incrementare dal 40 al 100% la paga stabilita per quel viaggio, compresi gli straordinari, in base alla durata della navigazione in zone considerate soggette ad azioni nemiche. Una maggiorazione di 5 dollari al giorno era riconosciuta per la navigazione nel mare di Murmansk, nel Mediterraneo e nel Pacifico Meridionale. Inoltre veniva concesso un bonus di 125 dollari se una nave era sottoposta ad un attacco nemico in porto o quando si trovava all’ancora. L’equipaggio di un Liberty era composto in media da 41 persone. Gli ufficiali di coperta erano il comandante, il primo ufficiale, il secondo ed il terzo; gli ufficiali di macchina erano il direttore di macchina, il primo, secondo e terzo macchinista. Erano inoltre previsti due allievi ufficiali: uno di coperta e uno di macchina. Facevano parte dell’equipaggio di coperta il nostromo, sei timonieri, tre marinai generici e un carpentiere. Al servizio di macchina erano addetti tre fuochisti, tre ingrassatori, due operai e un ufficiale di ponte, responsabile dei verricelli, delle condutture di vapore, degli scambiatori di calore e di tutte le attrezzature meccaniche poste al di fuori della sala macchine. I servizi di camera e di cucina comprendevano un capo cameriere, un capo cuoco, un secondo cuoco, un cuoco di notte e fornaio, sei giovanotti di camera e un giovanotto di cucina. Su ogni nave era inoltre imbarcato un radiotelegrafista e un commissario che si occupava della parte amministrativa. La traversata dell’Atlantico non era affare da poco. Molto spesso il mare era agitato e gli equipaggi soffrivano il mal di mare. In inverno le cose andavano ancora peggio: uno strato di ghiaccio ricopriva tutto ciò che si trovava al di sopra del livello del mare, rendendo quasi impossibile e molto pericoloso camminare all’esterno. Talvolta il ghiaccio era così spesso da mettere a repentaglio la stabilità della nave. Dicembre 1943 – Un Liberty in navigazione nel Nord Atlantico in tempesta Ma il problema maggiore era rappresentato dagli U-Boot che pattugliavano l’oceano. Sia che fossero soli o in gruppo per attaccare con la tecnica del “branco di lupi”, avevano come obiettivo quello di silurare tutte le navi che incontravano. Nel primo periodo del conflitto i sommergibili tedeschi riportarono un enorme successo, affondando un numero di navi così elevato che l’Inghilterra dovette affrontare una grave carenza di generi alimentari e di armamenti. Con l’avvento dei convogli di Liberty protetti da una flottiglia di cacciatorpediniere, il blocco tedesco fu rotto. In aggiunta ai sommergibili tedeschi operavano, seppure in numero più ridotto, anche battelli italiani che facevano capo alla base della Regia Marina di Betasom, nella città di Bordeaux. I nostri equipaggi scrissero pagine gloriose, sulle quali non mi soffermerò perché già ampiamente note. Solo un deferente ricordo per tutti i nostri sommergibilisti che trovarono la morte in Atlantico e per i loro Comandanti diventati delle vere icone nella storia della nostra Marina. Il primo convoglio, composto da 44 navi, partì da Halifax il 16 Settembre 1941 ed arrivò a Liverpool il 30 dello stesso mese. Halifax, in Nuova Scozia (Canada), divenne il terminale principale di partenza per i convogli transatlantici. Le navi che li componevano erano di svariati tipi e dimensioni e la velocità del convoglio era condizionata da quella della nave più lenta. La scorta era effettuata da cacciatorpediniere e corvette. Si poteva verificare il caso che un convoglio di 40 navi avesse una scorta di sole tre navi da guerra. In mezzo all’Atlantico i mercantili erano spesso lasciati senza protezione, perché il naviglio minore destinato a questo compito non aveva autonomia sufficiente per effettuare la traversata dell’oceano in andata e ritorno. Quindi i convogli erano scortati per le prime 300-400 miglia dalla Marina Canadese, poi, in prossimità dell’avvicinamento alle coste europee, subentrava la scorta della Royal Navy fino ai porti della Gran Bretagna. Un convoglio in partenza da Halifax Un convoglio di 45 navi aveva un perimetro di oltre 30 miglia ed era molto facile per gli U-Boot penetrare al suo interno anche quando era sotto scorta, composta al massimo da cinque navi, in quanto i sonar avevano la portata di un miglio. Le perdite alleate nel Nord Atlantico furono considerevoli e dipesero da una serie di ragioni; nei primi mesi di guerra furono particolarmente alte, finché gli Alleati non trovarono il modo di prevenire gli attacchi e di reagire adeguatamente quando questi si verificavano. La caduta della Francia, nel Giugno 1940, fece aumentare ulteriormente le perdite, perché le rotte seguite dai mercantili potevano essere intercettate più agevolmente dai sommergibili e dagli aerei tedeschi di stanza nelle basi francesi. Un convoglio in navigazione nell’Atlantico orientale Dopo il mese di Maggio 1941, l’affondamento della corazzata tedesca Bismarck ridusse notevolmente il pericolo di attacchi da navi pesanti. Vale la pena di ricordare che i sommergibili navigavano ed attaccavano generalmente in superficie; la navigazione in immersione era solamente una tattica per penetrare nel convoglio e per fuggire dopo aver portato a termine l’azione. I VICTORY Nel 1943 la U.S. Maritime Commission varò un programma per la progettazione di un nuovo tipo di nave della cosiddetta “flotta di emergenza”, che avesse una buona capacità di carico e una velocità piuttosto elevata. L’obiettivo era di rimpiazzare i più lenti Liberty, che con i loro 11 nodi di velocità massima costituivano una facile preda per i sottomarini nemici. Il progetto standard studiato dalla commissione prevedeva una nave lunga 136 metri e larga 19. Il 28 Aprile 1943 il progetto fu approvato; a questa classe di navi venne dato il nome di “Victory” e fu contrassegnata dalla sigla VC2, (V per Victory, C per cargo e il numero 2 la identificava per una nave di medie dimensioni, ovvero con una lunghezza al galleggiamento compresa tra 122 e 137 metri). Anche i Victory avevano cinque stive: tre a proravia del cassero centrale e due a poppavia. La portata era di 10.850 tonnellate di merci tutte sistemate nelle stive, quasi analoga a quella dei Liberty, ma molto più razionale. L’equipaggio era formato da 62 civili e 28 militari, questi ultimi addetti alle armi ed alle telecomunicazioni. Gli alloggi erano situati nel cassero centrale. La differenza principale rispetto ai Liberty era costituita dal sistema di propulsione: la motrice alternativa a vapore aveva lasciato il posto ad una moderna e veloce turbina, che assicurava una velocità di circa 17 nodi (31,5 Km/h). Anche il profilo e le tecniche costruttive dei Victory erano diverse da quelle dei Liberty. Una modifica importante riguardava la progettazione dell’ossatura dello scafo. Infatti, mentre nella Classe EC2 la distanza fra le ordinate (le costole della nave sopra le quali vengono saldate le lamiere) era di 76,2 centimetri, nei Victory era di 91 centimetri; questa maggiore distanza faceva sì che lo scafo fosse più flessibile e quindi meno soggetto al pericolo di fratture. L’United Victory, varato il 12 gennaio 1944 e consegnato il 28 febbraio, fu la prima nave di questa classe ad essere completata. Le successive 33 navi furono battezzate con il nome di Paesi alleati degli Stati Uniti, come, ad esempio, Brazil Victory, U.S.S.R. Victory, Haiti Victory. Alle costruzioni successive furono assegnati nomi di città degli Stati Uniti (Las Vegas Victory, Ames Victory, Zanesville Victory, ecc.) e di importanti college e università americane (Adelphi Victory, M.I.T. Victory, Yale Victory,ecc.). In ogni caso, tutti i nomi delle navi terminavano con il suffisso Victory. Durante la guerra ne furono costruiti 414, di cui 97 adibiti a trasporto truppe ed ulteriori 117 destinati a supporto per missioni d’attacco; un totale di 531 navi. Grazie ai Victory fu possibile stabilire un efficiente collegamento marittimo con i vari teatri di guerra e queste navi veloci, caratterizzate da una soddisfacente possibilità di carico, furono ampiamente utilizzate sia sul fronte dell’Atlantico che su quello del Pacifico. Oceano pacifico – Ottobre 1944 – Il Bluefield Victory in navigazione a pieno carico Alla fine della guerra, la Maritime Commission autorizzò la vendita di 170 Victory ad armatori privati; 20 furono dati in prestito alla U.S. Army ed i restanti entrarono a far parte della flotta di riserva. Quando la U.S. Navy ritenne di non necessitare più di queste navi nel brevemedio termine, pur rimanendo possibile il loro utilizzo per fu- ture emergenze, esse furono poste “in naftalina”, ossia rimorchiate in porti di stoccaggio, svuotate di combustibile ed attrezzature, e sigillate tutte le aperture verso l’esterno. Per combattere la corrosione provocata dalla salsedine fu installato un sistema di protezione catodica per lo scafo e di deumidificazione per gli spazi interni. Alcune di queste navi ritornarono in servizio in occasione di crisi internazionali, come la Guerra di Corea, la chiusura del Canale di Suez del 1956 e la guerra del Vietnam. Altre furono mantenute in attività come supporto logistico al Ministero della Difesa, per qualsiasi necessità di trasporti transoceanici e operazioni militari di altre agenzie governative. Nel 1959, otto Victory furono riclassificati e trasformati in navi di supporto elettronico, telemetrico e recupero per la NASA a fronte del programma spaziale americano. L’11 agosto 1960, l’Haiti Victory recuperò la capsula del satellite artificiale Discoverer XIII, il primo oggetto costruito dall’uomo ad essere recuperato dallo spazio. Nel novembre dello stesso anno fu ribattezzato Longview, divenendo l’eponimo di una nuova classe di navi, composta da altri due Victory, e continuando a dare supporto al programma spaziale, oltre ad assolvere una serie di attività scientifiche in campo missilistico per conto della U.S. Air Force. Il Longview in azione nell'Oceano Pacifico Nel corso degli anni, molti dei Liberty e dei Victory che si trovavano “in naftalina” sono stati venduti per la demolizione ed attualmente ne restano solamente alcuni esemplari, adibiti a musei galleggianti. Una decina d’anni fa ho avuto l’occasione di visitare uno dei due Liberty superstiti, il Jeremiah O'Brien, che si trova ormeggiato al Fisherman’s Wharf di San Francisco e questo potrebbe essere l’argomento di un prossimo post. LE PETROLIERE T2 Come abbiamo visto all’inizio, il Merchant Marine Act prevedeva anche la costruzione di una serie di petroliere. Inizialmente, il progetto di queste navi consistette in un adattamento dei piani costruttivi delle petroliere Mobifuel e Mobilube appartenenti alla Socony-Vacuum Company, che più tardi avrebbe cambiato il nome in Mobiloil. Avevano una lunghezza fuori tutto di 153 metri ed una larghezza di 21 metri; la stazza lorda era di 9.900 tonnellate, con una portata di 15.850 tonnellate ed un dislocamento a pieno carico di 21.100 tonnellate. Sei di queste navi, che costituirono il modello “base” del le T2, vennero costruite nei cantieri Bethlehem-Sparrows Point Shipyard in Maryland. La petroliera Mobilube Il passo successivo fu un’elaborazione del progetto iniziale, che diede vita alla classe “T2-A”, composta da cinque navi costruite nel 1940 dai cantieri Sun Shipbuilding and Drydock Co. di Chester, in Pennsylvania, per la Keystone Tankship Corporation e le sue affiliate. Prima che fossero completate, nel 1942, furono requisite dalla U.S. Navy per essere utilizzate come petroliere militari. Erano lunghe 160 metri, larghe 21 ed avevano una stazza lorda di 10.600 tonnellate. La portata era di 16.300 tonnellate e ne dislocavano 22.445 a pieno carico. L’apparato motore era costituito da turbine a vapore con riduzioni ad ingranaggi che erogavano una potenza di 12.000 HP ad un’unica elica, in grado di garantire una velocità massima di 16,5 nodi. La classe “T2-SE-A1”, messa in cantiere dalla US Maritime Commission, fu quella più vasta fra i vari tipi di petroliere T2. Queste navi derivavano da un progetto che era già stato realizzato dalla Sun Shipbuilding Company per conto della Standard Oil Company of New Jersey che, per evitare le sanzioni previste dalla severissima legge antitrust americana, assunse poi il marchio multinazionale ESSO. Tra il 1942 e il 1945 furono costruite 481 unità di questa classe, che adottarono la propulsione turboelettrica, consistente in un generatore azionato da una turbina a vapore e collegato ad un motore elettrico che azionava l’elica. In questo modo si evitava l’installazione di gruppi riduttori ad ingranaggi, che per la loro produzione a-vrebbero richiesto parecchio tempo e l’impiego di complessi macchinari che in quel momento erano utilizzati per le costruzioni militari. Adottando i medesimi criteri costruttivi già messi a punto per i Liberty, la realizzazione di queste petroliere fu affidata a vari cantieri americani, che riuscirono a contenere i tempi di costruzione in maniera così spinta da sembrare incredibile: dall’impostazione della chiglia alle prove in mare trascorrevano circa 70 giorni, di cui 55 necessari alla costruzione vera e propria sullo scalo e 15 per l’allestimento a varo avvenuto. Il record fu ottenuto dai cantieri della Marinship Corporation, che costruì la Huntington Hills in appena 33 giorni, di cui 28 sullo scalo e 5 per l’allestimento. Una T2 in navigazione con alcune PT boats caricate su un graticcio mobile sopra la passerella Le petroliere di questa classe non furono le prime navi ad avere la propulsione turboelettrica, che non era un’invenzione recente. Già durante la 1ª Guerra Mondiale questo sistema era stato adottato su alcune navi da carico e da guerra. Nel 1938, due petroliere costruite dalla Sun Shipbuilding Company per l’Atlantic Refining Company di Philadelphia, la J.W. Van Dyke e la Robert H. Colley, erano azionate da un motore della General Electric che forniva una potenza di 6.040 cavalli asse, con una velocità massima di 13,5 nodi. Successivamente, l’Atlantic Refining mise in esercizio altre cinque navi di questo tipo. Le turbine delle T2 azionavano un generatore connesso ad un motore elettrico che azionava un singolo asse dell’elica. Questo sistema di propulsione forniva una potenza normale di 6.000 cavalli-asse che poteva essere incrementata fino a 7.240, il che significava una velocità di crociera di 14,5 nodi e massima di 15 nodi. La lunghezza tra le perpendicolari era di 153,31 m. e, fuori tutto, di 159,41 m. Il pescaggio a pieno carico era di 9,46 m. La stazza lorda era di 10.448 tonnellate e quella netta di 6.150 tonnellate. Il dislocamento a pieno carico era 21.880 t. e la portata di 16.613 t. Schema di costruzione di una T2 Queste petroliere avevano nove gruppi di tanche: quelli dai nn. 2 a 9 erano costituiti da una tanca principale centrale e due tanche minori laterali, mentre il n. 1 era più piccolo e consisteva in sole due tanche laterali. Sopra queste due tanche era stata ricavata una piccola stiva di 430 mc. La capacità di ogni tanca centrale era di 1.500 mc. e le due laterali di 625 mc., per un totale di 22.500 mc., equivalenti a 16.613 tonnellate. Per scaricare il carico vi erano due sale pompe: una principale a poppa e una secondaria a prua. La sala principale conteneva tre grandi pompe ciascuna con una capacità di 7,6 mc./min., due più piccole da 1,5 mc./min. e una da 2,6 mc./min. Nella sala pompe di prua c’erano una pompa da 2,6 mc./min. e una più piccola da 1,1 mc./min usate per il trasferimento di petrolio da una tanca all’altra e per lo svuotamento delle casse zavorra, doppi fondi e sentine. Il tempo teorico di scarico di una T-2 era inferiore a 12 ore. L’autonomia era di 12.600 miglia e normalmente l’equipaggio era composto da 44 persone. Le T2 erano facilmente riconoscibili per i grandi oblò rotondi del ponte di comando e per il caratteristico “cappello” sopra il fumaiolo.
  12. max42

    L'eroe della giornata

    Bellissima iniziativa e grandi ringraziamenti ad Alfabravo per la sua disponibilità. Il motore di tutto è ovviamente il nostro Dir. e si deve in gran parte a lui se il "Nautico" di Ravenna è decollato ed ora sta prendendo quota. Credo che siano doverosi i complimenti da parte di tutta la Base!
  13. max42

    3000 post in vostra compagnia

    Complimenti per il traguardo! I tuoi post sono sempre interessanti, quindi ti invito a non fermarti. Cin cin, ma con Spalletti!
  14. max42

    Arte marinaresca all'Istituto Nautico di Genova

    Bella esperienza anche quella degli scout. E' vero, i nodi marinareschi, a meno che non interessino talune manovre fisse, devono poter essere sciolti facilmente, ma nel contempo assicurare una buona tenuta. quindi hai centrato il problema. Per quanto riguarda la nomenclatura ... bè non è corretto neanche funi. Un "pezzo di corda" a bordo si chiama sagola (se di piccolo spessore), oppure cavo se di grosso spessore. Abbiamo così i cavi d'ormeggio, meglio conosciuti come gòmene. Ho messo l'accento perché quasi sempre i non addetti ai lavori dicono gomène ...
  15. max42

    Arte marinaresca all'Istituto Nautico di Genova

    Grazie del complimento, Danilo. Ho anch’io qualcosa di simile ma, direi dalle etichette sotto i nodi, di origine inglese. Non so quando sia stato realizzato, però è curioso sapere dove l’ho acquistato: in un mercatino delle pulci di Villabassa, sulle Dolomiti! Ben diverso è il senso dell’album: non un oggetto d’arredamento, ma il lavoro di un ragazzo di 15 anni che vedeva il suo futuro sul mare. Vincendo le remore e impedimenti vari dei genitori (poveretti, credo abbiano sofferto molto…), a 16 anni presi il libretto di navigazione (lo posto qui sotto perché è quasi un documento "storico") e, durante le vacanze estive feci il mio primo imbarco come Mozzo-Allievo Nautico, anche se in Capitaneria di Ancona dimenticarono di scrivere la seconda parte della mia qualifica. Il sogno durò una decina d’anni, poi le vicende della vita mi costrinsero a diventare un “terrazzano”, ma il mare e le navi mi sono rimaste sempre nel cuore.
  16. max42

    Arte marinaresca all'Istituto Nautico di Genova

    Ahimè, no. Non c'è nulla di peggio dell'inattività per disimparare a fare i nodi, per di più....è trascorso "qualche annetto". Attualmente mi limito al parlato (per fermare le cordicelle delle tende dei balconi), alla gassa d'amante (quando mi serve un "occhiello" di spago che non scorra tirandolo), alla sagola a catena (quando voglio accorciare uno spago senza tagliarlo) e all'imbracatura di una botte (ma all'incontrario, per fermare i tappi delle bottiglie di vino anziché mettere la gabbietta). Sic transit gloria mundi ....
  17. Rimettendo un po’ d’ordine tra “le cose dimenticate” in soffitta, mi è capitato tra le mani l’album dei nodi che feci quando frequentavo la prima classe dell’Istituto Nautico di Genova, seguendo le lezioni di Arte Marinaresca. Chissà se questa materia fa ancora parte del piano di studi degli Istituti nautici o, come si chiamano adesso con una definizione assai brutta, “Istituti tecnici-tecnologici italiani, a indirizzo trasporti e logistica”. Temo proprio che in virtù della tecnologia imperante, anche questa tradizione sia andata perduta. Oggi, per esempio, il punto nave astronomico non lo sa più fare quasi nessuno e come sono lontani i tempi in cui con i primi soldi che guadagnava, l’allievo ufficiale acquistava il “proprio”sestante perché quello di bordo era notoriamente piuttosto malandato … nostalgia del passato? Forse. Tornando con un po’ di nostalgia alla mia gioventù, pubblico le foto dell’album che realizzai … ben 63 anni fa! ... Allora non c'erano i container!
  18. max42

    la "maglietta" sul Cutty Sark

    Probabilmente i lavori di ricostruzione conseguenti al disastroso incendio del 2007 erano in corso di ultimazione. Il Cutty Sark fu riaperto al pubblico il 25 aprile 2012 ... non ce l'hai fatta per poco, Danilo! Ti assicuro che vale davvero la pena di visitarlo, con molta calma per aver modo di soffermarsi sui particolari.
  19. max42

    la "maglietta" sul Cutty Sark

    Dai commenti dei Comandanti Danilo 43 e Ammiraglia88 sembra che l’aneddoto sul “Masthead vane” del Cutty Sark che ho postato sia piaciuto. Ma il discorso può diventare più ampio con gli appunti che presi e le foto che scattai nel corso di una visita a questa stupenda nave-museo che feci con mia moglie nel 2005. Stavamo compiendo il giro del mondo come passeggeri a bordo di una portacontainer francese e uno dei primi scali che facemmo fu Tilbury, che in sostanza è il porto commerciale di Londra. Avevamo un’intera giornata a disposizione e così, anziché fare il solito itinerario storico del centro di Londra, decidemmo di andare a visitare il Cutty Sark che si trova all’asciutto in un bacino appositamente costruito a Greenwich. Londra dista da Tilbury una quarantina di minuti di treno e, dalla stessa stazione di arrivo di Fenchurch Street, in poco più di mezz’ora si raggiunge Greenwich con una metropolitana di superficie. Devo dichiararmi fortunato per aver avuto l’opportunità di visitare il Cutty Sark “originale”. Infatti, solo due anni più tardi – il 21 maggio 2007 – un furioso incendio, si presume di origine dolosa, distrusse buona parte del fasciame e dei ponti. All’epoca, su questo famoso clipper erano in corso grandi lavori di restauro ed erano stati asportati gli alberi e le sovrastrutture (le tughe degli alloggi e la “Liverpool House” – così era chiamato il casseretto che ospitava gli alloggi ufficiali e la sala ritrovo/carteggio/mensa). Ecco quindi il mio ricordo del Cutty Sark. A partire dal 1840 i cantieri navali americani cominciarono a costruire un nuovo tipo di nave mercantile, il clipper. Numerose peculiarità rendevano i clipper diversi dalle altre navi a vela. Tecnicamente un clipper era una nave con tre alberi dotati di un’enorme velatura ed era stato progettato per trasportare piccoli carichi, ma di elevato valore, ad alta velocità su lunghe distanze. L’alberatura, che culminava con i 47 m. dell’albero di maestra, portava più vele di qualunque altra nave costruita fino a quel tempo; esse erano manovrate da un intrico di attrezzature e sovrastavano uno scafo stretto ed elegante caratterizzato da una prua slanciata terminante con un ardito bompresso. La lunga e sottile sagoma della carena unita all’enorme potenza offerta dalla superficie velica consentiva a questo tipo di nave di muoversi velocemente, mantenendo velocità che le generazioni precedenti di naviganti non si sarebbero mai sognate e conseguentemente tagliando (“to clip” in Inglese) i tempi del viaggio. Solamente qualche anno prima una percorrenza di 150 miglia giornaliere era considerata apprezzabile, ma i clipper ne coprivano 250 e, in particolari condizioni, potevano arrivare a 400. La velocità era importante per i capitani, perché rappresentava un grosso profitto per loro, in quanto ricevevano un premio in denaro per ogni giorno guadagnato, e, ovviamente, per gli armatori il profitto era ancora maggiore. Al tempo della febbre dell’oro in California, migliaia di cercatori erano impazienti di raggiungere i campi auriferi dalla costa occidentale degli Stati Uniti ed erano disposti a pagare prezzi altissimi per viaggiare sui clipper più veloci. Una volta arrivati, i minatori dovevano spendere ancora parecchi dollari per pagare le merci e le provviste provenienti dall’Est di cui necessitavano. Le navi che riuscivano ad arrivare prima delle altre in California rappresentavano una vera fortuna per gli armatori. Ma l’impiego più tradizionale dei clipper era il trasporto del tè. Il raccolto proveniente dalla Cina spuntava un buon prezzo a New York e Londra, ma doveva arrivare prima che avesse perso la fragranza del suo aroma. Una bizzarra alternativa di utilizzo di questi velieri fu escogitata da alcuni intraprendenti commercianti che fecero incredibilmente fortuna trasportando il ghiaccio dei fiumi del New England fino ai tropici, dove era venduto ad un prezzo altissimo, ma doveva arrivare prima che si sciogliesse. Attualmente il Cutty Sark si trova all’asciutto all’interno di un bacino di carenaggio appositamente costruito a Greenwich, in prossimità della sponda del Tamigi e non appena usciamo dalla stazione della metropolitana ci appaiono la sagoma snella del suo scafo e l’alberatura imponente. Il Cutty Sark come ci apparve in un’uggiosa mattina di gennaio 2005 La bella linea dello scafo Questo glorioso veliero fu varato il 22 novembre 1869 a Dumbarton, sul fiume Clyde. Era una nave di dimensioni modeste anche per quei tempi, ma la sua velatura di quasi 3.000 mq le consentiva, con vento favorevole, una velocità di oltre 17 nodi. Il Cutty Sark era stato commissionato da John “Jock” Willis, un anziano capitano della marina mercantile, meglio conosciuto col soprannome di “Willy dal Cappello Bianco” perché calzava sempre un cappello a cilindro bianco, il quale aveva ereditato dal padre (anche lui di nome John, ma soprannominato Old Stormy Willis) la compagnia di navigazione John Willis & Sons of London. Willis possedeva già alcune navi, che però non rispondevano alle sue esigenze in quanto a prestazioni ed il suo obiettivo nella costruzione del Cutty Sark era di diventare l’armatore del clipper più veloce al mondo, che fosse in grado di portare in Inghilterra dalla Cina il primo carico di tè del nuovo raccolto. Il veliero fu progettato da Hercules Linton, uno dei soci del cantiere navale Scott & Linton di Dumbarton, Scozia. Il segreto del successo di questa costruzione fu di abbinare la linea della prua di un precedente veliero di Willis, il Tweed, a quella della carena dei pescherecci del Firth of Forth, creando una bellissima ed originale forma di scafo, molto robusta, che poteva prendere molta vela ed era in grado di affrontare situazioni assai più severe di qualunque altro veliero delle stesse dimensioni. Prima d’allora il cantiere non aveva mai costruito navi di quella stazza ed i proprietari facevano di tutto per esaudire ogni richiesta del loro puntiglioso cliente. Purtroppo per loro, Willis, da buon Scozzese, era molto attento ad ottenere il massimo risultato al minor prezzo ed i suoi interventi durante la costruzione furono talmente onerosi per il cantiere che i soci, insieme al loro brillante progettista, per evitare la bancarotta sparirono improvvisamente senza più dare notizia di loro e pertanto gli ultimi dettagli dell’allestimento dovettero essere completati da un altro cantiere: il William Denny & Brothers, anch’esso di Dumbarton. Un discorso a parte merita la polena, che Jock “White Hat” Willy, molto legato alla cultura scozzese e ed ai suoi miti, volle che costituisse un chiaro riferimento al nome che aveva deciso di assegnare alla sua nuova costruzione. Jock si rifà quindi al poema “Tam o ’Shanter” (pubblicato per la prima volta nel 1791), del poeta scozzese Robert Burns. Siamo nella città di Ayr, dove Tam, un contadino ubriacone, si è recato per la fiera dalla vicina Alloway. Sul finire dei giorni di mercato, Tam si attarda nottetempo al pub con gli amici a bere e gozzovigliare. A notte fonda, mentre comincia ad infuriare una tempesta, Tam parte a cavallo della fedele giumenta Meg per tornare ad Alloway. Obnubilato dai fumi dell’alcool, cerca di dominare la paura di oscure presenze, ma le immagini ricorrenti di macabri eventi accaduti in quei luoghi si affastellano nella sua mente, finché, arrivato nei pressi della chiesa stregata di Alloway, scorge un riverbero attraverso il bosco, proveniente dalla spianata dove si trova la chiesa. Avvicinatosi, vede orribili streghe e stregoni che ballano freneticamente al ritmo di una cornamusa suonata da Satana (Old Nick) in forma di bestia. La sua attenzione è attirata da una giovane e lasciva strega, Nannie, che nel parossismo della danza si strappa gli abiti di dosso rimanendo con una corta sottoveste. Eccitato a quella vista, Tam si scorda del pericolo e grida: «Well done, Cutty-sark!» (Ben fatto, Sottana-corta!), attirando così l'attenzione degli indiavolati su di sé. Subito le luci si spengono, la musica cessa e tutti, al seguito di Nannie, danno la caccia all'intruso. Tam sprona Meg cercando di raggiungere ed oltrepassare la pietra di volta del ponte sul fiume Doon, perché gli indemoniati non possono attraversare un fiume in piena. Ma ecco che proprio al limitare del ponte, Nannie lo raggiunge, si afferra alla coda di Meg strappandogliela di netto. Tam si salva così per il classico pelo. Il poema termina con un ironico avvertimento a tutti gli uomini delle diaboliche conseguenze del pensare a donne vestite in modo succinto. La popolarità di questo poema fu tale che la frase "Ben fatto, Cutty-sark!", entrò nel lessico inglese come un’esclamazione col significato di "Bravo!".Il Cutty Sark compiva il viaggio di ritorno dalla Cina all’Inghilterra sfruttando i monsoni e gli alisei in un tempo che variava da 107 a 122 giorni, a seconda della forza del vento, ma sebbene fosse un tempo di tutto rispetto, non riuscì mai ad aggiudicarsi il primato nella “corsa del tè”. La rotta del Cutty Sark nei viaggi del té Prima di effettuare il carico le parti in ferro della stiva venivano verniciate e quelle in legno scartavetrate per evitare qualsiasi possibilità di contaminazione del carico; anche le eventuali infiltrazioni d’acqua di mare dai boccaporti durante le tempeste avrebbero costituito un serio problema. In media il Cutty Sark trasportava circa 600 tonnellate di tè, ma il record fu battuto nel 1876 con 624 tonnellate. La caricazione veniva effettuata da stivatori cinesi e richiedeva una grande perizia, perché il peso maggiore doveva essere concentrato sulla parte di dritta per consentire una migliore manovrabilità e ciò si otteneva imbarcando zavorra di pietra in gran quantità; un carico stivato male poteva provocare l’affondamento della nave. Nel viaggio di andata venivano trasportati vari tipi di merci: indumenti di lana, cotone e lino, manufatti di ferro e binari ferroviari, ma il nolo non era così redditizio come quello del tè. La vita di bordo, come su ogni veliero, era dura e pericolosa, ma aveva un suo fascino particolare ed allora molti membri dell’equipaggio rinnovavano il contratto viaggio dopo viaggio. Il motto del Cutty Sark era WHERE THERE IS A WILLIS AWAY, un gioco di parole derivato dal proverbio “where there’s a will there’s a way”, ossia: se uno è fortemente determinato, trova la strada per ottenere ciò che vuole, anche se è molto difficile; la sostituzione delle parole “will” con Willis e “there’s a way” con away dà questo significato al motto: DOVE C’E’ UN WILLIS SI VA LONTANO (ossia: sono determinato a raggiungere i miei obiettivi molto ambiziosi). Tuttavia, il detto diffuso tra i marinai era “una mano per la nave e una per te”. Se si veniva spazzati in mare da un’ondata c’erano davvero poche speranze di essere ripescati e molti furono i marinai che persero la vita cadendo in mare. Nel Mare della Cina, da aprile a metà ottobre, i tifoni sono molto frequenti e il comandante doveva manovrare con grande perizia ed essere un vero lupo di mare per affrontarli. «Posto di manovra alle vele!!!» Marinai a riva per imbrogliare le vele Bracciare i pennoni con mare in coperta L’intero equipaggio era composto al massimo da 28 uomini, compresi il comandante e due ufficiali. Il numero dei marinai variava da otto a dodici e il loro alloggio era inizialmente sotto il castello di prua, ma venivano inoltre imbarcati da sei a dieci apprendisti, che avevano le cuccette nella tuga di poppa. Le nazionalità erano molteplici: Danesi, Tedeschi, Greci, Italiani e Cinesi, ma generalmente la maggioranza dell’equipaggio era di nazionalità inglese. Per tradizione, il cuoco era cinese. Il mastro velaio ripara una vela osservato da un apprendista Il 3° ufficiale James Weston seduto tra il cameriere e un marinaio Il cibo era scarso e monotono: ogni due settimane venivano aperti un barile di manzo e uno di maiale; il pane e le gallette erano distribuiti a giorni alterni. L’acqua dolce era un bene prezioso e doveva essere razionata, pertanto la pompa che pescava nella cisterna era tenuta chiusa con un lucchetto. Ogni uomo ne aveva diritto ad un gallone (quattro litri e mezzo) al giorno, ma dalla razione andavano sottratte cinque pinte (poco meno di tre litri) per il cuoco e quindi ne restava disponibile circa un litro e mezzo per bere e per lavarsi. Solo saltuariamente il cuoco distribuiva un po’ d’acqua calda come razione extra. Sebbene i primi anni di attività al comando del capitano George Moodie avessero avuto una performance redditizia, il destino non fu benevolo con le aspettative di ampio successo dell’armatore nel commercio del tè. Infatti lo stesso anno del varo venne aperto il Canale di Suez, che consentiva alle navi a vapore di raggiungere l’Estremo Oriente attraverso il Mediterraneo, con una rotta molto più corta e veloce, ma purtroppo il transito nel Canale non era consentito alle navi a vela, costrette a doppiare ancora il Capo di Buona Speranza; il costo dei noli cadde verticalmente, tanto che il commercio del tè cessò di essere redditizio. Così l’impiego del Cutty Sark nella rotta con la Cina fu di breve durata: l’ultimo carico di tè venne fatto nel 1877. Per molti anni, il Cutty Sark fu costretto ad andare alla busca, cercando carichi dove se ne presentava l’opportunità e solo nel 1883 incominciò il secondo e più famoso periodo della sua carriera. Infatti, fino al 1895 fu impegnato nel trasporto della lana dall’Australia. Nel 1895 ne assunse il comando del capitano Richard Woodget, un esperto lupo di mare che seppe sfruttare tutta la potenza velica della nave, tanto da battere più volte il record di velocità nella traversata dall’Australia all’Inghilterra. La rotta del Cutty Sark nei viaggi della lana Il capitano Woodget legge sul sestante l’altezza del sole per il calcolo della meridiana Il Cutty Sark in navigazione nell’Oceano Indiano. La foto fu scattata dal capitano Woodget nel 1888 con una fotocamera a treppiede sistemata su una tavola legata a due scialuppe Nel 1895, quando anche il commercio della lana cessò di essere redditizio, il Cutty Sark fu ingloriosamente venduto ad un armatore portoghese e ribattezzato Ferreira. Continuò ad essere impiegato con profitto dai nuovi proprietari, collegando Oporto a Rio de Janeiro, New Orleans e Lisbona per trasportare le merci provenienti dai possedimenti coloniali portoghesi. Nel 1916 venne disalberato da una tempesta che lo colpì nell’Oceano Indiano. Successivamente fu riarmato come brigantino a palo, con una riduzione della superficie velica. Questa decisione fu conseguente alla carenza di legname per alberi e pennoni dovuta al tempo di guerra. Nel 1920 fu nuovamente venduto ad un altro armatore portoghese e, nel 1922, ribattezzato Maria do Amparo. Frattanto le sue condizioni si erano parecchio deteriorate e venne sottoposto ad un raddobbo nei London’s Surrey Docks. Nel suo viaggio di ritorno in Portogallo, una “provvidenziale” tempesta scatenatasi nella Manica lo costrinse a riparare nel porto di Falmouth. Questa tempesta fu “provvidenziale” perché il Cutty Sark venne riconosciuto dal capitano Wilfred Dowman, un uomo di mare della Cornovaglia, che vi era stato imbarcato come apprendista nel 1894 e non aveva mai dimenticato lo spettacolo offerto da quel clipper superbo che navigava con tutta la velatura spiegata. La nave si presentava ancora in condizioni discrete; il capitano Dowman contattò gli armatori portoghesi, riuscendo ad acquistarla per 3.750 sterline e la fece restaurare riarmandola nuovamente a clipper. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1938, la moglie donò la nave al College di Istruzione Nautica di Greenhithe sul Tamigi, dove rimase fin dopo la seconda guerra mondiale, quando il college acquistò una nave più grande, con lo scafo di ferro, per l’addestramento degli allievi. Ancora una volta il Cutty Sark era diventato qualcosa di inutile. Ora rischiava davvero la demolizione e, in attesa di una decisione definitiva, nel 1951, in occasione del Festival d’Inghilterra, venne ormeggiato ad un molo di Greenwich. Alla fine la nave fu donata alla Cutty Sark Society, costituita dal Duca Filippo di Edimburgo, e nel Dicembre 1954 trasferita in un bacino di carenaggio appositamente costruito a Greenwich, per diventare un museo. Dal giorno dell’inaugurazione, avvenuta il 25 giugno 1957 da parte della Regina Elisabetta, il Cutty Sark è stato visitato da oltre 15 milioni di persone provenienti da tutto il mondo. Prima di salire a bordo facciamo un giro attorno al bacino per ammirare i particolari dello scafo. Sotto la linea di galleggiamento il fasciame di legno è rivestito di “metallo giallo”, una lega di rame e zinco che proteggeva la carena dalle alghe e impediva al legno d’imputridire. La bella linea di carena stellata è sinonimo di grande velocità, ed infine ci soffermiamo ad osservare attentamente l’inquietante polena così carica di significati. L’ingresso per il pubblico immette nel ponte di corridoio, dal quale iniziamo la visita. Finalmente è giunto il momento di mettere piede sul Cutty Sark Il ponte di corridoio è situato tra la coperta e la stiva vera e propria, dividendo in due parti, grosso modo della stessa altezza, lo spazio interno della nave. Appena entrati, a sinistra, si trovano alcune casse di tè coperte da teli di iuta, mentre a destra ci sono delle balle di lana a rappresentare i due carichi che resero questo clipper famoso. Lo stivaggio del té Lo stivaggio della lana Nel castello di prua, fino al 1871, c’era l’alloggio dei marinai: un semplice spazio lasciato libero dal carico con un tavolo per la mensa ed i ganci sul fasciame ai quali appendere le amache quando avevano terminato il turno di guardia. Successivamente venne realizzata la tuga di prua nella quale fu trasferito l’alloggio dei marinai. I turni di guardia erano due, della durata di sei ore ciascuno ed erano denominati (come era usanza a bordo dei velieri) “turno di dritta” e “turno di sinistra”; in sostanza, l’equipaggio dopo un turno di guardia di sei ore aveva diritto ad altrettante ore di risposo. Verso poppa una serie di tabelloni illustra le varie fasi della costruzione di questo veliero, le rotte effettuate e la vita di bordo, con la riproduzione di qualche fotografia originale. A ridosso delle fiancate è esposta una lunga teoria di polene di velieri d’epoca: è tutto ciò che resta di quelle navi gloriose che hanno segnato la storia della marineria di tutto il mondo e queste ingenue sculture lignee ben rappresentano il fascino della navigazione dei tempi passati. Dalla poppa saliamo in coperta, dove restiamo ammirati di fronte allo splendido sartiame su tre alberi a vele quadre. Viene fatto di domandarsi come una trentina di uomini tra marinai e apprendisti potessero manovrare questa complessa attrezzatura composta da oltre 17 chilometri di cavi con la quale governare quasi 3.000 mq di velatura! Penso anche alle durissime condizioni di lavoro durante le tempeste, in particolare quando il Cutty Sark si trovava a navigare nelle acque di Capo Horn: la nave avanzava a fatica tra onde altissime e la violenza del vento costringeva l’equipaggio ad una continua manovra delle vele, sospeso a qualche decina di metri sul mare, stando in equilibrio sul “marciapiede”, una fune metallica tesa sotto i pennoni e bilanciandosi appoggiando l’addome sui pennoni stessi, con le mani libere per raccogliere, ridurre o spiegare le vele. Naturalmente l’altezza amplificava enormemente i movimenti di rollio e beccheggio; durante le tristemente famose tempeste di Capo Horn, il Cutty Sark poteva subire inclinazioni fino a 40° e allora la vita dei marinai addetti alla manovra delle vele era davvero “appesa a un filo”. Dopo queste riflessioni saliamo i pochi scalini che portano al cassero di poppa; dietro al casseretto sotto al quale si trovano gli alloggi degli ufficiali, è collocata la ruota del timone riparata, per quanto possibile, da un telone steso sopra il boma dell’albero di mezzana, altrimenti completamente esposta alle intemperie. Due foto del cassero di poppa. Alle mie spalle la “Liverpool house” E’ curioso notare la disposizione della ruota a caviglie, a proravia della piccola struttura che ospita l’agghiaccio, cosicché il timoniere – o i timonieri qualora le condizioni meteo-marine avessero richiesto la presenza di due uomini – era costretto a manovrarla standole a lato. Sul cielo del casseretto, di fronte alla ruota a caviglie, è posta la chiesuola della bussola. Dal tambuccio che si apre alla destra della bussola sul casseretto, si scende nella “Liverpool house” (così era chiamato sulle navi a vela il casseretto che sporgeva di poco dalla coperta al di sotto del quale si trovavano la sala di carteggio, gli alloggi e la cambusa. Il nome derivava dal fatto che le prime navi che presentavano tale caratteristica erano state costruite nel cantieri navali di Liverpool), che prende luce da un sovrastante osteriggio e da alcuni oblò. Agghiaccio, ruota a caviglie, Liverpool house Sala ufficiali Scesi i pochi gradini del tambucio, ci troviamo nella sala ufficiali che fungeva da mensa, sala di carteggio, sala di ritrovo e nella quale, in porto, venivano ricevuti gli ospiti. E’ interessante notare, appese sopra il tavolo, due ruote di legno con dei fori: sono dei portabottiglie e bicchieri per la mensa; proprio il fatto di essere appese, le rendeva neutre ai movimenti di rollio e di beccheggio. Da una porta che si apre sulla paratia opposta all’ingresso, quindi verso poppa, si accede ad un corridoio: sulla sinistra si trova la dispensa, nella quale venivano portati i cibi destinati alla mensa ufficiali dalla cucina situata nella tuga di poppa per essere serviti dal cameriere. A seguire, due cabine: quella del cameriere e quella del 2°ed, eventualmente, 3° ufficiale. Dispensa – notare sulla destra il serbatoio verticale dell’acqua Cabina del cameriere Sul lato di dritta del corridoio c’è la cabina del comandante e, a seguire, quella del 1° ufficiale; infine un servizio igienico condiviso. Cabina del 2° (e 3°) ufficiale Cabina del comandante Cabina del 1° ufficiale Servizio igienico Terminata la visita alla Liverpool house lasciamo il cassero di poppa e scendiamo in coperta. A poppavia dell’albero di maestra, dopo il boccaporto che dà accesso alla stiva, si trova la tuga di poppa. La coperta vista da poppa verso prua. In primo piano la tuga di poppa Questa sovrastruttura è divisa in due ambienti: in quello di proravia alloggiavano i sottufficiali e precisamente il nostromo, il carpentiere, il mastro velaio ed il cuoco; in quello di poppavia gli apprendisti. Il nostromo era il capo dei marinai ed era responsabile, assieme al 3° ufficiale, del mantenimento in buona efficienza della nave e dell’organizzazione dell’equipaggio, con particolare riguardo alla manovra delle vele e dell’ancora, anche se non in tutti i viaggi venivano imbarcati il 3° ufficiale ed il nostromo. Il carpentiere era responsabile della manutenzione dello scafo, del timone, dell’alberatura e della tenuta stagna dei ponti. Aveva un piccolo laboratorio nella tuga di prua. Gli apprendisti erano ragazzi o giovanotti di età compresa tra i 14 e i 21 anni in addestramento per intraprendere la carriera nella Marina mercantile. Gli ufficiali insegnavano loro l’arte della navigazione, ma dovevano compiere tutti i lavori dei marinai, come stare al timone, manovrare le vele e rassettare la nave. L’alloggio dei sottufficiali Il laboratorio del carpentiere La cucina L’alloggio degli apprendisti A poppavia e a proravia dell’albero di maestra si trovano rispettivamente il verricello per cazzare le vele e bracciare i pennoni, e la pompa di sentina. Il primo era manovrato tramite due manovelle che si inserivano alle estremità dell’asse superiore (demoltiplicatore); la seconda agendo sulle due ruote a manovella poste alle estremità di un asse a collo d’oca che azionava gli stantuffi delle pompe. La pompa di sentina e il verricello vele e pennoni Nel 1869, quando il Cutty Sark fu costruito, gli alloggi della bassa forza erano ubicati nel castello di prua, dove si trovavano 10 amache nelle quali si alternavano i marinai per riposare. Dopo il secondo viaggio, però, questa soluzione fu abbandonata per due motivi: nel castello di prua il beccheggio era molto più sensibile e il frangersi delle onde sui masconi creava dei boati insopportabili; inoltre (e forse questo era il vero motivo del cambiamento) i marinai impiegavano troppo tempo a raggiungere, dall’estrema prua, i posti di manovra della velatura. Fu quindi costruita una nuova tuga, denominata tuga di prua, tra l’albero di trinchetto e quello di maestra nella quale furono ricavati il laboratorio del carpentiere, la cucina e l’alloggio dei marinai, con un tavolo centrale, due panche e 12 cuccette che però non consentivano ancora a tutti i marinai di disporre di un proprio giaciglio. Lo spazio lasciato libero nel castello di prua fu adibito a stalla per gli animali vivi: si imbarcavano infatti un maiale, una pecora e qualche pollo per avere carne fresca con la quale integrare la dieta usuale costituita da carne salata, gallette e fagioli; però le stie per i polli furono sistemate sul cielo della tuga di prua. L’alloggio marinai Il castello di prua Nella foto del castello di prua è interessante notare il tambucio che immette al primitivo alloggio dei marinai e, sul copertino, la campana sotto la quale sono disposte, incrociate, le aspe da inserire nel cabestano visibile a destra nella foto. A murata, a lato delle scalette dalle quali si sale sul copertino del castello di prua, ci sono, su ciascun lato, due piccolissime tughe all’interno delle quali si trovano le latrine dell’equipaggio; all’esterno di quella di sinistra c’è una pompa per aspirare l’acqua di mare: questi erano tutti i servizi igienici disponibili a bordo per una trentina di persone! All’estrema poppa del ponte di corridoio dove, purtroppo, è stato installato uno stand che vende cianfrusaglie varie e gadget connessi a questo glorioso veliero, un tabellone riepiloga le caratteristiche ed i maggiori eventi che hanno contrassegnato la vita del Cutty Sark, che proprio quest’anno compie 150 anni. Credo che possa essere interessante riportarli qui di seguito. CARATTERISTICHE GENERALI · Classe e tipo: Clipper · Stazza lorda: 963 tonnellate · Stazza netta: 921 tonnellate · Dislocamento: 2.137 tonn. a 6,10 m. di immersione · Lunghezza scafo: tra le perpendicolari 64,77 m. – fuori tutto 85,34 m. · Larghezza: 10,97 m. · Velatura: 2.973 mq · Armamento: 1870 Nave – 1917 Brigantino a palo · Velocità massima rilevata: 17,5 nodi · Equipaggio: da 28 a 35 uomini FATTI SALIENTI · Dal 1870 al 1877 naviga tra l’Inghilterra e la Cina per il commercio del tè. · La traversata più veloce tra la Cina e l’Inghilterra fu compiuta nel 1871 in 107 giorni. · Dal 1883 al 1895 naviga tra l’Inghilterra e l’Australia per il commercio della lana. · La traversata più veloce tra l’Australia e l’Inghilterra fu compiuta nel 1885 in 72 giorni, doppiando Capo Horn. · Nel 1895 fu venduto ad un armatore portoghese e ribattezzato Ferreira. · Nel 1917 fu disalberato da una tempesta e riarmato come brigantino a palo. · Nel 1920 fu venduto ad un altro armatore portoghese e ribattezzato Maria do Amparo. · Nel 1922 fu acquistato dal capitano Wilfred Dowman che lo aveva riconosciuto nel porto di Falmouth e lo riarmò come clipper. · Nel 1938 la vedova di Dowman lo donò al College di Istruzione Nautica di Greenhithe che lo adibì a nave scuola ribattezzandolo Worchester. · Nel 1953 fu donato alla Cutty Sark Society fondata dal Duca di Edimburgo. · Nel 1957 la Regina Elisabetta lo inaugurò come museo della marineria aprendolo al pubblico.
  20. max42

    la "maglietta" sul Cutty Sark

    Questa banderuola segnavento fu regalata al Cutty Sark nel 1886 dal suo armatore, John Willis per essere issata in testa all’albero di maestra (sulla formaggetta) quando la nave era in porto. John Willis era scozzese e, nell’antica lingua delle Lowlands scozzesi, “cutty sark” significava “maglietta”, ovvero la moderna T-shirt. Nella sua originalità, John Willis – che era soprannominato Jock “White Hat” Willis per la sua abitudine di indossare abitualmente un cappello a cilindro bianco, decise di battezzare la sua nuova nave col nome di “maglietta”, ovvero Cutty Sark. All’epoca il Cutty Sark era impiegato sulla rotta della lana dall’Australia all’Inghilterra e, al comando del capitano Richard Woodget – il più famoso tra i comandanti di questo clipper – che effettuava il suo primo viaggio sul Cutty Sark, compì una traversata da record impiegando solamente 73 giorni da Sydney a Londra. Jock “White Hat” Willis donò questo trofeo a forma di maglietta al Cutty Sark, non solo per aver battuto il record della traversata più veloce, ma anche per aver sconfitto il clipper suo principale rivale: il Thermopylae. Willis consegnò la banderuola all’apprendista anziano Robert Andrewes, che immediatamente balzò sulle sartie dell’albero di maestra arrampicandosi fino alla formaggetta, alla quale fissò il trofeo ricevuto. Nel 1916, una grave tempesta danneggiò gravemente il Cutty Sark, che nel frattempo era stato venduto ad un armatore portoghese e ribattezzato Ferreira, disalberandolo e la Pequena Camisola andò perduta. Con questo nome (riferito alla banderuola segnavento ancora esistente a bordo) i marinai portoghesi chiamavano affettuosamente il clipper che nei suoi anni migliori aveva battuto con successo la rotta del tè e quella della lana. Incredibilmente la banderuola riapparve nel 1960 in una sala d’aste di Londra, con una lettera di autenticazione del capitano portoghese del Ferreira. Oggi, una replica dorata della banderuola può essere osservata sulla formaggetta dell’albero di maestra della nave, mentre quella originale è esposta nel ponte di corridoio.
  21. max42

    buona Pasqua

    Buona Pasqua a tutta la grande famiglia di Betasom.
  22. Ciao Marcello, ho provato ad inserire il mio commento sul Libro dei Visitatori del tuo sito, ma forse era troppo lungo e ad un certo punto non sono più riuscito a proseguire per completarlo. Lo riporto qui di seguito, pregandoti, se ti è possibile, di cancellare il testo "mozzo" sul Libro dei Visitatori, perché decisamente antiestetico. Descrizione davvero interessante. Potrebbe costituire la traccia per un nuovo libro se e quando troverai il tempo di scriverlo visti i tuoi costanti impegni subacquei. Hai fatto molto bene a far precedere il racconto delle immersioni da un quadro storico-geografico perché credo che non siano in molti a conoscere il ruolo svolto dalla base giapponese di Truk nella 2^ Guerra mondiale, né tantomeno l'Operazione Hailstone. Gli schizzi delle navi affondate aiutano molto a capire lo svolgersi delle immersioni. Le foto sono bellissime, di una straordinaria nitidezza. Tuttavia per chi, come me, non ha l' "occhio da sub", non è sempre facile identificare gli oggetti inquadrati. Delle didascalie avrebbero potuto risolvere il problema, ma capisco che avrebbero richiesto un notevole dispendio di tempo. In ogni caso ciò non toglie nulla al valore del tuo lavoro. Complimenti davvero! Spero di poter riprendere questo discorso in occasione di un possibile raduno Betasom a Taranto nel mese di ottobre, al quale è PROIBITISSIMO mancare ... a buon intenditor ... Termino con l'augurio di Buona Pasqua a te, a Maria Angela e a tutti i tuoi compagni di avventura.
  23. max42

    Cover per smartphone

    Questa immagine della cover, specialmente nella versione nera, mi piace moltissimo e spero che possa rientrare nei gadget 2020. Sono d'accordo con Iscandar che l'ideale sarebbe personalizzarla ... ma forse è chiedere troppo. Una cosa da verificare prima dell'eventuale produzione in larga scala è che il colore dell'incisione sia indelebile, ovviamente per un normale utilizzo della cover. Io ho un Samsung S8+ e, se non si riuscirà ad inserirla nei gadget, ma verrà comunque messa in vendita, mi prenoto fin d'ora per averne una. Grazie e BUONA PASQUA A TUTTI !!!!"
  24. Il programma di massima è veramente ghiotto. Sarebbe bello che potesse concretizzarsi. Mancano ancora molti mesi ed è prematuro farsi delle illusioni ... non resta che sperare e augurare buon lavoro al nostro Dir.
  25. Complimenti per le belle foto che descrivono compiutamente tutta l'operazione.
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